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Nella rivoluzione pacata di Mujica i princìpi e i valori della sinistra

Mi è successo di assistere a un discorso di Pepe Mujica. È stato circa due anni fa, a San Paolo del Brasile, nel corso del congresso della Cut, la confederazione sindacale brasiliana. Sul palco c’erano l’allora presidente brasiliana Dilma Rousseff, l’ex presidente Lula, il leader del sindacato Vagner. E Mujica, appunto. E anche a me è successo di vedere quello che avviene quando questo uomo piccolo, modesto nei modi e negli sguardi, prende la parola in pubblico. L’attenzione, prima scarsa, cresce pian piano. Gli sguardi cercano il microfono o il punto luce. Il brusio si placa e presto non si fa attenzione che alle sue parole. Quelle parole all’apparenza antiche, quelle parole piene di un senso che la cosiddetta modernità non riconosce più ma che parlano al cuore delle masse latinoamericane fatte di individui che avvertono ancora e sempre più come una ferita sulla propria carne le ingiustizie del mondo, le disuguaglianze che la globalizzazione provoca e acuisce, le sofferenze provocate da un’economia senza governo e senza regole se non quelle del profitto.

Mujica parla pacatamente e senza artifici retorici, ma riesce ad avvincere e a convincere perché tocca quei nervi scoperti e doloranti della condizione umana nel tempo presente a cui più nessuno, men che meno la cosiddetta sinistra dell’Internazionale socialista che ai suoi precipui compiti storici ha da tempo abdicato, è in grado di portare cure che diano sollievo e speranza. Mujica parla di libertà, libertà dal tempo del lavoro disumanizzato e dal bisogno, quella libertà a cui ciascuno di noi sente di avere diritto.

Parla di democrazia, nel tempo in cui le élites si rinserrano nei palazzi del potere e innalzano muri di esclusione e silenzio verso i deboli e i più poveri. Parla di denaro e di falsi bisogni indotti da questi tempi bugiardi, programmati per produrre individualismo e solitudine. Parla di un modello di sviluppo e di una mistica della crescita senza limiti che sta portando al collasso del pianeta e della vita, all’esaurimento dell’acqua e dell’aria pulita. Mujica parla e chi lo ascolta non può fare a meno di pensare alla forza evocativa delle sue parole, all’identificazione con la condizione di chi sta solo subendo le conseguenze negative del ciclo economico, al percorso di emancipazione e di riscatto che egli fa intravedere. Esattamente come i leader dei movimenti politici e sociali che nel Novecento hanno indicato ai popoli del mondo una prospettiva e un’idea di futuro.

Mujica parla e quando lo si ascolta diventa chiaro che solo questa idea della politica, un’idea di passione e di lavoro quotidiano per il cambiamento concreto e la trasformazione dell’esistente, può ridare fiducia ai militanti e agli attivisti politici e restituire senso al loro impegno. E non deve essere un caso se sono leader nati nel secolo scorso – Pepe Mujica, Bernie Sanders, Jeremy Corbyn, appunto – ad avere capito la necessità di assumersi la responsabilità di far rivivere principi e valori della sinistra, di scaldare i cuori e le menti delle generazioni giovani e di soffiare energie ed entusiasmo in una scena politica del ventunesimo secolo che ha bisogno di liberarsi finalmente dai mantra del neoliberismo e dalla mortificazione della speranza schiacciata dal rigore, dall’austerità, dalla disciplina di bilancio. Un messaggio giovane e antico, come Pepe Mujica e le sue idee del mondo possibile, il mondo del domani.

Fausto Durante è coordinatore aree politiche europee e internazionali della Cgil

L’articolo di Fausto Durante è tratto da Left in edicola


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Chiesa e pedofilia, un papa dalla memoria corta

Pope Francis leads his general weekly audience in St. Peter's Square at the Vatican. The Pontiff is one among the 7 top nominees running for this year's Peace Nobel Prices, together with angela Merkel, John Kerry and Mohammad Javad Zarif, Mussie Zerai, Denis Mukwege and Victor Ochen. The winner of the 2015 Peace Nobel Prize is to be announced next Friday, October 9. (Photo by Alessandra Benedetti/Corbis via Getty Images)

«La Commissione è fortemente preoccupata perché la Santa Sede non ha riconosciuto la portata dei crimini commessi, né ha preso le misure necessarie per affrontare i casi di abuso sessuale e per proteggere i bambini, e perché ha adottato politiche e normative che hanno favorito la prosecuzione degli abusi e l’impunità dei responsabili». Molto probabilmente solo i lettori abituali di Left ricorderanno queste parole e chi le scrisse. Erano i primi giorni di febbraio del 2014 e la notizia passò sugli altri media italiani come una meteora. Si tratta di uno dei passaggi più significativi del durissimo atto di accusa delle Nazioni unite contro la Chiesa di Roma per le sue colpevoli ambiguità e mancanze nella lotta contro la pedofilia, oltre che per le calcolate complicità dei gerarchi vaticani con i preti pedofili responsabili di migliaia di crimini compiuti in tutto il mondo. Il Rapporto conclusivo, che si può consultare sul sito dell’Unhcr (la sezione Diritti umani delle Nazioni unite), venne elaborato in virtù della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia. Ratificata nel 1990 dalla Santa Sede, la Convenzione prevede come clausola ineludibile per i firmatari l’obbligo di adottare ogni misura possibile per tutelare i diritti fondamentali dei minori, in quanto persone, e per proteggere la loro crescita da qualsiasi situazione a rischio. Gli investigatori di Ginevra, sulla base di solide prove e testimonianze, dissero chiaro e tondo agli emissari di papa Francesco che nel periodo preso in esame, tra il 1994 e l’inizio del 2014, la Santa Sede non aveva fatto praticamente nulla di concreto per evitare che dei bambini venissero stuprati da educatori, confessori, insegnanti, catechisti, seminaristi etc. in tonaca.

Non solo. Ogni tre-cinque anni è previsto un “tagliando” per fare il punto ed eventualmente concordare nuove strategie di prevenzione e contrasto del crimine. Ma la Santa Sede, dopo un primo report presentato il 2 marzo 1994 (con 18 mesi di ritardo rispetto al dovuto: 1 settembre 1992), non aveva fatto pervenire più nulla a Ginevra. Fino a quando, appunto – sulla base delle denunce di alcune associazioni internazionali che si occupano dei diritti dei “sopravvissuti” (così si definiscono le vittime ancora vive, della pedofilia clericale) – nell’estate del 2013 non è stata la stessa Commissione a sollecitare papa Francesco affinché producesse le prove per scagionare la Chiesa da pesantissime accuse di negligenza e complicità. In pratica, né Giovanni Paolo II, né Benedetto XVI avevano ritenuto di dover rispettare l’impegno (né di preoccuparsi più di tanto per l’incolumità dei minori che frequentavano ambienti gestiti da religiosi). Non un rigo arrivò nella sede Onu della Commissione dopo lo scandalo di….

L’inchiesta di Federico Tulli prosegue su Left in edicola


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Il medico delle donne per presidente

Da bambino aveva deciso di diventare medico per guarire le persone che le preghiere di suo padre, pastore protestante, non riuscivano a salvare. È nata così la vocazione del “dottore che ripara le donne”, il congolese Denis Mukwege, che nel ‘99 ha fondato il Panzi Hospital a Bukavu, Sud Kivu, dove ha già curato più di 50mila donne vittime di violenza sessuale. Oggi che il Congo soffre per l’ennesima crisi – con il conflitto che devasta la regione centrale del Kasai e gli scontri, mai del tutto sedati, in Nord e Sud Kivu – l’incertezza per la situazione politica è ancora più pesante e forse toccherà proprio al Mukwege l’ingrato compito di convincere il presidente ad andarsene. Joseph Kabila infatti si ostina a rimanere al potere nonostante il suo mandato sia scaduto nel dicembre 2016 e sono molti, in Congo, a chiedere che sia proprio il “medico delle donne” a gestire un governo di transizione che riporti la legalità nel paese in attesa che si tengano le elezioni, in teoria previste per la fine dell’anno ma di fatto del tutto improbabili per i ritardi della Commissione elettorale, i disordini interni e per le manovre dello stesso Kabila che, al governo dal 2001, vorrebbe mettere mano alla Costituzione per potersi ricandidare. Mukwege non si sbilancia ma è possibile che presto debba mettersi al servizio del suo paese, come ama ripetere, non soltanto come medico ma anche come politico.

Qual è attualmente la situazione nel suo paese?
«In Congo assistiamo ad uno stallo: non c’è stato il progresso che ci saremmo potuti aspettare con la fine della guerra e, nonostante l’accordo di pace sia stato firmato nel 2002, la gente continua ad essere assassinata. Di fatto non è cambiato niente. In particolare quello che mi tormenta è che non siamo riusciti a mettere fine alle violenze sessuali: uno stupro devasta la vita di una donna e quante sono in questa condizione e non riescono a dirlo? Non c’è giustizia per le vittime: nel mio paese regnano solo la menzogna e la negazione del dramma».
La chiamano “l’uomo che ripara le donne”: un riconoscimento e una responsabilità molto impegnativi. .

«E’ qualcosa che non ho cercato ma che mi si è imposto e a cui non ho potuto sottrarmi. Sono di formazione ginecologo e ostetrico e durante il mio lavoro ho potuto verificare che le mie pazienti avevano ferite estremamente gravi: all’inizio pensavo che si trattasse di una situazione passeggera, ma con il tempo ho dovuto rendermi conto che ero di fronte a un problema sistematico. Non ho potuto fare altro che prendere in carico le vittime delle violenze sessuali: le donne infatti non avevano solo ferite fisiche ma anche psicologiche, soffrivano di esclusione sociale e avevano bisogno di giustizia; per questo a Bukavu abbiamo concepito un modello per sostenere le donne da tutti i punti di vista, dalle cure mediche all’assistenza legale».

Lei ha ricevuto nel 2014 il Premio Sacharov per il suo impegno. E’ stato soltanto un gesto formale o l’Occidente supporta il suo lavoro?

«Ho sempre detto che un riconoscimento ha senso soltanto se aiuta a eradicare il male che si combatte, altrimenti non ha valore. Il premio Sacharov ha dato visibilità al problema, oggi sappiamo che quando cerchiamo di dare voce a chi non ce l’ha almeno troviamo degli interlocutori.

Ora dobbiamo chiedere alla comunità internazionale che si muova con decisione, come ha fatto per le armi chimiche e le mine antiuomo, e che metta al bando una violenza che coinvolge milioni di donne in tutto il mondo e che viene usata come arma di guerra, perché distrugge l’integrità fisica e psichica della donna ma anche i legami famigliari e sociali di intere comunità».

Si può fare un lavoro di prevenzione?

«L’educazione contro la violenza sessuale va fatta molto presto, intervenendo per smontare gli stereotipi di genere. Per esempio, se dici a un ragazzino “non piangere come una bambina”, insegni ai maschi a non mostrare le emozioni; stiamo continuando a perpetrare questa educazione patriarcale, non solo in Africa ma ovunque, anche in quei paesi in cui l’eguaglianza fra i sessi sembra raggiunta. L’educazione sessuale è fondamentale: se rendiamo il sesso un tabù e non ne parliamo, i nostri figli troveranno su internet quello che cercano. Il silenzio è alleato degli stupratori; da un lato chi violenta sfrutta a suo vantaggio il fatto che non se ne parli, mentre la vittima tace per vergogna e paura di essere discriminata. In Congo abbiamo un grave problema di impunità dello stupratore, perché la donna deve provare di aver subito violenza e molte vittime non osano farlo perché se denunciano vengono escluse dalla comunità».

Lei ha subito un attentato nel 2012 ed è tuttora sotto protezione dei caschi blu dell’Onu. Come vive questa condizione personale?

«È molto dura, non lo nego, ma l’enorme capacità di reazione delle donne non mi permette di far altro che combattere al loro fianco. Soffrono di dolori inimmaginabili ma quando si risvegliano da un’operazione non mi chiedono mai “che cosa sarà di me?”, il loro primo pensiero va sempre ai bambini, o al marito. Le donne sono capaci di vivere per gli altri, mentre la stessa cosa non si può dire dei maschi. Hanno un coraggio eccezionale: me ne sono andato dal mio paese quando mia figlia è stata rapita ma loro hanno venduto frutta e verdure per raccogliere i soldi del biglietto e farmi tornare. Che cosa potevo fare di fronte a questo?».

Quante donne ha curato nella sua carriera?

«Ad oggi all’ospedale di Panzi abbiamo curato almeno 50mila donne ma questo non sembra scuotere per nulla l’opinione pubblica. In ogni caso non amo fare conti perché sui numeri si può fare speculazione e inoltre cambiano ogni giorno: non sono le cifre che devono spingerci a reagire ma la consapevolezza che dietro un numero c’è un essere umano. La cosa che mi fa più male è quando curo delle bambine poco più che neonate, quando devo intervenire sul perineo distrutto di bambine di dodici, diciotto mesi: la più piccola che ho operato ne aveva appena sei. Per me sono queste le situazioni più difficili da affrontare».

Ha un successore? Qualcuno che segue il suo esempio?

«C’era un ginecologo che aveva la mia stessa formazione (Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, Sud Kivu, ndr); un medico come me. E’ stato assassinato a fine aprile».

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L’intervista di Federica Tourn al Nobel Denis Mukwege è stata pubblicata su Left del 28 ottobre 2017


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Elezioni in Sicilia, l’isola in cerca di un voto pulito

CLAUDIO FAVA VICEPRESIDENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA

Sfiducia: è la parola più ricorrente in vista delle elezioni regionali siciliane del 5 novembre, un sentimento talmente diffuso da far temere che, come già nel 2012, la maggioranza dei cittadini dell’isola possa astenersi. «Come cinque anni fa, la Sicilia potrebbe ritrovarsi con un governatore votato dal 15 per cento degli aventi diritto», dice Totò Cernigliaro, presidente della cooperativa Solidaria di Palermo, ideatrice del Premio Libero Grassi e da oltre un ventennio attiva nella promozione della cultura antimafia. Cinque anni fa, infatti, Rosario Crocetta, fu eletto con poco più di 600mila voti su quattro milioni e mezzo di aventi diritto, il 53 per cento dei quali preferì disertare le urne. «Che credibilità può avere un simile presidente della Regione? – chiede, retorico -. Però è possibile che succeda ancora, se consideriamo che l’operato di Crocetta e dei suoi due predecessori, Cuffaro e Lombardo, è stato meno che sufficiente. No, non mi aspetto nulla di buono», puntualizza, sconsolato.

Cinquantottomila disoccupati in più nel 2016, undicimila giovani emigrati, economia agonizzante, povertà in aumento. E ancora: sono raddoppiati i tempi d’attesa delle prestazioni sanitarie, le strutture scolastiche sono fatiscenti, i fondi destinati alla cultura sono stati dimezzati, strade e autostrade sono inadeguate, i treni soppressi, i ponti crollano come fossero di cartapesta. E le mafie a condizionare economia, società e politica. A ogni livello. Basti pensare che Cuffaro e Lombardo sono stati condannati (il secondo è in attesa della Cassazione) per rapporti coi clan.

«Sono sfiduciato, i siciliani sono sfiduciati perché non si riconoscono in questi politici, ormai gli stessi da trent’anni», scandisce l’editore e poeta Angelo Scandurra. «Sfiducia», gli fa eco Emanuele Feltri, il giovane contadino della Valle del Simeto da anni bersagliato dalla mafia dei pascoli. «Non sono ottimista», ammette Giovanni Caruso del Gapa di Catania, l’associazione che da trent’anni opera nel quartiere San Cristoforo, dove sono insediati i due clan di Cosa nostra etnea, quello dei Santapaola-Ercolano e quello dei Mazzei. Analoga sfiducia permea le parole di Nadia Furnari, la caparbia attivista di Milazzo che nel ’93 ha fondato l’Associazione nazionale antimafie Rita Atria, la giovane testimone di giustizia suicidatasi una settimana dopo l’uccisione del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della scorta, considerata la settima vittima della strade di via D’Amelio.

«In Sicilia – esordisce Furnari – non si investe in sviluppo, in infrastrutture, si preferisce continuare a militarizzare il territorio e favorire le trivellazioni petrolifere, cioè si privilegiano scelte economiche improduttive a discapito della peculiarità dei territori a vocazione agricola e turistica». «Sì, potremmo vivere di turismo – concorda Scandurra – ma preferiamo cementificare le coste e distruggere splendidi monumenti naturali come la Scala dei Turchi, nell’agrigentino». Angelo Scandurra vive a Valverde, piccolo comune a nord di Catania di cui è stato sindaco dal 1994 al 2003, «il sindaco poeta» lo chiamavano. «Amministrare è un impegno gravoso ma, tutto sommato, facile – sostiene -, reso complicato dai giochi di potere, dal fatto che si opera per il partito invece che per i cittadini, o per se stessi. Pontificano ma non fanno e, sciascianamente, mi fanno temere che noi siciliani siamo irredimibili. Dicono che ci sia la crisi della politica, a me pare che la crisi riguardi la qualità del personale politico».

Un aspetto, quest’ultimo, sul quale concorda Cernigliaro: «Venticinque anni fa ci hanno detto che il problema era la legge elettorale proporzionale con le preferenze, oggi mi pare evidente che il problema fosse e sia la qualità del personale politico, che nel frattempo è peggiorata grazie all’uninominale e all’elezione diretta incentrata sulla concezione di “un uomo solo al comando”. Che, come nell’ultima legislatura, non avrà una maggioranza all’Ars e, per governare, dovrà affidarsi ai “traditori”, ad eletti che cambiano schieramento, perché ormai i partiti contano poco, contano i singoli, mossi dal principio “Io mi candido”». Cinque anni fa, il centrosinistra elesse 30 dei 90 componenti dell’Ars, ma dopo un anno le migrazioni dal centrodestra avevano consegnato una risicata e variegata maggioranza a Crocetta. Prevedibile che anche stavolta il copione si ripeta. Le premesse ci sono tutte: «Il caso più evidente – riprende Cernigliaro – è un candidato catanese che due mesi fa tappezzò la città di manifesti con la sua faccia e l’annuncio del proprio sostegno a Micari, del centrosinistra, ma dopo la presentazione delle liste li ha sostituiti con altri per Musumeci, del centrodestra». Il caso citato da Cernigliaro è quello di Riccardo Pellegrino, consigliere comunale a Catania e candidato con Forza Italia, che proprio Musumeci, da presidente della Commissione antimafia regionale, ha menzionato nella sua relazione su mafia e politica inviata anche all’Antimafia nazionale, a causa di un fratello (Gaetano) arrestato per mafia e per gli stretti rapporti d’amicizia con Carmelo Mazzei, studente di teologia e figlio del boss Nuccio.

Era il 30 aprile 2014 quando, in seguito alle inchieste del quotidiano online LiveSicilia sul clan Mazzei, Pellegrino accompagnò il figlio del boss nella redazione coordinata dal giornalista Antonio Condorelli, che intanto aveva allertato la Guardia di Finanza. «Mi sono servito di Riccardo… Sono il figlio del signor Mazzei di cui parlate sul giornale, del latitante», si legge nell’articolo dello stesso Condorelli. Pellegrino, dal canto suo, ricostruisce il giornalista, «auspica il ritorno dei vecchi boss nei quartieri di Catania e si dichiara orgoglioso di vivere a San Cristoforo, “il quartiere storico dei Santapaola”, sottolinea, “dei Santapaola come dei Mazzei”», si corregge il consigliere comunale indicando il proprio accompagnatore. Poi, riferendosi al quartiere, aggiunge: «Noi abbiamo soltanto la microcriminalità organizzata, non si può parlare più di spessore mafioso, perché se in campo ci fossero state persone di spessore, mafiosi, guarda che tutto questo manicomio non c’era».

Musumeci aveva segnalato quattro consiglieri comunali etnei, nella sua relazione, ora tre sono candidati all’Ars nelle liste che lo sostengono, con altri «impresentabili», uno dei quali, Antonello Rizza, sindaco di Priolo (Siracusa) di Forza Italia, è stato arrestato a metà ottobre per una vicenda di appalti truccati che va ad aggiungersi ai quattro procedimenti giudiziari che già lo coinvolgevano.

«La nostalgia per le regole mafiose esternata da Pellegrino», rileva Giovanni Caruso, che col suo Gapa opera proprio a San Cristoforo, centro storico di Catania, «ci dice quale sia qui la posta in gioco, in un quartiere in cui lo stato sociale lo garantiscono i clan, per una sorta di delega non scritta». Povertà, disoccupazione, evasione scolastica record, emergenza abitativa, microcriminalità, degrado urbano e voto di scambio. Quest’ultimo, come contropartita del welfare.

Se dalla città ci spostiamo in campagna, verso la Piana e la Valle del Simeto, la sostanza dei fatti non cambia o muta di poco: istituzioni assenti e mafia. Rurale, non urbana, ma sempre mafia. Emanuele Feltri lo sa, in passato ha subito minacce, intimidazioni, raccolti bruciati, ma preferisce non parlarne, preoccupato perché «la nostra attività rischia di fallire: siamo agricoltori, contadini, ma il settore è volutamente abbandonato a se stesso a causa di politiche europee e nazionali che favoriscono le multinazionali e il latifondo». Malgrado ciò, con altri contadini come lui è riuscito a creare una rete di condivisione e auto-organizzazione e rivendica il concetto di «sovranità alimentare e la possibilità di decidere le proprie politiche agricole». Per meglio farsi comprendere fa l’esempio del grano canadese che, in seguito all’accordo di libero mercato con la Ue rischia di soppiantare il nostro, malgrado l’acclarata tossicità. «C’è bisogno di una diversa politica dello sviluppo: il 75 per cento dei prodotti alimentari arriva dall’estero; c’è bisogno di infrastrutture, i Consorzi di bonifica non ricevono più contributi statali e non erogano più l’acqua, che siamo costretti ad acquistare dai privati, a prezzi proibitivi; i fondi Ue e i Piani di sviluppo rurale sono pensati per multinazionali e latifondisti che, fra l’altro, sfruttano i migranti facendoli lavorare in nero. Qui ormai c’è da lavorare anche culturalmente per risvegliare nei contadini quella coscienza di classe che non esiste più, ma che – conclude Feltri – è fondamentale per non restare isolati».

«Quando vogliono, le cose le fanno – sottolinea Nadia Furnari -, basti pensare a come, in occasione del G7 di Taormina, abbiano realizzato un eliporto in pochi giorni, mentre le strade siciliane restano mulattiere. L’acqua, malgrado la vittoria referendaria, resta in mano ai privati e la Regione nemmeno fiata sullo scandalo dei beni confiscati», gestiti in maniera personalistica (com’è successo a Palermo), o rimasti nella disponibilità dei mafiosi a cui erano stati sequestrati (com’è emerso in una recente inchiesta della procura di Trapani). «Bisogna svincolare l’economia dalle mafie – esorta Furnari -, renderla pulita e libera. Sotto questo aspetto, le elezioni potrebbero segnare una svolta: se le persone mettono una croce sulla scheda coi criteri di sempre, poi non possono lamentarsi se i propri figli sono costretti a emigrare».

Lo Speciale SICILIA di Sebastiano Gulisano è tratto da Left n.43

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Josè “Pepe” Mujica: «Esiste un tempo per lavorare, e un tempo per vivere»

Durante il regime dittatoriale che è stato al potere in Uruguay tra il 1973 e il 1985, José Alberto Mujica Cordano che all’epoca era uno dei capi tupamaros, il Movimento di liberazione nazionale di ispirazione marxista-leninista attivo dagli anni 60, è stato detenuto in condizioni disumane, torturato e isolato dal mondo esterno insieme a diversi suoi compagni di lotta. Con il ritorno alla democrazia, divenuto leader del Movimento di partecipazione popolare, il raggruppamento maggioritario del Fronte Ampio (la sinistra uruguaiana), dopo essere stato eletto deputato e senatore è stato tra il 2005 e il 2008 ministro dell’allevamento, agricoltura e pesca. Sempre nel 2005 ha sposato l’attuale vice presidente della Repubblica e leader storica del Mpp, Lucía Topolansky. Il 30 novembre 2009 ha vinto le elezioni presidenziali. Alla fine del mandato è stato nuovamente eletto senatore ed è risultato il più votato. Vive in una piccola fattoria a Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo, la stessa in cui la nostra collaboratrice, l’avvocato Gabriela Pereyra, ha realizzato questa intervista esclusiva e scattato l’immagine in apertura.

Come vede lo stato di salute della “società del benessere”?

Siamo in un vortice. L’innovazione tecnologica sempre più veloce spinge sul pedale della produttività e cambia le forme di lavoro. E va di pari passo con una impressionante tendenza alla concentrazione della ricchezza. L’economia cresce ovunque, con enormi contraddizioni ma cresce. A livello globale la ricchezza aumenta ma è sempre più concentrata nelle mani di pochi, in primis nelle società più sviluppate. Ed è enorme la distanza tra chi è al vertice di questa piramide e il resto della società. Tutto ciò genera una sensazione di insicurezza e di frustrazione in ampi settori anche delle classi medie, non solo in quelle più umili. Questa incertezza è alla base del rigurgito di nazionalismi a cui stiamo assistendo. Avanza la destra che a sua volta alimenta la paura. Basta pensare a coloro che hanno votato Donald Trump. Contemporaneamente, nei Paesi avanzati, c’è uno smantellamento delle politiche sociali, indispensabili per garantire equità e benessere diffuso, per non dire della tendenza che notiamo ovunque a riformare il diritto del (e al) lavoro. Cercando di renderlo sempre più flessibile e meno tutelato, togliendo ogni sicurezza alle persone. E poi c’è il marketing. Un’arma formidabile per far aumentare nelle grandi masse la sete di consumo di novità. Uno strumento che confonde e ci fa illudere che la realizzazione di un’identità umana consista nel comprare cose nuove. Questo modello ormai è diffuso dappertutto. Con il risultato di un colossale indebitamento della gente comune che si trova a vivere alla continua ricerca di soluzioni economiche per far fronte alle rate. Anche questo produce disagio sociale. Togliendo peraltro tempo per gli affetti, per le relazioni personali, per i figli.

Come pensare e realizzare un nuovo modello di “benessere”?

Penso che confondere le persone facendo credere che la crescita economica sia automaticamente garanzia di benessere per tutti sia estremamente fuorviante e pericoloso. È necessario iniziare almeno a prendere in considerazione come la gente si sente. Bisogna cominciare, a livello politico, a considerare se i cittadini abbiano tutti gli strumenti a disposizione per realizzarsi come persone e non solo come consumatori. Non si tratta certo di fare apologia della povertà, né di tornare all’antico. Si tratta di capire che ciò che si sta sprecando non sono solo energia e mezzi materiali, ma tempo di vita e questo tempo non lascia spazio per la soddisfazione delle esigenze più personali, intime, degli esseri umani. Avere ….

 

L’intervista esclusiva di Gabriela Pereyra a Josè “Pepe” Mujica prosegue su Left in edicola


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Sinistra, uguaglianza e laicità. La versione di Pepe

epa04119277 Uruguayan President Jose Mujica arrives at diplomatic academy to meet with Chilean President-elect Michelle Bachelet, in Santiago, Chile, 10 March 2014. Mujica will attend the investiture ceremony of Bachelet on next 11 March. EPA/Mario Ruiz

Non ci rassegniamo. Abbiamo perso Speranza – inteso come Roberto, leader di Mdp – che ha sostanzialmente rinnegato la propria scelta di uscire dal Pd mercanteggiando (peraltro senza successo) sull’orrido Rosatellum.

Abbiamo perso Pisapia, apprezzato sindaco di Milano, che già, ancor prima di chiamarsi fuori dalla costruzione di un nuovo partito di sinistra, ci aveva deluso scendendo in campo a favore della controriforma renziana della Costituzione. Potremmo continuare, ma i tatticismi di un centrosinistra autoreferenziale che ha abdicato all’antifascismo non ci appassionano.  (Lo stesso gesto, certamente importante, del presidente del Senato Grasso di uscire dal Pd,  avrebbe avuto ben altro senso se prima si fosse opposto all’imposizione al voto di fiducia su una legge elettorale). 

Così, per dipanare il nostro filo di ricerca su una nuova sinistra degna di questo nome, continuiamo a  tenere accesa l’attenzione guardando anche a quel che succede oltre confine. Per questo siamo andati a Londra per vedere come un decano della politica, Jeremy Corbyn, sia riuscito a riportare dalla parte giusta il Labour party risvegliando l’interesse dell’elettorato più giovane. Siamo andati a Berlino per capire come la quarantenne leader di Die Linke, Katja Kipping, in un drammatico quadro di avanzata della destra xenofoba, sia riuscita a ottenere la fiducia del ceto più colto. E ancora: siamo andati a Barcellona raccogliendo il messaggio di alternativa democratica al secessionismo e al franchismo di ritorno di Rajòy lanciato da Podemos e dal sindaco, Ada Colau. Un viaggio che continueremo nelle prossime settimane in Portogallo dove un governo di sinistra, che non ha messo alla porta gli elementi più radicali, dal 2015 ha messo a segno riforme importanti. Avremo occasione di parlarne.

In questo nuovo numero di Left, non contenti di guardare solo all’Europa, siamo andati a Montevideo, per incontrare il senatore ed ex presidente della Repubblica uruguaiana Josè “Pepe” Mujica.

Storico leader dei Tupamaros, con alle spalle lunghi anni passati in carcere (in isolamento, sottoposto a continue torture), durante il suo mandato, dal marzo 2010 al marzo 2015 e ancora oggi, Mujica si è fatto portavoce di una visione alta di sinistra. Che lotta e si schiera senza tetennamenti contro le disuguaglianze, per la redistribuzione della ricchezza, per l’affermazione dei diritti civili di tutti. Ma non solo. Ciò che rende modernissima la visione politica del “Pepe” è che, oltre alla soddisfazione dei bisogni, si interessa anche alle esigenze più articolate e profonde di realizzazione personale dei suoi concittadini. Criticando il turbo capitalismo e il sogno nordamericano basato su una felicità paradossale incentrata sul consumo, Mujica mette al centro la persona nel suo complesso psico-fisico. Rifiuta il modello antropologico dell’Homo oeconomicus mosso da un’arida ragione strumentale che punta solo al profitto.

Nella visione di sinistra radicale di Mujica, centrale è la qualità delle relazioni umane, la dimensione sociale, degli affetti. Non si vive solo per lavorare, dice nell’intervista esclusiva concessa alla nostra collaboratrice, l’avvocato uruguaiano Gabriela Pereyra. La possibilità di costruire una nuova sinistra passa da una cultura politica basata su una concreta idea di uguaglianza di tutti gli esseri umani. Mettendo al centro la conoscenza, la formazione e la ricerca. Ciò che ci piace di Mujica e che ha il coraggio di parlare di “tempo liberato” dal lavoro da dedicare ai rapporti, alla sessualità, alla complessa dialettica fra uomo e donna. Non a caso ha lottato per i diritti delle donne, per l’istruzione di massa, e per la progressiva e sempre maggiore secolarizzazione della società. Molto c’è ancora da fare per condizioni di vita più favorevoli nella piccola Repubblica uruguaiana ma è innegabile che – mentre sull’America latina tornano a soffiare venti di destra – essa rappresenti un “laboratorio” di democrazia importante.

Ci colpisce anche che la parola laicità, desaparecida nella politica italiana, riecheggi con vigore nei discorsi di Mujica, che ha contribuito alla legalizzazione dell’aborto. Sarà questo uno dei primi impegni della giovane premier neozelandese, la laburista Jacinda Ardern, che si è ribellata alla propria famiglia di religione mormone e si dichiara agnostica. Sono queste le storie che vogliamo raccontare, immaginando, lavorando per una nuova sinistra. I fantasmi ulivisti, gli accordicchi con i democristiani di ieri e di oggi, per noi, possono ben ammuffire.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Il sogno cinese di Xi Jinping

TOPSHOT - People walk past a poster featuring Chinese President Xi Jinping with a slogan reading "Chinese Dream, People's Dream" beside a road in Beijing on October 16, 2017. As Chinese leader Xi Jinping prepares to embark on a second five-year term this week, the impulsive leaders of North Korea and the United States could spoil his party. / AFP PHOTO / GREG BAKER (Photo credit should read GREG BAKER/AFP/Getty Images)

Come sarà la Cina del 2050? Sarà moderna, socialista, moderatamente prospera, armoniosa, bella e democratica (inteso non secondo i canoni occidentali). L’orizzonte temporale e l’immagine della Repubblica popolare che si riprende un ruolo centrale sullo scenario internazionale sono stati tracciati dal presidente Xi Jinping in apertura del 19esimo congresso del Partito comunista. Nella Grande sala del popolo affacciata su Piazza Tian’anmen, teatro dei grandi appuntamenti politici del Paese, 2280 delegati, tra cui i due predecessori di Xi, Jiang Zemin e Hu Jintao, hanno ascoltato e applaudito le tre ore e mezza di discorso del segretario generale pronto al suo secondo mandato di cinque anni.

L’anziano Jiang, a 91 anni suonati e tra qualche sbadiglio, è stato l’unico che in qualche modo ha rubato la scena al capo di Stato, il cui status ormai si avvicina a quello riservato prima di lui soltanto ai due timonieri del passato, Mao Zedong e Deng Xiaoping.

La Cina delineata da Xi sarà però, soprattutto, una potenza, sotto ogni aspetto: scientifico e tecnologico, marittimo, commerciale, culturale, educativo e, da ultimo, anche nel campo dello sport (non necessariamente soltanto nel calcio, sul quale, ora di meno, negli ultimi anni Pechino ha investito tempo e soprattutto milioni).
Uno dei termini più ricorrenti del torrenziale discorso del presidente è stato appunto “qiangguo”. Una locuzione ripetuta 19 volte in duecentodieci minuti e che rimanda a tutto il dibattito storico dell’incontro tra la Cina e i Paesi occidentali nel corso dell’Ottocento, quando per l’impero di mezzo iniziò quello che è considerato “il secolo dell’umiliazione”. Il sogno cinese che Xi Jinping ha voluto infondere ai cittadini della Repubblica popolare altro non è quindi che una sorta di risorgimento nazionale, con il quale l’attuale leadership comunista ha messo da parte le cautele dei predecessori, gli stessi che durante il passato decennio dorato di crescita economica a doppia cifra, continuavano a descrivere la Cina come un Paese in via di sviluppo…

 

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L’opera militante di Tullio De Mauro. A lui intitolata una biblioteca a Roma

Il 27 e il 28 ottobre, in occasione della intitolazione della biblioteca Villa Mercede a Tullio de Mauro, si tiene una due giorni di studi sull’opera del grande linguista scomparso, a cui partecipano studiosi come Solimine e fortemente voluto dal presidente delle Biblioteche di Roma Paolo Fallai ricordando il legame di De Mauro come il Municipio II dove ha vissuto impegnandosi attivamente per realizzare «un progetto volto a garantire a tutti il diritto alla cultura e all’informazione». Con la consapevolezza che «niente come la lettura di un libro, nell’apparente quiete e nel silenzio può dischiudere in modo imprevedibile la vista di nuovi orizzonti di vita». L’omaggio allo studioso della lingua italiana, che è stato ministro dell’Istruzione, presidente della Fondazione Bellonci, ma anche grande divulgatore ( nonché primo Presidente delle Biblioteche di Roma) si dipana in una serie di tavole rotonde animate. Dalle 15 alle 18 del 27 ottobre si discute di Tullio De Mauro divulgatore prima della cerimonia di intitolazione della biblioteca a cui partecipano il sindaco Virginia Raggi e il vice sindaco Luca Bergamo, oltre a Paolo Fallai, Fiorella Farinelli, Igino Poggiali, Francesca Del Bello, Giovanni Solimine e Giuseppe Laterza. Sabato 28 ottobre, invece, Letture ad alta voce a cura della Biblioteca Centrale Ragazzi, con Pino Grossi e l’incontro del Circolo di Lettura della Biblioteca per finire con La lettera sovversiva: il potere delle parole, presentando il libro di Vanessa Roghi edito da Laterza

Del resto l’amore di Tullio De Mauro per la lingua italiana non si è tradotto “solo” in un’opera monumentale come il vocabolario che porta il suo nome, ma  ha portato lo studioso anche a rimboccarsi le maniche impegnandosi, in prima persona, a  difendere la scuola pubblica, la ricerca, la cultura umanistica (senza svalutare quella scientifica).  Lo ha fatto da accademico, in cinquant’anni di insegnamento universitario, come polemista, denunciando l’analfabetismo di ritorno dovuto all’affossamento dell’università e della scuola pubblica, che il professore ha cercato di difendere in ogni modo, anche come ministro dell’Istruzione  dal 2000 al 2001.  L’eredità che Tullio De Mauro, scomparso oggi all’età di 84 anni, è enorme.  La sua tenacia e la sua autorevolezza  nel portare avanti battaglie per lo svecchiamento dei programmi scolastici e dell’educazione linguistica, purtroppo, non hanno avuto ascolto da parte della classe di governo italiana, da anni impegnata nel sottrarre risorse alla scuola e all’università. Lui però non si stancava di ripetere che«spendere in scuola e in educazione è un investimento per la democrazia», come ha scritto in Parole di giorni un po’ meno lontani (il Mulino, 2012).

Intellettuale finissimo, Tullio De Mauro pensava che la cultura non dovesse essere elitaria,  ma  alta, diffusa e condivisa. Alla critica di  un’«accezione restrittiva» del termine cultura aggiungeva la denuncia di una cultura  italiana ancora ideologica, troppo dominata da quello che fu definito da Prezzolini come partito degli intellettuali.  Negli ultimi anni, in particolare, De Mauro era molto preoccupato per l’analfabetismo di ritorno:  più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi 15 milioni sono semianalfabeti, altri 15 milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione, denunciava.  Ed era sempre più preoccupato per lo scadimento progressivo dei programmi scolastici  non in grado di stimolare lo sviluppo della  coscienza storica e del pensiero critico necessari alla formazione intellettuale e civile delle giovani d’oggi, in un’orizzonte sempre più internazionale e globalizzato.  Anche per questo sosteneva, con Martha Nussbaum, l’importanza formativa della cultura umanistica, senza svalutare – come accennavamo – il, sapere tecnico e scientifico. «Occorre fare attenzione – avvertiva il professore – non si tratta di negare il nesso fra scuola e sviluppo economico, come fa chi pensa e dice che «con la cultura non si mangia». Si tratta di leggerlo nella complessità delle vicende educative e storiche».   E non smetteva di ribadire l’importanza della secolarizzazione come volano d sviluppo: «Nel 1950 la popolazione mondiale aveva un’istruzione media di 3,2 anni (quasi esattamente il dato italiano del tempo) – ha scritto De Mauro –  nel 1980 di 5,3 anni, nel 2010 di 7,8 anni. Un progresso enorme».

Nato nel 1931 a Torre Annunziata, Tullio De Mauro, si laureò in Lettere classiche a Roma nel 1956.  Ha insegnato all’Orientale di Napoli e per lunghi anni è stato docente di Glottologia a  l’Università La Sapienza di Roma. Moltissime le sue opere, a cominciare dalla Storia linguistica dell’Italia unita, pubblicata da Laterza nel 1963. Ma soprattutto si deve a lui l’ideazione e la direzione del Grande Dizionario Italiano dell’Uso, in sei volumi pubblicato da Utet nel 1999, che già nel 2000 fu integrato da un volume di addenda comprendente 3.700 parole nuove. Tutto il suo lavoro lessicografico si situa nell’orizzonte mobile della lingua viva, cercando i lemmi più innovativi. Ma importante è stato anche il suo lavoro di ricerca sul passato. Nel 2006, per esempio,  pubblicò per i tipi de Il Mulino Parole di giorni lontani dedicato alla lingua della sua infanzia.  Un libro in cui riemergevano memorie di quando era bambino.  In quel volume, De Mauro ricorda  divertito che da piccolo pensava che «perbenito mussolini, eja eja alalà» fosse  il participio passato di io perbenisco, tu perbenisci e che «il frutto del seno tuo Gesù» potesse avere a che fare con il seno e coseno che riempivano i pomeriggi di studio del fratello più grande.  Capire le parole per lui era una passione , poi diventò una professione. «Linguisti non si nasce, si diventa».

L’evasore miracoloso

Pope Francis arrives to lead his weekly general audience, in St. Peter's Square, at the Vatican 25 October, 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Ancora una volta papa Francesco ha ribadito che il buon cristiano deve pagare le tasse. Dunque come cittadini italiani possiamo ben sperare che sia sanato il debito nei confronti del nostro fisco, contratto dai cosiddetti “alberghi religiosi” i quali, in virtù della promiscuità abitativo-confessionale, non pagano Imu, Tasi, Tarsi (e talvolta neanche Ires), con una evasione che nella sola Capitale è stimata in venti milioni di euro all’anno. Basterebbe che Jorge Mario Bergoglio, come gli andiamo chiedendo da tempo, emanasse un “motu proprio”, obbligando quelle strutture di proprietà del Vaticano a pagare le tasse italiane proprio come fanno o dovrebbero fare gli albergatori autoctoni. A tale scopo, sarà sufficiente che i chierici d’Oltretevere aprano il forziere dove conservano la tanta moneta ricevuta proprio dall’Italia, dai Patti Lateranensi del 1929 fino a oggi: un tesoro inestimabile, considerato che solo negli ultimi tempi l’esborso annuo del nostro Stato verso l’enclave vaticana supera i sei miliardi di euro. Se daranno a Cesare quel che è di Cesare, a loro rimarrà ancora una bella sommetta di quel che, a dirla tutta, apparterrebbe a dio.

Così fanatismo e social hanno prodotto l’odio contro i Rohingya

epa06261293 Rohingya children carry ropes and plastic covers as relief goods to their makeshift tent near at the Thangkhali camp, in Coxsbazar, Bangladesh 12 October 2017. United Nations High Commissioner for Refugees said on 10 October that around 11 thousand Rohingyas crossed over into Bangladesh in a single day in a fresh surge of refugees fleeing an ongoing military offensive in Myanmar's Rakhine state. More than half a million Rohingyas, a Muslim minority in Myanmar mainly living in the Rakhine province, have fled to neighboring Bangladesh to escape the ongoing offensive by the Myanmar army that began on 25 August, after Rohingya rebels had mounted attacks on multiple government posts in the region. EPA/ABIR ABDULLAH

L’odio verso i Rohingya continua. Continua anche il loro esodo. Continuano a scorrere a fiumi anche le parole che istigano all’odio ed arrivano dalle bocche dei monaci arancioni. Parole che rimangono fisse e ferme sugli schermi dei computer, negli account dei loro social network.

«Loro se ne sono andati. Noi ringraziamo il Buddha per questo. Loro non appartengono a Myanmar, non sono mai appartenuti a questo posto. La loro fertilità gli ha fatto sopraffare la popolazione buddista. Hanno rubato la nostra terra, il nostro cibo, la nostra acqua». Queste sono le parole del monaco a capo del monastero di Sittwe, capitale dello stato di Rakhine. Quasi tutti i monaci buddisti della regione hanno iniziato da tempo la loro battaglia per disumanizzare agli occhi della popolazione l’etnia in fuga. Nei loro video estremisti li chiamano “serpenti” o “animali, peggiori dei cani” e così poi ripetono fuori dai templi i loro fedeli. Il monaco di Sittwe ripete quello che ha sentito dall’ispiratore di tutto questo.

Si riferiscono a lui con l’epiteto di “venerabile”, ma si chiama in realtà Ashin Wirathu. È da più di dieci anni che istiga all’odio, per questo è stato in prigione nel 2013, ma le cassette e le registrazioni con le sue prediche si diffondono di paese in paese, ancora più di prima. Wirathu è considerato l’ispiratore del genocidio rohinga, benedice Trump per il muslim ban e maledice la Merkel per aver accolto i profughi musulmani di guerra.

Per gli stupri, gli omicidi e gli incendi dolosi, per le persecuzioni, sono già 600mila i membri della minoranza musulmana scappati dall’ultimo agosto. Le Nazioni Unite, per la velocità e i numeri dell’esodo, hanno paragonato la fuga di questa etnia alla questione del genocidio in Rwanda. Tra le strade di Myanmar e di Rakhine però la questione è diversa. Incendi e morte, – gli appartenenti di questa minoranza -, se li provocherebbero da soli: insomma sarebbe un genocidio organizzato da loro stessi. «Sono i musulmani stessi ad uccidere i musulmani, in nessun caso i nostri militari bersagliano i civili» dice Win Mayat Aye, il ministro per il welfare della lega democratica di Rakhine.

Quella del monaco, quella del politico assomigliano alle versioni di tutti gli altri. Alla narrativa ufficiale del governo, che è molto simile a quella tenuta dall’opposizione, che non è diversa da quella che gli altri leader religiosi predicano. Una narrativa secondo cui i Rohingya non hanno diritto a vivere, perché non seguono la religione buddista, stanno tentando di conquistare le simpatie del resto del mondo con le loro sventure. I social media aiutano a coadiuvare, diffondere e rafforzare questa idea mentre le condizioni in cui versano i profughi si fanno disperate.

Il conflitto tra buddisti e musulmani nella regione risale alla seconda guerra mondiale, quando gli abitanti di Rakhine decisero di allearsi ai giapponesi, i Rohingya con i britannici. Quando la giunta militare prese il potere a Burma, – un altro nome di Myanmar -, con l’indipendenza nel 1948, rimase a governare fino al 1962 e cominciò a deprivarli dei loro diritti. Dopo le restrittive leggi sulla cittadinanza introdotte, i Rohinga cominciarono a diventare apolidi, uno dopo l’altro, fino al 1982. Il nome stesso che li definisce oggi gli è stato sottratto: il governo li chiama bengalesi, ovvero come i cittadini di un altro Stato. Chi li insulta pubblicamente, invece, si riferisce a loro con il dispregiativo di “kalar”, un epiteto usato per definire i musulmani di Myanmar. Il premio Nobel San Suu Kyi questa settimana, descrivendoli, ha usato la stessa espressione: “coloro che se ne sono andati in Bangladesh”.

Questo esodo, non fuori, ma dentro la regione, è una buona notizia, da pubblicizzare: «tutto quello che imparano nelle loro scuole è come uccidere, come attaccare. È impossibile vivere con loro nel futuro». È meglio che se ne vadano, «i kalar qui non sono benvenuti, sono violenti e si moltiplicano come pazzi, con tutte le loro mogli e figli», ha detto l’amministratore del villaggio Ma Kaw, dove non è rimasto neppure un rohinga. Si chiama Aye Swe e ha detto di non averne mai conosciuto uno in vita sua, ma «grazie a Facebook ho informazioni vere su Myanmar».