Home Blog Pagina 817

“Sara”, il docufilm contro la violenza disumana di chi annulla l’identità di una donna

Merita di essere visto non solo perché ricostruisce in maniera puntuale, lineare e compatta la storia dell’omicidio di Sara Di Pietrantonio, aprendo nuovi squarci di verità sul caso ma anche perché, a un occhio attento, svela le dinamiche che muovono i rapporti umani che finiscono con il tragico epilogo: la morte di Sara, strangolata e bruciata dall’ex fidanzato, Vincenzo Paduano.

Il docufilm Sara, scritto da Daniele Autieri, Stefano Pistolini e Giuseppe Scarpa e presentato al Festival del cinema di Roma, attraverso una serie di interviste inedite – oltre che alla mamma, Concetta Raccuia, e alle amiche intime di Sara, Martina e Chiara, anche ai poliziotti che hanno seguito il caso, all’avvocato di parte civile, Stefania Iasonna, e alla psichiatra, Barbara Pelletti – suggerisce una ricerca (della spiegazione) di quella disumanità che ha reso Paduano “un mostro”: così lui stesso si definisce durante un interrogatorio, senza, apparentemente, alcuna consapevolezza e, forse, a scopo manipolatorio. Ma la definizione calza a pieno: la visione del docufilm propone, nuda e cruda, la violenza della menzogna, della rappresentazione di sentimenti totalmente falsi e che vengono smascherati dalla rapidità con cui le indagini lo inchiodano alla verità, di fronte alla quale Paduano, semplicemente, tace.

E, sia pure tra le righe, il film apre uno spiraglio oltre quella spessa coltre di qualunquismo e negazione che annebbia e depista il pensiero comune verso l’inesistenza della malattia mentale, attribuendo l’esito del femminicidio a una questione meramente culturale. È un film che finisce per scuotere le coscienze, assopite e rassegnate a un’insita cattiveria dell’uomo, fornendo, attraverso le parole della psichiatra, alcune risposte forti e chiare che smentiscono l’inspiegabilità dell’efferato atto.

E il docufilm restituisce, anche attraverso il coraggio della mamma e l’autenticità delle amiche di Sissi, la sensazione che l’essenziale è invisibile agli occhi che vorrebbero, come ha confessato mamma Tina durante il dibattito seguito alla proiezione, aver potuto vedere più profondamente. Oltre l’apparenza. Certo, alla fine si rimane assetati di quella conoscenza che sola può far nascere la speranza di una possibilità di reale lotta per estirpare alla radice la violenza del femminicidio.

«Si rifiutava di riconoscere, in Vincenzo Paduano, il ruolo di padrone della sua vita», si chiude con le motivazioni della condanna all’ergastolo il docufilm, che viene proiettato il 3 novembre al Teatro di Tor Bella Monaca a Roma, alla Camera dei deputati e trasmesso in televisione (il 25 novembre, su Realtime) in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Per approfondire, leggi l’articolo della psichiatra e psicoterapeuta Barbara Pelletti su Left in edicola dal 4 novembre


SOMMARIO ACQUISTA

John De Leo, ovvero la voce che lancia suoni primordiali

John De Leo, in una foto distribuita dall'ufficio stampa il 7 ottobre 2014, in occasione dell'uscita del nuovo album di inediti 'Il grande abarasse'. ANSA / US PAROLE E DINTORNI ++NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

Non bastano gli aggettivi per definire la sua voce. Ascoltandola, si ha sempre la sensazione che possa andare oltre, piacevolmente sconfinare. Abbandonata la veste del cantautore tradizionale, affrancandosi, anni fa, dai Quintorigo, gruppo musicale con cui negli anni Novanta si è fatto conoscere, partecipando persino a Sanremo, John De Leo, si è reinventato solista, non restando mai da solo, tiene a precisare: «Da soli si combina poco o niente. Sempre più ho cercato di connettermi a musicisti con i quali era possibile trovarsi d’accordo anche da un punto di vista umano. Tengo anche molto alla musica, a quella che è l’opera oltre le persone».

Artista anticonformista, improvvisatore incallito, che usa la sua voce come gli pare, anche se lui ci tiene a paragonarla a un mero strumento. Schivo, ma coinvolgente, lontano da mode ed effimere tendenze, ma sempre affascinante, De Leo è una figura chiave della musica italiana contemporanea, votato a sperimentare le infinite possibilità di una voce che può assumere contorni e colori nuovi, a prescindere dai suoi intenti. Di collaborazioni e “connessioni” il cantautore ne vanta davvero molte, nel panorama musicale e jazzistico, ma anche letterario, italiano, per citarne alcune: Stefano Bollani, Paolo Fresu, Danilo Rea, Ivano Fossati, Franco Battiato, Alessandro Bergonzoni. Dopo Vago svagando e Il grande Abarasse, adesso un terzo album, ideato e progettato con Fabrizio Puglisi, Sento doppio uscito il 6 ottobre per Carosello Records.

Lo incontriamo in occasione dell’uscita di questo nuovo lavoro che, puntualizza di nuovo l’artista, senza questa stretta collaborazione con il pianista e compositore Puglisi, non sarebbe mai nato: «Va ribadito che è un nostro progetto, non sarebbe stato possibile il risultato finale, il parto della nostra combinazione, se non avessimo lavorato insieme». Venerdì 3 novembre De Leo è a Roma, alla Feltrinelli di via Appia, per esibirsi e dialogare con il suo pubblico. Poi, in giro per altre città d’Italia, come puntualmente comunicato sui social, anche se poi lui social non è tanto, confessa anche questo.

Di questo duo voce e pianoforte, di questo confronto/scontro tra due artisti oltre ogni regola, cosa vuole raccontarmi?
Ci siamo conosciuti qualche anno fa, a un vernissage, chiamati a musicare delle opere pittoriche in estemporanea. Abbiamo poi deciso di ripetere l’esperienza, di provare a fare qualcosa di nostro, di più strutturato, ma non ci siamo riusciti (dichiara con ironia ndr). Per un anno e mezzo abbiamo passato il nostro tempo a fare delle prove, senza nessuna meta, giusto per testarci e per testare la musica possibile. Ogni volta che costruivamo qualcosa avevamo una buona occasione per distruggerla e quindi questo disco, fondamentalmente, raccoglie queste improvvisazioni.

È un dialogo tra di voi, ma anche una sfida: la sua voce spesso sconfina, va oltre ogni registro. A proposito della sua voce, spesso paragonata ad altri (tra tutti torna sempre l’accostamento a Demetrio Stratos), lei tollera le definizioni che se ne danno oppure no?
In realtà spesso non mi piacciono le definizioni, ma mi disegnano, mi determinano, quindi sono legittime. Credo sia necessario essere riraccontati da altri, anche per vedersi davvero per quel che si appare. Questo discorso della voce mi è sembrato di minore importanza rispetto al mio fare musica. Diciamo che spesso, quando vengo ricordato, si soffermano sul particolare della voce, io ne prendo atto, ma non è la cosa più importante per me.

Quindi, il suo momento con la musica è di scoperta e ricerca continue o è consolidare quello che è già stato ottenuto?
Non lo so, però ogni volta che si finisce un progetto, si aprono altre porte, altre idee. Ho la necessità di fare il contrario di quello che è stato questo disco e quindi di dedicarmi alla composizione scritta nel dettaglio, anche se sicuramente farò tesoro di questa esperienza. Tenterò di miscelare l’improvvisazione radicale e le parti strutturate.

Pensando, mi si passi la provocazione, di fare anche cover?
Rifare cover in sé non lo credo un reato, sono reinterpretazioni di un brano; sono canzoni prese per essere reinterpretate e giocare sul tema. Non hanno senso se devono essere uguali al brano originale, ma quando chi le reinterpreta le fa proprie, ne dà un’altra natura, un’altra suggestione, allora va bene.

L’album offre otto brani intensi, che giungono all’ascoltatore spaesandolo a volte, ma che definiscono egregiamente un discorso musicale. Lei ha definito questo lavoro: «Musiche dell’errore e altri fonosimbolismi antiregime», ce lo spiega?
La speranza è che il disco, con tutto il significato che porta con sé, metta in moto interpretazioni proprie. In questo disco uso molto la voce ma non mi interessa solo lo strumento voce, ma il suo essere naturale, dove non c’è niente di pensato a priori; mi accorgo di non imitare solo degli strumenti, ma di lanciare suoni che possano avere un carico di significato, non particolarmente filosofico, anche primordiale.

Cosa le interessa, veramente, a proposito della voce?
Nei miei progetti, la voce è l’ultimo dei tasselli. Mi interessa, piuttosto, dove inscrivere questa voce, dove collocarla all’interno della composizione, dove collocare lo strumento voce tra gli altri strumenti.

Chi ha tradito Anna Frank? Un agente dell’Fbi in pensione riapre le indagini

Mandatory Credit: Photo by Universal History Archive/Universal Images Group/Rex/REX USA (1532967a) Anne Frank's (1929-1945) world famous diary charts two years of her life from 1942 to 1944, when her family were hiding in Amsterdam from German Nazis. The diary begins just before the family retreated into their 'Secret Annexe'. History

Chi sono i colpevoli per la morte di Anna Frank? Oggi, 75 anni dopo quel tragico 4 agosto 1944, quando la Gestapo bussò alla sua porta per portarla via, un agente in pensione dell’Fbi ha deciso di scoprirlo.

Quel giorno d’agosto tutti furono arrestati, tranne Otto, il padre di Anna, poi editore del diario della giovane ragazza, morta nel campo di concentramento. Morta in mezzo ai morti, centinaia di migliaia, perché qualcuno aveva svelato il segreto celato dietro quella libreria, il segreto della ragazza che scriveva il suo libro protetta da una barriera di libri. Ma chi lo ha fatto, chi ha parlato e ha ucciso Anna?

L’agente dell’Fbi in pensione a capo delle indagini si chiama Vince Pankoke, ha 59 anni e ha deciso di usare mezzi forensi moderni per investigare un crimine commesso quasi un secolo fa. Prima ha trascorso la sua vita come agente sotto copertura tra gli agenti di Wall Street contro i crimini finanziari, prima ancora tentava di arrestare le bande colombiane coinvolte nel traffico di droga, poi in seguito, si è occupato delle comunicazioni telefoniche avute tra i dirottatori dell’undici settembre a New York. «Seguiremo nuove tracce, analizzeremo le prove appena ci metteremo su le mani, sappiamo che questo ci condurrà ad altre investigazioni», ha detto spiegando il metodo di ricerca digitale applicato al diario stesso. Con la sua squadra, sta procedendo ad analizzare, via computer data, anche milioni di pagine degli archivi nazionali di Paesi Bassi, Germania ed Israele. È una ricostruzione che verrà avviata anche con il crowdsourcing.

Quanto viaggiava il suono delle voci in casa di Anna? Da quanti metri era udibile fuori? Dopo la ricostruzione in 3d del team americano, potremo saperlo grazie al modello digitale del nascondiglio. Tutte le vecchie prove, dovranno di nuovo essere riesaminate. Quel bussare sul muro di cui parla Anna nel diario, è un segnale per fare silenzio o una trappola in cui cadere per essere arrestati? È ancora «un open end», spiega Ronald Leopold, direttore della House foundation Anna Frank, che un milione e trecentomila turisti visitano ogni anno. Oggi verranno usati metodi che non esistevano nel 1948, né nel 1963, anni in cui la polizia nazionale olandese ha provato ad indagare su quell’ultimo giorno. La novità della nuova ricerca è nel metodo, l’esame forense, e il risultato da raggiungere è una verità che l’agente americano ha promesso di ritrovare e rivelare proprio il 4 agosto 2019.

Due anni: per due anni Anna rimase in quella casa, di quei due anni sappiamo tutto, tranne come andò davvero il 4 agosto 1944, quando fu spedita a Bergen Belsen, nel campo di concentramento dove si crede sia morta nel febbraio del 1945, insieme ad alcuni dei 108mila ebrei deportati dal paese. Di loro 5500 circa, tornarono indietro.

Anna in Olanda è una questione nazionale oggi, proprio come lo fu dopo la liberazione. «Prima era la ragazza che proteggevamo, ora è la ragazza che abbiamo tradito, Anna è una percezione di come gli olandesi percepiscono se stessi durante l’occupazione» spiega il professore Bart Van Der Boom, Università di Leiden. Una percezione cambiata negli anni 60, quando gli olandesi sfidarono la narrativa dell’occupazione nazista, capendo che non erano stati solo “vittime” dei tedeschi, ma anche compartecipi, collaboratori dei nazisti.

Come Anna, nelle soffitte, nelle cantine, dentro qualsiasi cosa potesse contenerli, si sono nascosti 28mila ebrei per quattro lunghi anni e di loro un terzo fu arrestato, per colpa dei Jodenjagers, i cacciatori di ebrei. Chi ricorda tutto quello che è successo adesso? «Parte della storia è andata perduta con la sabbia del tempo» ha detto l’ex infiltrato americano dai capelli bianchi. Di crimini se ne commettono tanti ogni giorno, ma Vince, che è già in pensione, ha detto che «riaprire il caso, servirà a risvegliare la coscienza della gente, a far tornare le memorie dell’Olocausto che ho paura stiano scomparendo, in un’era di genocidi e atrocità».

Amnesty: «Non sottovalutate gli atti di bullismo, è una violazione dei diritti umani»

Flash mob dei ragazzi delle scuole piemontesi in piazza San Carlo per dire ''no'' al bullismo in occasione della prima giornata nazionale contro questo fenomeno, Torino, 7 febbraio 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Costretto a mangiare una schiacciatina che prima avevano buttato sotto la doccia. Non è uno scherzo da spogliatoio. Quello subìto, dopo l’allenamento di calcio a Bagno a Ripoli (Firenze), da Olmo, tredicenne e affetto da sindrome di Down, è un vero e proprio atto di bullismo. Di cui, secondo la definizione del primo studioso che teorizzò sull’argomento nel 1996, Dan Olweus, «ogni studente ne è vittima, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da uno o più compagni». Che nulla ha a che vedere con le canzonature o i diverbi: non è uno scherzo, è, piuttosto, una violazione dei diritti umani fondamentali, in primis quello della non discriminazione.
«Quest’ultimo caso di bullismo è la conferma che il fenomeno prende di mira la diversità e le debolezze», spiega a Left, il portavoce di Amnesty International, Riccardo Noury. Che continua: «Ritroviamo, nel bullismo, quelle modalità di esclusione, di discriminazione e di accanimento nei confronti della diversità che sono all’origine di questo fatto gravissimo».
Dall’ambiente scolastico al mondo dello sport dilettantistico e giovanile è emergenza nazionale. «I più recenti dati Istat disponibili – aggiunge Noury – dicono che almeno il 50 per cento dei ragazzi e delle ragazze, tra gli undici e i diciassette anni, ha subìto una qualche forma di bullismo e che un ragazzo su cinque sia vittima di atti di bullismo ripetuti e frequenti; e, nella nostra esperienza, abbiamo riscontrato, purtroppo, che l’età in cui si inizia a subirli si sta abbassando per un fenomeno imitativo deteriore».
E diventa ancora più preoccupante di fronte a un generale atteggiamento di sottovalutazione degli effetti che sortiscono i comportamenti di bullismo: «C’è la tendenza a minimizzare da parte delle famiglie e del sistema scuola come fosse una fase ‘normale’, di passaggio in un’età critica come l’adolescenza», denuncia Noury. Niente di più sbagliato: «Così si rischia di sostenere una crescita basata sull’accettazione della violenza». E i risultati dell’indagine Istat, contenuti nel report Il bullismo in Italia: comportamenti offensivi e violenti tra i giovanissimi, ne sono la conferma: un numero relativamente alto di ragazzi, infatti, suggerisce il ricorso all’indifferenza come strumento di difesa, facendo finta di nulla o provando a riderci sopra, e, sebbene, fortunatamente, in maniera più contenuta, non mancano quanti pensano che sarebbe opportuno reagire con una qualche forma di ritorsione o infliggendo una sonora lezione per difendere la vittima. La quale, di solito, a meno che non venga sostenuta dall’eroico compagno di squadra di Olmo che ha reagito a quel sopruso, «tende a nascondere, per cause anche comprensibili, quali paura o vergogna, la violenza a cui è stata sottoposta», precisa Noury.
«Per salvaguardare l’incolumità dei più piccoli è necessaria una condivisione di obiettivi e principi di azione, si tratta di un atto di responsabilità della società civile e delle istituzioni», dichiara il fondatore e presidente di Telefono Azzurro, Ernesto Caffo. Che prosegue: «Telefono Azzurro, grazie all’attività di sensibilizzazione nelle scuole, di ascolto alle linee dell’Associazione e di tutela nelle azioni congiunte con le istituzioni c’è, proseguendo la sua azione in maniera sempre più strutturata e decisa», avendo rinnovato, per i prossimi tre anni, il Protocollo d’intesa con il Miur, allo scopo di effettuare interventi di sensibilizzazione rivolti agli alunni e destinati a far acquisire loro la consapevolezza delle problematiche connesse al disagio. Per prevenire il quale, Amnesty International, dal 2014, porta avanti un progetto di sensibilizzazione per le “scuole amiche dei diritti umani”.

Cartolina dalla Sicilia: il candidato in lista con Micari che voterà Musumeci

Seguitela bene questa storia perché è, in piccolo, un manifesto nazionale: lui si chiama Antonello Firullo, è un imprenditore di Agrigento e risulta essere candidato in lista con la lista Sicilia Futura, in appoggio al Fabrizio Micari candidato del Partito Democratico (seppur blandamente sostenuto in previsione del possibile sfacelo elettorale).

Bene: Firullo ha dichiarato pubblicamente che voterà Giorgio Assenza, deputato uscente di Forza Italia e candidato nella lista Diventerà Bellissima a sostegno di Musumeci. Avete letto bene: il candidato del PD non solo non si voterà (adorabili i candidati che non “meritano” nemmeno il proprio voto) ma addirittura voterà il proprio avversario. O forse no, l’avversario.

La scelta di Firullo risale al 25 ottobre scorso, quando con un post su Facebook ha annunciato: «Formalmente il ritiro della mia candidatura per le prossime elezioni regionali all’interno della lista Sicilia Futura, a sostegno di Fabrizio Micari». Il candidato “scandidato e convertito” ha precisato che «sul piano formale non ci sono i tempi tecnici per eliminare il mio nome dall’elenco dei candidati. Ma, dal punto di vista sostanziale, mi considero disimpegnato».

Va detto che Firullo ha interpretato bene la parte fino a poco tempo fa: «Il mio impegno – scriveva – la mia passione, le mie lotte per la legalità a sostegno di una sfida gentile necessaria per la Sicilia. Con Fabrizio Micari presidente».

E invece niente.

Buon giovedì.

Kurdistan iracheno, nel caos post-referendum i giornalisti sono sotto attacco

epa06272606 A member of Iraqi Shiite group known as Hashd al-Shaabi (The Popular Crowd) stands next to a crossed out flag of the Kurdistan region in Tuz, southern Kirkuk city, Iraq, 17 October 2017 (issued 18 October 2017). Iraqi military forces launched operations against Kurdish forces around Kirkuk early on 16 October 2017, and took control of the largests oil fields in the disputed city after Kurdish forces withdrew. EPA/BAREQ AL-SAMARRAI

Arkan Sharifi era un giornalista, un cameraman della Kurdistan tv, prima che otto uomini a volto coperto facessero irruzione a casa sua, per ucciderlo davanti a tutta la sua famiglia. Aveva 50 anni. Il suo corpo è stato mutilato e un coltello è stato ficcato nella sua bocca, una morte simbolica e crudele, per chi ha riportato ciò che non doveva, visto ciò che non volevano vedesse.

Era appena tornato nel suo paesino vicino Kirkuk, città del nord dell’Iraq ora sotto il controllo delle forze governative, dopo la disfatta curda. Lì era anche il capo degli insegnanti per i bambini del villaggio. Aveva appena finito una serie di reportage a Daquq. Arkan parlava e lavorava in turkmeno, lingua di suo padre e suo figlio, ma anche lingua dei suoi assalitori. L’ipotesi è quasi certezza. La faida tra curdi e turkmeni sciiti è cominciata ed è feroce a sud della città perduta. L’ombra del conflitto settario ed etnico si allunga, sempre più visibile, dopo la fine della guerra.

In Iraq sono stati uccisi 465 giornalisti negli ultimi 14 anni, ma questa è la storia di un cameraman morto per riportare gli eventi, in arrivo da un Iraq perduto. Da indagare, una morte in attesa di giustizia, mentre la falce della violenza si sta abbattendo sul Kurdistan iracheno e il focolaio nel cuore del Medio Oriente divampa in silenzio. Dopo il referendum per l’indipendenza, l’escalation di tensione ha reso giornalisti, politici attivisti curdi un bersaglio mobile. Dopo Arkan, altri due team di operatori televisivi sono stati attaccati ad Erbil.

I giornalisti stavano seguendo in diretta le dimissioni del presidente Masoud Barzani, lavoravano per due emittenti indipendenti, la Nrt, Nalia radio tv, e la Knn, Kurdish news network, legate al partito Gorran che si oppone al sistema bipartitico del Kurdistan. Gli uffici della Nrt, a 155 km da Erbil, a Duhok, stavano per essere bruciati dagli assalitori prima dell’intervento della polizia.

La Kurdistan tv invece è legata al Kdp, il partito curdo democratico, e aveva trasmesso, un giorno dopo l’altro, gli scontri in corso tra le forze curde dei Peshmerga e il Fronte di mobilitazione popolare nel nord dell’Iraq, accusato di uccisioni e rapimenti sommari. Un altro giornalista, della tv Pdk, legata sempre al Kdp, ha ripreso il suo attacco: «lavora per Rudaw, attaccalo, è affiliato a Barzani» dice l’uomo che urla contro il reporter in video.

E poi contro i curdi d’Iraq c’è Baghdad. Il governo centrale iracheno ha vietato di trasmettere alle due stazioni Rudaw Tv e Kurdistan 24, due canali satellite delle regioni che ora si trovano sotto il controllo del governo regionale. Le forze anti curde stanno tentando di drenare la perseveranza dei cittadini di Barzani, prosciugare le loro speranze e si spingono sempre più oltre, solo un mese dopo il referendum per l’indipendenza. Il responsabile del Comitato per la protezione dei giornalisti, Sherif Mansour, ha detto che «iracheni e curdi devono smetterla di usare i giornalisti come pedine per segnare i loro punti, la Commissione irachena per i media e le comunicazioni deve permettere di nuovo, in maniera immediata, alla Rudaw Tv e alla Kurdistan 24 di trasmettere». Invece l’ordine della Commissione per fermare le loro trasmissioni è stato dato il 28 ottobre senza essere revocato, emesso perché le tv «difettano di registrazione ufficiale, perché incitano alla violenza e all’odio, perché minano la pace e la sicurezza». Perduti i territori, sono andate perdute anche le voci che li raccontavano. Chi le ascoltava, non potrà più farlo.

«Perché loro avevano carri armati ed aeroplani e noi non avevamo nessuna possibilità», ha detto Aso Mamand, il leader di Kirkuk, descrivendo la caduta della città, che i curdi non sono riusciti a difendere semplicemente perché non avevano neppure le armi necessarie per farlo. Ora che sono fuori dal loro controllo le città conquistate dall’invasione americana del 2003, il sogno curdo si dissolve di nuovo, insieme a quello dei giornalisti che erano rimasti lì per raccontarlo.

La dignità delle persone e del lavoro, valori non negoziabili

Guardiamoci intorno. La nostra società ci ha cullato nell’illusione che la felicità passi dall’acquisto di beni materiali innovativi e mutevoli. Siamo stati spinti a una continua rincorsa, ad essere sempre al passo con i tempi, le mode e alla esposizione social-mediatica dei nostri beni, finendo peraltro per alimentare un pericoloso meccanismo di solitudine sia in chi legge sia in chi posta, allontanando la comunicazione del sé reale. Sei quello che compri e mostri, non quello che sei, insomma. Da qui lo shopping compulsivo che finisce su prodotti di sempre minor qualità indossabili una sola volta, o su rate per il nuovo modello di smartphone o altro.
La tranquillità economica, relazioni personali e sociali soddisfacenti, una salute sicura, l’accesso a spazi di cultura, svago, viaggi sono ormai privilegi per pochi. L’equilibrio tra tempi di vita e di lavoro su cui il femminismo degli anni Settanta e Ottanta aveva molto lavorato non è più un tema di cui discute la politica.
È su questo mix che si è fondata la ricerca del benessere della classe media, in Italia come nel mondo occidentale. Ma oggi è in crisi. È qui che si misura la capacità della sinistra di interpretare il profondo disagio di tutto il 90 per cento meno ricco.

Le retribuzioni nette sono in discesa, le condizioni di lavoro sempre più precarie, la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di svago sempre più grigia. I salari bassi costringono a cumulare lavoro dipendente, autonomo, consulenze. Il lavoro domenicale, festivo, serale e anche notturno sono divenuti la norma, ed appare naturale impiegare eventuali festività libere nello shopping. Gli stessi turni di lavoro vengono definiti, per l’esigenza del lavoro “on-demand”, senza programmazione, rendendo quasi impossibile pianificare per una coppia o una famiglia un’uscita culturale così come una vacanza. I nuovi servizi di platform economy di consegne a domicilio arrivano perfino a premiare i lavoratori con migliori recensioni con la possibilità di scegliere i turni per primi…
Siamo dinanzi alla cancellazione dei tempi certi di lavoro e del tempo liberato.

Oggi è urgente garantire il lavoro, Come? Abolendo il Jobs act, semplificando le modalità di assunzione e introducendo un salario minimo garantito. Ottenere migliori condizioni di lavoro in termini di scelta dei turni che non scarichino sui lavoratori i costi sociali delle flessibilità. Occorre creare il diritto ad “essere offline” senza l’obbligo di rispondere a messaggi o mail di lavoro, come hanno timidamente cercato di fare in Francia, prevedendo però sanzioni per le imprese che non rispettano queste pause. Limitare le aperture domenicali e festive garantendo almeno un giorno libero a settimana, mettere fuori legge il lavoro gratuito e non retribuito, da quello dell’alternanza scuola lavoro, a tirocini e stage gratuiti. Garantire un accesso reale alla sanità (a partire dalle liste di attesa per gli esami specialistici), ai trasporti, alla cultura, all’istruzione, con le risorse per il diritto allo studio. Per fare questo bisogna avere coraggio e tassare i grandi patrimoni.

Si tratta di redistribuire a chi lavora una parte più consistente dei profitti che le aziende fanno, per restituire dignità al lavoro che le politiche neoliberiste hanno cancellato. Per garantire maggiore benessere integrale a tutti noi. È questo per cui la sinistra è nata ed è questo che deve tornare a fare.

Alessia Petraglia è senatrice di Sinistra italiana

L’articolo della senatrice Petraglia è tratto da Left in edicola fino a venerdì 3 novembre


SOMMARIO ACQUISTA

Weinstein italiani, si muove anche la politica

Una mozione per impegnare il governo ad affrontare la questione delle abusi sulle donne nel mondo dello spettacolo. L’annuncio è arrivato ieri nel corso di una conferenza stampa alla Camera sul caso dei ‘Weinstein italiani’, dopo lo scandalo che ha travolto il produttore statunitense. L’obiettivo? Prima di tutto rendere perseguibile il reato senza una querela di parte, dando quindi la possibilità ai pm di procedere d’ufficio. Insomma, un intervento normativo per regolare la questione e favorire le denunce di abusi avvenuti negli anni.

“Chiediamo un intervento specifico sul tema”, ha affermato la deputata di Possibile, Beatrice Brignone, promotrice della conferenza stampa a cui hanno partecipato anche Giulia Blasi, ideatrice dell’hashtag di successo #quellavoltache, e il giornalista e scrittore Giulio Cavalli. “Il mondo dello spettacolo – ha aggiunto Brignone – è in buona parte in mano al finanziamento pubblico. Quindi le istituzioni possono fare qualcosa. Noi ci siamo per aiutare chi porta a galla queste situazioni”. Blasi ha sottolineato un altro aspetto: “Non bisogna ridimensionare le molestie nel mondo dello spettacolo”.

L’inviato de Le Iene, Dino Giarrusso, ha raccontato il lavoro svolto in queste settimane di inchiesta sul caso: “Ho documentato varie violenze sulle ragazze, tra cui registi che si masturbano davanti alle aspiranti attrici. I punti sono due: le ragazze vanno difese e chi denuncia va premiato. Bisogna prendere posizione in maniera netta”. Infine, Miriana Trevisan, volto televisivo che ha parlato di casi del genere, è tornata a chiedere un sostegno a chi vuole denunciare le violenze: “C’è un abuso di potere. Ma vedo un fuggi fuggi generale da questo argomento. Voglio dare questa speranza a tutte: per farlo serve l’impegno dei media e della politica”.

La Meloni voleva salvare Roma ma non le pagava l’affitto

Giorgia Meloni e Matteo Salvini durante 'Atreju 2017', Roma, 22 settembre 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

È stata brava, bravissima Virginia Raggi a sgomberare i paladini della legalità di Fratelli d’Italia che, al grido anche loro di “prima gli italiani” intanto se ne stavano comodi in una sede di proprietà del comune capitolino a Traiano Terme con un contratto scaduto nel 1972. Essere morosi dal 1972 significa qualcosa di più di una semplice dimenticanza sia chiaro: significa avere istituzionalizzato un privilegio illegale nel corso di decenni come se fosse dovuto. Potremmo chiamarlo un “occhio chiuso” 45 anni di seguito per intenderci.

E, attenzione, non stiamo parlando di un sottoscala di quelli di cui le amministrazioni pubbliche si dimenticano di essere proprietarie: l’immobile presenta al suo interno ambienti di età romana pertinenti al complesso delle Terme di Traiano, così come già aveva segnalato la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali che aveva già rappresentato più volte, da ultimo nel 2015, la necessità di riacquisire il bene per sottoporlo alla sorveglianza degli organi di tutela.

Lo scempio nella gestione del patrimonio immobiliare pubblico nella capitale è qualcosa che affonda le radici nella notte dei tempi e su cui si potrebbero scrivere intere enciclopedie ma il gesto di ieri (seppur piccolo e insignificante nel quadro complessivo) simbolicamente sta lì a ricordarci, una volta ancora, che prima di riempirsi la bocca di legalità forse sarebbe il caso di praticarla. E forse farebbe una bella figura la Meloni, sempre attenta alle piccole illegalità delle diverse etnie, se si inferocisse come lei sa fare anche con il suo stesso partito.

Ma non accadrà, no: per essere destrorsi, oggi, bisogna avere imparato a nascondere le travi nel proprio occhio oltre che essere abili cercatori di pagliuzze. E quindi farà finte di niente. Ancora. E noi glielo ricorderemo gentilmente ogni volta che volerà come un avvoltoio nel cortile di qualche casa popolare. Ogni volta. Tutte le volte.

Buon mercoledì.

Il No di un anno fa è ancora più forte

Dare una prospettiva ai giovani, combattere l’ingiustizia sociale, sostenere sviluppo e occupazione, investire in ricerca, in conoscenza, per studiare vie di uscita dalla crisi, non solo economica, in cui versa il Paese. Sono alcune delle molte questioni dirimenti che vorremmo fossero affrontate in questa campagna elettorale già cominciata. Malissimo. Forse siamo ingenui, ma non ci saremmo aspettati l’oltraggio dell’elemosina di 80 euro proposti dal segretario del Pd, Matteo Renzi, alla Leopolda8. Un brivido è corso per la schiena alle sue parole: «Un Paese in cui non si fanno figli è un Paese senza futuro». Dare figli a dio e alla patria è il giogo a cui le donne sono state sottoposte in tutte le dittature. Il pensiero corre al clerico-fascismo con cui l’Italia non ha mai fatto davvero i conti.

Ma tornano alla mente anche tristi episodi del passato recente, come gli inaccettabili manifesti che il ministro della Salute Lorenzin fece realizzare a spese del contribuente per pubblicizzare il Fertility Day. L’ex premier Renzi che paternalisticamente incoraggia i Millennials a provarci rischiando di «battere boccate» fa da pendant a Berlusconi che propina narrazioni tossiche in prima serata nel salotto tv di Fazio: «Dell’Utri? Un padre della patria, un grande bibliofilo». Come se non fosse stato condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto garante dell’accordo fra il Cavaliere e Cosa Nostra tra il 1974-92. Come se non fosse stato rinviato a giudizio per peculato nell’ambito del saccheggio della Biblioteca Girolamini ad opera del direttore De Caro oggi anche lui in prigione. Un profluvio di fake news, senza che il conduttore di Che tempo che fa proferisca parola. Neanche quando Berlusconi lancia la bufala della pensione di mille euro per tutti e dice di voler togliere l’Iva al cibo per cani, pensando agli ottantenni; gli altri, poveretti, certo non lui che si sente un quarantenne.

Vent’anni e passa di Drive in ci hanno rincoglionito tutti? Oppure questa stolida pantomina, questo smaccato schiaffo al Paese reale che non ce la fa ad arrivare a fine mese (ma che non ha smesso di lottare) potrebbe nascondere una buona notizia…. Pensiero stupendo, nasce un poco strisciando, ma a poco a poco si fa sempre più strada. Fino a prendere forma e concretezza incontrando tenaci esponenti della pur frammentata sinistra italiana, laica e non arresa; non leader e leaderini cresciuti “in serra”, ma militanti che fanno politica nei territori, nelle associazioni anti razziste, per la difesa del paesaggio e dell’arte. Pensiero stupendo che prende forza tuffandosi nella manifestazione contro la violenza sulle donne organizzata da Non una di meno. E si libra quando veniamo a sapere che la Cgil ha rifiutato l’indecente proposta del governo sulle pensioni che punta a creare uno scrontro fra generazioni diverse. Un “no” che è costato la rottura dell’unità sindacale, ma che con le mobilitazioni al via il 2 dicembre assume un senso che va ben al di là della pur importantissima questione pensioni.

È un sonoro no alle politiche di questo centrosinistra che, invece di riformare il fisco, tagliare spese militari e recuperare l’evasione fiscale sceglie di reperire risorse a scapito dei diritti dei giovani, delle donne, dei soggetti più fragili. Un sonorissimo no che evoca quello che si levò un anno fa, il 4 dicembre, in particolare dai giovani riuscendo a fermare la controriforma costituzionale Renzi-Boschi-Verdini. Anche la Cgil fece campagna per il no. E ora la segretaria generale Cgil, Susanna Camusso, commentando il tentativo di Renzi di bypassare sindacati e corpi intermedi dice: «Pensare che si possa governare società complesse, come sono quelle del secolo in cui viviamo, senza la rappresentanza è un’idea completamente sbagliata, sul piano democratico, sul piano del consenso, del riconoscimento, della partecipazione. Come spesso accade la realtà poi si incarica di togliere di mezzo le fantasticherie, come quella dell’uomo solo al comando. Le società complesse hanno bisogno di partecipazione, di collegialità, di collettività, di costruzione di meccanismi di solidarietà».

Pensiero stupendo: nonostante la truffa del Rosatellum passato a colpi di fiducia, la sinistra potrebbe ritrovare le gambe e correre. Qualcuno parlava di sindacato cinghia di trasmissione. Forse è solo un sogno. Intanto cominciamo a rimboccarci le maniche dedicando la storia di copertina al diritto alla salute con il contributo della Cgil funzione pubblica e del nuovo segretario generale Cgil medici, Andrea Filippi, a cui facciamo i nostri migliori auguri di buon lavoro.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA