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Inizia la rivoluzione di Jacinda Ardern, la premier che piace a Corbyn

WELLINGTON, NEW ZEALAND - OCTOBER 24: Prime Minister-designate Jacinda Ardern speaks to media during a confidence and supply agreement signing at Parliament on October 24, 2017 in Wellington, New Zealand. After failing to win an outright majority in the general election on September 23, Labour entered into a coalition agreement with the New Zealand First and Greens parties. (Photo by Hagen Hopkins/Getty Images)

La premier neozelandese Jacinda Ardern ha stretto la mano al deputato populista Wiston Peters, con cui ha stipulato un accordo. Prima di oggi le ripetevano quotidianamente che era impossibile vincere: non solo per lei, ma per il suo intero partito, quello laburista. Prima di candidarsi alla guida della Nuova Zelanda, la Ardern ha rifiutato sette volte le proposte per correre alle elezioni. Quelle che ha poi vinto scatenando la “Jacindamania”.

In coalizione con il partito dei Verdi, la nuova leader renderà i kiwis, – i cittadini della Nuova Zelanda-, un popolo libero dalle due paure inconfessate che attanagliano il Paese da decenni: l’estrema povertà infantile e l’ineguaglianza finanziaria. Perché una democrazia senza equità è nulla, secondo la terza leader donna a capo del Paese, che, fino a poche settimane fa, era all’opposizione, in un partito che rischiava di essere dimenticato per sempre.

Jacinda dagli occhi azzurri ha fatto della determinazione e della semplicità una strategia da quando a 17 anni è entrata in politica. Solo tre mesi fa diceva che si sarebbe messa «a capo dei Labour solo se tutto il caucus del partito si fosse polverizzato all’improvviso» e lei sarebbe stata scelta come “sopravvissuto designato”. Invece oggi 24 ottobre comincia la sua rivoluzione.

Jacinda promette uguaglianza economica alla popolazione, ma pretende responsabilità ambientale dai cittadini, perché entro il 2050 il loro Stato deve diventare ad emissioni zero, grazie alla commissione climatica che sta per creare. Ha vinto così, promettendo battaglia a povertà, cambiamento climatico, al fine di favorire “rigenerazione regionale”. «La nostra priorità – ha dichiarato – è dare una casa decente a tutti, ripristinare il sistema sanitario, pulire i nostri fiumi. Tutti i nostri sforzi saranno compiuti per ridurre l’ineguaglianza».

Più trasporti pubblici, meno auto. Più investimenti alternativi, meno sfruttamento. Non ha solo belle parole, ma anche numeri nel suo programma di governo: venti dollari neozelandesi sarà il minimo garantito all’ora per chi verrà assunto. La riforma salariale è stata la prima cosa di cui ha scelto di occuparsi. Basta povertà. Basta case popolari in decadenza. Invece avanti verso il salario garantito e un’istruzione gratuita.

Quando i neozelandesi hanno scelto di fidarsi di lei, hanno dimostrato di saper non arroccarsi, non chiudersi in se stessi. Hanno rischiato puntando su quella che è diventata la leader più giovane degli ultimi 150 anni della loro storia. Che prima di essere il Capo dello Stato, era una dj. Che ha abbandonato la sua famiglia d’origine, perché religiosa e mormona. Che vive con un fidanzato surfista e un gatto. Che ha scelto di rispondere così ad un intervistatore che la provocava sulla questione dell’orologio biologico femminile, perché lei non ha figli: «è scandaloso che lei porga queste domande sessiste, nel 2017 le donne non sono più obbligate a rispondere a questa domanda. Né io, né alcuna donna sul suo luogo di lavoro».

Non arretra mai, non teme le stigmate della cattiva stampa, soprattutto quella americana, che la trova indigeribile e radicale. Per i modi bruschi, il Washington Post la paragona a Trump. In un mondo che procede seguendo dinamiche nebulose, lei marcia sempre più a sinistra lungo un percorso che ha reso chiaro a tutti. E a chi non piace la sua tabella di marcia, Jacinda indica la via d’uscita dal governo. Piace al canadese Trudeau, ma soprattutto a Bernie Sanders e Jeremy Corbyn, che le ha detto: «Jacinda, fallo per tutti noi, do it for us all». Noi, the many. E lei gli ha risposto «ok Jeremy, non mi dispiace fare la portabandiera dei progressisti del mondo».

Salviamo Ahmadreza Djalali, l’appello per il medico condannato a morte in Iran

Francesco aiuta il mio papà a tornare a casa": si rivolgono al Papa, attraverso Facebook, Amitis e Ariou, i figli di 14 e 5 anni di Ahmadreza Djalali, il medico iraniano arrestato a Theran con l'accusa di essere una spia. "Non lasciarlo morire in prigione", è l'appello a Bergoglio dei bambini, Torino, 2 Marzo 2017. ANSA/WEB/ ttp://www.cuspo.it/freeahmadreza/#prettyPhoto

La Repubblica iraniana lo vuole morto. Rimangono solo 20 giorni per liberarlo. Salvate Ahmad, salvate la scienza. Salvate chi salva gli altri: un medico, un luminare, un simbolo. Della ricerca contro l’oscurantismo, della solidarietà contro la spietata legge di Stato. Né giusta, né laica.

Ahmadreza Djalali è chiuso dentro una cella della prigione di Evin a Teheran, dove è stato arrestato ad aprile 2016, quando si era recato in patria su invito dell’università per un convegno medico. Appena messo piede nel suo Paese d’origine, è stato ammanettato e accusato di spionaggio. Il medico 45enne è ora condannato alla pena capitale. Lui, che ha dedicato tutta la sua vita a migliorare l’esistenza degli altri, specializzandosi in “medicina dei disastri”, per salvare quanti nascono, vivono e muoiono sotto le bombe e le macerie, nei teatri d’emergenza, nei luoghi del mondo in guerra.

Ahmadreza per lo stato islamista è “una minaccia nazionale, una questione di sicurezza”. L’isolamento a cui è sottoposto è quello brutale della sezione 209, dove per sette mesi non ha avuto diritto a niente, men che meno ad essere difeso o assistito da un avvocato. Lo sciopero della fame che ha iniziato a dicembre non è servito. Anzi, ha peggiorato molto le sue condizioni. Poi è stato costretto a firmare una confessione in calce a fogli che non ha mai letto.

La prima sentenza è stata pronunciata un anno e quattro mesi dopo il suo arresto, il 24 agosto, e la seconda è arrivata esattamente un mese dopo, dalla bocca del giudice del Tribunale della Rivoluzione. Per le autorità islamiste stava compiendo spionaggio per Israele, questo racconta Vida Mehrannia, sua moglie, e una fonte diplomatica italiana. Rimangono, dice Vida, solo 20 giorni per appellarsi contro la sentenza.

Spionaggio perché? Perché Ahmad ha collaborato con ricercatori di Stati che l’Iran annovera tra i suoi nemici, ha alleviato le sofferenze di altre nazioni dove la capacità ospedaliera è migliorata sotto i mortai grazie alle sue scelte, le sue azioni, le sue ricerche. È un attacco al mondo della medicina tutto, dicono dall’istituto Karolinska a Stoccolma, Svezia, dove lavorava. I suoi due figli piangono per la sua liberazione dalla capitale svedese, ma senza possibilità diplomatica di manovra. Si sono trasferiti lì dopo che con il padre hanno vissuto e studiato per due anni a Novara, Italia. Ahmadreza ha lavorato al Crimedim, il centro di ricerca in medicina dei disastri all’Università del Piemonte Orientale. Nonostante la campagna di solidarietà dell’Università per la sua liberazione, sostenuta da Amnesty, nulla è cambiato.

Oggi Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, insieme ad Elena Cattaneo, depositano un’interrogazione parlamentare sul caso del ricercatore. Perché un pezzo della sua storia è italiana e l’Italia dovrà chiedere spiegazioni allo stato di Rouhani, quello che Renzi, l’ultima volta che l’ha incontrato, ha detto essere un alleato “contro il terrorismo, per la stabilità, per la pace”. Senza spiegare di che pace si tratti e terrorismo compiuto da chi.

Per la campagna di solidarietà in Italia leggi anche qui

Shakib e Michal: Un nuovo umanesimo è possibile anche in Palestina

epa05592293 Isralei clasp hands as they rejoice during the march in Jerusalem to the residence of Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu during the conclusion of the Women Wage Peace march across Israel, 19 October 2016. About 1,000 women including many Israeli Arabs marched to demand Israel do more to promote peace. EPA/JIM HOLLANDER

Saper trasformare un dolore infinito, come è quello di un figlio ucciso in un attentato, in energia positiva e non in desiderio di vendetta. Una storia personale che s’intreccia con quella di una terra dove la parola dialogo sembra bandita, dove a prevalere sembra esse sempre e solo la logica della forza; una terra dove si erigono muri, non solo fisici ma mentali. Questa terra è la Palestina. Ma se è vero che una pace vera, giusta, duratura, tra pari, non può calare dall’alto o essere imposta con la forza, ma essa deve nascere dal basso, dall’incontro tra esperienze di vita che crescono nei due campi, allora di questa speranza, di questo coraggio Shakib Shanan ne è una testimonianza straordinaria. Shakib Shanan è un ex parlamentare laburista di origine drusa, il cui figlio Kamil è stato ucciso in un attentato terroristico al Monte del Tempio il 14 luglio scorso. Shakib Shanan ha preso la parola, l’8 ottobre, al Parco dell’Indipendenza a Gerusalemme a conclusione della marcia delle 30mila donne israeliane, ebree e arabe, e palestinesi organizzata da “Women Wage Peace” (Le Donne fanno la Pace). Una marcia della speranza che ha attraversato Israele e parte della West Bank, per ribadire, con le parole di Shakis Shanan, che “la guerra non è il nostro destino, che la pace è possibile. La pace è vita”. Shakib ha arricchito una grande manifestazione che ha avuto tra le promotrici Michal Froman, accoltellata da un palestinese nel gennaio 2016, mentre era in attesa del suo quinto figlio. Lei ha animato la marcia, ne è stata una delle artefici perché, dice a Left, vuole ancora “credere nella pace”. Per Shakib e Michal, un nuovo umanesimo è possibile anche in Palestina.

Cosa ha significato per lei la marcia organizzata da Women Wage Peace?

Una straordinaria occasione per riaffermare che la pace non è una illusione ma è qualcosa che va fatta crescere, giorno dopo giorno, dal basso, ascoltando le ragioni dell’altro, condividendo il dolore e la speranza. Per quanto riguarda Israele, ciò che mi sento di dire che riconoscere ai Palestinesi il diritto di vivere in uno Stato indipendente a fianco del nostro Stato non è una concessione al nemico o un cedimento ai terroristi, è invece l’unico modo per provare a dare ai nostri ragazzi una vita normale. E al contempo, mi sento di poter dire, sulla base di una esperienza personale che segnerà per sempre il resto della mia vita, che non è con il terrore che si otterrà giustizia e si conquisterà ciò che si vuole, di cui si ha diritto. L’odio produce odio, la violenza alimenta altra violenza in una spirale che dobbiamo riuscire a spezzare. E’ quello che ha inteso dire la marcia che è iniziata a Sderot e si è conclusa a Gerusalemme. In quelle due settimane, donne di diversa estrazione sociale, ebree e arabe, laiche e ortodosse hanno dimostrato che le diversità non sono una minaccia bensì una ricchezza da condividere, che fa crescere. Abbiamo discusso, ballato, parlato delle nostre storie personali, dei drammi che le hanno a volte segnate, come nel mio caso. Ci siamo ascoltate, e l’ascolto è la base di un vero dialogo…”.

Dal palco, lei si è rivolta direttamente al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) perché riprendessero la via del negoziato. Ma è una via ancora praticabile?

Io spero di sì. Mi batto perché sia così. Non dobbiamo arrenderci a coloro che pensano che nel destino di Israeliani e Palestinesi non vi sia altro spazio che per l’odio, per una contrapposizione senza fine. Mi rifiuto di crederlo. Il vero illuso è chi pensa che si possa fermare il tempo e mantenere l’attuale status quo. Il tempo non lavora per la pace. Ai leader politici io chiedo onestà e coraggio, e di ricordare la lezione che ci ha lasciato un politico che io ho avuto l’onore di conoscere personalmente e di apprezzare: Yitzhak Rabin. Rabin è stato un generale, ha passato buona parte della sua vita a combattere per difendere Israele, ma ha compreso una cosa fondamentale…”.

Quale?

Che la battaglia più difficile da condurre e da vincere è quella della pace. Che solo con la pace Israele può preservare la propria sicurezza e che la pace si fa col nemico. Rabin ha pagato con la vita la sua apertura all’Olp e la stretta di mano con Arafat. Ha lotta strenuamente contro il terrorismo ma al tempo stesso ha detto agli Israeliani che non esiste una pace a costo zero. E’ una lezione che non va smarrita. Una lezione di vita”.

Come quella delle donne protagoniste della marcia. Cosa hanno di “speciale” le donne per essere state loro protagoniste di una iniziativa che, settimane dopo, continua a far discutere e a emozionare?

Non mi è facile rispondere a questa domanda. Ma ci provo: ecco, credo che noi donne siamo più testarde, più concrete, e, più degli uomini, sappiamo il valore della vita, fin dal suo nascere. Sappiamo bene cos’è il dolore ma anche la felicità di essere donna e madre. Forse più degli uomini sappiamo coltivare i sentimenti e forse siamo meno calcolatrici. La marcia ha avvicinato donne israeliane e palestinesi che, come me, hanno visto cadere in guerra o in atti di terrorismo i propri figli o fratelli o mariti…E’ una ferita incancellabile ma lo sforzo che abbiamo compiuto è quello di trasformare un vuoto incolmabile in energia positiva, insieme per evitare che altre madri o moglie o sorelle debbano vivere ciò che noi abbiamo vissuto. Per questo abbiamo unito le nostre voci per chiedere pace. Per invocare giustizia e non vendetta”.

Pensa che questo messaggio possa raggiungere la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana e palestinese?

È l’impegno che ci siamo assunte, è il senso della marcia dell’8 ottobre. So bene che remiamo controcorrente, conosco la politica del mio Paese, ma la pace non ha alternative. Un altro messaggio importante che si è inteso dare con la marcia, è che ognuna/o può fare qualcosa per rafforzare il dialogo. Guai a pensare: cosa posso fare io, singola persona, per raggiungere qualcosa che neanche chi aveva il potere, presidenti, primi ministri…è riuscito a realizzare…Il discorso va ribaltato: nel proprio specifico, ognuno per ciò che può, è possibile far avanzare le ragioni della pace. Non c’è bisogno di essere un parlamentare o chissà cosa: parlare con i propri vicini, partecipare a iniziative di discussione, manifestare, sono modi concreti per dire anche io ci sono, e voglio portare il mio contributo. La pace non ammette deleghe”.

La pace ha un colore politico?

Assolutamente no. A dar vita alla marcia, sono state donne di sinistra, di centro e di destra. La pace è trasversale. Ciò che importa è che nessuna si sia sentita detentrice di una verità assoluta che deriva da una professione di fede religiosa o di credo politico. La pace è incontrarsi a metà strada. E’ un cammino difficile ma vale la pena imboccarlo”.

(ha collaborato Cesare Pavoncello)

Immagina uno stadio leggere il diario di Anna Frank

“L’ultimo rivolo del bitume fascista che ci tocca quest’anno sta tutto nella vicenda dei tifosi della Lazio che hanno pensato bene di imbrattare la curva dello Stadio Olimpico, quella abitualmente riservata ai tifosi romanisti, di scritte antisemite (“Romanista ebreo”, e poi “romanista Aronne Piperno”, in riferimento al personaggio di origini ebraiche del Marchese del Grillo) con tanto di “figurina” di Anna Frank in maglia giallorossa.

Nell’anno 2017 è ancora considerata offesa essere accostati all’etnia ebraica, come al tempo di quel verme dei tempi più bui dell’Europa, e per di più qualcuno considera una bambina ammazzata dal nazismo un esempio negativo da associare agli odiati avversari. Roba da sottosviluppati affetti da quel cretinismo vomitevole che divide, questo sì, le persone in degni e vigliacchi indegni solo che questa volta a peggiorare la situazione (capita spesso con i cretini) ci si mette anche una difesa da brividi: gli ultrà laziali degli Irriducibili  si dichiarano “stupiti da tutto questo clamore mediatico” e convinti che “tutto debba rimanere nell’ambito del ‘nulla’, circoscritto a un contesto sportivo animato da scherno, sfottò e goliardia”. È questa la posizione, manifestata all’Ansa: “Esistono – aggiungono – altri casi che secondo noi meriterebbero aperture dei tg e ampie pagine di giornali”.

E così torna alla mente un’immagine degna di un libro di Galeano: quella di uno stadio vuoto in cui piuttosto che giocare una partita di calcio questi ignoranti pericolosi si rileggano il diario di Anna Frank per sprofondare nella vergogna e risalire dalla loro ignoranza e accorgersi come la piccola Anna sia stata la Messi (o Cristiano Ronaldo) di un brutto campionato che lei ha vinto per distacco.

Si accorgerebbero, gli ultrà, di avere aggiunto il danno alla beffa e saprebbero di avere fatto agli avversari uno dei complimenti più belli che ci si potrebbe assicurare: essere accostati a uno dei più alti esempi di dignità che fosse possibile trovare in giro.

Sommersi dai fischi di un intero Paese tutto intorno.

Buon martedì.

La resistenza di Ada Rossi, una donna per la libertà

Il “non mollare” al femminile è ben rappresentato dal personaggio di Ada Rossi, una donna moderna (benché nata nel 1899), laica e con una fisionomia politica tenace e resistente. Nella biografia di cui Antonella Braga e Rodolfo Vittori sono autori per la collana di genere “Novecentodonne” dell’editore Unicopli di Milano, diretta da Luisa Steiner, la figura forte e autonoma di questa donna emerge con tutta la sua vitalità. Left li ha intervistati.

Com’è nata l’idea di scrivere il libro Ada Rossi e quale era il suo profilo?

Entrambi siamo studiosi di Ernesto Rossi e abbiamo conosciuto Ada (che già da nubile si chiamava Rossi, scherzi del nome!) attraverso le sue lettere al marito. Con un atto di coraggiosa solidarietà, Ada aveva scelto di sposarlo in carcere nel 1931, dopo che Ernesto era già stato condannato a vent’anni per la sua opposizione al regime fascista nelle file di Giustizia e Libertà. Dopo il matrimonio, fu allontanata dalla scuola pubblica, in cui insegnava matematica; dovette mantenersi con lezioni private sino a 42 ore settimanali per mantenere se stessa e il marito in carcere; fu schedata e strettamente controllata dalla polizia e, infine, inviata al confino nel 1942, prima a Forino, in provincia di Avellino, e poi a Melfi e Maratea.

Dalle sue lettere e dalle testimonianze emerge il profilo di una donna indipendente, controcorrente, capace di scelte difficili, sostenute con una coerenza morale mai venuta meno. Fu un soggetto attivo che non visse di luce riflessa ed ebbe un ruolo tutt’altro che marginale, svolgendo importanti compiti di propaganda, collegamento e formazione politica dei giovani anche in assenza di Ernesto. Mentre dava lezioni private di matematica a Bergamo negli anni Trenta, dava anche lezioni di antifascismo a giovani poi divenuti protagonisti della Resistenza bergamasca. Ci è dunque sembrato che la sua figura di militante e di educatrice meritasse di essere studiata per se stessa, non solo come “consorte” del più noto marito.

Come scrivete nel libro, nelle vene di Ada scorreva il sangue di mezz’Europa. Quali erano le sue origini e quale fu la sua formazione?

Sentimentalmente legata alla sua terra d’origine (l’Emilia), Ada appartenne da subito a una patria più grande. Il bisnonno paterno era stato un ufficiale polacco giunto con le armate napoleoniche nel Granducato di Parma. Lì si era stabilito con la moglie svizzero-tedesca. Tra gli avi materni, c’era anche una francese, la bella Henriette, forse figlia naturale di un Asburgo. Il nonno paterno aveva partecipato alla Seconda guerra di indipendenza, mentre quello materno era stato un matematico e un socialista rivoluzionario. Il padre, Carlo, benché ufficiale di carriera, nutriva ideali repubblicani e la madre, Concetta Montanari, aveva seguito studi regolari fino a conseguire la maturità classica, titolo ancora poco frequente tra le ragazze. Ada crebbe quindi in un contesto famigliare aperto, in cui circolavano memorie giacobine e risorgimentali, principi repubblicani e socialisti, ideali mazziniani e garibaldini, insieme a posizioni agnostiche e anticlericali. Questi valori ispirarono le sue future scelte di vita e la predisposero alla militanza antifascista nelle file di Giustizia e Libertà, del Movimento Federalista europeo, del Partito d’Azione e, infine, del Partito radicale.

Come si svilupparono le sue scelte di vita?

A determinare il suo destino fu l’esperienza della guerra. Come accade ai giovani nati nel 1899, che furono tra gli ultimi a essere chiamati sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale, anche la vita di Ada – “ragazza del ’99” – fu segnata dalla guerra, per ben tre volte nel corso della sua vita. Nel 1912 il padre Carlo morì di tifo al suo rientro dalla guerra di Libia. Ada, allora tredicenne, ne soffrì moltissimo. Nel 1917, appena uscita dal collegio col diploma di maestra, vide la sofferenza dei reduci, dei mutilati e dei profughi di Caporetto. Ne fu inorridita e per sempre vaccinata contro la retorica nazionalista e bellicista. Di fronte al nascente fascismo – che di lì a vent’anni avrebbe trascinato l’Italia in nuovo devastante conflitto – compì da subito una decisa scelta di campo. Aborriva i metodi violenti degli squadristi, che nel 1921 avevano ucciso un suo compagno di studi all’università di Pavia, dove Ada si laureò in matematica nel 1924. La sua scelta antifascista fu quindi compiuta prima di incontrare Ernesto Rossi nel 1928 a Bergamo, dove entrambi insegnavano all’Istituto tecnico “Vittorio Emanuele”.

Affetti e lotta politica in Ada Rossi sono due sfere distinte?

Ada Rossi fu una militante politica nel più autentico senso del termine, in quanto fece della contraddizione fra fatti e valori una questione personale, esponendosi in prima persona, a costo di gravi sacrifici e rischi. Quest’impegno totalizzante cancellava le barriere fra vita privata e vita pubblica, coinvolgendo l’ambito degli affetti. Sposando un uomo condannato a vent’anni di galera, Ada sacrificò la sua giovinezza imponendosi un destino di solitudine per lunghi anni a venire. Per stargli vicino, accettò anche di non avere figli. Eppure, come accadde a molte donne della sua generazione, fu un “animale politico” quasi senza saperlo, vivendo la propria militanza come naturale conseguenza di un impulso etico, ineludibile, e come prosecuzione dei compiti di “cura” tradizionalmente assegnati alle donne, senza alcuna pretesa di protagonismo.

Un particolare abbastanza noto nella sua vita ricca di storia è quello del Manifesto di Ventotene. Nel libro raccontate che Ada Rossi nel 1941 temperò le matite con cui Ernesto Rossi  ricopiò il Manifesto su carta leggera e con una calligrafia minuscola. Poi con Ursula Hirschmann riuscirono a portarlo fuori dall’isola di confino.

Nel novembre 1939, per effetto di un’amnistia, Rossi fu scarcerato e inviato nell’isola di Ventotene, dove fu confinato sino al luglio 1943. Ada si recava a trovarlo appena il lavoro glielo consentiva, ma il viaggio da Bergamo era lungo e costoso. Durante le sue visite sull’isola, conobbe l’ex comunista Altiero Spinelli e il socialista Eugenio Colorni, con cui Rossi aveva stretto un sodalizio intellettuale da cui scaturì il Manifesto per un’Europa libera e unita, più noto come Manifesto di Ventotene. Conobbe anche le sorelle di Spinelli, Gigliola e Fiorella, e la moglie di Colorni, l’ebrea tedesca Ursula Hirschmann, fuggita dalla Germania per la sua militanza socialista, che risiedeva per lunghi periodi nell’isola con le piccole figlie.

Quando Ernesto le lesse una prima bozza del Manifesto nell’inverno 1940-1941, le piacque molto in quanto vi ritrovò alcuni temi su cui avevano già discusso tra loro nelle lettere degli anni del carcere: l’orrore per la guerra, il volto demoniaco del nazionalismo, la critica al dogma della sovranità assoluta degli Stati nazionali, il progetto per un’Europa federale, insieme ai principi per una riforma della società in senso liberal-socialista. Con Ursula Hirschmann, Ada portò clandestinamente il testo fuori dall’isola e si occupò di farlo battere a macchina a Bergamo. Il Manifestò federalista iniziò così a essere diffuso tra gli antifascisti sul continente.

L’adesione di Ada al progetto federalista non fu mai più messa in discussione in quanto si basava su un radicato convincimento. La federazione europea le sembrava la premessa necessaria per ripristinare in modo duraturo la pace e la democrazia. Partecipò quindi alla nascita del Movimento federalista europeo (Milano,1943), contribuì col marito alla propaganda sul piano internazionale negli anni dell’esilio svizzero (1943-1945) e negli anni dell’avvio del processo di integrazione europea (1947-1954).

Quando nel 1954, dopo il fallimento del trattato della Ced (Comunità europea di difesa), Ernesto perse fiducia nella possibilità di realizzare a breve la federazione europea su basi costituenti, Ada si mostrò meno pessimista sul futuro del processo d’integrazione, che di lì a poco sarebbe ripartito – sebbene in un’ottica funzionalista e non costituente – con i Trattati di Roma del 1957. L’unità europea le sembrava un esito necessario, quasi “naturale” della storia, che prima o poi doveva giungere. Diceva che era nei fatti, bastava solo “volerla” molto e continuare a “non mollare”.

Dopo la morte di Ernesto (1967), avrebbe innestato questa sua fede europeista all’interno del nuovo Partito Radicale, fondato da Marco Pannella, cui aderì ritrovandovi alcune battaglie condivise col marito (laicità, diritti civili e liberalismo radicale venato di istanze sociali).

Nell’analisi storica che avete condotto che idea vi siete fatti rispetto a questa sua particolare capacità di “resistenza” rispetto a tutto ciò che attraversò durante la sua vita?

Fedele al volontarismo di matrice risorgimentale, Ada mantenne per tutta la sua lunga vita (morì nel 1993 a quasi novantaquattro anni) un’incrollabile fede che il mondo potesse essere migliorato dalla volontà e dall’impegno comune delle persone. Nei momenti più difficili, sapeva comunicare serenità, costanza e fiducia, soprattutto ai giovani. Sino agli ultimi anni, non fece mancare le sue critiche ai limiti del processo di integrazione europea inaugurato secondo la logica funzionalista dell’“Europa a pezzettini” e non secondo la prospettiva costituente cara ai federalisti. Spesso amava ripetere che la Repubblica nata dalla Resistenza, pur con tutti i suoi limiti (e il suo carattere clericale da «Repubblichetta del Sacro Cuore», come sentenziava ironicamente Ernesto Rossi), era pur sempre la «nostra Repubblica» e bisognava difenderla per fare in modo che diventasse sempre più democratica. E modestamente concludeva: «Bisogna sempre renderla migliore, lottare per questo, piuttosto che andare a casa a far girare i pollici; almeno io sono di questo parere». Le sue parole semplici, ma lucide e appassionate, e il suo esempio di militante non sono stati dimenticati e hanno lasciato eredità d’affetti in molti di coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerla. Merita dunque di essere annoverata fra le madri della nostra Repubblica e della futura Europa unita.

Miliardario, populista, agente segreto: chi è Andrej Babis, il nuovo premier ceco

Czech billionaire Andrej Babis (L), chairman of the ANO movement (YES) and his wife Monika smile at ANO headquarter after Czech elections on October 21, 2017 in Prague. The party of billionaire populist Andrej Babis, The "Czech Trump", took an early lead in the Czech Republic's general election followed by a far-right anti-EU party, partial results showed. / AFP PHOTO / MICHAL CIZEK (Photo credit should read MICHAL CIZEK/AFP/Getty Images)

Un altro miliardario populista per salvare il destino di un Paese. Era una spia dell’est ieri, è un mogul mediatico oggi. Praga alle urne, dopo un quarto di secolo di social democratici al potere, ha scelto il suo nuovo re nazional-demagogo. Si chiama Andrej Babis, ha 63 anni, 4 miliardi di dollari di patrimonio, giornali, radio, tv. Uno dei suoi veri mestieri è possedere qualsiasi cosa ed essere il secondo uomo più ricco della Repubblica Ceca. È sua anche l’Agrofront, un’azienda chimica e alimentare con 32mila dipendenti, che controlla 230 imprese satellite. Lui, lo slovacco nato a Bratislava, ha trionfato nel cuore xenofobo dei cechi.

La foto che lo ha consacrato come Capo vittorioso dello Stato è stata quella in cui bacia Mark Parchal, il guru digitale che ha dato vita alla sua campagna mediatica sui social e lo ha portato al trionfo, trasformando il suo partito, nato solo un anno fa, nella prima scelta di un paese di otto milioni di cittadini.

Babis ha vinto parlando di lotta alla disoccupazione in un paese dove l’inoccupazione non esiste. O quasi: si aggira intorno al 2,9%. Ha stravinto parlando contro la migrazione in un paese senza migranti, in un paese non toccato dalle rotte dei profughi, che non ha mai accettato le quote di ridistribuzione volute dall’Unione Europea per i rifugiati. Ha sconfitto tutti gli avversari quest’uomo che i cittadini cechi hanno votato dopo una campagna elettorale in cui prometteva lotta alla corruzione mentre sulle sue spalle pendeva un’accusa per frode. L’indagine contro di lui è ancora in corso, ma il presidente Milos Zeman ha detto che lo nominerà Capo del suo Stato anche se dovesse finire in carcere.

È ancora più nera l’anima di Praga dopo queste elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati. Più che uno scontro elettorale, è stato un derby tra destre. Babis ha vinto solo con “un ANO”, che in lingua boema vuol dire “si”. ANO è il nome del suo partito, anagramma di tre parole: “unione cittadini scontenti”, votato dal 29,64% degli elettori. Dopo di lui, ci sono i civici democratici dell’ODS, un partito di destra che ha ora 25 parlamentari in attività. Al terzo posto conquista 22 seggi il Partito dei Pirati, altri 22 vanno agli xenofobi estremisti dell’Spd, Partito libertà e democrazia.

Il capo dell’Spd si è definito un difensore “di quella Repubblica Ceca che deve rimanere simile a quella che ricordiamo da bambini”. È un politico che si proclama “contro l’islam, contro Bruxelles”, ma soprattutto “contro il multiculturalismo”, ma ha gli occhi a mandorla perché è mezzo giapponese. Si chiama Tomio Okamura e nella parata slava delle assurdità, ha una folla nazionalista slava che lo segue. Infine ci sono i comunisti non riformati del KSCM, con 15 seggi. Addio socialdemocrazia CSSD: il primo partito del paese è scomparso e se ne va il premier Bohulav Sobokta, che con Babis aveva collaborato quando il tycoon era diventato ministro delle Finanze.

Babis da quell’incarico fu allontanato dopo aver abusato di alcuni fondi europei destinati alle piccole imprese. Lui li utilizzò per costruire alberghi di lusso. La sua azienda, in generale, è quella che riceve più fondi da Bruxelles e ora è sotto indagine dell’Olaf, Commissione europea anti-frode.

Babis vuole fare “dello Stato, un business, governarlo come un’impresa” e per questo lo chiamano Babisconi, in memoria dell’ex premier italiano. Lo chiamano anche “Trump dell’est”. La stampa non sa se battezzarlo in onore di Silvio o Donald, ma, in verità, di profilo, il neo premier ricorda Putin. A differenza del presidente russo, però, lui insabbia il suo passato e nega la sua attività tra le fila della Stb, la polizia segreta cecoslovacca. Babis è figlio della nomenklatura comunista e prima del 1993, anno in cui la Cecoslovacchia si è divisa in due, il suo nome in codice da agente segreto era Bures. La sua copertura era da businessman, uomo d’affari, per viaggiare spesso all’estero senza destare sospetti.
I documenti dell’epoca che lo riguardano lui dice siano stati contraffatti e ha smentito più volte questa versione della storia in arrivo dal suo passato. Radek Schovanek, specialista esperto dei servizi segreti del vecchio impero comunista, attesta l’autenticità del caso riaperto adesso a Bratislava, dove era stato archiviato nel 2014: “Babis era membro della nomenklatura, figlio della nomenklatura, il suo file non è falsificato, ma uguale a quello di molti altri”. Intanto “Tady nenì Babisovo!”, questa non è terra di Babis!, si legge già lungo certe strade della capitale ceca, dove al discorso per la vittoria l’ex spia miliardaria ha dichiarato di essere “pro-europeo, pro-NATO, dunque come fanno a dirmi che sono una minaccia per la democrazia?”.

https://www.lidovky.cz/kdo-je-babisem-polibeny-genius-exnovinar-a-hvezda-marketingu-marek-prchal-1lb-/zpravy-domov.aspx

https://echo24.cz/author/lenka-zlamalova

Maroni flambé

Il governatore Roberto Maroni commenta i risultati del voto referendario per l'autonomia della Regione Lombardia. Milano, 23 Ottobre 2017. ANSA/FLAVIO LO SCALZO

Si inizia con un lunedì scoppiettante che passerà agli annali: in Lombardia l’ex sceriffo Roberto Maroni, quello diventato famoso grazie alla scopa di saggina e alla narrazione disinfettata della Lombardia senza mafie, si prende una sberla in pieno viso e (ormai i bulli sbriciolati da un referendum sono un vero e proprio genere letterario) finge soddisfazione come un Cirino Pomicino qualsiasi.

Nei giorni scorsi c’è stato il tenero tentativo di arginare la disfatta: disse, il Maroni detto con l’articolo alla milanese, che gli sarebbe bastato un 34 per cento di partecipazione (perché con i referendum inutili non contano mica i sì o i no ma conta solo la partecipazione, l’hanno capito tutti tranne gli amici del Pd e quel Giorgio Gori che dovrebbe sconfiggere Maroni, pensa te). Fissare l’asticella al 34 per cento di partecipazione di un referendum che vorrebbe profumare di Catalogna equivale più o meno all’avere una fidanzata immaginaria certificata da una foto nel portafoglio ritagliata da qualche rivista.

Poi ci ha detto che il referendum sarebbe stato scintillante perché “digitale”. E tutti a esultare, con l’ansia della coda per il primo videofonino che poi alla fine non ha mai usato nessuno e quando qualcuno gli ha fatto notare che i “tablet” (che non sono tablet e che non possono essere riutilizzati nelle scuole come ci ha raccontato la propaganda leghista) erano stati pagati quanto una quota di maggioranza di un’azienda della Silicon Valley, Maroni, il Maroni, ci ha risposto che la qualità si paga. Peccato che la qualità del fornitore (SmartMatic) sia finita nella “lista nera” degli Usa per il fiasco elettorale di Chicago (quando votarono addirittura “i morti”, come nella migliore tradizione cartacea) e il suo fondatore, Antonio Mugica, è accusato da tempo di essere stato “vicino” a Chavez e ai suoi eredi e di avere intenzionalmente manipolato le regole elettorali in Venezuela (qui un articolo). Poi i tablet non hanno funzionato come il previsto. Poi i risultati cartacei sono arrivati prima di quelli ipertecnologici. Olè.

Poi, come se non bastasse, per Maroni c’è il risultato del suo compagno di partito Zaia che in Veneto quasi lo doppia facendolo scivolare di diritto tra i vecchi arnesi della Lega (nel cassonetto di Bossi, Belsito, una pessima compagnia). In pratica Maroni, con il suo altisonante risultato, può ambire all’autonomia del suo quartiere e ora è riuscito nel capolavoro: ha indetto un referendum (che non serviva) per chiedere qualcosa al governo e ne è uscito talmente screditato che ora non gli risponderanno nemmeno al citofono.

Quindi ora si dimette, vero?

Buon lunedì.

 

Razzismo, psichiatria ed emigrazione

ROME, ITALY - FEBRAURY 7: Migrant inside Center for Identification and Expulsion (CIE) for immigrants to Ponte Galeria on Febraury 7, 2014 in Rome, Italy. (Photo by Stefano Montesi/Corbis via Getty Images)

La storia della psichiatria si intreccia pericolosamente con quella dell’ideologia razzista da quando l’alienista Benedict August Morel, nella seconda metà dell’Ottocento, partendo dalla concezione di una razza umana sempre uguale a se stessa che non si è “evoluta da” e non si “evolve verso”, ha creduto di identificare una serie di circostanze sociali ed ambientali che causano l’allontanamento da uno standard ottimale. L’allontanamento veniva definito come degenerazione ereditaria suscettibile di aggravarsi di genitore in figlio. Il termine “degenerazione” fu ripreso nel Mein Kampf di Hitler e dagli psichiatri nazisti per giustificare l’inferiorità razziale degli ebrei e il loro sterminio. Non solo la psichiatria utilizzò pseudo argomenti biologico-genetici per avvalorare una gerarchia delle diverse tipologie umane ma inaugurò il razzismo “culturale” che è attualmente prevalente.

In Europa oggi l’islamofobia è un pregiudizio negativo, uno stigma razzista di inferiorità che colpisce una religione e tutti i devoti di Allah come se li si potesse inquadrare in un’unica cultura e mentalità. In Spagna, durante il franchismo, Antonio Vallejo Nagera, psichiatra militare amico del Caudillo, sostenne, in un libro del 1938, Political racial del nuevo estato, che la razza ispanica andava definita in base alla lingua, alla cultura e al rispetto delle tradizioni. L’essenza della hispanidad, della razza ispanica, sarebbe consistita in un fattore spirituale legato alla religiosità cattolica tale da conferirle una superiorità morale rispetto alla degenerazione dei repubblicani atei e marxisti. La psichiatria spagnola ispirandosi a quella tedesca, ha creato negli anni 30 l’architettura dell’antropologia franchista autoritaria, razzista e anti umana. Quest’ultima è sopravvissuta attraverso le mutazioni dell’economia moderna nell’apparenza di una democrazia che il re ha calato dall’alto nel 1978. Nelle attuali vicende politiche spagnole per imporre l’unità nazionale di fronte al pericolo secessionista della Catalogna non si è fatto altro che ricorrere alla repressione violenta, secondo la tradizione del franchismo.

Il razzismo, l’incapacità di rapportarsi alle differenze ha continuato a permeare profondamente non solo le società civili in Occidente ma anche la psichiatria, costituendo uno dei principi ispiratori delle sue pratiche terapeutiche e istituzionali. Non esistono comunque argomentazioni biologiche a sostegno di una diversità razziale: l’umanità oltre il colore della pelle è il risultato di un’incessante opera di migrazioni e di meticciato. Alcuni genetisti…

L’articolo dello psichiatra e psicoterapeuta Domenico Fargnoli prosegue su Left in edicola


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La fuga degli artisti da Hackney Wick

Work by Spanish graffiti artist Pez in collaboration with Dibo, on Pedley Street, Spitalfields. Street art in the East End of London is an ever changing visual enigma, as the artworks constantly change, as councils clean some walls or new works go up in place of others. While some consider this vandalism or graffiti, these artworks are very popular among local people and visitors alike, as a sense of poignancy remains in the work, many of which have subtle messages. (Photo by In Pictures Ltd./Corbis via Getty Images)

Fino a quindici anni fa lo Stour Space era solo un vecchio e pericolante edificio affacciato sul fiume Lea, il canale che separa Fish Island dal Queen Elizabeth park, l’area in cui si son svolte le Olimpiadi nel 2012. Siamo a Hackney Wick, nell’East End londinese. Oggi gli spazi un tempo angusti dello Stour Space, sono stati trasformati dalla comunità artistica di Hackney in un ambiente vivo, un cuore pulsante dell’arte in cui trovano spazio esposizioni, mostre, performance. È qui che si riuniscono gli attivisti di SaveHackney, per la loro raccolta fondi settimanale, soldi che servono a finanziare la campagna in difesa di Vittoria Wharf, un edificio poco lontano da qui.

«Vittoria Wharf era un magazzino abbandonato, poi è arrivata una florida comunità di artisti provenienti da tutto il mondo e lo ha trasformato», mi dice Conrad Armstrong, uno degli artisti che vivevano e lavoravano a Vittoria Wharf. Conrad ha i capelli lunghi raccolti e lo sguardo profondo: “Vittoria è un vero e proprio hub dell’arte: ci sono studi, spazi espositivi, case, cafè, negozi e spazi comuni di cui può beneficiare l’intera comunità di Hackney. I posti come questo stanno scomparendo a Londra, per questo è importante lottare per difendere ciò che è rimasto”, sostiene Conrad.

Ma cosa sta mettendo in pericolo Vittoria Wharf? L’Lldc (London legacy development corporation) è un ente pubblico facente capo al sindaco di Londra che nel 2012 ha ereditato la gestione dello sviluppo dell’area olimpica dall’Olympic park legacy company. Un ente i cui membri non vengono eletti e che ha un effettivo potere decisionale sulla progettazione post “Londra 2012” dell’area del parco Olimpico e dei suoi dintorni. Tra i progetti dell’Lldc, c’è quello della creazione di due ponti pedonali chiamati H14 e H16 che hanno lo scopo di connettere il parco Olimpico con Fish Island: la costruzione del ponte H16 implica la demolizione di Vittoria Wharf. L’ Lldc sostiene che il ponte sia necessario per aumentare i collegamenti ed evitare dunque la congestione che deriverebbe dall’aumento della popolazione sia a Fish Island, che nell’area del parco Olimpico. Per gli attivisti di SaveHackney le due aree sono già ben connesse e sono convinti che la presenza di un luogo come Vittoria Wharf, un posto fruibile, vivo e unico, sia di gran lunga un elemento di maggior utilità pubblica, rispetto al ponte pedonale.

La lotta tra SaveHackney e l’Lldc è l’emblema di ciò che sta accadendo ad Hackney…

© foto di Elisa Pregnolato

L’articolo di Tommaso De Paoli prosegue su Left in edicola


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Gentrification, da benessere per tutti a business per pochi

TOPSHOT - People watch fireworks exploding over the Maracana stadium, from a terrace in the favela Mangueira, during the opening ceremony of the Rio 2016 Olympic Games in Rio de Janeiro on August 5, 2016. / AFP / Andrej ISAKOVIC (Photo credit should read ANDREJ ISAKOVIC/AFP/Getty Images)

Rigenerazione, riqualificazione, recupero urbano… o ancora, cercando in altri contesti e in altre lingue, redevelopment, renewal, rénovation e renouvellement (limitandosi a inglese e francese). Sono alcune delle parole che possono essere usate per definire gli interventi sulla città esistente. Queste parole non sono neutre e ognuna porta con sé un mondo di riferimenti culturali e inquadramenti teorici e parla di diversi equilibri nei rapporti tra città, economia e società. Curiosamente tutte queste parole, nonostante il prefisso che lascia pensare al ripristino di una condizione precedente, parlano di trasformazioni, operazioni e politiche i cui esiti spaziali producono cambiamenti e innovazioni anche radicali nelle città coinvolte.

A partire dalle crisi economiche degli anni 70 e poi negli anni 80 e 90 con la progressiva deindustrializzazione, i progetti urbani iniziarono ad intervenire su parti consolidate di città per dare nuova qualità e nuove funzioni ai tessuti urbani esistenti. In tempi più recenti, con la maggior parte della popolazione mondiale che vive nelle città, le trasformazioni urbane hanno dovuto confrontarsi anche con molte altre tematiche come la sostenibilità ambientale e la riduzione del consumo di suolo, la finanziarizzazione delle dinamiche urbane e la crescita del modello di città neoliberista, la crisi della rappresentanza democratica e dello Stato sociale. In questo sovrapporsi di stimoli e condizioni, l’idea di società, e quindi l’idea di città, è alla base delle azioni dei decisori, locali, nazionali o sovranazionali, attori pubblici o privati del continuo succedersi di trasformazioni urbane.

Ad esempio, la possibilità di ospitare grandi eventi, diventa un’occasione per ridefinire il volto di intere città, come è successo per le Olimpiadi, a Pechino come a Londra o a Rio de Janeiro. Queste grandi trasformazioni urbane, però, sono state anche il momento per allontanare e nascondere le classi più deboli che, pur essendo forza lavoro necessaria al funzionamento delle grandi megalopoli internazionali, avrebbero potuto interferire con la costruzione del nuovo immaginario e brand cittadino utile al marketing e all’aumento della competitività e attrattività urbana. Questi fenomeni di espulsione e sostituzione degli abitanti sono stati evidenti in realtà polarizzate come quella cinese o brasiliana, ma non sono mancati anche a Londra…

L’articolo di Camilla Ariani prosegue su Left in edicola


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