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Quanto è lontana la Somalia

epa06265445 People carry a victim out of the scene of a massive explosion in front of Safari Hotel in the capital Mogadishu, Somalia, 14 October 2017. Reports state at least 20 peole have been killed when a truck bomb went off on a busy street in central Mogadishu. There was no immediate claim of responsibility but the country's Islamist militant group al-Shabab often carries out similar attacks in the capital. EPA/SAID YUSUF WARSAME

Una mattina, alla radio, sento in coda a un notiziario che si “aggrava il bilancio delle vittime dell’attentato”; torno a casa, rovisto i telegiornali in cerca di dettagli su cosa e dove sia successo, ma – non trovando nulla – penso di essere solo suggestionato dalla sequela di atti terroristici degli ultimi anni. In serata, la notizia ricompare, anche se non tra le più importanti e persino l’indomani (oltre a Left) sono rari i giornali che le danno dignità da “prima pagina”, tanto che, in voluta controtendenza, Massimo Bordin ne fa l’apertura della rassegna stampa di Radio Radicale. La domanda che traggo dalla mia grottesca rêverie è questa: quasi trecento morti e altrettanti feriti per l’esplosione di due camion bomba a Mogadiscio, sono o non sono un titolo da prima pagina, oltre che una tragedia di una gravità inaudita? Proprio mentre scrivo, mi arriva un’altra notizia, sempre in sordina, e mi sorge un’altra domanda: sembra che per uno dei due camion bomba in Somalia sia stato usato un vecchio mezzo militare italiano e che la procura di Firenze stia indagando sulla esportazione illegale di mezzi dismessi, ma non demilitarizzati, delle nostre forze armate. Forse qualcuno sta studiando nuovi modi per aiutare gli africani a casa loro?

 

Per approfondire: Le stragi dimenticate alla periferia dell’Impero di Massimo Alberizzi

Africa, oggi la tragedia dei migranti, ieri il colonialismo europeo del terrore

Operazione della Guardia Costiera libica al largo di Zawiya, nord ovest Libia, 27 giugno 2017. ANSA/Zuhair Abusrewil

La storia inizia con gli accordi di Sykes-Picot, quando le due grandi potenze coloniali dell’epoca (inizi del Novecento) ridisegnarono sulla carta geografica il nuovo Medio Oriente, inventando Stati senza una propria identità nazionale, cancellando, prima con un tratto di penna e poi con le armi, comunità intere.

Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia, Algeria, Congo, Mozambico, Angola… È il passato che non passa, sono ferite che non si rimarginano. In periodi storici diversi, sotto regimi diversi, ma con la stessa, lunga scia di sangue. E con una verità che si vorrebbe cancellare. Una verità scomoda. Italia, Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, così come Austria, Gran Bretagna, Germania: nel continente Africano, i colonialismi europei si sono spessi trasformati in terrorismo di Stato. Non è solo la storia di Paesi saccheggiati, di popoli sottomessi a forza, di ricchezze naturali depredate da multinazionali onnivore che mantenevano dittatori sanguinari. Questo è il colonialismo “classico”. Ma quello che si vorrebbe cancellare, seppellire nel dimenticatoio, è il terrorismo di Stato: sono le stragi di civili, le città e i villaggi dati alle fiamme, le popolazioni deportate, le fosse comuni, le pulizie etniche.

Un passato che chiama pesantemente in causa l’Italia. Altro che “italiani brava gente”. Angelo Del Boca, il più autorevole storico italiano del colonialismo fascista nel Nord Africa, ha dedicato anni di ricerche e diversi saggi per dimostrare i crimini di guerra e contro l’umanità che le truppe italiane commisero in Libia, Etiopia, Eritrea… Somalia. Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte venne squartato il ventre e i feti infilzati, giovani indigene violentate e torturate, teste mozzate portate in giro come trofei; torture anche su bambini e vecchi. Racconti documentati di massacri di massa, di uso sistematico dei gas contro la popolazione civile, di lager che nulla avevano ache “invidiare” a quelli nazisti. Il colonialismo italiano è stato brutale, selvaggio, e dietro di sé ha lasciato solo rovine e una memoria che il tempo, non solo in Libia, non ha cancellato. L’Italia ha tutto distrutto e nulla realizzato. A differenza di Francia e Gran Bretagna, rimarca in proposito Del Boca, che nei domini coloniali hanno formato una classe dirigente autoctona, l’Italia neanche questo ha fatto, impedendo anche l’istruzione, percepita come una minaccia.

Sono trascorsi quasi 80 anni da allora, ma la logica colonialista non è cambiata. Il terrorismo di Stato non viene più praticato direttamente ma per interposto regime. Cos’altro è il sostegno italiano alle milizie che in Libia si sono riciclate in guardiane dei lager nei quali vengono segregati e sottoposti alle più abominevoli torture, migliaia di migranti ricacciati indietro dalla Guardia costiera libica, spesso in combutta con i trafficanti di esseri umani, sostenuta, armata e addestrata dall’Italia? E cos’altro è, se non terrorismo di Stato per interposta persona, quello che si cela dietro all’appoggio dell’Italia, e dell’Europa, ad uno dei più brutali regimi africani: quello dell’Eritrea? Oggi come ieri, la diplomazia dei diritti non ha spazio nelle politiche neocoloniali dell’Europa: l’importante, l’imperativo categorico, è impedire una (inesistente) invasione di rifugiati e migranti dai Sud del mondo. Per ottenere questo risultato, le democrazie europee chiudono gli occhi e mettono mano ai portafogli, per arricchire i “Gendarmi” delle frontiere esterne: gli Erdogan, gli al-Sisi, i signori della guerra libici, i dittatori che spadroneggiano in Eritrea, Corno d’Africa, Sudan, Niger, Nigeria…

L’Italia non è stata la sola a praticare il terrorismo di Stato nel Vicino Oriente e in Africa. Vi sono pagine di vergogna, impastata di sangue, scritte da regni e democrazie europei che hanno depredato Paesi interi, massacrato popolazioni indigene, depredato le ricchezze naturali, sfruttato a livello di schiavitù anche i bambini. È la storia del colonialismo belga – nel Congo – di quello portoghese – in Mozambico e Angola – e poi  della Francia, della Gran Bretagna, della Germania. Queste ferite sono ancora aperte. Perché hanno significato la morte di decine di milioni di persone, la negazione dei più elementari diritti umani ad altrettante. Ha significato schiavitù sessuale, fosse comuni, crimini che oggi la “civile” Europa imputa ai nazi-islamisti di Daesh. Senza memoria, non c’è futuro. E coltivare la memoria di un colonialismo “terrorista” significa non solo non mantenere viva una verità storica ma anche ragionare sui guasti del presente e su scelte rivelatesi scellerate. «L’Italia – dice a Left Angelo Del Boca – sembra aver rimosso non solo il passato coloniale del Ventennio fascista, con tutta la brutalità che l’ha caratterizzato, ma con le scelte compiute nel presente dimentica anche cosa abbia voluto dire aver fatto parte dei Paesi europei che nel 2011 hanno portato guerra e distruzione in Libia, usando strumentalmente il tema dei diritti umani, per eliminare un testimone scomodo, Muammar Gheddafi, con il quale mezza Europa, tra cui l’Italia, aveva fatto affari, e, per quanto riguarda Gran Bretagna e Francia, per scalzare l’Eni nella sua posizione petrolifera dominante. Le conseguenze di quella scellerata guerra – conclude Del Boca – sono, e non da oggi, sotto i nostri occhi. Il problema è che chi governa, quegli occhi li vuol tenere chiusi».

Un atteggiamento complice che l’Italia condivide con l’Europa. L’Europa che ha scelto di pagare raìs, generali, autocratici per fare il lavoro sporco. Che erige muri e militarizza frontiere per ricacciare indietro milioni di persone che fuggono da guerre, disastri ambientali, sfruttamento inumano di multinazionali onnivore, che sono, spesso, il frutto delle scelte europee o occidentali. È la democrazia imposta dall’esterno in Iraq, che ha liquidato Saddam Hussein consegnando il Paese ad al-Qaeda e alla dittatura sciita. È  lo “scontro di civiltà” che ha ideologicamente supportato le guerre contro il terrorismo nel Grande Medio Oriente; guerre che invece di stabilizzare e pacificare, hanno destabilizzato e portato al potere tanti Pinochet mediorientali o africani. Uno per tutti: Abdel Fattah al-Sisi. È la doppia morale di chi si batte contro l’Isis, salvo poi fare affari con lo “Stato islamico” veramente realizzato: l’Arabia Saudita. Ieri era terrorismo di Stato colonialista. Oggi è usare la lotta al terrorismo jihadista per continuare a sfruttare popoli, alimentando guerre per procura. È il terrorismo di Stato del Terzo millennio. E l’Europa ne è parte attiva.

Per approfondire, Left in edicola da sabato 21 ottobre


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Il “deserto dei significati” che allontana i giovani dalla scuola

epa05838122 General view of a partially empty classroom at IES Beatriz Galindo high school in Madrid, Spain, 09 March 2017. Several teacher trade unions and parents and students associations have called for a 24-hour general strike in education system to demand the repeal of the Spanish consitutional law for improvement of Education quality (LOMCE) and against cuts in education. EPA/FERNANDO ALVARADO

Pensare a un numero finito di cause della dispersione scolastica è, quantomeno, insensato. Premesso, come tiene a precisare il presidente di Con i bambini, Carlo Borgomeo, che rispetto alle difficoltà dei giovani la dispersione è «causa, perché li rende vittime di altre dispersione, e sintomo, perché si manifesta nelle situazioni di ambienti e territori in cui c’è maggior disagio e minor senso di comunità», l’abbandono scolastico non è una disfunzione, ma il mal funzionamento di un intero sistema.

È dispersione mentale. Dissipazione di energie vitali di giovani persi a se stessi e dispersi in casa, in famiglie “multiproblematiche”, povere di risorse economiche ma soprattutto di quelle culturali e relazionali, nelle quali, se capita qualcosa, tutto crolla: il verificarsi della dispersione scolastica al verificarsi di certe condizioni famigliari è prevedibile nel 90 per cento dei casi.

Ma la chiusura all’apprendimento, stando a quanto si legge nei sostanziosi lavori di Maestri di Strada «è strettamente connessa con la chiusura al rapporto, con esperienze deludenti di relazione con gli altri, in primo luogo con gli adulti di riferimento». Che non sanno proporre, non avendolo ricevuto, un mondo migliore: fosche rappresentazioni del futuro alimentano nei giovani, già privi di solidi riferimenti psichici e materiali, «emarginazioni interiori», generando un «deserto dei significati», svuotati di senso. Che, ormai, nemmeno le strutture scolastiche e la cultura pedagogica riescono a riempire, inadeguate, come sono, a cogliere la complessità del mondo e le difficoltà di crescita dei giovani delle periferie emarginate (e non solo), il cui disagio altro non è che lo stato acuto e palese di un malessere strisciante che pervade l’intera società.

Nella quale le relazioni affettive sono evaporate e «sostituite da dispositivi razionali», tipo servizi e istituzioni, che lasciano i giovani indifesi di fronte alle proprie carenze, alimentate da insuccessi cognitivi e relazionali in ambito scolastico che, spesso, è causa e contesto di ripetuti fallimenti.

Fallimenti che amplificano la demotivazione a proseguire gli studi, in un ambiente tutt’altro che favorevole, caratterizzato da degrado, mancanza di strutture di sostegno alla socialità e, talvolta, da presenza di criminalità a vari livelli, in città trascurate, costituite da ghetti a matrioska, in cui interi strati sociali si disconoscono e si guardano con sospetto.

Un clima di totale abbandono che pesa come un disinvestimento umano che fa sentire i giovani esclusi da qualsiasi progettualità, verso l’impossibilità di desiderare. Verso il “tutto è perduto”. Verso un immutabile destino prestabilito che il vissuto quotidiano non stenta a ribadire in ogni occasione, contribuendo, anche, a farli dubitare del proprio valore: se è vero che «ogni essere umano, per trovare indizi che gli permettano di comprendere come considerarsi e valutarsi, dipende dalla somma delle proprie esperienze con gli altri, è ovvio che dei bambini, vedendosi continuamente respinti comincino a chiedersi se davvero meritino il disprezzo della società», spiega a Left, il presidente e fondatore di Maestri di Strada, Cesare Moreno.

L’ostilità del mondo, il rancore e la rabbia «si vincono con la parola e con il pensiero», strumenti indispensabili a elaborare la propria condizione e non con la fredda «trasmissione di un patrimonio estraneo a sé» perché l’inappetenza cognitiva, provocata dal disagio esistenziale e della società, è a monte di qualsiasi proposta didattica.

E anche la legge sulla cannabis finisce nel cesso

Il vice presidente della Camera, Luigi Di Maio, con Roberto Giachetti (D) durante il voto di fiducia posta dal governo sul terzo dei cinque articoli della legge elettorale nell'aula di Montecitorio, Roma, 12 ottobre 2017. ANSA/ETTORE FERRARI

Come ha fatto osservare Civati, Paolo Mieli poco tempo fa sul Correre della Sera scriveva così:

«Un mese fa l’esponente democratico Roberto Giachetti è stato sconfitto alle elezioni per la conquista del Campidoglio. Adesso potrebbe essere risarcito con la titolarità di qualcosa probabilmente più importante, comunque destinata a restare nella storia del nostro Paese. Oggi infatti la Camera inizia la discussione sul disegno di legge per la legalizzazione della cannabis promosso dal sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova (oltreché da Giachetti, entrambi «nati» nel Partito radicale), firmato da 221 deputati e 73 senatori appartenenti a tutti gli schieramenti politici (anche se il voto non ci sarà prima di settembre)».

Giachetti è il primo firmatario di una proposta di legge a cui oggi, in Parlamento, ha votato contro. Giachetti, tra l’altro, è proprio uno di quelli che negli ultimi mesi ha girato l’Italia tra convegni, comizi e tavole rotonde per spiegarci quanto questa legge avrebbe potuto fare bene all’Italia (3-5 miliardi di euro di entrate all’anno, che sarebbero state utili per sanità, scuola, prevenzione e tutto il resto) e quanto avrebbe potuto fare male alla criminalità organizzata (checché ne dicano alcuni, che poi sono gli stessi che ancora ritengono sia credibile il luogo comune del parallelo spinello-droghe pesanti, oppure la questione sanitaria nel Paese che vive grazie alle accise sul tabacco e sull’alcol).

«Mi rendo conto che il Movimento cinque stelle e altri colleghi non possano capire questo mio gesto, perché sono abituati a eseguire solo quel che ordina il loro capo», scrive Giachetti nel profilo Facebook. Lui. Nel partito di quel segretario fiorentino che per calcolo elettorale solo nelle ultime settimane ha affondato lo ius soli, Bankitalia e ora la legalizzazione della cannabis. Quel partito che dice di “fare cose di sinistra” e che si lamenta di essere semplicemente boicottato dalla destra, con cui si allea. E che ha scritto una legge elettorale che lo spingerà a allearsi di nuovo con il centrodestra.

Buon giovedì.

Desaparecidos, lo psichiatra Masini: «La violenza dell’annullamento non è più sconosciuta»

People hold portraits of activist Santiago Maldonado -disappeared on August 1st during a Mapuche protest in Chubut province, during a demonstration called by human rights associations asking for his whereabouts, at Plaza de Mayo in Buenos Aires on August 11, 2017. Maldonado disappeared last August 01 when the Gendarmerie dispersed a Mapuche protest in the Pu Lof community, Resistencia, Cushamen Department, some 1850 km southwest of Buenos Aires. He is said to have last been seen being put into a military police vehicle by officers who broke up a demonstration in the southern province of Chubut. The demonstrators had been demanding the release of a jailed Mapuche leader. / AFP PHOTO / EITAN ABRAMOVICH (Photo credit should read EITAN ABRAMOVICH/AFP/Getty Images)

Il 20 dicembre 2006 l’assemblea generale delle Nazioni unite ha adottato la “Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata” (risoluzione 61/117). L’Italia l’ha ratificata nell’estate del 2015. Secondo la Convenzione si intende per “sparizione forzata” «l’arresto, la detenzione, sequestro o qualunque altra forma di privazione della libertà da parte di agenti dello Stato o di persone o gruppi di persone che agiscono con l’autorizzazione, il sostegno o l’acquiescenza dello Stato, a cui faccia seguito il rifiuto di riconoscere la privazione della libertà o il silenzio riguardo la sorte o il luogo in cui si trovi la persona sparita, tale da collocare tale persona al di fuori della protezione data dal diritto».

Il termine “desaparecidos” venne coniato nel 1978 da Videla. Riferendosi alle migliaia di «sovversivi» scomparsi in Argentina dal 1976 in poi, durante un’intervista televisiva alla Bbc il dittatore argentino affermò impunemente: «Non ci sono né vivi né morti, solo desaparecidos». Queste stesse parole erano urlate con insistenza dai torturatori agli internati nei centri clandestini di detenzione: «Voi qui non siete nulla», «siete senza nome», «non siete né vivi né morti», «non esistete». Dal punto di vista giuridico tutto questo dal 2006 è un crimine e, in alcune circostanze stabilite dal diritto internazionale, rappresenta un crimine contro l’umanità. Abbiamo chiesto ad Andrea Masini, direttore della rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla, se riguardo alla “sparizione” oltre quella giuridica c’è anche una chiave di lettura psichiatrica.

«Nella teoria psichiatrica cioè nella teoria della nascita di Massimo Fagioli, la storia della sparizione, intesa come “fantasia di sparizione” è un punto cardine e ha un valore enorme, ma in questo caso la sparizione viene utilizzata in termini assolutamente distruttivi. La dittatura argentina e trent’anni prima i nazisti – prosegue lo psichiatra Masini – hanno colto e sfruttato un meccanismo psichico potentissimo. Che è più forte della violenza fisica che c’è nell’imprigionare, nel torturare una persona inerme. Far sparire una persona è un’aggressione ancora più devastante perché implica la non esistenza di quella persona, la perdita di qualunque diritto. Un detenuto “normale” si può appellare a tante cose, può parlare con un avvocato, può fare ricorso, può incontrare i familiari. Una persona che è stata fatta scomparire non ha alcuna possibilità di difendersi. Inoltre, dal punto di vista psichiatrico, l’azione di far sparire qualcuno è un concetto diverso».

Vale a dire?

Lo psichiatra Massimo Fagioli ha sempre parlato di pulsione di annullamento. Che non è una aggressione fisica ma è una aggressione psichica violentissima. È quello che avevano “capito” i nazisti. Dopo aver internato le persone le hanno fatte sparire. Hanno annullato milioni di esseri umani. Di loro non ce ne era più traccia. Secondo la teoria di Fagioli con la pulsione di annullamento non solo si fa sparire una persona ma la si rende come se non ci fosse mai stata. Come se non fosse mai esistita. E questa dinamica è violentissima sia per chi la subisce direttamente sia per chi gli è “vicino”. Pensiamo ai familiari dei desaparecidos.

Come si può reagire a questa violenza?

Occorre una enorme forza d’animo, una identità, una vitalità, una grande sicurezza di sé per resistere a questo annullamento. Il desaparecido non ha nulla su cui fare forza oltre sé stesso. Richiede una capacità di resistere straordinaria che è difficilissimo possedere. Perché chiunque ha delle fragilità. Va considerato che prima di Fagioli nessuno aveva capito questa dinamica. L’unico che forse ci aveva girato intorno è stato Ernesto De Martino con la storia della “presenza”. Ma tutta la filosofia moderna non c’era mai arrivata. Heidegger parlava di “annientamento” – che comunque è distruzione fisica, sadismo – e non di sparizione tanto meno di annullamento, cioè di rendere non esistente qualcuno che esiste. Lo stesso Freud non aveva mai capito nulla di violenza psichica. Al massimo è arrivato al discorso della violenza fisica. Questa è invece una violenza che riguarda il cardine che sta nell’esistenza-non esistenza di una persona.

Una persona che esiste.

Naturalmente. Ciascuno di noi durante la vita intraprende un percorso per scoprire la propria esistenza nel mondo, e realizzare la propria identità. Quindi la “sparizione forzata” va a intaccare qualcosa di profondissimo, direi di primordiale, di originario nell’essere umano.

Perché è importante fare una distinzione tra annientamento e annullamento?

Innanzitutto si tratta di arrivare a pensare la “pulsione di annullamento”. Si è sempre pensato, teorizzato soltanto il concetto di distruzione, di aggressione fisica. Invece si deve riuscire a capire che la realtà umana si basa su un “oltre” che è “l’essere o non essere”. Cioè sulla necessità di riconoscere il proprio essere, la propria esistenza. È quello che hanno colto i generali argentini e i nazisti i quali rendendo inesistente una persona, facendola sparire, rendendo anche il cadavere non più esistente esercitavano una violenza devastante sulle vittime e sulla popolazione. Perché la gente non la capiva. Perché non c’era il concetto, non c’era il pensiero, non c’era la parola per identificarla. Cosa che appunto invece con la teoria di Fagioli ora abbiamo.

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Per approfondire:

Che fine ha fatto Santiago Maldonado? Desaparecido nell’Argentina di Macri (Link)

Gli aggiornamenti su Pagina12

 

L’intervista allo psichiatra Andrea Masini è stata pubblicata su Left n. 37/2017


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Remo Anzovino, “Nocturne” e la musica detta legge

Foto di Gianluca Moro

Il primo pensiero è per lo studio di registrazione, poi per quello legale. Su tutto, da sempre c’è la musica: «Una parte di me, da quando sono nato, è dentro la musica. C’è una parte della mia testa che ha sempre una musica che suona». Lui è Remo Anzovino, nato a Pordenone dove vive e, appunto, esercita la professione di avvocato penalista, ma anche quella di pianista e compositore. A 11 anni, la folgorazione per il pianoforte e la successiva formazione, tra i classici e gli autori contemporanei, cui si aggiunge la passione per il diritto, laureandosi in Giurisprudenza a Bologna. Ma la scelta tra la toga e lo strumento, non l’ha mai dovuta fare, nonostante una simpatica circostanza da “Sliding doors” a cinque giorni dallo scritto per l’esame di avvocato: «Era il 2002, ero a casa a studiare, mi arriva la chiamata della Cineteca di Bologna, cui avevo portato un mio curriculum. Mi chiedono un tema musicale per un film che sarebbe uscito tre giorni dopo, Nanuk l’eschimese. Che fare: comporre o studiare per l’esame? Ho composto il brano e gliel’ho mandato, poi sono andato a fare l’esame». Da quel momento, si apre la carriera di compositore, e anche quella di avvocato perché l’esame andrà bene. Dal 20 novembre sarà in tour nelle principali città italiane per presentare il suo ultimo album di inediti, Nocturne, registrato tra Tokyo, Londra (l’Abbey Road), Parigi e New York. Quando non frequenta le aule del tribunale, si dedica all’attività di composizione, in passato anche per i maggiori capolavori del cinema muto, poi quella concertistica; ancora, svariati album di inediti, ma anche live. Con questo nuovo lavoro, Anzovino indaga nei sentimenti umani e anche dentro se stesso. Un meraviglioso viaggio musicale.

Sono passati cinque anni, dall’ultimo cd di inediti: in mezzo che cosa c’è stato?
In questi cinque anni sono accadute molte cose. Ho pubblicato un album dal vivo, registrato al Parco della musica di Roma, ho composto musiche per film documentari: uno dedicato a Pasolini, l’altro a Muhammad Alì, tutto sempre tra un concerto e un altro. Queste esperienze di scrittura sono state importanti, mi hanno consentito di “allenare” la mia creatività su un elemento di racconto, e nel frattempo di cercare dentro di me altri elementi per quel racconto.

Quattordici brani intensi, allo stesso tempo molto fruibili, che emozionano. Titoli dedicati, appunto, alla notte, ma anche a una tua ricerca. È come se volessi comunicare, forse a volte gridare, ciò che provi, ciò che senti.
È un album che cerca di mettere in musica un’esigenza che sentivo urgente, che permettesse all’ascoltatore di prendersi un tempo per se stesso. Tutto è ambientato in una notte, che sicuramente ti può cambiare la vita, non perché quella notte accada qualcosa di speciale, ma perché evolvi dentro di te, soprattutto cerchi di farti interprete del tuo essere nel mondo e del tuo essere nel tuo tempo. Questo album è una fotografia del nostro tempo fatta da un musicista che, attraverso i suoni, cerca di descrivere le emozioni più profonde e interiori, quelle che tutti gli uomini cercano di trovare nel quotidiano, in un quotidiano che cambia molto repentinamente.

Oltre che giurista, hai anche un’inclinazione filosofica.
Io credo che la bellezza del vivere sia, proprio, nel comprendere che dobbiamo vivere nel nostro tempo, quello proprio di ciascuno, e non, per esempio, vivere nella nostalgia di un passato che non si è vissuto. La caratteristica del disco, essendo la trasposizione per suoni di tutto ciò che mi circonda e che vedo intorno, è una caratteristica che trovo nella solitudine umana, che io non considero un fatto negativo, ma un fatto che va interpretato. In questa notte che descrivo (soprattutto nel primo brano “Nocturne in Tokyo” ), che è magica e dolorosa allo stesso tempo, io descrivo un essere umano che fa i conti con se stesso nel mondo di oggi e che, attraverso l’ascolto della musica, guardando le proprie debolezze da vicino, riesce a essere un pochino più indulgente nei confronti di se stesso.

Abbiamo parlato della Cineteca di Bologna, ma tu vivi a Pordenone dove c’è un importante festival dedicato al cinema muto. Quale rapporto hai con questi ambienti, oggi?
Sì, certo, quello della mia città è un festival importante, ho collaborato qualche volta, ma sono stato scoperto dal festival concorrente… Ho composto qualcosa come trenta accompagnamenti musicali, per i film muti, nei vari festival e cineteche. Poi, però, ho iniziato a declinare le proposte in questo settore perché mi interessava fare un’esperienza di crescita e di scrittura, volevo fare una musica che vivesse di luce propria, ma ho conservato il metodo. Oggi, quando scrivo, rubo immagini che vedo, le monto nella mia testa, le proietto nello stesso schermo su cui per tanti anni ho guardato Chaplin o Buster Keaton.

La professione forense non ti distrae dalla musica?
Sono un grande “ascoltatore” delle cose che vivo, anche in questo momento sto scrivendo una colonna sonora per la Nexo Digital. Quando mi è stato richiesto di mandare i provini per consentire di fare il montaggio, mi rendevo conto che queste musiche io le stavo ascoltando già da settimane. Per me, c’è sempre prima la musica, ma non perché sia più importante, ma perché la musica è la cosa più importante della mia vita interiore. La musica mi ha consentito di parlare di quello che volevo, non utilizzando la parola.

Il quattordicesimo brano del tuo album si intitola “Valse pour une femme”, che è dedicato alla donna. Desideravi offrire un ritratto del femminile?
Desideravo sottolineare che le donne hanno un maggiore coraggio. Attraverso lo sguardo di una donna, sia di grandi personaggi femminili o persone comuni, ho sempre ritrovato forza, una maggiore fedeltà alle cose e alle persone e nessuna superficialità. Il brano descrive la bellezza nel provare amore per una persona estranea, ma anche tutto il mio amore, appunto, per l’universo femminile. Del resto, questo brano chiude un disco che si apre con l’osservazione delle stelle, continua con Galilei, nell’omonimo brano, contiene la penultima traccia, che si intitola “The stars”. Il mio racconto finisce col dire che le vere stelle non sono quelle che guardiamo nel cielo, ma sono quelle poche persone che a volte nella vita, anche quando noi non lo vogliamo, brillano dentro di noi, come le donne.

Sudafrica, dopo 46 anni la verità sulla morte di Ahmed Timol, attivista anti-apartheid

http://www.ahmedtimol.co.za

Sono passati quarantasei anni. Di ingiustizia, di silenzi, di porte chiuse in faccia a chi chiedeva la verità e, anche senza ottenerla, ho continuato di sperare di averla, ogni giorno, prima o poi. Quel poi è arrivato oggi, quasi mezzo secolo dopo. Ahmed Timol è morto quarantasei anni fa in custodia della polizia, nell’ottobre del 1971 e non si è suicidato come dicono tutte le versioni ufficiali stilate finora. Non ha mai deciso di porre fine alla sua vita, non è mai saltato dal decimo piano della stazione di polizia a Johannesburg dalla stanza numero 1026.

Timol era un leader della resistenza clandestina alla minoranza bianca. Era un insegnante di scuola. Era un membro del partito comunista sudafricano. Scappò a Londra quando cominciarono a perseguitarlo, poi a Mosca. Poi tornò in patria. Fino al 1971, fu ripetutamente arrestato e torturato. Poi Timol, che aveva allora solo 29 anni e si batteva quotidianamente contro l’apharteid, è stato ucciso. Ed è stato buttato giù dalla finestra o dal tetto della John Vorster police station.

«He did not commit suicide, but was murdered». Non ha commesso suicidio, ma è stato ucciso. La maniera in cui l’indagine sulla sua morte è stata condotta «fa supporre che ci sia stato il chiaro intento di cover up, di insabbiare l’incidente con una versione fabbricata del suo suicidio». Ora il sergente Jan Rodrigues, l’ultimo ad averlo visto vivo, «sarà sotto inchiesta per omicidio». Quando il giudice Billy Mothle nella Alta Corte di North Gauteng a Pretoria, Sud Africa, ha emesso la sentenza, lacrime incredule ed applausi scroscianti hanno rotto il silenzio della stanza. Sono almeno 73 i “suicidi” commessi dagli attivisti mentre erano in custodia dalla polizia dal 1963 e 1990. Ora c’è bisogno che vadano riesaminati tutti.

La storia di questo processo in Sud Africa è grande, come l’oblio che è caduto su tutte le atrocità commesse negli anni di ingiustizia razziale e di regime repressivo, dal 1948 al 1994. Lo ha detto in tribunale anche George Bizos, un veterano per la lotta dei diritti e amico di Nelson Mandela. Sono pochi i precedenti casi legali in cui si è detta la verità ad alta voce e anche per questo è stata creata la TRC, Truth and reconciliation commission, la commissione per la verità e riconciliazione. I ricordi dell’apharteid sono ancora vivi, come lo sono i nipoti di Timol: «vogliamo risposte, viviamo in una società democratica, quella per cui nostro zio ha pagato il prezzo più grande».

La foto di Ahmed Timon è tratta dal sito dedicato alla sua vicenda, www.ahmedtimol.co.za

Odore di elezioni: tana scarica tutti

Il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco (S) e Matteo Renzi, durante la cerimonia degli auguri di Natale al Quirinale, Roma 16 dicembre 2013. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Ancora una volta il Pd di Matteo Renzi (o forse basterebbe scrivere Renzi) crea un precedente e non è un buon precedente: dicono le cronache della politica che il premier Gentiloni si apprestasse a rinominare Ignazio Visco al vertice di Bankitalia, in accordo con il capo dello Stato senza avere idea dell’onda che stava arrivando. Era “sereno”, per dirla secondo il vocabolario di una legislatura che, seppur ai titoli di coda, non disdegna di riservare ancora pessime sorprese.

La decisione del Pd di sfiduciare Visco, addentrandosi per l’ennesima volta nel campo solitamente riservato al Governo e al Presidente della Repubblica è l’ennesimo (e ce ne saranno ancora molti) sgarbo istituzionale di un partito che nel giro di qualche ora riesce a essere prima al governo e poi all’opposizione, alla bisogna, pesando tutto ciò che accade in base alla speculazione elettorale.

Crede, Renzi, di scaricare Visco per disinnescare così le responsabilità (e le famigliarità e le amicizie) della crisi bancaria (e di certe banche più delle altre) indicando in Visco il capro espiatorio di una situazione che (come nel caso di Banca Etruria) pesa più per l’inopportunità politica che per beghe monetarie.

È l’inizio del “tana scarica tutti” che del Dna renziano è uno dei fili principali: da qui alle elezioni sarà tutto un gioco di scarico di responsabilità per non dare risposte nel merito, dedicando a un’exit strategy che punti tutto sul nome da dare in pasto alla folla. Sarà una lunga sequela di “state sereni” scaricati sull’uscio.

Come è iniziato tutto, del resto.

Buon mercoledì.

I giudici inglesi: «Le scuole religiose che vietano le classi miste devono chiudere»

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Le scuole religiose che vietano le classi miste e praticano la segregazione sessuale sono illegali. Hanno poco tempo per cambiare le cose, modificare i loro metodi oppure non hanno scelta: devono chiudere. Se non lo faranno da sole, arriveranno gli ispettori. Firmato: la legge della giustizia britannica.

È storica la decisione dei tre giudici delle Corti di Appello inglesi: questa battaglia legale alla fine l’ha vinta l’Ofsted, l’Office for standards in Education, Children service and Skills, che aveva denunciato alcuni istituti scolastici religiosi, dichiarando che “non preparavano gli alunni alla loro vita futura”. Nella lista dell’Ofsted erano finite alcune strutture dove gli studenti e le studentesse non solo non studiavano nelle stesse aule, ma non potevano interagire nemmeno alla pausa pranzo. Una di queste scuole, di Birmingham, la al Hijrah, ha provato ad opporsi e ha portato l’Office in tribunale.

In queste scuole la policy che vige è quella della gender segregation, la segregazione sessuale, un mix ban, un “vietato mischiarsi”: sono scuole dove gli studenti inglesi sono obbligati a fare uso separato anche dei corridoi. La Corte d’appello ha stabilito che la segregazione nelle scuole miste causa «deterioramento e trattamento poco favorevole» tra alunni ed alunne, è contraria alla legge dell’uguaglianza, è “discriminante ed illegale”.

L’Ofsted adesso aspetta che le scuole con regimi simili, «musulmane, ebraiche, cristiane cambino tutte, sono circa venti». È stata la Corte stessa poi a rivolgersi contro l’Ofsted per aver atteso anni prima di riuscire a riformare o sanzionare questi istituti. In ogni caso questa è stata una piccola vittoria di una donna che ha individuato il problema e che si chiama Amanda Spielman: «Questa è discriminazione ed è sbagliata. Questi posti creano svantaggi per la vita, a ragazzi e ragazze, falliscono nel prepararli per la vita moderna che li aspetta».

Hate speech. Laura Boldrini: «Non mi faccio intimidire»

presidente della Camera Laura Boldrini contro la violenza sulle donne

Raggiungo la presidente della Camera Laura Boldrini di ritorno da un incontro con un liceo a Trieste,“rigenerata”, come dice lei stessa, dalla passione dei “tanti giovani presenti”. “Ho avuto la possibilità di parlare al liceo di Giulio Regeni ed è stata una bella mattinata: mi hanno regalato una Costituzione trascritta a mano da loro, in segno di vicinanza per le battaglie che porto avanti. Dicendomi che non me l’hanno regalato come Presidente della Camera ma come Laura Boldrini perché mi hanno detto che non devo sentirmi sola. Ed è una grande soddisfazione”.

Allora, Presidente, non resta che aspettare che diventino loro classe dirigente…

Gli ho detto proprio questo: devono mettere in atto il cambiamento che vorrebbero vedere e quindi partecipare, dare corpo alla Costituzione. Non possono rimanere passivi: devono essere capaci di determinare il loro presente e il loro futuro. Serve un orizzonte alto per cui vivere, altrimenti la vita è una miseria.

A proposito di diritti e orizzonti: ha destato molto scalpore la sentenza del Tribunale di Torino che ha assolto un uomo accusato di stalking grazie alla sua “condotta riparatoria” e ai 1500 euro che ha versato alla vittima. Partendo da qui, come giudica l’attenzione della politica per la violenza sulle donne (in tutte le sue forme)?

Intanto mi faccia dire che quella sentenza ha messo in evidenza una falla che è riconducibile alla riforma penale: lo stalking non doveva essere tra i reati estinguibili con l’equo indennizzo. Capisco bene perché questa ragazza abbia rifiutato il denaro: è umiliante anche la sola idea. Uno che ti stalkerizza è uno che ti rovina l’esistenza, che provoca ansia, angoscia, controllo e tutto questo non si cancella con il denaro; qui serve giustizia. Io penso che si debba rimediare il prima possibile: già due settimane fa, sulla scia degli ultimi femminicidi e stupri avevo sentito il dovere di rivolgermi alle forze politiche per colmare le lacune che erano emerse nelle recenti norme contro la violenza. Evidentemente se le donne continuano a morire per mano di uomini che erano già stati denunciati c’è qualcosa che non va.

Ci sono state risposte?

La gran parte dei partiti ha risposto. Ma c’è un ma: hanno risposto solo le deputate, come se la violenza sulle donne non fosse un gigantesco problema maschile. Io non mi capacito sul perché i politici uomini non sentano il bisogno di fare proprio questo tema. Delegano alle donne, eppure il problema è tutto maschile. Dovrebbero essere loro in prima linea. Questo è il cambiamento che mi attendo che avvenga nel nostro Paese.

Anche perché sembra che il problema delle donne in questo Paese non si riduca solo alla violenza, no?

Certo. Pensiamo alle donne sul lavoro: il 49% delle donne ha un lavoro ma l’altro 51% non è che non lo vorrebbe, non riesce ad ottenerlo. Poi, il Fondo Monetario Internazionale – non stiamo parlando di una Og di attiviste – dice che se le donne lavorano la produttività aumenta e dice che l’Italia perde svariati punti di Pil perché non stimola il lavoro femminile. E anche di questo non si parla. Noi siamo a crescita demografica sotto zero perché le donne se non lavorano non fanno figli. E poi c’è la rappresentazione mediatica della donna nella nostra società, che è quantomeno imbarazzante rispetto agli altri Paesi europei: spesso le ragazze per apparire in Tv devono essere seminude e mute, come se non avessimo giovani scienziate, matematiche, fisiche letterate o artiste. Anche questo è un grande tema politico. E poi c’è la questione della rappresentanza politica: in Italia a differenza che in Germania e nel Regno Unito ad esempio, non ci sono leader donne, tranne il caso di Giorgia Meloni. E questo lo dico soprattutto alla sinistra. Negli ultimi tempi ci sono stati incontri, vertici e fotografie con la pressoché totale assenza di donne. Ho lavorato per 25 anni in ambito internazionale e la parità di genere era un criterio tenuto in gran considerazione, anche nei convegni una delle prime cose di cui ci si preoccupava era l’equilibrio tra il numero di relatrici e relatori.

A proposito di violenze, ha fatto molto rumore la sua campagna contro l’hate speech in rete e la sua decisione di ribellarsi agli odiatori seriali. Quali sono i risultati? Quali sono le iniziative che dovrebbero intraprendere Facebook e simili?

Innanzitutto mi faccia dire che i risultati sono molto buoni. Io ho pensato a lungo all’opportunità di denunciare, l’ho maturata con il tempo perché vedevo che non farlo era come autorizzare il peggio: i cattivi maestri non si stancavano di fomentare l’odio e quindi a un certo punto ho pensato che fosse mio dovere – non solo diritto – denunciare. E da quando ho iniziato a farlo – perché in uno Stato di diritto non si risponde all’odio con l’odio ma lo si fa con la legge e i social media non sono al di fuori della legge – è crollato il numero delle sconcezze, delle volgarità e delle minacce. Io non abbasserò mai la testa, mai. Ora gli haters sono in ritirata, questa gentaglia può essere rimessa al proprio posto: continuo a firmare tantissime querele con mia grande soddisfazione.

Ma esiste un problema di comportamenti sulla rete?

La rete è uno spazio troppo importante per lasciarlo in mano ai violenti. Ognuno di noi deve assumersi la propria responsabilità. I grandi social dovrebbero fare di più, almeno per essere coerenti con quello che dicono. E invece nel nostro Paese lesinano risorse e presenza fisica: laddove non c’è un investimento in risorse umane non c’è nemmeno la possibilità di intervenire prontamente di fronte all’odio, di cancellare i messaggi, di fare azioni di contrasto. Io rimprovero a Facebook e agli altri di non investire: fanno un sacco di soldi, noi in Italia abbiamo 30 milioni di utenti, e cosa aspettano ad aprire un ufficio qui? Oltre al fatto che dovrebbero cominciare a pagare le tasse nei Paesi in cui fanno business: è inaccettabile una situazione di questo genere ed è una scorrettezza nei confronti delle aziende tradizionali che invece pagano le tasse dove fatturano. È una questione di giustizia sociale. Alla base imponibile mancano tra i 30 e i 32 miliardi di euro. Vale a dire circa 5/6 miliardi di tasse. Questi soldi potrebbero essere utilizzati per aumentare il numero di famiglie che hanno diritto al reddito di inclusione. Bisogna essere più esigenti con i giganti del web.

Nelle nostre interviste spesso ci interroghiamo sul fatto che “essere buoni” (meglio: buonisti) sia diventato terribilmente fuori moda come se la solidarietà, la bontà e la gentilezza siano “debolezze” imperdonabili. Che ne pensa?

Rivendico la centralità di questi valori perché sono gli unici che garantiscono a una società di reggersi. Da anni stiamo assistendo all’esproprio del senso profondo delle parole. C’è chi cerca di alternare il significato per proporre un modello improntato alla ferocia, all’ostilità reciproca. Tutto questo viene fatto senza che nessuno si opponga: addirittura quel modello lo si acquisisce. Una vera debacle politico-culturale. Che il termine buonista rappresenti un disvalore ne è la conferma. Mi chiedo: si vivrebbe forse meglio in una società cattiva e egoista? Essere buonista non significa essere fesso o voler far del male ai propri simili a vantaggio di altri. Questo è sbagliato, un’alterazione di senso. Bisogna essere più assertivi, respingere queste interpretazioni linguistiche e rivendicare certi valori con forza e a testa alta.

Possiamo dire che la sinistra ha le sue responsabilità da questo punto di vista?

Certo! Possiamo dirlo. Il linguista statunitense Lakoff dice di “non rincorrere l’elefante”, e lo dice ai democratici per invitarli a non rincorrere i repubblicani: quello che sta accadendo è proprio questo ed è un grande errore politico.

Ma su questo non crede che si senta anche la mancanza di intellettuali?

È una categoria che forse ha un po’ “mollato” dal punto di vista dell’influenza politica, come se si fosse rotto un patto, come se ci fosse uno scollamento. La politica invece ha bisogno della cultura, delle idee e delle prospettive. Ed è per questo che ho aperto Montecitorio a tante iniziative culturali.

Lei è quotidianamente bersaglio di un certo giornalismo che la “usa” per improbabili tesi di “sostituzione etnica” e altro. Gli attacchi, spesso, sono sul suo essere donna piuttosto che sulle sue tesi politiche. Come convive con questo stillicidio? Crede che l’Ordine dei giornalisti dovrebbe intervenire più duramente?

Cerco di non farmi rovinare la giornata da tutto questo né tantomeno mi faccio intimidire. Ma qui non siamo nel giornalismo: siamo nell’ambito molto torbido del fango e dell’invenzione che ha come obiettivo quello di rovinare la reputazione delle persone. Sono imprenditori della disinformazione, sono specialisti dell’imbroglio. In un Paese normale tutto questo non dovrebbe andare sotto l’egida del giornalismo. L’Ordine dovrebbe almeno tutelare la categoria che rappresenta dai mistificatori di professione. Perché le falsità e le invenzioni contro di me non dovrebbero essere solo un mio problema, ma di tutti. C’è un inquinamento dell’intero sistema mediatico e a rimetterci sono i cittadini e il loro diritto a una corretta informazione.

Diceva Pasolini che i diritti sono quasi sempre quelli degli altri. Forse la disperazione del momento sta spingendo molti a credere che i diritti degli altri debbano per forza incidere sui propri. Così anche la battaglia per lo Ius soli è diventata una narrazione tutta fondata sulla paura. Come invertire la rotta?

Intanto la definizione di Ius Soli è già un equivoco. Non si tratta di questo. Nella legge esiste una serie di condizioni che devono essere rispettate: è una legge equilibrata, fatta a tappe. Dovrebbe essere vista come il giusto compromesso di esigenze diverse. E invece passa la narrazione fuorviante che tutti quelli che arrivano in Italia diventano italiani. La si racconta per creare paura. Io penso che bisogna spiegare questo provvedimento attraverso i principi e i valori che contiene: solo così si capirebbe che è una questione di giustizia. Parliamo di figli che vanno a scuola con i nostri figli, che conoscono l’italiano come noi e che considerano questo Paese il loro Paese. Come si rende una persona capace di dare il meglio? Quando la si include. Quando la si rende parte di una comunità. E quindi, se la politica è l’arte del futuro, questa legge s’ha da fare.