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Ma i Weinstein di noialtri, qui, non li nomina nessuno

Qualcuno di loro ha addirittura cambiato numero di telefono. Qualcun altro, invece, ha già scambiato due parole con il suo avvocato per prevenire l’attacco. Poi c’è il regista napoletano che non sa più dove sbattere la testa e non si perdona di avere esagerato anche via sms o via mail, convinto della propria impunità. C’è il mostro sacro della televisione che rassicura tutti dicendo di avere “amicizie politiche importanti”, di stare tranquilli, come se non si sapesse che i suoi cambi alla conduzione siano legati più al concedersi che chissà a quali scelte editoriali. C’è addirittura lo storico conduttore che gigioneggia negli speciali, sul caso Weinstein, come uno spettatore indignato qualsiasi. Tutto intorno poi un bel pezzo del cinema italiano (e della televisione) s’è fatto corporazione per dire che non bisogna “sparare nel mucchio” eppure poi, sotto sotto, sono in molti tra agenti e produttori a far intendere che chi denuncia è fuori, che è meglio ripensarci.

Da una settimana Dino Giarrusso de Le Iene confeziona servizi che sono un conato che dovrebbe intasare lo stomaco del Paese, una sequela di donne attirate con un copione o la promessa una trasmissione o di una parte usate come esca che alla fine si sono ritrovate davanti al bivio dell’amplesso come prerequisito essenziale per essere valutate. Ci sono le voci di donne che hanno avuto addosso le mani unte di chi poi scorrazza sui giornali a insegnarci l’etica. Ci sono anche le aspiranti attrici a cui gli agenti dicono di lasciar perdere, di non rovinarsi la carriera. «Stronzetta, non l’hai capito che qui funziona così?» ha detto un prezzo grosso della Rai, sposato e con figli, a più d’una.

E mentre loro, gli orchi, cominciano a tremare, in giro c’è uno strano silenzio: “va bene la difesa a Asia Argento”, dicono in molti, “ma succede dappertutto, bisogna cambiare il paradigma”. E nessuno sembra avere voglia di spingere davvero, sui nomi. Tutti a godersi la para-pornografia dei racconti e nessuno che alzi la mano per dire “questo dobbiamo cacciarlo”. Tutti a dire che negli Usa il nome di Weinstein è stato fatto troppo tardi e intanto qui i nostri Weinstein non li nomina nessuno.

«E perché non li fanno le vittime, i nomi?», mi chiedono. I nomi ci sono, tutti, segnati. Tutti. Solo che ancora nel 2017 non ci si rende conto che la forza di denunciare sta in una mobilitazione generale che deve confermare una possibilità di cambiamento e che è l’ossigeno necessario alle vittime per avere la forza. Forse non ci si rende conto che, ancora una volta, ci si sta perdendo sull’ultimo passo di una denuncia che sarebbe drammatico lasciare cadere.

Bisogna sentire coraggio intorno per trovare il coraggio. E intorno ci siamo noi. Noi che scriviamo sui giornali ma abbiamo l’anaffettivo vizio di disamorarci così in fretta delle storie e delle loro vittime; noi che se la denuncia non arriva dalla “nostra” trasmissione o dal “nostro” giornale la riteniamo meno degna e nel frattempo sono meno degne anche le sue testimonianze; noi che ci indigniamo leggendo il New York Times ma non toccateci i porci nostrani; noi che abbiamo imparato a difendere le donne senza nemmeno prenderci la briga di attaccare gli uomini che lo meriterebbero; noi che ci buttiamo sulla caccia alle streghe ma gli stregoni chissà perché li lasciamo tranquilli.

Noi che negli ultimi quindici giorni non siamo stati capaci di dire “state tranquille, denunciateli tutti, denunciamoli tutti, denunciamo tutto. Ci siamo noi, qui”. Anche se vi è antipatica quell’attrice. Anche se non guardate Le Iene.

Buon venerdì.

Mi chiamo Francesco

Francesco Zanardi, presidente dell'associazione L'Abuso (contro gli abusi dei preti pedofili) davanti a San Pietro, Citta' del Vaticano, 11 ottobre 2011. Zanardi ha consegnato insieme ad Alberto Sala, presidente dell'associazione Piccolo Alan, una lettera per il Papa con cui si chiede un'applicazione severa delle linee guida contro la pedofilia nel clero. ANSA

Mi chiamo Francesco e sono un sopravvissuto. Sono stato abusato da un prete a cui mi sono affidato nella mia acre solitudine di adolescente. Io ci sono stato davvero, all’inferno. E se ci penso, da ateo convinto quale sono diventato, sorrido. Anni di terrore, senso di sporcizia, dolore lancinante che ho cercato di attutire in mille modi, tutti sbagliati. Perché quando quello che hai subito è troppo doloroso da ricordare, quando ti sei fidato della persona sbagliata e ancora oggi – a più di 40 anni – ci pensi e ti dai del cretino per non avere reagito, hai bisogno di lenire il tormento, in qualche modo.

Perché forse l’hai provocato, lo dicono i commenti sui giornali e sui social network perché cazzo tutti sanno tutto e spesso la vittima è stata l’artefice e il dubbio ti viene. Anche se eri solo un ragazzino solo, con una famiglia di merda che di te si sbatteva i coglioni e ti sei unito a un gruppo, a una comunità, per riempire il vuoto lasciato dai tuoi.

E i predatori lo sanno. Oh, se lo sanno. Ha trovato la vittima perfetta: non sbagliano mai. Riescono sempre a intravedere, tra decine di bambini o ragazzini, quello che ha gli occhi dolci o tristi, quello più mite e gentile, quello che puoi stare sicuro che non dirà niente a nessuno perché nessuno gli crederebbe. Che poi lui era così buono, con i vecchietti e le famiglie. E organizzava anche tante cose per i poveri. Cioè, insomma, era un prete, cazzo, e i preti sono in contatto diretto con Dio e se fossero cattivi Dio li fulminerebbe subito. E poi arriva sempre chi dice che ha mandato i figli in quella parrocchia e non è mai successo niente, quindi sono tutte balle raccontate da feccia in cerca di attenzioni. Ci fossero stati loro, sotto quella merda di tenda durante il campeggio. Quando ha iniziato ad accarezzarmi. Quegli occhi da mangusta e la lingua che gli umettava le labbra a scatti come un cobra. E io. Io paralizzato da quella sorpresa cattiva che non mi sarei mai aspettato di ricevere. Avevo talmente bisogno di un minimo gesto di attenzione che non avevo capito che la mia smania di sentirmi amato gli avrebbe consegnato la chiave per quell’atto brutale rivestito di cura che mi terrorizzava e mi faceva vomitare. E subito dopo la vergogna. Da morirci. E tornati a casa lui che mi lanciava quelle occhiate intimidatorie e allo stesso tempo viscidamente affettuose. E mi continuava a ripetere che io ero speciale e non c’era niente di male in quello che mi faceva, perché dimostrava quanto tenesse a me. Perché mi amava e mi avrebbe protetto da tutto. Ipocrita di merda, con quel collarino bianco da cane fedele. Con tutte le beghine a reggergli lo strascico come a una sposa. E per me solo dolore, ancora. Sempre. Sempre. Che non passava e non passa mai. Mai.

Ho iniziato poco dopo, a drogarmi. Per lenire dolore, vergogna, senso di inadeguatezza. Anni di merda, mentre lui stava benissimo, servito e riverito. Coperto dai suoi devoti superiori.

Poi l’ho denunciato. E ho perso il lavoro che mi sono costruito negli anni. E ho creato un’associazione per chi, come me, ha subito abusi da miserabili che ancora, tuttora, rimangono impuniti. E non serve che mi sgoli spiegando che non ce l’ho con i preti ma solo con il fatto che vengano protetti da una rete di omertà rivoltante. La maggior parte della gente non capisce comunque.

Mi chiamo Francesco e, ancora, quel ragazzino imbrogliato e stuprato, di notte mi tira i capelli e chiede giustizia.

Ma io gliel’ho giurato: prima o poi la giustizia arriverà. Per tutti. E in questo mondo.

Per approfondire, leggi l’articolo”Pedofilia, un papa dalla memoria corta” su Left in edicola


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Quel razzismo nel lessico politico e dei media che deumanizza l’immigrato

Da anni alcuni studiosi, tra cui Anna Maria Rivera, Federico Faloppa, Marcello Maneri, lavorano per analizzare il dilagare in Italia di un  razzismo banale, con responsabilità di media e  politici; in alcune congiunture, come quella che stiamo vivendo, questa lotta sembra impari. Il termine “banale” è associato a mediocrità, insignificanza, convenzionalità; ma la riflessione pedagogica, a partire dal tentativo di costruire macchine “non banali”, ha spostato l’accento sulla “prevedibilità”. Una lavatrice che riceve un comando e si mette in moto secondo un programma prestabilito è banale; un calcolatore che rielabora dati al di là delle istruzioni che gli abbiamo fornito è una macchina non banale. Non sono macchine i bambini. Prima di andare a scuola, se chiediamo loro qualcosa pensano prima di rispondere. Poi vanno a scuola, e si abituano a ricevere domande su cui non bisogna pensare, quanto indovinare quale tra le tante risposte è quella che ha in mente l’insegnante. Da von Foerster in poi, questo tipo di istruzione si chiama banalizzazione.

Così è delle parole che la formazione discorsiva “immigrazione” oggi fa circolare nel discorso pubblico. Scatta qui una terza accezione del termine “banale”, quella etimologica. Nell’antico francese “ban”, di origine germanica, era il proclama del padrone feudale del villaggio; e perciò “banale” passò a indicare un’abitudine comune a tutto il villaggio. Così la storia di questa parola lega insieme prevedibilità, mediocrità e acquiescenza alla voce del padrone. Questi ingredienti esimono dal pensare, dall’essere responsabili, dal dare un senso al proprio discorso e perciò alla propria esistenza. In cambio, promettono l’accordo con i più, e soprattutto con chi è potente. “Lo dicono tutti che…” viene rilanciato e rafforzato da “come dice Lui…”. Si rivendica la naturalità e la facilità dell’epiteto razzista, dello stigma inferiorizzante. Ci sono processi di impoverimento linguistico e concettuale ben più reali di quelli che una pubblicistica rigogliosa e incompetente addossa agli adolescenti. Chi esibisce buoni studi vigila sull’uso del congiuntivo ed è pronto a bacchettare l’uso di “gli” come dativo plurale; ma cede alla banalità del discorso pubblico, e accanto all’uso snobistico e demenziale di “piuttosto che” lascia dire o ripete “badante”, “extracomunitario” (magari per un romeno), zingaro. Molti sono i segni di un pervertimento delle responsabilità, anche linguistiche, dei colti. Il che inquina gli strumenti più elementari di analisi e riflessione sui fenomeni sociali. Si parla anche in luoghi che dovrebbero essere qualificati in maniera sempre più approssimativa, immemori dell’avvertimento acutissimo di Italo Calvino, pochi decenni fa: il diavolo è l’approssimativo. E si fa strada una convinzione fallace, ma pronunciata senza nessun impegno argomentativo. Si dice che si parla così perché è facile, e ci si capisce. Sarebbe facile dire badante, chiamare alfabetizzazione i corsi di lingua per gli immigrati e i loro figli, che di solito di alfabeti ne conoscono più di noi. Facile sarebbe dire extracomunitario, clandestino, negro. Facile, e più vicino al naturale. Sembra artificiale dire che si è stati interpellati da una signora, se viene da fuori: meglio, e immediatamente comprensibile, filippina, nigeriana, ucraina. O magari sguattera del Guatemala.

Come naturale sembrava a molti, pochi decenni fa, dire: la mia serva, oppure: quella svergognata. Non è così. Per giungere a pratiche di così crudele inferiorizzazione e alla cancellazione di caratteri umani nel prossimo, è stato compiuto un enorme lavoro, che ora viene occultato da chi rappresenta come “naturale” ciò che invece è risultato, e come autenticità ciò che invece è acquiescenza, complicità, cedimento per viltà, interesse, pervertito senso del sé. Va riconosciuto: è stato difficile, costruire questi dispositivi di deumanizzazione dell’immigrato e del richiedente asilo, che rivelano quanto avanzata sia la disumanità di chi ci ha lavorato, e di chi gli va dietro. La maggior parte di questo lavoro è stato compiuto dai media e dai politici.

Quando si è rivelato del tutto privo di pezze d’appoggio statistiche l’allarme sulla microcriminalità, con i suoi picchi in occasione delle elezioni, i documenti del ministero degli Interni si sono inventati, nel 2007 (ministro: Amato) la bella trovata, di origine dotta, ma distorta e essa in caricatura, sul fatto che la paura e l’insicurezza sono dovute non alla criminalità, ma alla “criminalità percepita”. Tale etichetta percorre, come un filo rosso, il discorso pubblico sulla sicurezza e sull’immigrazione degli ultimi dieci anni, e si ritrova nei discorsi dell’ultimo ministro. Chi riporta pari pari questa bella trovata non si chiede se una percezione distorta della realtà non dipenda da una rappresentazione del reale, e quali siano i canali che mettono in circolo tale rappresentazione: chi pesa di più sulla rappresentazione dell’immigrazione, se non politici, giornalisti, redattori che provvedono alla scelta di titoli e foto di corredo? Un altro leitmotiv che risale al ministero Amato, e che oggi ha una nuova fortuna presso giornalisti e politici, è il richiamo ai valori. È ridicolo richiamare chi arriva a valori presunti, come il rispetto della donna e delle istituzioni. Almeno dai tempi delle Rane di Aristofane, il vero scontro non è tra valori e novità di comportamenti disgregatrici, ma tra la nostalgia di un’immagine distorta e reazionaria della tradizione e l’argomentazione critica. Il richiamo a presunti valori serve solo a ripetere, tra di “noi”, quanto ci suggerisce chi governa: che “loro” quei valori non ce li hanno, “noi” sì. “Noi”, chi? Trent’anni fa un antropologo che disegna, Altan, aveva colto il ridicolo di tali richiami: un giornalista intervista al microfono un individuo vestito con copricapo e babbucce, e gli chiede: «Come si trova in Italia?». «Inserito», risponde l’altro, «son qua da soli tre mesi e già sento il distacco dalle istituzioni». Nel recente processo su Mafia capitale, rilevanti sono stati i casi di omertà in aula: tutto il contrario di comportamenti di alcuni “accolti”, come il marmista Medhi Dehnav, che è rimasto solo e poco protetto da numerosi pestaggi a denunciare le sopraffazioni criminali di un clan mafioso. Sarà bene non dare per scontato che “loro” devono aderire ai “nostri” valori: “nostri”, di chi?

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Giuseppe Faso è un insegnante, tra i fondatori della Rete antirazzista. Come  volontario si occupa dell’inserimento di bambini stranieri nelle scuole. È autore di libri sul tema del razzismo, tra cui Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono, DeriveApprodi, 2008. È tra gli autori di Cronache di ordinario razzismo, quarto libro bianco sul razzismo in Italia curato da Lunaria. L’edizione 2017 è uscita a distanza di tre anni dall’ultimo rapporto e sarà presentata  venerdì 27 ottobre, alle ore 18, nella sala B, in via Galvani 108 (Testaccio) Roma. Al dibattito intervengono Paola Andrisani di Lunaria, Sergio Bontempelli presidente Africa Insieme, Serena Chiodo di Lunaria, Giuseppe Faso dell’associazione Straniamenti, Grazia Naletto presidente Lunaria e l’antropologa Annamaria Rivera. Modera: Eleonora Camilli, giornalista del Redattore sociale.  Qui “Cronache di ordinario razzismo

L’articolo di Giuseppe Faso è tratto da Left in edicola fino al 27 ottobre


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“Non fu un incidente aereo”. Si riapre il caso del segretario Onu Dag Hammarskjold morto in Zambia

circa 1957: Swedish politician and diplomat Dag Hammarskjold (1905 - 1961), he died in an aircrash in Zambia while Secretary General of the United Nations. (Photo by MPI/Getty Images)

Più di 56 anni dopo, un report di 63 pagine in arrivo dall’Africa riapre il caso: il segretario generale delle Nazioni Unite, Dag Hammarskjold, morto insieme ad altre 15 persone nel 1961, forse non è stato semplicemente vittima di un incidente aereo. Fino ad oggi la cronaca storica è stata una verità incompleta. Il suo aereo è caduto perché doveva cadere, proprio durante una missione epocale per guarire una delle piaghe belliche d’Africa, da cui l’Occidente traeva vantaggio.

La forza della verità si propaga nel tempo, anche se oggi nessuno vuole più ascoltarla o interessa ancora a pochi. Non è una teoria, almeno non più solo questo. L’aereo del diplomatico doveva cadere. Lo attesta ora anche l’indagine verbalizzata dal giudice Mohamed Chande Othman, eminente giurista tanzaniano, in seguito al ritrovamento di evidenze e prove che hanno dato peso a quelli che per decenni sono rimasti solo sospetti e adesso sono un’inchiesta in corso. Dag Hammarskjold può essere stato assassinato. È stata “minaccia”, è stata “una minaccia esterna”: viene ribadito con più sinonimi dello stesso concetto in tutto il dossier, che ricorda ad ogni frase che Dag Hammarskjold è stato ucciso proprio durante un momento chiave della storia africana, mentre imperversava la lotta coloniale, – supportata dal Vecchio Continente – , contro quella per l’indipendenza, – per il continente africano che voleva essere Nuovo.

L’aereo DC-6 cadde nel territorio che ora appartiene all’attuale Zambia, nella notte tra il 17 e il 18 settembre 1961 e per il giudice Othman «può essere stato deliberatamente abbattuto», da quello che scrive essere “un attacco esterno”. Oppure è caduto per una distrazione che ha «indotto i piloti a concentrare l’attenzione su una questione critica per una manciata di secondi, durante la fase di atterraggio». Lungo una rotta già precauzionale, perché si temeva per la sicurezza del diplomatico sul velivolo nominato SE-BDY, quella “distrazione” del pilota che si approcciava ad atterrare in Ndola, non è stata un calcolo sbagliato d’altitudine. Possono essere apparsi davanti ai suoi occhi degli aerei dei secessionisti, o aerei guidati da mercenari. All’epoca i secessionisti del Katanga utilizzavano aerei francesi, i Fouga Magister. I separatisti del Katanga erano supportati dai politici occidentali e dagli imprenditori minerari europei e non avevano alcun interesse nel veder finire il conflitto che invece Dag Hammarskjold voleva terminasse subito.

«C’è una rilevante quantità di prove riportate dai testimoni adesso, quella notte c’era più di un aereo in volo, gli altri mezzi aerei potrebbero essere stati dei jet, avrebbero potuto colpire il SE-BDY, che potrebbe essere andato a fuoco prima di distruggersi nell’incidente», scrive il giudice. L’uomo chiave dell’Onu, la cui morte rimane una ferita aperta nella storia delle Nazioni Unite e un mistero del XX secolo per il resto del mondo, stava andando proprio lì, in Ndola. All’epoca era Rhodesia del Nord, erano in corso le negoziazioni per la fine della guerra civile e della secessione per la provincia congolese di Katanga, una miniera a cielo aperto di materiali nobili.

Sangue e diamanti. E un aereo caduto. Solo negli ultimi anni anche luce e scavi: non sotto terra per cercare oro, ma nei documenti e nelle testimonianze per cercare la verità, tra i depistaggi delle intelligence straniere e dei governi di alcuni Paesi. In particolare quelli di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Belgio, una costellazione europea che aveva interessi nella vecchia colonia del Congo. In quel momento storico il Congo, raggiunta l’indipendenza dal Belgio, vedeva ancora britannici e portoghesi prevalere a sud. La secessione della provincia di Katanga fu infuocata da traffici di armi ed interessi coloniali delle potenze occidentali in quella che tutti sapevano essere una battaglia sanguinosa che avrebbe influenzato tutto il futuro d’Africa. Non era negli interessi dei secessionisti che Dag Hammarskjold arrivasse a destinazione. È al giudice tanzaniano che tocca ricordare più di mezzo secolo dopo che quella era un’epoca in cui le forze nere dei ribelli si confondevano con quelle dei mercenari bianchi contro i soldati delle Nazioni Unite.

Le foto di quell’incidente sono in bianco e nero. Tutto sembra ancora cenere oggi, nel 2017. Ma c’è qualcosa di nuovo, a colori, «nuove, valide informazioni», riferisce il giurista Othman. Ora “il fardello delle prove” grava sui membri delle Nazioni Unite, «dovranno dimostrare di aver compiuto tutte le investigazioni necessarie, archiviato bene le prove, le testimonianze, anche quelle che ora potrebbero essere diventate informazioni potenzialmente rilevanti».

Si, sono emerse nuove prove. Ma no, queste prove sono insufficienti per trarre una conclusione, ha detto Antonio Guterres, attuale Segretario Generale delle Nazioni Unite. La forza della verità si propaga nel tempo, emerge dalle macerie, più di mezzo secolo dopo, anche quando non vuole ascoltarla chi più degli altri dovrebbe star scavando per trovarla.

Ma il sussidiario clandestino non è un semplice inciampo

“E’ aumentata la presenza di stranieri provenienti soprattutto dai paesi asiatici e dal Nordafrica. Molti vengono accolti nei centri di assistenza per i profughi e sono clandestini, cioè la loro permanenza in Italia non è autorizzata dalla legge. Nelle nostre città gli immigrati vivono spesso in condizioni precarie: non trovano un lavoro, seppure umile e pesante, né case dignitose. Perciò la loro integrazione è difficile: per motivi economici e sociali, i residenti talvolta li considerano una minaccia per il proprio benessere e manifestano intolleranza nei loro confronti”. A scriverlo è un testo scolastico “Diventa protagonista” (editore Il Capitello), in uso in quest’anno scolastico nelle scuole italiane.

La segnalazione di una mamma è stata ripresa su twitter dal collettivo Baobab che, da Roma, resiste alla narrazione tossica di questa epoca su stranieri e rifugiati e la notizia, per fortuna, ha già fatto il giro dei quotidiani italiani. Quel paragrafo a pagina 94 del sussidiario scolastico è la naturale evoluzione di un inquinamento che parte da lontano, irresponsabilmente soffiato da chi continua a credere che la propaganda poi, con gli anni, non si trasformi in un sedimento sociale e culturale inevitabilmente normalizzato.

Per capirsi: il problema non è Libero, Salvini o qualsiasi fomentatore di xenofobia ma piuttosto è l’onda lunga che quelle sparate che inevitabilmente segnano nuove pericolose distanze tali da far apparire “moderato” ciò che invece oltrepassa il lecito e l’etico. Così si trasforma in potabile qualcosa di velenoso e si crea l’ambiente ideale perché ogni volta ce se ne accorga sempre un po’ meno.

Non è un inciampo: è un primo risultato delle colpevoli (e generali) nostre distrazioni.

Mauro Ermanno Giovanardi: «Canto la mia generazione e reinvento gli anni 90»

Una foto di Mauro Ermanno Giovanardi, voce dei La Crus, diffusa in occasione dell'uscita del suo album da solista dal titolo ''Ho sognato troppo l'altra notte?''. Al Festival di Sanremo i La Crus porteranno il brano 'Io confesso'. Un omaggio dichiarato agli anni '60 che segnera' il passo d'addio dei La Crus. Dopo il festival, Mauro Ermanno Giovanardi e Cesare Malfatti se ne andranno per la loro strada. ANSA / UFFICIO STAMPA +++ NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Mauro Ermanno Giovanardi è per molti Joe, voce storica dei La Crus, gruppo formatosi negli anni Novanta, con Alex Cremonesi e Cesare Malfatti. Amante del rock, appassionato di Nick Cave, folgorato da Tenco, Giovanardi si è, soprattutto, formato con la musica inglese, traendone ispirazione, cimentandosi poi nella rielaborazione testuale in lingua italiana. Che sia con il suo gruppo più noto, o in solitaria, come accadrà successivamente, il cantautore piemontese, che nasce bassista, ha dedicato anni alla ricerca di una sua vocalità, di una propria identità interpretativa per proporre oggi a un pubblico affezionato, e non solo, un album di brani scelti nella produzione della fortunata stagione musicale degli anni Novanta, dal titolo evocativo La mia generazione. Con criterio e sentimento ha selezionato canzoni e colleghi, tra i più significativi dell’epoca, per riportare alla ribalta un periodo florido per la musica italiana. Una stagione irripetibile in cui un gruppo di musicisti dopo aver vissuto e imitato certi modelli stranieri, perlopiù anglofoni, ha sentito che era arrivato il momento di parlare al pubblico nella nostra lingua. Gruppi come Afterhours, Marlene Kuntz, Subsonica, che in quegli anni sbocciavano; realtà come quella dei CSI, con quel Ferretti sorprendente; autori come Mimì Clementi dei Massimo Volume; brani tra i più evocativi, come “Cieli Neri” dei Bluvertigo o “Stelle buone” di Cristina Donà. Un’amata produzione riproposta in straordinari riadattamenti, tra tutti “Baby Dull” degli Üstmamò, pezzo cantato insieme alla magnetica Rachele Bastreghi dei Baustelle, con un video ispirato a Blow-up di Antonioni, omaggio alla pellicola in occasione del 50° anniversario della premiazione al Festival di Cannes. Oggi, Giovanardi è tutto questo, senza una punta di nostalgia, ma con tanta voglia di fare ancora musica, e cambiare, e trasformarsi perché, ammette, una delle cose più pericolose è restare immobili. Di nuovo in scena in tutta Italia dall’11 novembre, su quel palco per lui palestra fondamentale per migliorare e stare con il pubblico. Partiamo proprio da questo generoso progetto per ripercorrere i suoi recenti trascorsi di attività musicale, che lo vedono solista dal 2009, suggellati anche dalla Targa Tenco nel 2015 per Il mio stile, migliore album dell’anno. Lo stile, appunto, mai trascurato da Joe/Giovanardi.
Hai definito l’album “un pegno d’amore” per celebrare una stagione musicale unica, ricca di tanti artisti, ancora oggi di successo. Personalmente, ma anche professionalmente, a cosa “ti serviva” questo lavoro?
È stata anche una prova da interprete, per me. Quella più difficile, con il tasso di rischio più alto. Lo dico spesso: è più facile cantare un pezzo di Mina che di Ferretti, perché Ferretti, ma anche Mimì, hanno un modo così unico di cantare e se gli fai il verso non è più arte. Devi reinventare un modo: per il pezzo con Neffa (“Aspettando il sole” ndr), per esempio, non sapevo se sarei stato in grado, come interprete, di farne una versione mia. A me, personalmente, mi serve per aver capito che potevo fare uno step successivo, confrontarmi con questi pezzi era più difficile che confrontarmi con Ciampi, con Tenco o De André.
Il tuo percorso professionale è ripartito anche dalla separazione con i La Crus.
È stato difficile affrancarsi dai La Crus. Con loro è stato tutto importante, anche far convivere i nostri mondi distanti con l’idea continua di prendere la metodologia dell’hip hop e cantarci sopra, recuperando la canzone d’autore. Finché questo fuoco c’è stato, è stato bello. Poi, siccome i grandi amori non meritano mediocrità, è stato meglio chiudere il percorso, però è stato difficile. Dopo, per me poteva essere più facile continuare a fare roba elettronica, però dovevo costruire un altro immaginario intorno alla mia voce e fare un mio percorso.
Ne La mia generazione, la scelta dei brani è così variegata, allo stesso tempo sorprendente, con un criterio stilistico, ma anche semiotico ben preciso. Brani, che, decisamente, hanno segnato un’epoca.
Io, e tutti gli interpreti di questo disco arrivavamo da un background altro, che non era né quello dei cantautori anni Settanta, né quello della canzone italiana anni Ottanta, il pop per intenderci. In quelle nostre canzoni, che mi piace definire “storte”, c’era un modo di approcciarsi alla canzone in maniera un po’ più deviata. Oggi il desiderio era di farne dei classici, di dare un omaggio sincero, mettendo a disposizione la mia voce per raccontare quel momento lì.
Mi sembra che di strada, e di trasformazioni, tu ne abbia fatte molte, ricercando sempre qualcosa di nuovo, di diverso. Basta ascoltare la versione odierna di “Nera signora” (brano dei La Crus ndr) dove il tuo cambiamento di interpretazione è tangibile. La ricerca di un’espressione vocale che cosa significa per te?
La ricerca parte da lontano, da Dentro me, un altro album fatto con loro. Devo dire che, da sempre, quando scrivo i miei dischi la cosa che mi piace di meno sono io; ancora sento che non ho la padronanza della lingua, che è un po’ monocorde. Non riesco a capire se c’è un retaggio per aver ascoltato negli anni Ottanta tanta, troppa musica di gruppi new wave, che avevano un tono monocorde di cantare a cui ero affezionato o il passaggio dall’inglese all’italiano, che è stato difficilissimo per come gestire le parole e cantarle. Non l’ho mai raccontato a nessuno, ma le prime volte che registravo con i La Crus ero molto imbarazzato. Ho lavorato tantissimo sulla mia voce affinché diventasse uno strumento con cui poter giocare. Adesso mi sembra di cantare in modo più naturale e di saper gestire la voce. Uno dei complimenti più belli me li ha fatti Ivano Fossati quando su Crocevia rifeci il suo celebre “La costruzione di un amore” e lui mi disse che ero stato bravo perché in un testo così denso, così pregno, piuttosto che mettere avevo tolto.
A proposito di reinterpretazioni, la versione di “Baby-Dull” spiazza davvero: hai avuto riscontri dagli Üstmamò?
Una mattina ero a casa e mi sono sorpreso e commosso perché Mara (Redeghieri, voce degli Üstmamò ndr) mi ha chiamato e mi ha detto che il pezzo è bellissimo. In generale, tutti i colleghi che hanno partecipato all’album mi hanno detto che sono in grado di “giovanardizzare” tutto ciò che faccio! Mimì anche mi ha fatto i complimenti, soprattutto per i ritornelli che ho inserito, che sono spesso suoi versi.
Però Mimì dice pure che quella degli anni Novanta era una scena capace di sedurre anche gente che prima di allora non aveva mai ascoltato musica strana, mentre adesso non si è più sexy. Tu che cosa ne pensi?
Infatti gli ho detto: “Ma parla per te!” (ride) perché credo che una delle parole chiave del disco sia proprio “sexy” perché c’è tanto soul, c’è del blues. Soprattutto, c’è un modo nuovo di proporre la voce.

Amalia Signorelli: «Il mio De Martino, laico e umanista»

Amalia Signorelli

 Antropologa impegnata e sempre disponibile ad intervenire nel dibattito pubblico, contro il razzismo e per una società più giusta e democratica, Amalia Signorelli è stata allieva diretta di Ernesto de Martino. La ricordiamo riproponendo l’intervista di Left in cui parlava del suo grande maestro

È una appassionata ricognizione critica del pensiero De Martino, che ne restituisce tutta la viva attualità, il saggio di Amalia Signorelli pubblicato dall’Asino d’oro edizioni con il titolo “Ernesto de Martino, teoria antropologica e metodologia della ricerca“. Un libro affascinante anche per il modo in cui la riflessione teorica si intreccia con memorie giovanili della studiosa che, giovanissima, partecipò alla spedizione nel Salento alla ricerca del tarantismo pugliese. Pagina dopo pagina, fra vita vissuta, ricerca sul campo e approfondimento metodologico.
Riemerge così l’immagine di Ernesto de Martino (1908-1965) solitario ed esigente professore all’Università di Roma, accanto a quella della studentessa di buona famiglia che, lasciata da parte ogni pruderie borghese, appena laureata, prese parte alla spedizione in Salento andando alla ricerca di quel tarantismo pugliese da cui sarebbe nato un classico dell’etnografia come “La terra del rimorso“. Lo choc dell’incontro con realtà e culture molto diverse dalla propria, il coraggio di mettere in discussione se stessi nel rapporto con l’altro e di superare pregiudizi che non si sospettava nemmeno di avere. Tutto questo faceva parte di un modo di pensare che lasciò un segno profondo in Amalia Signorelli che poi applicò questo metodo ad ambiti di studio differenti, dalle migrazioni, alla condizione femminile alle culture urbane. Riconoscendo che l’incontro con quell’appartato docente era stato uno dei più fertili per la sua formazione.

Professoressa Signorelli in che modo la Weltanschauung di De Martino ha influenzato il suo lavoro di ricerca?

Almeno con tre concetti fondamentali. Il primo è metodologico, è l’etnocentrismo critico, cioè l’idea rivoluzionaria ancora oggi, che l’antropologo non deve usare la propria cultura come metro per misurare quella altrui, ma viceversa usare quella altrui per misurare la propria. Il secondo è piuttosto un postulato: l’origine e la destinazione integralmente umana dei beni culturali, di tutti i beni culturali, dalla ricetta degli spaghetti alla carbonara alla fisica dei quanti. Infine, il terzo è un concetto-obbiettivo: la produzione di un nuovo umanesimo, che Ernesto de Martino chiama «umanesimo etnologico». Agli antipodi di ogni etnicismo o esotismo di moda, l’umanesimo etnologico vuol essere una concezione e una pratica del mondo in cui l’altro da noi è vissuto come un’opportunità per diventare tutti più umani, non come una minaccia alla nostra fragile identità.

Nell’introduzione alla nuova edizione de La terra de rimorso edita da Il Saggiatore, Clara Gallini dice di aver appreso da Amalia Signorelli la ricerca sul campo, riguardo al tarantismo. Quanto è stata importante quella esperienza?

Oggi, a distanza di tanti anni, posso dire che mi ha cambiato la vita. L’influenza di Ernesto de Martino ha dato nome e orizzonte storico a un allora confuso coacervo di ideali, convinzioni, aspirazioni che avevo in testa. Gli debbo la scoperta, all’epoca della mia tesi di laurea, dello sfruttamento degli esseri umani da parte di altri esseri umani e il mio diventare di conseguenza, come ora si usa dire, di sinistra. Collocazione sempre più difficile, oggi: ma so per certo che dopo aver vissuto tra le contadine e i contadini meridionali negli anni Cinquanta del secolo scorso, non potrò accettare mai dominio, sfruttamento e alienazione come fatti ovvi o quanto meno inevitabili.

Concetti come egemonia e subalternità divennero allora ben concreti?

La ricerca sul tarantismo mi fece conoscere esseri umani che si pensano nei termini imposti da coloro che li dominano ed esseri umani che si pensano invece in rapporto ai propri interessi e desideri. Me lo fece capire Concettina, la sorella della famosa Maria di Nardò, tarantata per eccellenza, quando mi chiese «la medicina per non comprare bambini», cioè la pillola anticoncezionale. E, guarda caso, Concettina non pativa del morso dell’orrido ragno, non aveva un passato irrisolto che non passa. Voleva un futuro in cui l’eros non le fosse precluso dalla paura delle gravidanze a ripetizione.

L’etnocentrismo critico di De Martino oggi aiuta a comprendere l’immigrazione fuori dai luoghi comuni razzisti?
Ritengo di sì. De Martino non suggerisce mai che si debba rinunciare alla propria cultura per comprendere empaticamente quella altrui. Molte persone di buona volontà “si sforzano” di compiere questa azione, in genere con poco successo. L’etnocentrismo critico è, come dicevo, una postura intellettuale prima ancora che morale: un confronto sistematico in cui si capovolgono continuamente i termini: non sei tu che sei diverso da me, sono io che sono diverso da te; non sei tu che mandi un cattivo odore, sono io che per te mando cattivo odore e dunque anche tu lo mandi per me ma non per tutti gli esseri umani. Non è facile, ci vuole una specie di allenamento intellettuale, anche quotidiano.
L’etnocentrismo critico è stato accusato di favorire il relativismo. C’è questo rischio?
Al contrario, non si tratta di pensare che tutto vale tutto, che non c’è meglio e peggio: se trovo nella tua cultura qualcosa che mi piace più dell’equivalente previsto dalla mia, lo posso adottare, anzi posso chiederti se lo posso adottare. E’ questo il solo possibile processo di integrazione culturale a basso tasso conflittuale. La vera difficoltà non è il relativismo, ma la mancanza, da tutte le parti, di capacità di riflessione critica.

De Martino si era interessato ad Heidegger ma poi ne prese le distanze criticandolo. Certo nihilismo postmoderno non gli sarebbe piaciuto?

Penso proprio che Ernesto de Martino fosse lontanissimo da qualsiasi forma di nihilismo. Ma anche da qualsiasi rinuncia o abdicazione sul piano intellettuale. Gli oggetti della ricerca demartiniana, il mondo magico e i poteri magici, il lutto, la trance e la possessione, il malocchio sono tutti al di fuori del perimetro della razionalità, ma lui li studiava (e ci insegnava a studiarli) utilizzando gli strumenti della razionalità. Con una differenza sostanziale rispetto alle razionalissime (e sterili) condanne delle superstizioni, ma anche rispetto al decostruzionismo esasperato che consente la pratica solo dell’empatia o dell’antipatia: per Ernesto de Martino anche ciò che non è razionale è nella storia, è storico, cioè è un bene culturale di origine e destinazione integralmente umana. Dunque un filo rosso, per quanto sottile, che colleghi i singoli accadimenti della storia umana, sarà possibile rintracciarlo, poiché sono tutti accadimenti umani. Ma ove non si riuscisse a rintracciare questo filo rosso, bisognerà costruirlo e costruirlo credibile: non perché abbiamo bisogno di belle favole consolatorie, ma perché solo noi , noi esseri umani, costruiamo il senso del nostro esistere nel mondo.

«Si dice che per fare il bene occorre credere in Dio ma siamo giunti ad un punto che lo faremo ugualmente il bene senza farlo per Dio ma per gli uomini oppure sarà sempre troppo tardi per tornare al vecchio Dio» scriveva De Martino. Serve un’etica laica?

Sono convinta di sì. Per Ernesto de Martino l’ethos veramente umano è l’ethos del trascendimento cioè il dovere di andare oltre, trascendere ogni situazione data, e di trascenderla orientati da valori. È una concezione dell’etica che non pretende risultati per l’eternità. Richiama semplicemente ogni individuo alla sua responsabilità per tutto ciò che accade ma anche alla soddisfazione non di ‘fare del bene’, ma di fare bene; onestamente, secondo la propria concezione di bene. E infine, ma forse soprattutto, richiama al dovere di non rassegnarsi, di non rinunciare, appunto al diritto e al dovere di andare oltre.

“Effetto Weinstein”, due parlamentari inglesi denunciano: «Siamo state violentate»

epa06198447 The Britih Union flag is pictured in front of parliament in London, Britain, 11 September 2017. Pro-EU protesters campaigned against the government's EU Withdrawal Bill as British Parliament resume debate on European Union withdrawal bill and is set to vote on it on 11 September. EPA/ANDY RAIN

Mary ricorda ancora il prete della sua parrocchia con le mani sul suo sedere. Ha scoperto poi che è «finito in prigione, per aver assalito altri ragazzini». La donna che oggi sorride tra gli scranni del potere londinese all’epoca aveva 16 anni.

Sono coraggiose, sono britanniche, sono laburiste. Quello che stanno facendo in inglese si dice speak out, letteralmente “parlare fuori”, cioè “parlare apertamente”, per far sentire la propria voce. Si chiamano Mary Creagh e Jess Phillips e vogliono che tutte le donne rompano il silenzio, si facciano avanti, proprio come hanno deciso di fare loro, che sono state molestate, violate, assalite nel corso della loro vita.

A Mary è successo più volte, anche da piccola, al parco giochi. A Jess è successo da grande, è stata aggredita dal suo capo, quando aveva 20 anni, quando non era ancora MP, Member of the Parliament: «e adesso parlo per le donne che don’t have power to», per le donne che non hanno il potere di farlo. Come lei non ne aveva allora. «Ero nei miei twenties, nei miei 20 anni. Lavoravo al bar. Ricordo di essere andata ad una festa, ricordo che siamo poi andati a casa di qualcuno, che il mio capo era lì. Mi ero addormentata sul divano, mi sono svegliata quando si stava togliendo la cintura e si stava infilando nei miei pantaloni, mentre ero completamente immobilizzata dalla paura. Lui aveva 25 anni più di me». Il giorno dopo è dovuta tornare a lavorare. Non ne ha fatto parola fino ad oggi, da donna adulta. Serena, convinta che la denuncia sia l’unica giustizia possibile, anche se è successo molto tempo fa, perché – dice -, non deve accadere a nessuno, mai più.

In Gran Bretagna sono in corso le prove tecniche affinché le cose cambino davvero. La politica inglese sa lottare insieme. O almeno, quattro donne hanno dimostrato di poterlo fare. Le parole di denuncia di Mary e Jess si sono unite a quelle di altre due moschettiere contro i sex attackers, assalitori sessuali. In un moto di solidarietà e coerenza, sono state appoggiate anche dalle loro avversarie politiche. Le conservatrici Theresa Villiers e la baronessa Anne Jenkin hanno testimoniato di avance sessuali e molestie ricevute durante la carriera, specialmente quando si avviavano ad entrare in politica. La Jenkin, fondatrice di Woman2win, una campagna per favorire le quote femminili in politica, è stata molestata quando era una segretaria 22enne di un politico.

La parola che le quattro donne scelgono per descrivere questi eventi è precisa: attacco. Attacco al bar, ad una festa, ad un evento politico. Attacco: quando un membro del Parlamento ha afferrato una di loro nelle parti intime mentre era chiusa nella sua auto. “Un attacco allo school playground”, una molestia compiuta al parco giochi per bambini. Aveva sette anni allora, Mary, ma ora ne ha 49 e può sfidare e rompere il muro dei timori. «Mi hanno tolto la biancheria intima, sono stata assalita da 12 ragazzi, tutti più grandi di me».

I loro racconti sono un catalogo di assalti che non vogliono più lasciare segreti, impuniti. La Creagh, già ex segretaria per l’Ambiente, ha uno scopo. Ha detto «che il silenzio deve diventare anormale» per i casi di violenza sessuale, stupro, molestia. Dawn Butler, nominata da Corbyn lo scorso 31 agosto come ministro ombra per le donne e l’uguaglianza, ha chiesto che venga messo in piedi uno staff parlamentare per approfondire la questione, supportare le deputate, supportare le cittadine.

I loro aguzzini sono ancora liberi, i reati ormai indimostrabili o estinti, ma adesso a doversi liberare sono le altre donne. Tutte le donne inglesi. È questo il calvario da sfidare, è questa la giustizia per cui lottare. Questa la battaglia concreta, decisiva. È stata la lunga onda dello scandalo di Harvey Weinstein a scatenare tutto questo? Se lo chiede la stampa inglese. Non importa, un processo è iniziato, le voci sole stanno diventando coro.

No al Rosatellum. L’imbroglio degli imbrogli

Riceviamo e pubblichiamo il manifesto unitario dei comitati del No al Rosatellum

Dal 2005 gli italiani sono costretti ad eleggere il loro Parlamento con leggi elettorali dichiarate INCOSTITUZIONALI dalla Corte costituzionale. I cittadini italiani vivono già da 17 anni in un sistema di dubbia costituzionalità e in mano di pochi Capi che abusano del loro potere.
Il sistema Rosatellum aggrava questa situazione sottraendo ai cittadini, nonostante la messa in scena delle schede e delle urne, la possibilità reale di eleggere i propri rappresentanti.
Questo furto di democrazia è stato perpetrato con la connivenza del governo istigato dal partito di maggioranza perché il governo, forzando le sue competenze, ha posto la fiducia sul “Rosatellum”, strozzando il dibattito, umiliando le prerogative parlamentari e negando così ogni possibilità di modifiche. Come avvenne SOLTANTO al tempo del fascismo e della legge truffa del 1953.
PERCHE’ NO
1. Il nuovo sistema è misto: prevede una quota di uninominale, in nessuna parte del mondo così piccola, e una quota con liste bloccate, ovvero senza che i cittadini possano scegliere tra i candidati, che sono tutti imposti dai Capi di partito. Con l’aggravante che in Italia nessuna legge attua il dettato costituzionale in materia di democrazia interna ai partiti e a tutela delle minoranze. Quindi sono i Capi di partito che di fatto si eleggono a loro piacere i nuovi parlamentari che rimarranno al loro servizio.
2. Ci sarà una sola scheda: così un elettore, votando per un candidato all’uninominale, designato dai dirigenti di un partito, voterà automaticamente anche per i candidati bloccati dello stesso partito — o coalizione di partiti — al proporzionale. Non potrà fare una scelta diversa pur in presenza di due sistemi diversi, quando proprio la compresenza di sistemi dalle logiche così disuguali come l’uninominale e il proporzionale necessiterebbe di voti distinti..
3. Ogni candidato può presentarsi, oltre che nel maggioritario, anche in altri cinque collegi proporzionali. La caratteristica virtuosa dei sistemi elettorali basati sui collegi uninominali è il rapporto diretto tra elettore e candidato, che qui viene distrutto. L’eletto, di fatto, è solo rappresentante del Capo di partito che lo avrà nominato.
4. La truffa, che l’Italia avrà in esclusiva mondiale, sta nella ripartizione dei voti tra uninominale e proporzionale: in pratica l’elettore crede di aver espresso la volontà di eleggere una persona mettendo una crocetta sul suo nome e invece il suo voto viene trasferito al candidato di uno dei partiti della coalizione, presente nelle liste bloccate, fino all’estremo assurdo per cui, esauriti i posti della lista bloccata, verrebbe eletto un candidato presente nella lista bloccata del collegio affianco, di cui l’elettore non conosce nemmeno il nome.
5. Questa legge elettorale, palesemente incostituzionale, per motivi di tempo non potrà essere giudicata dalla Corte costituzionale, e quindi avremo un Parlamento per l’ennesima volta eletto con un sistema che viola la nostra Costituzione. E si ripeterà il paradosso che anche quando il Rosatellum sarà bocciato dalla Consulta, le Camere potranno sopravvivere tutta la prossima legislatura, nominare governi e legiferare.
Questo significa che, almeno per la prossima legislatura, l’Italia vivrebbe in un regime di DEMOCRAZIA SOSPESA
CITTADINI
FATE SENTIRE LA VOSTRA VOCE. QUESTO ULTERIORE ATTACCO ALLA DEMOCRAZIA OFFENDE LO STATO DI DIRITTO E LA LIBERTA’ DI TUTTI. DA PARTE NOSTRA CI IMPEGNIAMO A SERVIRCI DI TUTTI GLI STRUMENTI GIURIDICI PER CANCELLARE QUESTO IMBROGLIO
Domenico Gallo (Coordinamento per la Democrazia Costituzionale) – Anna Falcone e Tomaso Montanari (Alleanza Popolare per la Democrazia e l’Uguaglianza) Enzo Marzo (Comitato dei Liberali per il NO) Guido Calvi (Comitato Scelgo NO) e altri.

Non fatela nemmeno, la campagna elettorale

Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi (D), stringe la mano a Denis Verdini in Senato durante il voto di fiducia al Governo, Roma, 24 febbraio 2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI

A questo punto almeno evitateci la fatica di seguire le vostre scorribande elettorali in cui presenterete programmi irrealizzabili, in cui prometterete diritti che non avranno mai i numeri o in cui presenterete un’idea di Paese (se un’idea davvero ce l’avete) che finirà annacquata dalla prossima ennesima “maggioranza larga” come una grande ammucchiata di branchi concentrati a evitare l’estinzione.

Fate così: votate la fiducia sulla legge elettorale al Senato (e insignite Gentiloni con il premio del Presidente del Consiglio più tenue e contemporaneamente dannoso che avessimo mai potuto immaginare) e comunicate in diretta a tutti i cittadini che no, la campagna elettorale non serve, e che in fondo anche le elezioni servono poco o niente, poiché siete prigionieri della legge elettorale che avete voluto a tutti i costi, facendo del Parlamento un ufficio protocollo. Dite pure che la maggioranza è già scritta, nel Rosatellum, insegnateci che “non c’è alternativa” come ripetono sempre quelli impegnati a bloccare le alternative degli altri.

Poi, nei mesi che dovrebbero essere di campagna elettorale, evitate i candidati, i comizi, i programmi e non perdete tempo con i simboli. Fate una riunione voi, tra voi, Matteo e Silvio con Denis e al massimo quel discolo di Angelino: vi trovate al ristorante, da Luigino si mangia bene e costa poco, c’è anche la saletta interna, e dopo il caffè ci dite “eccoci qui, siamo l’unica soluzione possibile”. Sentirete che applausi.

Poi premiateli tutti, ma proprio tutti, quelli che in Senato vi terranno a galla con un voto dato di sguincio: nominateli cavalieri della Repubblica, dottori ad honorem o monsignori: loro almeno la faccia l’hanno persa, loro, pur di sopravvivere, senza nemmeno avere la prepotenza di strombazzare il cambiamento. Questi, da D’Anna in giù, sono i conservatori veri: dediti alla propria conservazione, con interessi a chilometro zero.

Poi fate la festa per il nuovo Governo: il campanello, “l’inevitabile accordo”, i sorrisi per le foto e Mattarella a officiare la liturgia come come se ci credesse davvero. E nel frattempo lamentatevi della disaffezione, del populismo, dell’indignazione, dei giovani “che non credono nella politica” e dell’astensione “da combattere”.

Avanti così. Avanti pure.

Buon mercoledì.