ROME, ITALY - OCTOBER 10: Supporters of the 5 Star Movement protest before the Parliament with a large banner with No Rosatellum inscription against the electoral law, called Rosatellum Bis, under discussion in the Parliament for which the Government demands trust, on October 10, 2017 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images)
Facciamo un piccolo gioco di simulazione. Siamo nel 2018. È una domenica mattina ed è il giorno delle elezioni. Si vota per rinnovare il Parlamento della Repubblica con la nuova legge del Rosatellum bis, approvata in tutta fretta nei giorni scorsi. Pinco Pallino e Tal dei Tali, due cittadini coscienziosi, partecipi e ben informati, si recano di buon ora al solito seggio della loro città. Ricevono ciascuno due schede, una per la Camera e una per il Senato, ed entrano ciascuno in una cabina.
Pinco Pallino riconosce su una delle schede il nome della candidata Mevia, che si presenta con il numero 4 (dopo Tizio, Caio e Sempronia) nella lista per la quota proporzionale del partito delle “Chiome al Vento”. È una lista bloccata (così come vuole la legge) e abbinata, per la quota del maggioritario, al candidato Calpurnio, che si presenta col sostegno di una coalizione di partiti: la coalizione “Belli capelli”, cui si appunto è associata anche la lista “Chiome al Vento”. Il nostro buon Pinco Pallino, per vero dire, non ha particolare stima di Calpurnio e non apprezza gran che nemmeno la coalizione che lo sostiene (in particolare lo disturba molto la presenza, in quella aggregazione, del partito “No shampoo” e del suo arrogante capolista Filano). In realtà non gli vanno troppo a genio neppure i nomi di Tizio, Caio e Sempronia (gli altri 3 candidati della lista “Chiome al Vento”, il cui ordine è stato deciso dai vertici di quel partito). Siccome però conosce ed ammira Mevia, e ne stima la competenza e la serietà, decide comunque, sia pure con un po’ di disappunto, di mettere una croce sul simbolo di quel partito. Il buon Pinco Pallino non è un elettore ingenuo. E il suo disappunto nasce dal fatto che egli ha ben capito che in qualche modo lo stanno prendendo in giro, perché sa che è praticamente impossibile che la sua candidata, Mevia, che è la numero 4 della sua lista, possa mai essere eletta. La lista è bloccata, non ci sono le preferenze. La candidatura di Mevia è un puro specchietto per allodole. Pinco Pallino dunque vota per la lista “Belli Capelli” (e quindi anche per il candidato del maggioritario Calpurnio) per stima verso Mevia, ma sa che quel suo voto servirà in realtà a tutt’altro, e cioè a far presumibilmente eleggere Calpurnio (che lui però non apprezza) nel maggioritario e ad aiutare altri candidati della coalizione nella quota proporzionale. Quello che più lo disturba, in particolare, è però soprattutto il fatto che con quel suo voto egli darà quasi certamente un contributo a far diventare deputato o senatore, nella quota plurinominale (cioè nel proporzionale), anche l’odiato Filano del partito “No shampoo” (cioè la persona ed il partito che egli detesta di tutto cuore).
TO GO WITH A AFP STORY BY OLIVIER DEVOS -
Portuguese radical left-wing party Bloco de Esquerda's candidate for the general elections and member of the Portuguese parliament, Marina Mortagua (R) hands out leaflets during a campaign rally in the Bairro Alto neighborhood of Lisbon on September 18, 2015. Her gaze is frank, her tone direct, Mariana Mortagua, rising star of the Portuguese radical left struggling to take off in the polls, wants to embody in the parliamentary elections of October 4, "the voice of those who do not recognize themselves" in the traditional parties. AFP PHOTO / PATRICIA DE MELO MOREIRA (Photo credit should read PATRICIA DE MELO MOREIRA/AFP/Getty Images)
Del Portogallo non si è soliti parlare molto. Rimane là, affacciato sull’Atlantico, rivolto più alle Americhe o alle sue ex colonie africane che al cuore dell’Europa. Ci si dimentica quasi della sua esistenza, se non quando si sente la dolce tristezza del fado. O quando si rivedono i filmati della Rivoluzione dei Garofani. O magari quando si pensa ai dribbling di Ronaldo. Eppure del Portogallo varrebbe la pena parlare di più, capire quel che sta succedendo e magari imparare qualcosa. Soprattutto a sinistra.
No, nel Paese lusitano non c’è nessuna rivoluzione che scalda i cuori e gli animi. Non sono più i tempi del 25 aprile del 1974. Da nessuna parte. Non è nemmeno la Grecia del primo governo Tsipras seguito con tifo da stadio anche in Italia, prima che il leader di Syriza diventasse agli occhi di molti un traditore della causa rivoluzionaria. E quel che succede a Lisbona e dintorni non ha niente a che vedere con la Catalogna dove alcuni Lord Byron nostrani vorrebbero costruire barricate per difendere una novella Repubblica socialista, di cui non si vede nemmeno l’ombra. No, in Portogallo le masse non sono perennemente mobilitate, non si convocano referendum, non ci si appella al popolo. Si lavora silenziosamente, senza dare troppo nell’occhio e senza fare scalpore, per migliorare le condizioni di vita della popolazione. A qualcuno sembrerà poco probabilmente. Non è emozionante, è evidente. Ma i risultati parlano da soli.
II socialista António Costa sta per compiere due anni al governo del Paese, dopo una legislatura in cui il centro-destra di Pedro Passos-Coelho ha approfittato dell’intervento della Troika per smantellare il welfare state. Al palazzo di São Bento Costa ci è arrivato il 26 novembre del 2015, grazie ad un accordo con il Partido comunista português (Pcp), il Bloco de esquerda (Be) e i Verdi. Un governo di minoranza socialista appoggiato dalla sinistra che ha deciso di non entrare nell’esecutivo. Un’esperienza di geometria variabile che non vincola ogni partito a tutte le decisioni del governo e che permette a ciascuno di mantenere la propria identità e specificità programmatica. Un’esperienza nuova sulle rive del Tago: i comunisti erano usciti dall’area governativa dal tempo della Rivoluzione dei Garofani.
Qualche settimana fa è stata proposta la legge di bilancio per il 2018. È ormai la terza per l’esecutivo guidato dall’ex sindaco di Lisbona. E il Paese, contrariamente a quanto auguravano i falchi della destra, non è caduto nel baratro dell’instabilità politica ed economica…
Il candidato di "Cento passi per la Sicilia" Claudio Fava, durante la trasmissione Rai "In mezz'ora" condotta da Lucia Annunziata, Roma, 29 ottobre 2017. ANSA/ANGELO CARCONI
La Sicilia, ancora una volta, laboratorio politico con proiezione nazionale? L’accordo dei vari frammenti della sinistra, sebbene con qualche mal di pancia, sulla candidatura del vicepresidente della Commissione antimafia Claudio Fava, giornalista e scrittore, è un segnale che va in questa direzione. Così come, sulla sponda opposta, lo è l’intesa del centrodestra sul nome dell’ex missino Nello Musumeci, che cinque anni fa mancò l’elezione perché Forza Italia gli contrappose il plenipotenziario di Silvio Berlusconi nell’isola, l’ex viceministro all’Economia Gianfranco Micciché, spianando così la strada alla vittoria di Rosario Crocetta, che il Partito democratico non ha voluto ricandidare, preferendogli il rettore dell’università di Palermo, Fabrizio Micari.
Ma il test elettorale del 5 novembre è importante anche per M5S, che in caso di vittoria del proprio candidato, Giancarlo Cancelleri, capogruppo uscente, vedrebbe consolidarsi le proprie ambizioni di conquistare il parlamento nazionale e il governo del Paese. E non è un caso se i leader nazionali dei tre schieramenti, Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Beppe Grillo siano stati nelle principali città siciliane per sostenere in maniera fattiva i propri candidati. Solo Matteo Renzi, consapevole delle scarse possibilità di vittoria del centrosinistra, ha definito «una questione locale» le elezioni regionali siciliane e ha disertato la campagna elettorale, benché proprio su indicazione romana il Pd abbia sottoscritto il patto elettorale con Alternativa popolare di Angelino Alfano, anche in proiezione nazionale, rinunciando all’apertura a sinistra chiesta da Articolo 1-Mdp e Sinistra italiana, indisponibili ad allearsi col partito del ministro degli Esteri, inizialmente intenzionato a tornare nel centrodestra.La mancata alleanza tra Pd e partiti di sinistra ha squadernato partiti e coalizioni e le conseguenze non sono certo favorevoli al centrosinistra.
Basti pensare che, subito dopo l’accordo Renzi-Alfano, dieci consiglieri regionali centristi sono passati armi e bagagli al centrodestra, portando in dote a Musumeci un bottino di almeno settantamila voti. Ma non è finita qui, ché Mdp e Si hanno convinto Claudio Fava a candidarsi (dopo la disastrosa esperienza del 2012, naufragata contro lo scoglio della residenza fuori dall’isola), scompaginando il percorso che altri partiti, movimenti e associazioni della stessa area politica avevano fatto, individuando nell’editore ed ex deputato Pds Ottavio Navarra il candidato ideale per costruire un progetto che potesse riportare all’Ars una rappresentanza istituzionale della sinistra, che manca da dieci anni. L’incontro fra i due pezzi di sinistra ha portato, non senza malumori verso «il candidato imposto dall’alto», a un ticket Fava-Navarra che ha aumentato notevolmente la visibilità mediatica di questo quarto polo riunito nella lista Cento Passi per la Sicilia, che ha ottime possibilità di portare un drappello di eletti a Palazzo dei Normanni, da dove manca da quando una solitaria Rita Borsellino faceva opposizione alla giunta di Totò Cuffaro.
Ma la Sicilia potrebbe diventare laboratorio anche per altro, ché il leader M5S Luigi Di Maio, temendo che un ampio voto di scambio possa inquinare la consultazione elettorale, ha invocato l’intervento dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, affinché invii dei commissari a vigilare sulla regolarità del voto. Nemmeno il tempo che le polemiche si placassero e Rosario Crocetta, il presidente uscente, ha fatto proprio l’appello di Di Maio e ha scritto al ministro dell’Interno, Marco Minniti, il quale ha respinto la richiesta al mittente. L’allarme dei due esponenti politici è connesso all’elenco di candidati «impresentabili» (una ventina nel centrodestra, tre nel centrosinistra, secondo un’inchiesta di Repubblica) al vaglio dell’Antimafia nazionale.«Sospetto che per il 5 novembre riusciremo a fare un miracolo», ha scritto sulla propria pagina Facebook Alfio Foti, ex presidente di Arci Sicilia e fondatore dell’associazione Un’Altra Storia, presieduta da Rita Borsellino: «Eleggere un’assemblea regionale peggiore della precedente». E, dalle premesse, i “sospetti” di Foti sembrerebbero fondati. Anche questo è il laboratorio Sicilia.
WELLINGTON, CO - OCTOBER 11: Mexican migrant workers harvest organic spinach at Grant Family Farms on October 11, 2011 in Wellington, Colorado. Although demand for the farm's organic produce is high, Andy Grant said that his migrant labor force, mostly from Mexico, is sharply down this year and that he'll be unable to harvest up to a third of his fall crops, leaving vegetables in the fields to rot. He said that stricter U.S. immigration policies nationwide have created a "climate of fear" in the immigrant community and many workers have either gone back to Mexico or have been deported. Although Grant requires proof of legal immigration status from his employees, undocumented migrant workers frequently obtain falsified permits in order to work throughout the U.S. Many farmers nationwide say they have found it nearly impossible to hire American citizens for labor-intensive seasonal farm work. (Photo by John Moore/Getty Images)
Le lancette della storia sembrano tornate rapidamente indietro in Emilia Romagna. La diversità del modello emiliano appare un’immagine di un tempo lontano, collocato nella memoria di un secolo che fugge, come fuggono dal presente le conquiste operaie e le fondamenta di una civiltà che ruotava attorno al nesso tra sviluppo economico e coesione sociale. Dalla ricca provincia modenese, quella del miracolo della crescita diffusa, emergono nuove ferite che evocano il sangue versato dai braccianti nelle campagne della Romagna dell’800 o degli operai trucidati, proprio a Modena, nel 1950 da un commando di forze militari dopo uno sciopero. Ed è in questo drammatico risveglio, che emergono le storie dei lavoratori sfruttati, vittime di rappresaglie, di ritorsioni, costretti ad obbedire ad un’organizzazione del lavoro che fa a pugni con la legalità democratica. In questa lunga scia di normalizzazione dello sfruttamento si collocano i 75 licenziamenti che hanno coinvolto ormai da qualche settimana i soci-lavoratori di due cooperative che operano nel ciclo produttivo della Castelfrigo, una delle aziende più importanti nella macellazione delle carni del distretto modenese. Vignola, Castelvetro, Castelnuovo sono i luoghi in cui si consuma lo strappo violento con le conquiste del passato. Sono i territori in cui un sistema capillare, promosso da alcune imprese del settore della macellazione delle carni, opera in un regime di compressione dei diritti sindacali e delle libertà costituzionali dei lavoratori.
Una storia che va avanti da quasi un decennio e che negli ultimi cinque anni ha subito una brusca accelerazione. Nel 2016 la Flai Cgil pubblicava il suo terzo rapporto annuale, intitolato Agromafie e caporalato, in cui registrava le nuove forme di organizzazione del lavoro che da Nord a Sud coinvolgono il comparto agro-alimentare. Alcune pagine di questo importante lavoro di inchiesta sono dedicate proprio alla situazione del contesto modenese. La provincia di Modena è la seconda provincia italiana per fatturato nell’ambito della macellazione e della lavorazione delle carni. Dietro questa cifra statistica si nasconde un mondo sommerso, costituito da una rete di cooperative “spurie” nate per abbattere i costi di produzione e per disperdere le responsabilità d’impresa nella coda del processo di lavoro. Un “sistema”, in cui le aziende che operano nella macellazione appaltano intere fasi o linee produttive ad una filiera di società, prive dell’autonomia organizzativa prevista dal codice degli appalti, dilatando le responsabilità lungo il ciclo produttivo. Il sistema degli appalti diventa la leva strategica per comprimere il costo del lavoro, servendosi del regime agevolato delle cooperative in riferimento alla gestione delle ore lavorate, ai minimi salariali sino alle agevolazioni contributive. Da uno studio recente dell’Osservatorio sul caporalato si stima che il risparmio netto sul costo del lavoro delle aziende committenti si aggiri intorno al 40 per cento. A queste cifre si aggiunge il rapporto della Guardia di Finanza che stima, tra il 2012 e il 2014, in 20 milioni l’evasione Irap (la tassa sulle imprese) e in circa 10 milioni l’evasione dell’Iva. Ovvero tutte quelle risorse che le aziende committenti dovrebbero restituire all’erario e che vengono invece sottratte con il ricorso al sistema degli appalti e alla dispersione delle responsabilità tra le imprese che occupano il ciclo produttivo.
Un sistema collaudato, che consente di sfruttare migliaia di lavoratori, in larga parte stranieri, il cui status giuridico è legato a doppio filo all’inserimento nelle catene del sub-appalto e del lavoro informale. L’estrema ricattabilità dei lavoratori stranieri, costretti ad accettare basse condizioni normative e salariali per garantire la propria sopravvivenza e la permanenza in Italia, viene utilizzata dai nuovi caporali per garantire la performance economica delle imprese appaltanti. Sempre la Guardia di Finanza ha scoperto che dal 2012 al 2014 in Italia su 1000 lavoratori stranieri circa 900 non sono in regola, ovvero vivono in un regime contrattuale privo delle garanzie e delle tutele minime, dall’intensificazione degli orari di lavoro all’assenza dei contributivi previdenziali. Un contesto aggravato dalle ultime riforme del lavoro, che hanno allargato le maglie della flessibilità, dilatando notevolmente lo spazio per comportamenti lesivi dei diritti dei lavoratori. Tra questi un ruolo centrale assume la depenalizzazione del reato di somministrazione fraudolenta di manodopera, inserito nel decreto legislativo n. 81 del 2015, nell’ormai tristemente noto Jobs act. La norma sostituisce la sanzione penale per chi somministra illecitamente manodopera con una sanzione amministrativa. La legge agisce eliminando la deterrenza per i soggetti che somministrano illegalmente manodopera allo scopo di eludere le norme inderogabili di legge o di contratto collettivo. In questa fattispecie ricadono quell’insieme di soggetti come le cooperative “spurie” o le false agenzie interinali che “offrono” manodopera a basso costo alle grandi aziende appaltatrici o ad altre società satelliti che operano nella filiera produttiva. Si tratta di un dumping sociale legalizzato, in cui il legislatore alimenta e diffonde pratiche di elusione fiscale e di compressione dei diritti e delle libertà dei lavoratori. Un fenomeno che sta dispiegando tutti i suoi effetti negativi nell’intera organizzazione del lavoro, travalicando settori e comparti produttivi sino ad estendersi all’intera struttura produttiva dell’economia italiana.
Il gioco degli appalti e la frammentazione delle filiere produttive è divenuto nel tempo la forma prevalente del sistema produttivo italiano, favorendo nel mercato del lavoro la formazione di segmenti sempre più poveri di lavoratori. Dalla logistica, ai distretti del tessile, dalla grande industria metalmeccanica che appalta singole fasi di produzione, ai lavoratori delle pulizie o delle mense scolastiche che operano nella pubblica amministrazione. Il sistema delle sub-forniture è il punto più alto della mercificazione del lavoro, è la trasformazione del nesso tra lavoro e libertà iscritto nella nostra Costituzione, nel suo contrario, lavoro come oppressione, come sfruttamento senza fine.
Spesso qui a Left ci chiediamo come possiamo raccontare quello che vorremmo dire. È difficile. Non perché non siamo in grado di scrivere. Quello pensiamo di saperlo fare. Nemmeno perché non siamo in grado di approfondire i temi che vogliamo affrontare. No. Il problema il più delle volte dipende dal tempo e dallo spazio. Il tempo perché non ne abbiamo abbastanza per sviluppare come vorremmo i temi che ci interessano. E di conseguenza (ma è anche la causa) lo spazio che è sempre poco per quello che andrebbe detto e approfondito.
Tre settimane fa abbiamo fatto una copertina sull’ateismo. La verità è che abbiamo fatto un’affermazione in fondo errata. Ma l’abbiamo fatta lo stesso perché sarebbe stato complicato spiegare quello che intendevamo, se detta in altro modo.
In effetti, non si nasce atei. Ma non è nemmeno vero che lo si diventa da grandi, ragionando.
Quello che è vero è che si nasce con un’alienazione che non ha niente di patologico: è una realtà fisiologica del neonato.
Ciò dipende dalla dinamica della nascita, teorizzata da Massimo Fagioli in Istinto di morte e conoscenza.
Il neonato ha rapporto con l’altro essere umano e non ha rapporto con il mondo non umano perché lo ha annullato. L’annullamento del mondo, conseguenza e realtà della reazione allo stimolo luminoso che colpisce la retina, è simultaneamente fantasia di esistenza di un altro essere umano simile a se stessi con cui avere rapporto. Il primo pensiero dell’essere umano è la certezza di esistenza di un altro essere umano con cui avere rapporto.
La nascita umana quindi, intesa come comparsa del pensiero, comprende questi due aspetti tra di loro opposti ma non contraddittori: la non esistenza del mondo non umano e un pensiero di esistenza di un altro essere umano che va inteso come rapporto con esso.
L’annullamento è verso tutto ciò che non è umano perché il neonato reagisce a una realtà inanimata (la luce) con la pulsione di annullamento. La fantasia di esistenza di un altro essere umano è perché la vitalità, l’essere in vita del neonato, si oppone alla non esistenza e questo è ciò che “crea” una fantasia che è memoria della situazione precedente che era un rapporto fisico avuto (ma non vissuto perché non c’era pensiero) con il liquido amniotico.
Come avremmo potuto concentrare in un titolo un discorso così complesso?
Abbiamo voluto provocare per dire che l’essere umano che nasce e si sviluppa e ha la possibilità di realizzare se stesso, diventerà certamente ateo, intendendo con questo che egli svilupperà una realtà interna di volere il bene degli altri senza aver bisogno di alcun dio. È l’idea che la realtà umana ha la sua massima espressione nel volere la realizzazione dell’altro, nella capacità di amare gli altri che ha ogni essere umano. Questo essere atei non vuole dire quindi pensare l’essere umano solo come realtà materiale.
Massimo Fagioli ha dedicato moltissime pagine del suo lavoro teorico a questa precisazione fondamentale, in particolare in Teoria della nascita e castrazione umana. Il dio dei religiosi non è altro che la pulsione di annullamento creduta onnipotente e fantasticata come realtà esterna all’essere umano. Allora così come non si può dire che il bambino nasce ateo non si può dire che egli nasca credente.
Il bambino nasce con un’alienazione e con un Io. L’alienazione è un non rapporto con la realtà non umana che gli fa vivere un amore infinito per l’altro essere umano. Ogni volta che quell’amore trova la sua realizzazione nella soddisfazione del desiderio, l’essere umano ritrova quell’amore dentro di sé e realizza una realtà umana più completa, meno alienata, più adulta.
Ogni volta che quell’amore è deluso e offeso, l’essere umano pensa che la verità umana sia il buio e il vuoto determinato dalla pulsione di annullamento e che il proprio amore non esista perché fatto sparire dall’annullamento. È difficile ma è affascinante. Il pensiero dell’essere umano compare alla nascita, nel momento in cui la luce colpisce la retina e la biologia del feto reagisce, diventando umana. Compare il bambino.
Non è precedente a essa: sarebbe eredità filogenetica o idee innate. Non è dopo di essa: come se il bambino non avesse una propria identità e capacità di amare fin dall’inizio, come se fosse un animale, un essere non umano. Quello che noi speriamo sempre, ogni volta che esce un nuovo numero di Left, è che il lettore possa trovare in queste pagine una possibilità di pensiero che gli permetta di fare una realizzazione, anche se piccola e sfuggente.
Che si possa accendere una speranza e venga la curiosità di leggere e di sapere di più.
Che non ci si accontenti dei luoghi comuni e del sentito dire che non fanno pensare, per iniziare a guardare e a vedere di più. La sinistra, se vuole esistere, deve distinguersi dalle altre proposte politiche.
Deve essere differente dagli altri movimenti politici. La differenza sostanziale e fondamentale è che la sinistra deve avere come unico grande scopo quello di agevolare e favorire la realizzazione personale di tutti gli esseri umani, iniziando dalle donne e dai bambini. Nessuno deve essere escluso.
Se s’inizierà a pensare e a lavorare in questo modo, la politica che ne deriverà sarà dirompente e rivoluzionaria.
Perché andrà dritta al cuore di tutti e conseguentemente sarà una rivoluzione che sgorgherà dal cuore di tutti per tutti.
ROME, ITALY - OCTOBER, 26: Italian Senator Fabrizio Endizi (C), M5S movement, reacts during the final vote on the 'Rosatellum' election-law bill on October 26, 2017 in Rome, Italy. The 'Rosatellum' election-law bill was cleared today at the Senate with the final vote as 214 to 61, once it is published in the Official Gazette it will become law. The M5S says the controversial law, which encourages coalitions, was put in place to stop it winning next year's general election. (Photo by Antonio Masiello/Getty Images)
Tre leggi elettorali incostituzionali rappresentano un Guinness dei primati per l’Italia: bisogna pur eccellere in qualcosa, ma dovremmo essere più cauti nella scelta. Per Transparency international siamo già ai primi posti per la corruzione, dovrebbe bastare. Quando il detto popolare afferma che non c’è il due senza il tre, non va preso come una coazione a ripetere, ma semmai come un invito ad agire con maggiore ponderazione e sapienza. Le nuove norme sono incomprensibili anche per esperti, come ho potuto personalmente constatare in un seminario presso una Facoltà di Scienze politiche, ma non basta. Sono anche contraddittorie e contengono vere e proprie perle, confermando l’altro detto popolare, inglese, questa volta, che il diavolo si annida nei dettagli. Nel Molise si eleggono due deputati in collegi uninominali maggioritari e uno con metodo proporzionale!
Non si tratta di bagatelle, ma sono l’indizio della superficialità dettata dalla fretta di arrivare ad approvare la legge e di indire le elezioni prima che la Corte costituzionale possa esaminare la legge in anticipo sul voto. I nemici della libertà di voto e di scelta personale e diretta dei parlamentari da parte dei cittadini vogliono conseguire un risultato utile: essere eletti e rimanere in carica per 5 anni malgrado un’eventuale dichiarazione d’incostituzionalità: un film già visto con questa XVII legislatura per cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza e di fiducia, grazie ai “precedenti Boldrini” di interpretazione dell’articolo 116 del Regolamento Camera. La Presidente, per caso e fortuna sua, della Camera, che è la terza carica dello Stato, ha statuito che si può porre la fiducia su ogni legge o deliberazione che non sia vietata dal quarto comma dell’art.116 del Regolamento Camera.
Vista la delicatezza dell’argomento è bene trascriverlo: «Art.4. La questione di fiducia non può essere posta su proposte di inchieste parlamentari, modificazioni del Regolamento e relative interpretazioni o richiami, autorizzazioni a procedere e verifica delle elezioni, nomine, fatti personali, sanzioni disciplinari e in generale su quanto attenga alle condizioni di funzionamento interno della Camera e su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto». Ebbene, le modifiche costituzionali non sono nominate e per coerenza interpretativa la Boldrini o un suo successore, fondandosi sul “precedente Boldrini”, potrà ammettere un voto di fiducia su norme di un disegno di legge “in materia costituzionale”, benché l’art. 72 comma 4 della Costituzione reciti: «La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi»…
«People have the power» cantava Patty Smith nell’ormai lontano 1988, creando un inno imperituro contro la guerra. “La gente ha il potere”, espressione che oggi potrebbe suonare un po’ grillina, o comunque cupamente populista in una Italia come quella descritta da Leonardo Bianchi ne La gente (Minimum fax); ovvero un Paese governato da politici che impongono il razzismo di Stato (con la Bossi-Fini ma anche il decreto Minniti-Orlando), che inventano il Fertility day evocando i tempi bui in cui Mussolini imponeva alle donne di fare più figli per la patria, e al tempo stesso lasciano che la legge 194 sull’aborto resti disapplicata per l’altissimo numero di medici obiettori (di comodo). Intanto della rivolta del ‘68, di cui l’anno prossimo sarà celebrato il cinquantenario, restano solo le pulsioni anti identitarie e antiscientifiche espresse oggi dagli anti vaccinisti .
E c’è ancora chi, a destra, vuole marciare su Roma, avendo la strada spianata da amministratori locali come il sindaco Pd di Predappio Giorgio Frassineti che dissente dalla legge Fiano, asserendo che gli pare fatta apposta per chiudere i negozi fascisti del suo comune. Notizia che ha scatenato il giubilo dei siti di destra e pellegrinaggi alla casa del fascio di Predappio, dove lo storico Marcello Flores, presidente del comitato scientifico del progetto per l’ex-Casa del Fascio, intende costruire un museo. Non della Resistenza, – come ci si aspetterebbe – ma dedicato a Mussolini. «A me, ormai, il termine “antifascista”, considerando anche chi lo usa con più forza e frequenza, fa venire subito in mente la Ddr». Ipse dixit lo storico piddino. Fatto sta che nei giorni scorsi circa tremila fascisti, la maggior parte in camicia nera, hanno sfilato per le vie della cittadina romagnola come documenta il blog dei Wu Ming che sta facendo un puntuale monitoraggio.
“Indignatevi!” esortava un appassionato Stèphan Hassel, partigiano francese ultra ottantenne, in un piccolo, prezioso bestseller pubblicato da Add, che val la pena di rileggere. E di motivi per indignarsi, come vediamo, ce ne sono molti. Dalla xenofobia sdoganata per legge, ai diritti negati dei migranti e dei giovani italiani senza cittadinanza. E fa inorridire la violenza sulle donne, la negazione e l’annumento dell’identità femminile, sistematica in Italia nonostante i diritti conquistati, almeno sul piano formale. In Italia dove fino al 1996 lo stupro era ancora un delitto contro la morale, oggi ci ritroviamo con un governo di centrosinistra che depenalizza lo stalking al punto che i responsabili possono cavarsela con un “risarcimento” pecunario alla vittima. Un capolavoro fatto da questo Parlamento che ha prodotto anche una legge truffa sul reato di tortura, e che non riconosce lo ius soli e diritti civili affermati in tutte le altre democrazie come il biotestamento.
In una situazione di gravissima crisi della rappresentanza ci viene imposto di votare con il Rosatellum bis. Così avremo un altro Parlamento di nominati.
Ma tutto questo non configura un destino ineluttabile. Ognuno di noi può dare il proprio contributo per cercare di cambiare le cose, facendo politica nel proprio quotidiano, dal basso, ingaggiando azioni civili.
L’8 novembre Marco Cappato sarà processato per aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo. Si è auto denunciato per fare in modo che le 67mila firme raccolte a sostegno di una legge di iniziativa popolare per l’eutanasia legale abbiano una risposta. I giudici il mese scorso hanno reso noto a Mina Welby di aver concluso le indagini su di lei, per aver accompagnato in Svizzera Davide Trentini, malato di sclerosi multipla. Per veder riconosciuta la volontà espressa da sua figlia Eluana, prima del tragico incidente d’auto del 1992, senza cercare soluzioni nell’ombra, ma per vie legali, Beppino Englaro ha impiegato quasi venti anni. Mentre ce ne sono voluti più di dieci per smantellare pezzo dopo pezzo l’antiscientifica legge 40 sulla fecondazione assistita. È stato possibile grazie al coraggio e alla caparbietà delle coppie infertili o portatrici di malattie genetiche che sono ricorse a un giudice per vedere riconosciuti i propri diritti. Ci vuole capacità di reagire, ci vuole vitalità, ci vuole molta resistenza, ci vuole fantasia. Ma le loro e molte altre storie che raccontiamo in questo numero dimostrano che si può fare. Non solo per sé ma per affermare i diritti di tutti.
La cagnetta Laika prima della partenza sullo Sputnik 2 sovietico avvenuta il 3 novembre 1957. ANSA /ARCHIVIO /JI
L’aveva deciso il leader supremo dei Soviet, Nikita Krusciof. Dal vertice, l’ordine era passato di capo in vice, di vice in sottoposto, fino agli ultimi due ingegneri che l’avevano piazzata nella capsula dello Sputnik 2, il 3 novembre 1957. Gli scienziati sapevano che le stavano accarezzando la testa per l’ultima volta. Adilya Kotovskaya, la biologa russa che oggi la ricorda, quel giorno pianse per l’addio al cane e non per la vittoria sull’impero nemico a stelle e strisce a Washington. Laika era solo una randagia che vagava per le strade di Mosca. Sessant’anni fa, partiva per esplorare, prima terrestre al mondo, l’universo.
Dai cani di Putin usati per i calendari di propaganda e per agitare la Merkel ai summit internazionali, fino alle foto del Bo di Obama che lo hanno aiutato nella rielezione del secondo mandato, la pet politcs è stata usata, come tutto il resto, come un’arma fatta d’immagini dall’inizio della Guerra fredda.
Sessant’anni fa nel 1957, un razzo Semyorka sarebbe partito da Bainkonur alle 5:30 ora di Mosca, per spedire in orbita, in un viaggio di sola andata, un cane che doveva mostrare il primato della scienza sovietica al mondo. Tra Urss e Usa la corsa forsennata agli armamenti nucleari procedeva veloce solo come quella per la conquista dello spazio. Prima di Gagarin, prima ancora di Armstrong e della luna, c’è stata Laika: 3 anni, 6 kg, sesso femminile, fotogenica, come aveva richiesto il partito. Il suo vero nome, Kudrjavka, era troppo difficile da ricordare e troppo lungo per i francobolli ad honorem.
La radio sovietica dava aggiornamenti quotidiani sulla sua vita nello spazio e mentiva. Niente era andato come previsto, Laika finì per morire non con un’iniezione letale dopo otto giorni, ma per il surriscaldamento dello Sputnik. Nessuno sapeva come far tornare indietro l’icona sovietica che finì per avere statue per le stesse strade dove vagava senza cibo né padrone. È stato ammesso solo in seguito, dagli scienziati stessi, che quel lancio non fu né vantaggioso né necessario per la ricerca scientifica. Laika fu sacrificata per avere vantaggio psicologico sugli americani, ma ad altro, quell’esperimento, non fu utile. Molti altri cani sovietici furono spediti nello spazio. Gli americani preferivano fare esperimenti con scimmie e scimpanzé, invece i russi prediligevano i meticci per una ragione che superava tutte le altre: per le strade di Mosca ce n’erano troppi.
Tre anni dopo Laika, il 19 agosto 1960, altri due randagi fecero la storia. Si chiamavano Belka e Strelka. Anche loro finirono su manifesti di propaganda e cartoline. Nel marzo 1961 a fare la storia fu il primo uomo a viaggiare nello spazio, si chiamava Yuri Gagarin. A giugno dello stesso anno, due mesi dopo, per la prima volta John Kennedy e il premier sovietico Krusciov si incontrarono a Vienna. Parlarono del mondo lassù: dei cani che l’avevano visto, poi del mondo quaggiù e della crisi dei missili cubani. Il regalo presidenziale per i Kennedy quell’anno fu proprio un cane, di nome Pushinka. E fu l’inizio della distensione.
Secondo lo storico del Presidential Pet Museum della capitale americana, quel regalo fu l’inizio del cambiamento. «Mi piace pensare a Pushinka come parte del grande processo che affrontavamo per la crisi missilistica, una ragione per cui il presidente non ha ascoltato i falchi della Casa Bianca che volevano che bombardasse Mosca immediatamente».
Inaugura il 3 novembre all’Arteficio di via Bligny 18L a Torino, la mostra di Stefano Stranges “Le vittime delle nostra ricchezza”, incentrata sul ciclo della raccolta, produzione e smaltimento del coltan, minerale utilizzato per i cellulari e i computer, causa di guerre e distruzione dell’ambiente. Dalle miniere del Nord Kivu, in Congo, alle discariche di Accra, in Ghana, per la prima volta sono visibili al pubblico le tappe che il fotoreporter torinese ha documentato in due anni di lavoro. La prima parte del progetto, riguardante le miniere del Congo in cui migliaia di persone, spesso bambini, estraggono il coltan a mani nude per pochi dollari, è arrivato alle selezioni finali del Sifest Premio Pesaresi 2016, ha ottenuto la menzione d’onore all’Ipoty (International photographer of the year) e ha vinto il Festival Diritti Umani 2017. Il 14 novembre presenzierà alla mostra, aperta fino al 19, il dottor Denis Mukwege.
Pubblichiamo qui di seguito l’intervistaa Mukwege realizzata per Left da Federica Tourn.
Da bambino aveva deciso di diventare medico per guarire le persone che le preghiere di suo padre, pastore protestante, non riuscivano a salvare. È nata così la vocazione del “dottore che ripara le donne”, il congolese Denis Mukwege, che nel ’99 ha fondato il Panzi Hospital a Bukavu, Sud Kivu, dove ha già curato più di 50mila donne vittime di violenza sessuale. Oggi che il Congo soffre per l’ennesima crisi – con il conflitto che devasta la regione centrale del Kasai e gli scontri, mai del tutto sedati, in Nord e Sud Kivu – l’incertezza per la situazione politica è ancora più pesante e forse toccherà proprio a Mukwege l’ingrato compito di convincere il presidente ad andarsene. Joseph Kabila infatti si ostina a rimanere al potere nonostante il suo mandato sia scaduto nel dicembre 2016 e sono molti, in Congo, a chiedere che sia proprio il “medico delle donne” a gestire un governo di transizione che riporti la legalità nel Paese in attesa che si tengano le elezioni, in teoria previste per la fine dell’anno ma di fatto del tutto improbabili per i ritardi della Commissione elettorale, i disordini interni e per le manovre dello stesso Kabila che, al governo dal 2001, vorrebbe mettere mano alla Costituzione per potersi ricandidare. Mukwege non si sbilancia ma è possibile che presto debba mettersi al servizio del suo Paese, come ama ripetere, non soltanto come medico ma anche come politico.
Qual è la situazione in Congo?
In Congo assistiamo a uno stallo: non c’è stato il progresso che ci saremmo potuti aspettare con la fine della guerra e, nonostante l’accordo di pace sia stato firmato nel 2002, la gente continua a morire assassinata. Di fatto non è cambiato niente. In particolare quello che mi tormenta è che non siamo riusciti a mettere fine alle violenze sessuali: uno stupro devasta la vita di una donna. E chissà quante sono in questa condizione e non riescono a raccontarlo. Non c’è giustizia per le vittime: nel mio Paese regnano solo la menzogna e la negazione del dramma.
La chiamano “l’uomo che ripara le donne”: un riconoscimento e una responsabilità molto impegnativi.
È qualcosa che non ho cercato ma che mi si è imposto e a cui non ho potuto sottrarmi. Sono di formazione ginecologo e ostetrico e durante il mio lavoro ho potuto verificare che le mie pazienti avevano ferite estremamente gravi: all’inizio pensavo che si trattasse di una situazione passeggera, ma con il tempo ho dovuto rendermi conto che ero di fronte a un problema sistematico. Non ho potuto fare altro che prendere in carico le vittime delle violenze sessuali: le donne infatti non avevano solo ferite fisiche ma anche psicologiche, soffrivano di esclusione sociale e avevano bisogno di giustizia; per questo a Bukavu abbiamo concepito un modello per sostenere le donne da tutti i punti di vista, dalle cure mediche all’assistenza legale.
Lei ha ricevuto nel 2014 il Premio Sacharov per il suo impegno. È stato soltanto un gesto formale o l’Occidente supporta il suo lavoro?
Ho sempre detto che un riconoscimento ha senso soltanto se aiuta a eradicare la “malattia” che si combatte, altrimenti non ha valore. Il premio Sacharov ha dato visibilità al problema, oggi sappiamo che quando cerchiamo di dare voce a chi non ce l’ha almeno troviamo degli interlocutori.
Ora dobbiamo chiedere alla comunità internazionale che si muova con decisione, come ha fatto per le armi chimiche e le mine antiuomo, e che metta al bando una violenza che coinvolge milioni di donne in tutto il mondo e che viene usata come arma di guerra. Perché distrugge l’integrità fisica e psichica della donna ma anche i legami famigliari e sociali di intere comunità.
Si può fare un lavoro di prevenzione?
Si può intervenire molto presto per smontare gli stereotipi di genere. Per esempio, se dici a un ragazzino “non piangere come una bambina”, imponi ai maschi a non mostrare emozioni; stiamo continuando a perpetrare questa educazione patriarcale, non solo in Africa ma ovunque, anche in quei Paesi in cui l’eguaglianza fra i sessi sembra raggiunta. L’educazione sessuale è fondamentale: se rendiamo il sesso un tabù e non parliamo di sessualità, i nostri figli troveranno su internet quello che cercano. Il silenzio è alleato degli stupratori; da un lato chi violenta sfrutta a suo vantaggio il fatto che non se ne parli, mentre la vittima tace per vergogna e paura di essere discriminata. In Congo abbiamo un grave problema di impunità dello stupratore, perché la donna deve provare di aver subito violenza e molte vittime non osano farlo perché se denunciano vengono escluse dalla comunità.
Lei ha subito un attentato nel 2012 ed è tuttora sotto protezione dei caschi blu dell’Onu. Come vive questa condizione personale?
È molto dura, non lo nego, ma l’enorme capacità di reazione delle donne non mi permette di far altro che combattere al loro fianco. Soffrono di dolori inimmaginabili ma quando si risvegliano da un’operazione non mi chiedono mai “che cosa sarà di me?”, il loro primo pensiero va sempre ai bambini, o al marito. Le donne sono capaci di vivere per gli altri, mentre la stessa cosa non si può dire dei maschi. Hanno un coraggio eccezionale: me ne sono andato dal mio Paese quando mia figlia è stata rapita ma loro hanno venduto frutta e verdure per raccogliere i soldi del biglietto e farmi tornare. Che cosa potevo fare di fronte a questo?
Quante donne ha curato nella sua vita?
All’ospedale di Panzi abbiamo curato almeno 50mila donne ma questo non sembra scuotere per nulla l’opinione pubblica. In ogni caso non amo fare conti perché sui numeri si può fare speculazione e inoltre cambiano ogni giorno: non sono le cifre che devono spingerci a reagire ma la consapevolezza che dietro un numero c’è un essere umano. La cosa che mi fa più male è quando curo delle bambine poco più che neonate, quando devo intervenire sul perineo distrutto di bambine di dodici, diciotto mesi: la più piccola che ho operato ne aveva appena sei. Per me sono queste le situazioni più difficili da affrontare.
Ha un successore? Qualcuno che segue il suo esempio?
C’era un ginecologo, un medico che aveva la mia stessa formazione (Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, Sud Kivu, ndr); lo consideravo il mio “erede”. È stato assassinato a fine aprile.
Il candidato del Partito Democratico per il centrosinistra Fabrizio Micari (S) con il canditato di "Cento passi per la Sicilia" Claudio Fava, durante la trasmissione Rai "In mezz'ora" condotta da Lucia Annunziata, Roma, 29 ottobre 2017. ANSA/ANGELO CARCONI
Se andrà bene.
«La Sicilia da sempre è stato laboratorio politico dello scenario nazionale e per questo siamo molto soddisfatti della fiducia che i siciliani ci hanno accordato. Questa è anche la risposta a chi per troppi mesi ha continuato a sottovalutarci o a darci per “finiti”. Ripartiamo dall’isola per trovare lo slancio che ci porti alle prossime elezioni politiche: la gente ha dimostrato di desiderare un cambiamento che sia reale. C’è voglia di futuro e credo che noi abbiamo tutte le carte in regola per interpretarlo».
(Poche correzioni, nel caso. Per il centrodestra aggiungerci “i danni di questo governo alla fine sono arrivati al pettine” mentre per il centrocentrocentrocentrosinistra ci sta un “i siciliani hanno colto lo sforzo del governo e di questi ultimi anni, nonostante l’opera dei gufi”)
Se andrà male.
«Abbiamo detto fin da subito che il caso Sicilia è troppo particolare per essere considerato un test nazionale. Riflettiamo sul risultato, certo, ma proseguiamo spediti per la nostra missione che è quella di liberare l’Italia dai populismi e riportarla nel posto che le compete in Europa. Ci sono aspetti positivi assolutamente insperati, vedi il raddoppio dei voti a Lercara Friddi. Forse la Sicilia resta ancora una realtà troppo particolare per intercettare il cambiamento. Svolgeremo seriamente il nostro ruolo di opposizione e aiuteremo gli amici siciliani quando saremo alla guida del prossimo governo».
(Poche correzioni, nel caso. Per il centrodestra aggiungerci «poi, a differenza dei nostri avversari, preferiamo non fare allusioni ai potentati e agli interessi occulti che hanno portato i nostri avversari a questo risultato. Ma siamo garantisti”. Per il centrosinistra “sarebbe interessante analizzare i potentati e gli interessi occulti che hanno portato i nostri avversari a questo risultato. Ma siamo garantisti».