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Se il deserto avanza nelle politiche umanitarie

DADAAB, KENYA - JULY 31: Somali refugees arrive early in the morning outside the Dagaley refugee camp on July 31, 2011 in Dadaab, Kenya. Hundreds of thousands of people have fled the hardship and civil war in Somalia to Dadaab. A severe drought has added to the misery and hardship. Some refugees has walked for up to thirty days to reach the camp, and some children died on the way, due to lack of food and water. (Photo by Per-Anders Pettersson)

Tutte le vittime del Mediterraneo e la spinta a “blindare” i confini all’interno e intorno all’Europa sono un avvertimento: non si possono dare risposte conservatrici nei confronti di quelle persone emarginate e prive di diritti che a causa dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale rischiano di perdere la vita, sono costrette alla povertà o ad abbandonare la loro terra. Ciò che queste morti e le vite devastate dei profughi rivela è la scomparsa dalla politica dominante contemporanea persino delle idee formali che comprendono la responsabilità di proteggere e di accogliere, di cura e di giustizia. Eppure il nesso tra cambiamenti climatici, migrazioni e violazione dei diritti umani è ormai accertato.

Povertà, disuguaglianze, urbanizzazione, globalizzazione del settore alimentare, mancanza di adeguate infrastrutture, densità abitativa, conflitti, sono tutti fattori che definiscono differenti gradi di vulnerabilità ed esposizione ai cambiamenti climatici. Già nel 2007 l’ufficio Onu dell’Alto commissario per i diritti umani (Unhcr) aveva affermato che i Paesi in via di sviluppo e quelli meno sviluppati – proprio quelli che meno di altri hanno contribuito all’accumulo di gas serra in atmosfera e al conseguente climate change – avrebbero pagato il prezzo più alto. Le regioni del mondo già adesso più povere, le classi sociali più misere, i bambini e gli anziani, le persone discriminate per motivi sociali, risultano più vulnerabili e meno capaci di sviluppare adeguate risposte di adattamento ai cambiamenti climatici e agli estremi eventi climatici (alluvioni, uragani, siccità, mareggiate, ecc). E questi ultimi – sostiene l’Onu – potranno essere la causa di una crisi economica e potranno creare nuove “gabbie di povertà”.

Il rischio potenziale maggiore…

L’articolo di Lorenzo Ciccarese prosegue su Left in edicola


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Andare, camminare, lavorare. Il viaggio di Marta Fana nel mondo della precarietà

Non è lavoro, è sfruttamento della ricercatrice e giornalista Marta Fana è un lavoro militante che muove da una rabbia che non piega mai sull’invidia anticasta e che recupera la positività dell’Elogio dell’odio di classe di Edoardo Sanguineti dedicata a Pietro Ingrao. Questo saggio, edito da Laterza, è caratterizzato da una forte tensione etico morale intrecciata al recupero della dimensione collettiva, la politica come fondamento del farsi della Storia. Una figura di militante – quella dell’autrice – che riesce a coniugare il meglio della tradizione operaista (rispetto all’inchiesta ed alla condivisione empatica dei soggetti indagati e rappresentati) assieme all’individuazione e disvelamento dei dispositivi disciplinari delle moderne forme di assoggettamento: tutto questo senza rendere evanescente fino alla scomparsa teorica e politica il potenziale soggetto della trasformazione.

Il libro recupera in maniera efficacemente provocatoria la dimensione di classe insita nelle attuali trasformazioni sociali, con espliciti riferimenti a Marx ed alla teoria del valore nel processo di accumulazione del capitale. Questo è un indubbio atto di coraggio politico ed intellettuale. Marta Fana ci guida nell’inferno del lavoro precario, a tempo determinato permanente, part-time involontario, a progetto, flessibile, a rimborso di scontrini, povero, gratuito attraverso la voce dei soggetti che ne vivono sulla pelle il peso e le pratiche, restituendoci uno spaccato di parte significativa della condizione del lavoro nell’Italia di oggi. Sempre con una indignazione che non fa mai venir meno il rigore scientifico dell’analisi, sempre con l’obbiettivo di contribuire alla ricostruzione di una consapevolezza del portato sociale dei fenomeni indagati.

L’oggetto della discussione è la coscienza di classe, motore della storia, la cui esistenza è negata nella retorica dominante. È un lavoro che disvela la narrazione tossica delle classi dominanti rispetto alla naturalità dei processi in essere. Scorrono davanti a noi vite di fattorini chiamati riders, le facce nascoste dei soggetti reali del capitalismo delle piattaforme, degli studenti dell’alternanza scuola lavoro e dei migranti assoggettati all’estrazione totale di valore tramite il lavoro gratuito e disciplinati per i lavori a venire…

L’articolo di Maurizio Brotini prosegue su Left in edicola


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C’è un bel Paese che dice no al razzismo

Migrants and a group of volunteers of the Garrison organized by Baobab Experience in Campidoglio Square in Rome, Italy, on 7 August 2017, who has been in the capital for years in immigration. Volunteers address the Mayor Virginia Raggi and governator of Lazio Nicola Zingaretti , they ask for the opening of table to create a camp with the minimum facilities to accommodate displaced refugees . Over 17,000 signatures collected for this petiton. In the square read the names of migrants who died in the Mediterranenan. (Photo by Andrea Ronchini/NurPhoto via Getty Images)

È un atto politico a tutti gli effetti la manifestazione nazionale contro il razzismo del 21 ottobre. Centinaia di associazioni, comitati, movimenti locali oltre alle grandi reti dell’Arci, di Libera, del mondo del lavoro e della scuola, scendono in piazza a Roma dopo tanto tempo per dare un segnale preciso. «Non facciamo sconti a nessuno, né al governo né all’opposizione», dice Filippo Miraglia vicepresidente dell’Arci, che da sempre si occupa di immigrazione, fin dai tempi della Rete antirazzista nazionale degli anni Novanta. «C’è una responsabilità del governo per le scelte che ha fatto e che continua a fare, ma c’è anche una responsabilità dell’opposizione, sia quella populista del M5s che ha subìto una forte virata a destra nell’ultimo periodo, che quella più preoccupante e xenofoba della Lega di Salvini che ha costruito la propria identità contro gli altri e contro le minoranze».

La Lega che ha promosso il referendum per l’autonomia del Veneto e della Lombardia del 22 ottobre è la stessa che ha esultato per la vittoria delle forze xenofobe in Austria. Insomma, un clima che si fa sempre più pesante. E il governo, da parte sua, ha contribuito non poco. Lo stop allo ius soli infatti è solo l’ultimo evento del 2017, l’anno del premier Gentiloni che con il ministro dell’Interno Minniti ha varato dei provvedimenti – dal decreto sull’immigrazione a quello sulla sicurezza urbana – che hanno alimentato paura e xenofobia. Così come la missione in Libia “per fermare il flusso migratorio”, voluta in sostanza da tutti i partiti, eccetto l’opposizione di sinistra – con Mdp che però si è spaccato -, ha dato un’accelerata alla negazione dei diritti dei rifugiati e dei migranti.

«Vediamo un po’ meno sofferenza sotto i nostri occhi, sì, ma è solo perché il confine della sofferenza si è spostato verso sud», sottolinea Marco Bertotto, responsabile advocacy di Medici senza frontiere, una delle Ong nel mirino del codice Minniti. Dal Nordafrica, continua Bertotto, arrivano senza sosta segnali d’allarme. «Operiamo ogni giorno nei centri di detenzione in Libia, e vediamo direttamente le “conseguenze” delle politiche europee». Conseguenze contro le quali si è mosso persino il Consiglio d’Europa che, tramite il commissario dei Diritti umani Nils Muiznieks, ha chiesto chiarimenti al ministro Minniti circa l’accordo militare con la Libia…

 

L’inchiesta di Donatella Coccoli e Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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Lucciole per lanterne

Cari Radicali italiani, scusateci se facciamo i pierini. Ma proprio non ce la facciamo a stare zitti. Siete tutti contenti che il buon papa Francesco abbia appoggiato la vostra campagna “Ero straniero”. Non avete considerato che il papa appoggia la vostra campagna perché in realtà è una campagna razzista. O quantomeno nazionalista.
Se voi celebrate il fatto che uno straniero non lo sia più perché acquista diritti in Italia, implicitamente dite che finché è straniero non ha diritti.
Per questo il papa ha aderito. Il papa (e il Vaticano) non sono per l’accoglienza. O meglio lo sono ma solo quando non riguarda loro e a prescindere dai diritti. Anzi meglio se gli immigrati non hanno diritti. Dovranno essere assistiti. Naturalmente da associazioni e organizzazioni cattoliche ma non a loro spese. A spese dello Stato, ovviamente.
Non che questo sia sbagliato, anzi! Lo Stato deve farsi carico di queste spese. Quello che contestiamo è che il papa predichi bene ma razzoli malissimo. Quanti sono i migranti che il Vaticano accoglie nel suo territorio? Quali sono le politiche di accoglienza che il Vaticano fa nelle sue proprietà e a spese che non siano a carico della collettività italiana?
Viviamo in un mondo iper-globlalizzato. Non esistono confini per le informazioni, per le merci e per il danaro.
Perché mai i confini sono ancora validi per le persone? Se pure esistono le nazioni e le nazionalità perché non immaginare un mondo in cui le persone siano libere di spostarsi e di risiedere dove meglio credono?
Si può anche stabilire diritti parziali per chi risiede in un dato luogo non dalla nascita o da poco tempo. Ma non ha nessun senso parlare ancora dell’idea di “straniero”.
Perché lo straniero non esiste.
Si sa che la libera circolazione delle persone arricchisce le nazioni che decidono di aprire le proprie frontiere. Vedi per esempio l’Europa dopo Schengen che ha prodotto solo un arricchimento di tutte le nazioni partecipanti.
Poi però, se si tratta di aprire le frontiere agli extracomunitari allora no. Sono stranieri.
Il problema, si badi bene, non è economico. L’Economist in un pezzo sul numero del 13 luglio di quest’anno ha calcolato che le frontiere aperte avrebbero un effetto positivo sull’economia mondiale quantificabile in una cifra pari o superiore 78.000 miliardi di dollari.
Il problema è evidentemente solo culturale. Molto dopo è politico.
Così come siamo tutti uguali nella biologia del nostro corpo, fatte salve le differenze fisionomiche e sessuali, c’è un’uguaglianza di fondo in tutti gli esseri umani che ha il suo fondamento nella dinamica di formazione del pensiero che si ha alla nascita, come teorizzato da Massimo Fagioli nella Teoria della nascita (cfr. Istinto di morte e conoscenza, L’Asino d’oro edizioni)
Se così è, non c’è alcun motivo valido per dire che qualcuno è straniero e qualcun altro no.
Esistono differenze linguistiche e culturali che rispondono a differenti percorsi di vita e di formazione personale di ognuno di noi. Ma non esistono differenze nell’essere tutti esseri umani.
Festeggiare chi non è più straniero rischia di essere la stessa cosa di un battesimo! “Ora che tu sei italiano e non sei più un mezzo uomo come quando eri straniero”. E tutti quelli che sono ancora stranieri? Li possiamo mandare via? Non sono cittadini e quindi non hanno diritti?
E voi lo sapete vero, cari Radicali, cosa ha detto papa Francesco del battesimo? “Un bambino battezzato non è lo stesso di un bambino non battezzato”. Come dire, quello non battezzato non è in realtà un essere umano perché non fa parte dell’umanità vera che è quella di chi è cristiano. (Chi vuole può cercare su Google la frase e trovare il discorso completo).
E ancora, per voi che siete i paladini dei diritti civili, che vuol dire integrazione?
Perché, se la Costituzione garantisce la libertà di esprimere il proprio pensiero, muoversi liberamente sul territorio dello Stato, associarsi liberamente e praticare il culto che si vuole, qualunque criterio di “integrazione” che stabilisca quali comportamenti si debbano tenere per essere considerati integrati è inevitabilmente anticostituzionale.
L’unica regola dovrebbe essere: si è integrati se si rispetta la legge. Null’altro.
I preti vi hanno venduto lucciole per lanterne. In questo sono imbattibili, hanno un’esperienza di migliaia di anni.
Pensateci cari Radicali. La campagna giusta è nessuno è straniero!

L’editoriale di Matteo Fago è tratto dal numero di Left in edicola


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Questa Italia senza memoria

Xenofobia e razzismo hanno radici antichissime nella nostra storia. Antiche almeno quanto la nascita del Logos. Basta ricordare che il termine greco bàrbaros indicava il modo di parlare degli stranieri (i latini usavano il verbo balbutio). Nei primi secoli della storia greca il termine bàrbaros non aveva una particolare connotazione negativa ma dopo la guerra con i persiani del 472 a.C. di cui scrisse Eschilo, le cose cambiarono radicalmente. Pensiamo alla figura di Medea in Euripide. è straniera e viene raccontata come una pazza assassina dei propri figli, per vendetta. Come ha scritto Eva Cantarella, è la rappresentazione minacciosa del mondo dei barbari, dell’altro, del diverso da sé, dello sconosciuto. Non andò meglio con la nascita del monoteismo. Anzi. La retorica pericolosa del popolo eletto, nella Bibbia come nei discorsi di tanti presidenti Usa, da Bush a Trump, si regge sulla costruzione del nemico.

Chi pensa di avere Dio e la Verità dalla propria parte, basata sul libro e sulla parola sacra, vede ovunque eserciti di infedeli da combattere. In nome di Dio e della patria Mussolini impose il regime fascista in Italia. E si lanciò nelle campagne coloniali sulla strada disseminata di cadaveri già aperta dal re. L’Italia in Eritrea e Etiopia, similmente alla Francia in Algeria, si è comportata come uno Stato terrorista. Giornalisti osannati in Italia come Indro Montanelli pensavano che fosse normale prendersi e violentare una sposa bambina, solo perché non era italiana. Ma non si può dire. Montanelli, nell’immaginario italiano, sarebbe il padre di un giornalismo libero e dalla schiena dritta. Avendo annullato la memoria del genocidio compiuto da Mussolini in Libia, ci culliamo nel mito “italiani brava gente”.

Per nostra fortuna ci sono i libri di Angelo Del Boca ma anche quelli di Filippo Focardi e di Davide Conte (intervistati in queste pagine). La ricerca storica continua a fare importanti passi avanti, grazie all’acribia e alla passione civile di studiosi come Giovanni Cerchia che ha riportato alla luce importanti pagine della Resistenza al Sud, a lungo negate e disconosciute. Saggi che ci mettono di fronte alle nostre responsabilità rispetto ai conti mai fatti fino in fondo con il passato fascista dell’Italia. All’opposto, l’ex Pci, diventando Pd, ha pensato bene di cancellare l’antifascismo dal proprio statuto fondativo e, inseguendo le destre leghiste e xenofobe, ha cresciuto dirigenti che, per esempio, affermano tranquillamente che uno stupro è più grave se commesso da un migrante. La stretta autoritaria imposta dal ministro degli Interni del governo Gentiloni e la gestione securitaria dell’immigrazione, suggellata dal codice Minniti (che ha alle spalle la Bossi-Fini e la legge Turco-Napolitano), sono il risultato.

Invece di combattere razzismo e xenofobia – come abbiamo denunciato più volte – il centrosinistra soffia sulla paura, facendone la leva di una dissennata campagna elettorale. Con la benedizione di papa Bergoglio che raccomanda di accogliere i migranti «con prudenza» e parla di diritto all’integrazione; lui che è il capo del Vaticano dove migranti e rifugiati non hanno diritto di cittadinanza, per legge. La parola integrazione ricorre anche nel piano lanciato dal ministro Minniti, ci ricorda Giuseppe Faso, coautore del Libro bianco sul razzismo, da cui emerge un quadro agghiacciante del razzismo in Italia, registrando non solo casi di violenza verbale e discriminazione ma anche di violenza fisica, fino agli omicidi. «Il Piano di integrazione proposto dal ministero Minniti – scrive Faso – inizia con una premessa dal titolo “Valori costituzionali e integrazione”, in cui la prospettiva incongrua della prima parte è funzionale al pervertimento del significato dell’ultimo termine».

Da tempo osservatori attenti «hanno rilevato nell’uso del termine integrazione una curvatura ambigua, con l’abbandono del suo carattere di reciprocità che era stato prevalente nella letteratura internazionale e presso gli operatori sociali». Troppo spesso si parla di politiche di integrazione ma si intende assimilazione. Escludendo ogni reciprocità. Imponendo a migranti e rifugiati di adeguarsi al nostro modello culturale, costringendoli ad annullare la propria storia per abbracciare la nostra. Imponendo loro doveri senza riconoscere i loro diritti.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto dal numero di Left in edicola


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Le donne immigrate non partoriscono immigrati

ROME, ITALY - SEPTEMBER 1: Members of the Muslim community perform Eid al-Adha the 'Feast of Sacrifice', which marks the end of the annual pilgrimage or Hajj to the Saudi holy city of Mecca, at Piazza Vittorio square,in Rome's Esquilino multi-ethnic quarter on September 1, 2017 in Rome, Italy. The Feast of the Sacrifice, Islam's most important holiday. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/Corbis via Getty Images)

All’inizio degli anni 90 avevo come vicina una signora anziana. Una romagnola che aveva fatto la bracciante tutta la vita. Durante le belle giornate passava ore davanti alla porta seduta su una sedia con un rotocalco in mano. Eva Duemila, mi ricordo. La signora non aveva mai visto un nero in carne ed ossa in vita sua. Ne aveva visto senza dubbio qualche immagine sul suo rotocalco preferito, ne aveva senz’altro visto qualcuno in tv ma mai così di fronte come quella volta in cui venne a trovarmi il mio amico senegalese Modou. Lei lo guardò e ovviamente cercò di nascondere il proprio stupore.

La sera disse con sua figlia, la quale mi riferì la conversazione: «Oggi ho visto un nero, ma era così nero, talmente nero che aveva persino le pieghe del collo nere!». Una frase che è un vero e proprio trattato di sociologia. Vedendo il senegalese Modou, le si presentò la sua vita davanti, il duro lavoro nei campi e le dure lotte per ottenere un briciolo di diritti. Duro lavoro e diritti conquistati che hanno fatto l’Italia. Si presentò alla sua mente l’abbronzatura dei contadini d’estate nei campi in canottiera, forse si ricordò suo marito, anche lui contadino, scomparso tanti anni prima: il collo abbronzato ma le pieghe rigorosamente bianche. In un lampo, in una frase, la vecchia contadina raccontò la sua storia e la diversità che si materializzava così davanti a lei, con disarmante semplicità «oggi ho visto il diverso, lo riconosco, so chi sono io, so chi è lui e ho le parole per dirlo».

Qualche mese prima, nell’agosto 1989, una banda di criminali assassinò, a Villa Literno, il sudafricano Jerry Masslo. L’Italia scopre, con questo omicidio, i suoi immigrati sfruttati nei campi di pomodoro al Sud, nelle fabbriche al Nord. L’Italia sotto shock si scopre terra di immigrazione dopo essere stata a lungo terra di emigrazione e decise di dire no al razzismo e alla xenofobia. Ci furono funerali di Stato per Jerry Masslo. La Rai mandò in onda quei funerali in diretta e qualche mese dopo una grossa manifestazione: no al razzismo, no alla xenofobia. Mai più crimini razzisti. Sotto una foto che ritrae Achille Occhetto che stringe la mano a un immigrato africano, L’Unità datata 8 ottobre 1989 scrive: «Superata anche la più ottimistica previsione. A centinaia di migliaia sono venuti a Roma ed hanno sfilato per più di tre ore, fianco a fianco, bianchi e neri per dire “no” a tutti i razzismi e per chiedere al governo misure urgenti perché violenza e discriminazioni siano cancellate dalla nostra società civile e democratica».

Inverno 2015, un signore di Ravenna scrive un post sul proprio profilo Facebook che dice più o meno: «Quando muore Tahar Lamri che ci porta tanti immigrati nella nostra città, farò una grande festa. Siete tutti invitati». Scrissi un post. Nei commenti qualcuno disse “denuncialo”. Io non lo volevo denunciare altrimenti non avrei scritto un post. Quel signore lesse i commenti. Si prese paura. Mi cercò. Mi implorò di non denunciarlo. Gli dissi che non avevo nessuna intenzione di farlo. Ma lui non mi ascoltava, ripeteva ossessivamente: non denunciarmi, ho una figlia piccola. Era sinceramente terrorizzato. Da allora scrive post pieni di elogi per gli immigrati. Ogni tanto mi capita di incrociarlo. Ci salutiamo, come se niente fosse. Ottobre 2017, la trasmissione Quinta colonna di Rete4 fa una diretta da Ravenna. Tema come sempre….

La cover story di Tahar Lamri prosegue su Left in edicola


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Russia, Ksenia Sobchak scende in campo. Il ritratto della donna che vuole sfidare Putin

epa06274165 (FILE) File picture dated 12 June 2012 shows Russian TV host Ksenia Sobchak (R) and Russian opposition leader Ilya Yashin (L) arriving for questioning at the Investigative Committee building in Moscow, Russia (reissued 18 October 2017). Ksenia Sobchak announced her decision to run for president of Russia in the March 2018 presidential election. EPA/MAXIM SHIPENKOV

«La decisione è presa. Il silenzio è stato abbastanza. Ci ho pensato per mesi. Intendo candidarmi per quelli che vogliono votare contro tutti» ha detto guardando verso l’obiettivo della telecamera Ksenia Sobchak. E “Contro tutti” è uno dei suoi slogan.

La figlia della ricchissima élite russa, quella che ricordano tutti sprezzante e altezzosa quando si affacciò alla vita pubblica più di un decennio fa, si candida alle presidenziali di marzo 2018. Ma all’opposizione, contro quello stesso mondo che le ha dato i natali. La Sobchak si schiera non tra le file dei fedeli di quel Cremlino di Putin che le fece – si dice – da padrino, quando venne al mondo nel 1981. (Questa, come molte cose in Russia, è solo un’informazione sussurrata, senza prove). Per alcuni giornali la sua candidatura serve a dividere un’opposizione zoppicante, per alcuni analisti è il Cremlino stesso ad aver disegnato su misura una nemica del presidente. In cambio ci sarebbe il suo ritorno sugli schermi della tv nazionale.

Il circolo politico abulico moscovita si elettrifica per breve tempo, ma non più di tanto. Non la criticano i membri dei partiti della maggioranza, ma quelli dell’opposizione stessa. Aleksej Navalny, l’unico vero oppositore del presidente, ha detto che la Sobchak è «per il Cremlino una caricatura ideale di un candidato liberale». Lei ribatte dicendo che lui ha monopolizzato l’opposizione. Intanto la questione Navalny è finita alla Corte europea dei diritti umani, perché in patria, con una sentenza delle autorità giudiziarie, gli è stato vietato di candidarsi fino al 2028 per le sue condanne per frode.

Forse Ksenia ha bisogno del Cremlino per tornare in tv, forse è il Cremlino stesso ad aver bisogno di lei per dimostrare che in Russia l’opposizione esiste. «Tutto questo è una bugia» ha replicato lei, «non ho bisogno della loro benedizione», ha scritto sul suo blog. «Negli ultimi 17 anni una nuova generazione è cresciuta, che vuole vedere una Russia diversa, civilizzata ed europea» ha detto nel video di presentazione alla tv Dozhd la Sobchak. Contro tutti, ma non proprio. Nel video Ksenia dice: «ho quasi 36 anni e come ogni cittadino russo, ho il diritto di candidarmi alle presidenziali, ho deciso di usare questo diritto, anche solo perché sono contro quelli che di solito questo diritto lo usano». La radio Golos Ameriki le chiede, protif vcech, contro tutti, o per te stessa, za tebja?

Per se stessa. Da quando l’ereditiera ha cominciato a posare in copertina a vent’anni per farsi conoscere da San Pietroburgo a Vladivostock, nel suo paese – il più esteso del mondo – hanno cominciato a chiamarla “la Paris Hitlon russa”. Gli episodi della sua vita mondana erano seguiti dai cittadini della Federazione come la punta di diamante più luccicante di quel mondo, quando, da ogni povera provincia russa, si osservava da lontano la splendente esistenza delle élite delle capitali, Mosca e San Pietroburgo. Macchine di lusso, feste milionarie, caviale tra le dita. Sesso, soldi, scandalose relazioni. Gossip e celebrità. Dagli scatti patinati su Playboy, dalle collane di perle e diamanti, dagli abiti di alta moda, dalle sale da ballo, è poi passata ai palchi della tv, ha posato lo champagne e ha preso il microfono in mano, diventando presentatrice televisiva. Prima il reality show Grande Fratello, poi una tv indipendente e avversa al Cremlino, Dozhd. Poi ancora: Ksenia posa la Porche, vuole un partito. Adesso va in giro con occhiali in punta di naso e camicie sobrie e ben stirate.

Ksenia Sobchak, la figlia del mentore del presidente russo Vladimir Putin, Anatolij Sobchak, ex sindaco di San Pietroburgo, ha deciso di abbandonare il palco per le urne e per conquistare gli scranni del potere. È stata solo una delle metamorfosi dalla figlia della gioventù dorata dell’oligarchia post sovietica, dopo quell’inverno del 2011 in cui è iniziato tutto, quando è scesa in piazza a manifestare contro il pugno duro di Mosca. Nella piazza di protesta anti-putiniana sei anni fa incontra Ilja Jashin, il dissidente diventerà suo fidanzato e lei verrà ribattezzata Giulietta, lui Romeo della rivoluzione. Finita la rivolta di piazza, finito l’amore, finì anche la carriera tv di Ksenia. Da allora è quasi sempre rimasta in silenzio, fino ad oggi. Il suo vecchio amore, Jashin, è un fervente sostenitore di quello che potrebbe essere il suo unico, vero avversario, Navalny.

Ma Ksenia continua, incurante, nonostante la tempesta di critiche che arriva dal lato della barricata di chi dovrebbe sostenerla. Intanto, per le elezioni più prevedibili della storia, quei giornali che la lanciarono sulle scene come l’omologa dell’ereditiera americana, ricchissima e biondissima, non si sono chiesti nemmeno una volta se a Mosca una donna può diventare presidente, non hanno valutato seriamente nemmeno un secondo l’impatto della scelta politica dell’ex Paris Hilton russa. Hanno solo cambiato espressione e la chiamano adesso la Chelsea Clinton di Mosca.

Tutte le taglie del senso della misura

(L-R) Italian Economical Progress Viced Minister, teresa Bellanova, Former Italian Prime Minister Matteo Renzi, Italian Premier Paolo Gentiloni and Italian Agriculture Minister Maurizio Martina at the Democratic party (Partito Democratico, PD) leadership campaign event at ex-Fiat Lingotto conference centre in Turin, Italy, 12 March 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

C’è quella che non può permettersi di ritenersi stuprata perché non ha urlato e graffiato e quindi non è stupro. C’è quello che ci insegna che la molestia non vale nel caso in cui se ne ottenga un vantaggio, anche se il vantaggio è lavorare. Poi c’è chi scrive che gli uomini sono tutti così e qualcuno gli risponde che sono le donne a essere tutte un po’ così.

Ma non solo: c’è chi dice che un segretario di partito forse dovrebbe avvisare i compagni di partito prima di silurare il governatore di Bankitalia come un Letta qualsiasi e subito rispondono che che ognuno è libero di essere arrogante, se eletto dal popolo. E quell’altro si difende dicendo che anche Prodi ha fatto così.

C’è chi dice che manca il lavoro e qualcuno puntualizza che mancano i lavoratori perché i giovani italiani sono scansafatiche. Poi subentra un terzo che dice di non volere i negri perché non vogliono lavorare. Poi un quarto ricorda che per lavorare bisogna essere disposti a tutto, anche alle molestie.

E, se ci pensate, ricomincia il giro.

Avevano un bel dire i nostri nonni nel raccomandarci di avere “il senso della misura” quando, oggi, ciascuno rivendica una misura tutta sua. Una misura che, si badi bene, non dipende dalla diversità delle sensibilità, dei valori o delle visuali politiche: oggi essere fuori misura è la scorciatoia più rapida per evitare di dovere affrontare la complessità. E così, pur di apparire comprensibili per sfamare la voglia di apparire, tutto il confronto è un bianco o nero senza nessun tono di grigio. E, se ci pensate bene, non è nemmeno un dibattito ma è uno sforzo di posizionarsi il più velocemente possibile (e nel modo più “gustoso” per l’opinione pubblica) all’estremo opposto dell’avversario di turno.

Così tutto è agone, rodeo ma finto. Un Colosseo ma vuoto: tutto il pubblico ascolta i due matti che raccontano come si sarebbero sfidati attorcigliandosi nelle iperboli. E sul campo non si sfida più nessuno. E per il pubblico riconoscere da che parte sta la propria squadra non è mai stato così facile. Senza nemmeno la fatica di articolare un pensiero.

Buon venerdì.

Come si risolve un problema come Harvey Weinstein?

Produttore. Predatore. Paria. È il titolo di una storia (non solo) americana. In Italia si criminalizza la vittima, in America si stanno chiedendo chi è lo stupratore seriale. E lo stanno facendo ascoltando le donne che da lui sono state abusate negli ultimi trent’anni.

Come si risolve un problema come Harvey Weinstein? Se lo chiede il magazine Time. «Il concetto di casting couch, ovvero il casting sul divano, è vecchio come la stessa Hollywood e come il suo codice tacito di silenzi. Le attrici che hanno scelto di non parlare per anni avevano paura di perdere le parti nei film. Quando sei un coniglio preso in una gabbia di leoni, claudicare è l’unico modo di sopravvivere. In un mondo migliore di quello in cui viviamo – fatto di carriere incardinate su compiacenza sessuale sotto le mani di bulli potenti – basterebbe farsi avanti e parlare». Invece, il risultato di chi rompe il silenzio è il rischio di perdere la professione, essere chiamata «whiner, piagnona, perché non sa come play the game, giocare quel gioco».

«Ma cosa vuol dire, il suo downfall, la sua caduta per gli altri predatori? Dopo aver agito per anni impunemente, come uno degli uomini più più potenti del mondo dello spettacolo, Weinstein ha scatenato un’inondazione di accuse, la cui parte maggiore deve ancora venire alla luce. Il potere era il suo afrodisiaco. Il potere era il senso, il motivo e il cover up. L’insabbiamento. E il potere è esattamente ciò che ha perduto». La somma, in totale, in America, per i sexual harrassment, per gli assalti sessuali, nel 2016, richiesta fuori contenzioso dopo le denunce, è stata di oltre 40 milioni di dollari.

Le voci sugli stupri commessi da Bill Cosby, per esempio, sono andate avanti per anni, ma nessuna prova gli rimaneva appiccicata addosso. «Cosby non ha pagato nessuna conseguenza legale per quello che ha fatto, ma è un paria sociale». A luglio 2016 in America è scoppiato uno scandalo del genere contro Rogr Ailes, in scala minore. Ad ottobre dello stesso anno il Washington Post ha pubblicato un video in cui Donald Trump si vantava di aver afferrato genitali femminili. In questo mondo di paure e ricatti «l’uomo con il potere non perde niente. Se succede qualcosa, lui diventa solo più potente. Quel codice di silenzio ha protetto Harvey Weinstein per un tempo infinitamente immemorabile».

E adesso le voci che si alzano. Sentendo il suo nome Angelina Jolie parla «di una cattiva esperienza con lui nella sua giovinezza». All’attrice Tomi Ann Roberts, Weinstein ha chiesto di spogliarsi nel 1984. A Emma de Caunes nel 2010 e anche di stendersi sul suo letto. Ambra Gutierrez ha detto di essere stata molestata da lui nel 2015. Ad Ashley Judd, Weinstein ha chiesto di massaggiarlo e guardarlo fare la doccia nel 1990. A Laura Madden la stessa proposta di massaggi è arrivata nel 1991. Un anno prima Weinstein aveva detto a Rosanne Arquette di fargli un massaggio al pene e così aveva fatto anche con Gwyneth Paltrow. Nel 1995 Weinstein dice a Liza Campell di fare un bagno e nello stesso anno prova a farlo con Mira Sorvino. Sempre in albergo. A Lucia Evans ha imposto un rapporto sessuale orale contro il suo consenso nel 2004, come aveva fatto con Asia Argento nel 1997. Rose McGowan ha ricevuto 100mila dollari per un patteggiamento dopo “un incidente” in una stanza d’albergo nel 1997. Un altro settlement legale Weinstein lo concede a Zelda Perkins nel 1998, sempre per qualcosa che è accaduto in una camera d’hotel. Si è masturbato davanti a Lauren Silvan nel 2007, nel 2014 a Emily Nestor ha offerto di migliorare la sua carriera diventando la sua ragazza.

Quando lo scandalo è scoppiato e ha dovuto rispondere ai giornalisti, le prime parole di Weinstein sono state queste: «I just didn’t know any better, this is just how we did things in the old days». Non sapevo fare di meglio, è solo come facevamo le cose ai vecchi tempi.