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Alternanza scuola lavoro: sciopero degli studenti “operai”. Il 13 ottobre in 70 città

Studenti delle scuole secondarie superiori indossano tute blu, simbolo dello sfruttamento, e si preparano allo sciopero del 13 ottobre

Pubblichiamo un contributo di Francesca Picci, coordinatrice nazionale dell’Unione degli studenti che il 13 ottobre ha indetto uno sciopero dell’alternanza scuola – lavoro

Ci stanno rubando il tempo. La scuola di oggi è sempre più un’istituzione totale che pervade ogni istante, che controlla e punisce, che non lascia spazio alla crescita collettiva, al confronto. Nella scuola di oggi gli studenti perdono la coscienza di sé, viene insegnato loro che l’unico obiettivo è il conseguimento del risultato, il voto, la rendita. Anche il tempo di vita, sempre più subordinato a quello di studio e ad un’organizzazione asfissiante delle giornate, è ingabbiato. Ci hanno rubato il tempo lasciando tante e tanti indietro, in un paese con 1,1 milioni di minori in povertà assoluta e con il 17% di dispersione scolastica, la scuola di oggi è quella che non dà risposte ma, al contrario, crea e riproduce disugualianze.

Ci stanno rubando il tempo senza possibilità di replica, nell’assenza di processi decisionali, di democrazia, come nell’approvazione legge 107, meglio nota come “Buona Scuola”, e in quella delle deleghe in bianco. Oggi più che mai abbiamo bisogno di liberare il nostro tempo, per liberarci dalla scuola autoritaria e riacquisire potere decisionale. La scuola – azienda pensata dal governo Renzi sta annullando la funzione sociale dell’istruzione, svilendo il ruolo dei docenti e assimilando lo studente ad una merce che, in quanto tale, è possibile sacrificare sull’altare del profitto per le grandi aziende italiane e multinazionali.

Dall’approvazione della “Buona Scuola”, oltre 600.000 studenti frequentanti il triennio delle scuole medie superiori sono stati impiegati nelle 200 e 400 ore obbligatorie di “alternanza scuola-lavoro”. Questo provvedimento, portato avanti dall’allora governo Renzi come un’innovazione epocale per il mondo della scuola, non è stata che l’estensione di quanto già sperimentato dal 2005 col decreto ministeriale numero 77, voluto dall’allora ministra dell’Istruzione Letizia Moratti, per gli studenti degli istituti tecnici e professionali. Inserita nel quadro delle riforme renziane, quella della Buona Scuola ha tuttavia dei nessi inequivocabili con altre leggi, come il Jobs act, che, attraverso l’introduzione del contratto a tutele crescenti e l’apprendistato a 15 anni, identifica anche l’alternanza scuola – lavoro come una politica attiva sul lavoro. Infatti, spesso gli studenti sono inseriti direttamente in produzione, senza passare da un ambiente protetto che ne possa garantire la formazione e la preparazione adeguata. Attraverso gli sgravi fiscali alle aziende che assumono studenti precedentemente da loro attivi nel percorso di alternanza scuola – lavoro, si sta infatti dopando l’esito dell’occupazione giovanile, sacrificando la formazione e creando nuove forme di lavoro gratuito, e di questo provvedimento Confindustria ringrazia.

L’alternanza scuola – lavoro, da essere uno strumento ulteriore della didattica, volto teoricamente a favorire l’integrazione del “saper fare” nella scuola italiana attraverso una metodologia che alterni ore di applicazione pratica all’orario curriculare, è diventata un’offerta di manodopera a costo zero per le aziende. Questo meccanismo è oggi il principale “cavallo di battaglia” di chi sostiene le politiche neoliberali e la loro efficacia. Chiaro è lo sguardo verso cui è diretta questa lettura: il modello duale tedesco con la sua precanalizzazione al mondo del lavoro. Questo è dimostrato dai continui rimandi e contatti sempre più frequenti con la Germania, come anche velatamente testimoniato dalla “fiera” Didacta che si è tenuta lo scorso settembre a Firenze. Inizialmente pensata come la più grande fiera sull’alternanza scuola – lavoro, è stata da subito un fallimento annunciato, e trasformata subito in un’iniziativa di “formazione” rivolta ai docenti. Ma sul piano del rafforzamento di questa impostazione subalterna al mercato del lavoro la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli non demorde, rilancia anzi sugli “stati generali dell’alternanza scuola – lavoro” di dicembre. Viene subito da chiedersi cosa ci sarà da esibire in tale occasione: saranno forse i “campioni dell’alternanza”? Ovvero le multinazionali come McDonald’s o Intesa San Paolo? O forse le centinaia di aziende nostrane che all’occasione licenziano i lavoratori per favorire il lavoro dequalificato, ma comunque gratuito, degli studenti in alternanza scuola- lavoro?

A studiare questa grande innovazione sorgono spontanei alcuni interrogativi e, dunque, si aprono innumerevoli contraddizioni. Rendere obbligatorie 200 ore per i licei e 400 ore per gli istituti tecnici e professionali, in un paese dal tessuto produttivo incapace di assorbire l’immediata massificazione dell’alternanza scuola – lavoro è un’evidente forzatura. Inoltre questa stessa divisione tra 200 e 400 ore nasconde un intrinseco classismo che vede ancora le scuole divise in classe dirigente, i licei classici e scientifici, e in lavoratori specializzati, gli istituti tecnici e professionali. Un’idea, dunque ferma a cinquant’anni fa e che intende paralizzare la società senza porre le basi per elevare il sistema d’istruzione italiano. Ben 400 ore in tre anni, dunque il doppio di quelle dei licei, equivalgono ad un’esponenziale impennata dei casi di sfruttamento coatto.

Come racconta l’indagine pubblicata nel mese di maggio 2017 dall’Unione degli studenti, infatti, ben il 57% degli studenti intervistati ha svolto percorsi non congruenti con il loro percorso di studi, e su 15.000 studenti ben il 40% ha riscontrato una violazione diretta dei diritti minimi sanciti nella circolare di “chiarimento” del ministero dell’Istruzione. Se a questo aggiungiamo che l’obbligatorietà delle ore non è sostenuta da un finanziamento che garantisca la sostenibilità economica di questi percorsi, ne avremo un quadro decisamente drammatico. A confermare questi dati e allarmare ulteriormente sono i casi limite emersi recentemente, anche grazie allo sportello “Sos alternanza estiva” dell’Unione degli studenti, che ha visto giungere denunce oltre ogni immaginazione: dal caso dello studente di Parma chiamato per trasportare ombrelloni sotto il sole per tutta la giornata, al caso di Milano in cui ben 200 studenti hanno sostituito i lavoratori in una struttura alberghiera durante la stagione estiva.

A partire da questo anno scolastico i numeri degli studenti interessati a questi percorsi si moltiplicano e ad essere impiegati nei percorsi di alternanza sono oltre un milione e mezzo di studenti, senza diritti né tutele, senza garanzie sulla loro formazione, senza prospettive reali di essere inseriti in un diverso mercato del lavoro o di poter avere gli strumenti per metterlo in discussione. L’urgenza di uno statuto delle studentesse e degli studenti capace di difenderci è testimoniato anche dai casi di Monza, in cui quattro studentesse hanno subito molestie sessuali durante l’alternanza, un caso che ha fatto emergere l’incapacità della scuola di tutelare le sue stesse studentesse esponendole maggiormente ad un gravissimo atto di violenza maschile.

O ancora, il caso più recente dello studente di La Spezia feritosi gravemente mentre guidava un carrello elevatore indica come spesso non vengano rispettate neanche le più basilari norme di sicurezza sul lavoro, come anche la precarissima assicurazione Inail per gli studenti che, per esempio, non copre il trasferimento dall’azienda a casa. Eppure, nei piani alti del ministero, c’è qualcuno che si permette di sbeffeggiare il tema dei diritti, rimandando ulteriormente l’approvazione di una “Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza” che peraltro, oltre ad essere estremamente carente, in quanto non garantisce la gratuità dei trasporti come obiettivo minimo, non è neanche stata sottoposta ad una consultazione studentesca.

Ma per gli studenti la formazione, la salute, i diritti, non valgono una carta al ribasso, per chi vive sulla sua pelle questa nuova forma di sfruttamento c’è un orizzonte di diritti e conquiste ancora da attraversare. Se vogliamo che siano i saperi a modificare l’esistente, allora nelle scuole e nelle università è necessario interrogarsi su nuove forme di produzione sostenibile, su una diversa organizzazione del lavoro. Come si può pensare che a fare formazione siano aziende che inquinano il territorio, come nel caso dell’Ilva di Taranto, o che hanno licenziato lavoratori come nel caso dello stabilimento sardo che ha completato la sua stagione estiva con i soli studenti in alternanza scuola – lavoro. Come dimenticare, ancora, le innumerevoli aziende che sono sotto indagine per infiltrazioni mafiose?

A tutto questo non basta rispondere con qualche dichiarazione, interventi spot ed una “carta” al ribasso sui diritti. Riteniamo vergognoso l’accordo stipulato tra Miur e Camere di commercio per l’erogazione di voucher alle imprese e vogliamo fermare immediatamente questo processo di accumulazione economica sulla nostra formazione. Non basta l’apprensione della ministra Valeria Fedeli, serve immediatamente uno Statuto dei diritti delle studentesse e degli studenti, un codice etico per le aziende che ne sancisca dei parametri di qualità, perché finché sarà Confindustria a “segnalare” le aziende virtuose con il suo bollino blu, allora esisterà sfruttamento e riproduzione di disuguaglianze.

C’è bisogno di ribaltare questa visione, di riscriverne da zero presupposti e obiettivi, di partire da una contestazione che ponga degli interrogativi, quelli capace di aprire un dibattito nel paese, una mobilitazione di massa.

Per questo il 13 ottobre l’Unione degli studenti ha convocato il primo sciopero dall’alternanza scuola – lavoro, uno sciopero che, per la prima volta nella storia del movimento studentesco, si configura come uno sciopero di 24 ore. Una provocazione che ci spinge ad osare, a dire sin da subito che quello che vogliamo sono i nostri tempi di vita, ma anche il “nostro tempo” inteso come la necessità di decidere sulle nostre vite, sul nostro futuro e sul futuro della scuola. Non ci asterremo solo dalle 5 ore curricolari, ma anche dalle ore pomeridiane occupate dall’alternanza, perché sia chiaro a tutti che questo modello non è un metodo didattico, non è pensato per la scuola, bensì per il mercato del lavoro.

Lo studente in alternanza scuola – lavoro oggi è l’anello più debole della catena produttiva, ma è anche quello che può spezzarla.

Per questo lo sciopero del 13 ottobre non riguarda solo gli studenti, riguarda chi lavora e chi no, chi è sfruttato e chi vuole liberarsi dallo sfruttamento e dal ricatto, riguarda chi ha conquistato i suoi diritti in anni di lotte e mobilitazioni e se li è visti togliere tutto d’un colpo dal Jobs act, riguarda chi i diritti non li ha mai visti. La forza dello sciopero dell’alternanza non sta solo nelle migliaia di studenti e studentesse che inonderanno le piazze del paese, ma nella sua capacità di essere immediatamente generale, di essere uno sciopero di tutti e per tutti perché vuole aprire ad una nuova fase mobilitativa in questo paese, per la riconquista della dignità e per il riscatto di tutti gli oppressi.

È proprio da questo nesso, dalla volontà di far emergere il conflitto latente tra oppressi e oppressori che nasce l’idea di uno sciopero “de e sulla” alternanza scuola – lavoro, non la sola manifestazione degli studenti, bensì un processo che sta vivendo nelle scuole, nella rabbia degli studenti che esprimono ogni giorno il loro dissenso nelle assemblee pubbliche. Così il 13 ottobre lo abbiamo pensato come uno “sciopero alla rovescia”, perché è il tempo di ribaltare un’idea statica della società tutta, perché vogliamo trasformare la scuola ma anche ciò che la circonda. Lo faremo attraverso l’astensione dall’alternanza – sfruttamento, indossando delle tute blu nelle piazze per simboleggiare la perdita del nostro status di studenti e l’assunzione di quello di “lavoratori”, ma anche con un’attivazione che ci vedrà impegnati nel pomeriggio del 13 ottobre. Nessuno potrà far finta di niente, vogliamo mostrare cosa significa “imparare a saper fare”, vogliamo farlo con la riqualificazione urbana, con opere artistiche per la riappropriazione dei nostri spazi, vogliamo, per quel giorno, essere noi a prenderci il nostro tempo e restituirne altro anche alla comunità tutta, proprio come fecero gli operai nel secondo dopoguerra, uno “sciopero alla rovescia” che vuole ricostruire l’alternativa sociale, verso una stagione di risveglio collettivo e nuove conquiste.

Qualcosa si sta muovendo, e nelle scuole già si sente l’adrenalina di un’idea che può fare la storia, si moltiplicano le assemblee pubbliche, le adesioni e la solidarietà anche dei lavoratori e mentre Confindustria pensa ad ulteriori sgravi fiscali, mentre il ministero si prepara a concedere le briciole per provare a pacificare il mondo dell’istruzione, c’è chi già pensa allo sciopero “oltre lo sciopero”, alle nuove forme di partecipazione e trasformazione che ne possono derivare. Tanta determinazione, ed una sola promessa: questo non è che l’inizio.

Fotografia, alla Biennale di Parigi il mondo arabo visto dall’interno

IMA © Zied ben Romdhane, Oumm Laarayes 2015 Serie WestofLife

Fotografi arabi e europei per raccontare il mondo arabo, fino al 12 novembre prossimo. L’Institut du Monde arabe di Parigi ospita la seconda Biennale dei fotografi del mondo arabo contemporaneo.
Più selettiva della prima edizione, la Biennale del 2017 ha deciso di concentrarsi su due paesi del Maghrib: Tunisia e Algeria. A essere messi a confronto saranno i lavori di artisti europei e della sponda Sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Presenti, infatti gli scatti di giovani provenienti fra l’altro, da Egitto, Arabia Saudita, Tunisia, Siria, Francia, Svizzera, Spagna, Marocco, Algeria, Libano. Un itinerario diversificato attraverso le diverse percezioni dei fotografi contemporanei del mondo arabo si snoda in contemporanea in 8 diverse sedi parigine: IMA, MEP, Cité Internationale des arts, Mairie del quarto arrondissement, la Galerie Thierry Marlat, la Galerie Photo12, la Galerie Clémentine de la Féronnière e la Galerie Binome.
Ogni sala espositiva presenta opere di fotografi del mondo arabo che vivono nel loro paese natale o lavorano altrove, e opere di fotografi stranieri, per lo più Europei, che raccontano la situazione contemporanea nei paesi arabi.
In particolare all’Istituto du Monde arabe la collettiva organizzata da Olfa Feki, curatore indipendente con sede in Tunisia, combina i diversi approcci concettuali, plastici, poetici e documentali di fotografi tunisini poco conosciuti.
Alla Maison Européenne de la Photographie i diversi temi e stili di Hicham Benohoud (Algeria), Farida Hamak (Egitto) e Xenia Nikolskaya (Marocco)
Alla Cité Internationale des arts, ci una panoramica della fotografia algerina emergente,
con venti fotografi in una mostra curata da Bruno Boudjelal.
Il racconto della comunità Yazīdī del fotoreporter Michel Slomka alla Mairie.
E ancora le fotografie di Mustapha Azeroual e Sara Naim (Binome), Daniel Aron (Foto12), Marco Barbon (Clémentine de la Féronnière) e Randa Mirza e Zad Moultaka (Thierry Marlat).
Per ulteriori informazioni: www.biennalephotomondearabe.com

Cité internationale des arts © YOUCEF KRACHE, 20 cents 003

Cité internationale des arts © Nassim Rouchiche, Série Ca va waka 002

Cité internationale des arts © Liasmine Fodil, A la recherche dune ame perdue 001

Cité internationale des arts © Karim Tidafi, Série Aperto Libro 001

Cité internationale des arts © Hakim Rezaoui, Série A way of life 002

Cité internationale des arts © Ahmed Badreddine Debba, Série Lhistoire de l’homme à la djellaba 002

Galerie Clémentine de la Féronnière © Marco Barbon, The Interzone Tanger 2015

Galerie Photo 12 © Daniel Aron, Petit déjeuner Série Interieurs Simples A Tanger 1994-1997

Galerie Thierry Marlat © Randa Mirza, Résidence Série Beirutopia 2011 (projet en cours)

IMA © Ahmad El-Abi, The Musical bag Série Arabic Alphabet 2016

IMA © ÅJellel Gasteli, Carnets de Marrakech et de Tanger 2016

IMA © El Hayawan, Karim Cancan 2017

IMA © Hela Ammar, Hidden Portrait IV Série Hidden Portraits 2014

IMA © Zied ben Romdhane, Oumm Laarayes 2015 Serie WestofLife

IMA © Rania Matar Charlotte, at15 Série Becoming Beirut Lebanon 2016

IMA © Scarlett Coten, Mohaned Série Mectoub Alexandrie Egypte 2013

Mairie du 4eme © Michel Slomka, Aishe Kuli et Bubu Daoud mari et femme dans leur maison de Khanassor au pied de la montagne de Sinjar Irak 2017

MEP Galerie Regard Sud © Farida Hamak, Sur les traces Algérie 2014

MEP Loft Art Gallery, Casablanca © Hicham Benouhoud Série Acrobatics

Chissà se Minniti si degna di rispondere almeno all’Europa

epa05992313 African migrants, who were rescued by the Libyan coastguard in the Mediterranean off the Libyan coast, arrive at a naval base in Tripoli, Libya, on 26 May 2017. The Libyan navy said. 'At least 20 boats carrying thousands of migrants on their way to Italy were spotted off the coast of the western city of Sabratha' EPA/STR

L’abbiamo scritto dappertutto, all’inizio rischiando addirittura di essere complottisti, che gli accordi di Minniti con le truppe libiche puzzavano da lontano di qualcosa che non aveva nulla a che fare con la mediazione politica e con il rispetto dei diritti umani. E ci hanno detto che eravamo buonisti.

Poi gliel’ha chiesto la politica, il Parlamento e lui, lo sceriffo Minniti tutto tronfio del momentaneo calo dei migranti, si è appoggiato agli istinti peggiori della paura e di certa destra per giustificare il proprio operato e addirittura andarne fiero.

“In qualche modo bisogna pur fare”, hanno scritto gli editorialisti da bar sport sempre alla ricerca dell’applauso facile. E se in quel “qualche modo” ci scappa il morto o qualche iniezione di denaro a clan non proprio convenzionali, Minniti e i suoi sgherri insistono nel dire che ne vale la pena.

Ora scrive il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks, direttamente al ministro: “Le sarei grato”, si legge, “se potesse chiarire che tipo di sostegno operativo il suo governo prevede di fornire alle autorità libiche nelle loro acque territoriali, e quali salvaguardie l’Italia ha messo in atto per garantire che le persone salvate o intercettate non rischino trattamenti e pene inumane, e la tortura”. E poi: “A questo proposito la mia attenzione si è concentrata su un cambiamento nelle operazioni nel mar Mediterraneo dell’Italia. Per quello che so, il governo italiano, sull’invito del governo libico, ha schierato navi nelle acque territoriali libiche, con l’obiettivo dichiarato di aiutare le autorità libiche a frenare il flusso dei migranti”.

E proprio nella lettera del Consiglio d’Europa c’è il punto fondamentale: citando la sentenza della Corte europea dei diritti umani del 2012 (Hirsi Jamaa and others v.Italy) con cui l’Italia venne condannata per i respingimenti in Libia si ricorda a Minniti che “la Corte ha stabilito che le difficoltà degli stati membri di fronte all’aumento dei flussi migratori dal mare non può esimere uno stato dai suoi doveri contenuti nell’articolo 3 della Convenzione, che proibisce di esporre le persone alla tortura o a trattamenti inumani e degradanti o punizioni.”

Chissà se risponde Minniti. Chissà che risponde Minniti.

Buon giovedì.

Dalle donne Yazide un appello contro il fascismo in tutto il mondo

epa05914078 A Yazidi woman holds candles to make a wish for the new year on the occasion of Red Wednesday, the Yazidi New Year, in Lalish, the holiest shrine in Shaikhan, some 60 kilometers north of the Islamic State-held city of Mosul, the Duhok city of Kudristan Region in Iraq, 18 April 2017. EPA/GAILAN HAJI

La rivincita delle Yazide è mimetica come le loro divise, colorata come le stoffe con cui si raccolgono i capelli sulla testa, forte come le loro braccia spiegate con i fucili in battaglia. La loro bandiera di guerra per “liberare le sorelle” è rossa: è quella dello Yjs, quella delle donne delle unità di protezione del Sinjar, e c’è sopra un piccolo sole appuntito su uno sfondo verde. Le foto dei caduti sono spesso appese alle pareti delle loro basi militari, ci sono i volti dei martiri della libertà, compagni morti in battaglia, e tra le tante facce, quella dell’uomo che più di ogni altro le ispira: quella baffuta di Abdullah Ocalan, fondatore del Pkk curdo, unico prigioniero dell’isola di Imrali, Turchia.

La Sdf, la coalizione siriana democratica, 40mila combattenti, conta tra le sue fila arabi, turcomanni, assiri e le spalleggia nel territorio. Prima su questo confine di guerra c’era il fronte di al Nusra, poi sono arrivati gli uomini neri del Califfato. A Raqqa, la città per cui combattono queste ragazze ci sono amiche, parenti, cugine, sorelle, ancora sotto le mani dei jihadisti, proprio in queste ore. Dove sono, si chiedono, ma soprattutto: sono ancora vive?

Tra chi ha scelto di rimanere, non scappare e combattere, c’è chi è passata sotto la canna del fucile di un rapitore radicale sunnita. Sono ragazze che hanno scelto di cambiare la traiettoria al destino di altre ragazze, della loro età, prigioniere oltre le trincee che osservano ogni giorno. La loro lotta è internazionale come il loro appello e viaggia via social network. Affiliate allo Ypj, le unità di protezione curde femminili, le yazide chiamano alle armi tutte le altre per rinvigorire il movimento antifascista in tutto il mondo. Sconfiggere i jihadisti è importante quanto fermare i nazisti. Da Raqqa, Siria fino in Virginia, America.

Fino a loro, sul campo di battaglia, è arrivata la notizia della morte dell’attivista antifascista Heather Heyer, a Charlottesville, nell’America di Trump e una delle loro scritte dice “unite against fascism”, unite contro il fascismo. «Come donne che hanno sofferto la persecuzione dell’Isis, conosciamo bene i pericoli dei fascisti, dei razzisti, dei nazionalisti patriarcali. Hanno martirizzato una donna che stava resistendo alla distruzione di una comunità. La lotta di Heather è la nostra lotta, è la stessa lotta contro il fascismo, una battaglia globale. Per questo facciamo appello a tutte le donne del mondo, devono unirsi contro il terrorismo, per mettere fine a gruppi come quello dell’Isis, o quelli che uccidono donne come Heather».

«Ci sono stati 73 massacri diversi di Yazidi in questi anni, cerchiamo di proteggere il nostro popolo» dicono le ragazze che «non avrebbero mai pensato di poter imparare ad usare un’arma. Di poter essere indipendenti». Ragazze che ora sanno “di potersi fidare di se stesse”. Ragazze e donne, dell’etnia più perseguitata di questa guerra siriana, rapite per essere stuprate, poi ripetutamente rivendute come schiave, serve, mogli dai miliziani del Daesh. Anche per questo, la comunità internazionale parla di genocidio quando si riferisce al popolo antichissimo degli Yazidi, che affonda le radici della sua storia nello zoroastrismo. Vivevano al confine iracheno-siriano, nei villaggi di Sinjar, prima che l’Isis arrivasse nel 2014. Adesso, dicono le ragazze in divisa, «abbiamo provato al mondo che sappiamo difenderci, se lo avessimo saputo fare dall’inizio, forse tutto questo non sarebbe successo».

Emergenza colera: la “malattia della povertà” uccide 100mila persone all’anno

epa06148585 A Yemeni boy waits to collect drinking water from a donated water pipe amid a rapidly spreading cholera outbreak in Sanaa, Yemen, 17 August 2017. According reports, more than 500,000 people in Yemen have been infected with cholera and almost 2,000 others have died since late April across the impoverished Arab country, due to lack of access to clean water and a shortage of medical supplies. EPA/YAHYA ARHAB

Nel 1817, duecento anni fa, un’epidemia di colera colpì l’Asia meridionale, l’Africa orientale, il Medio Oriente e l’Europa. Il Vibrio cholerae, il batterio agente infettivo della malattia, si portò via centinaia di migliaia di vite. L’evento si ripeteva ancora una volta, nel mondo. E non c’era nulla da fare. Non c’erano, allora, né il vaccino né una chiara comprensione dei meccanismi di trasmissione della malattia. Nel 1817, duecento anni fa, un’epidemia di colera colpì l’Asia meridionale, l’Africa orientale, il Medio Oriente e l’Europa. Il Vibrio cholerae, il batterio agente infettivo della malattia, si portò via centinaia di migliaia di vite. L’evento si ripeteva ancora una volta, nel mondo. E non c’era nulla da fare. Non c’erano, allora, né il vaccino né una chiara comprensione dei meccanismi di trasmissione della malattia.

Ma ora, nel 2017, scrive – anzi, grida – da Seattle, negli Stati Uniti, la pakistana Anita Zaidi, direttrice del Vaccine development, surveillance, and enteric and diarrheal diseases della Bill & Melinda Gates Foundation, nessuno dovrebbe morire di colera. Perché abbiamo il vaccino, sappiamo come si trasmette il Vibrio cholerae e, soprattutto, possiamo interrompere con pochi euro la sua azione malefica. E, invece, il colera continua a uccidere. Ed è ancora endemico non solo nell’Africa sub-sahariana, ma anche in Asia e nei Caraibi. Inaccettabile.

In Yemen, per esempio, negli ultimi cinque mesi questa malattia infettiva si è portata via la vita di 2.000 persone e ne ha contaminate 700.000 mila. Più di quanto avesse fatto ad Haiti, nei mesi successivi al terremoto del 2010. Per inciso, nell’isola caraibica da sette anni non si riesce a debellare il resistibile attacco del Vibrio cholerae. Ma non c’è solo lo Yemen, dilaniato da una guerra dimenticata. Né Haiti, il paese forse più povero al mondo. In questo momento il colera interessa la Somalia, con l’attacco più acuto degli ultimi cinque anni, non meno che il Sud Sudan, che dal giorno dell’indipendenza, nel 2011, non ha conosciuto un solo giorno di tregua da parte dell’infezione.

La verità è che il colera è tuttora endemico in ben 69 paesi, dove ogni anno uccide 100.000 persone e ne contagia 3 milioni, la gran parte bambini: tutte vittime evitabili. Facilmente evitabili. Basterebbe una soluzione reidratante ingeribile per via orale dal costo di pochi centesimi per ridurre la mortalità da più del 50% a meno dell’1%. Il fatto è, ricorda Anita Zaidi, che questa banale soluzione non riesce a raggiungere decine di migliaia di persone, condannandole così a morte.

Dal 2013, poi, l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) si è dotata di un ampio stock di vaccini e ne ha distribuiti 13 milioni di dosi. Ma le domande inevase sono ancora, appunto, milioni.  Ma non c’è solo il vaccino. E neppure solo la soluzione reidratante. Abbiamo una serie di trattamenti possibili, sappiamo dove ci sarà la prossima epidemia – lungo un fiume, in un estuario, lungo una costa dove le acque, contaminate da feci, vengono utilizzate per usi domestici: per bere o lavarsi. Eppure, per debellare del tutto il colera, basterebbero poche azioni, tutte a basso costo: vaccinare le popolazioni a rischio, portare acqua pulita nelle case, curare l’igiene con un buon sistema fognario. Ma anche e soprattutto eliminare lo stigma che circonda la malattia – forse proprio a causa della facilità con cui potrebbe essere debellata – e che impone a molte autorità sanitarie di troppi paesi di tenere nascosta la realtà, finendo per acuirla.

È anche per questo che la settimana scorsa la Global task force on cholera control ha lanciato la sua nuova campagna: Ending cholera. Eradicare questa malattia infettiva entro il 2030 in almeno 20 paesi e ridurre il numero complessivo di morti del 90%. La strategia dell’Oms prevede tre azioni specifiche. Il prima è allestire un sistema di allerta precoce: intervenire con tempestività al primo segnale di malattia in una qualche zona. Non è complicato. Ma occorre che i 69 paesi interessati cessino di considerare uno stigma la malattia e la considerino come un problema da risolvere. La seconda strategia consiste nell’allestire un approccio multisettoriale per la prevenzione. A iniziare dalla realizzazione di sistemi di igiene. La terza consiste nel mettere su un reale sistema di coordinamento per intervenire nei casi di emergenza. Nello sviluppo di Ending Cholera, l’Oms sarà aiutata dalla Bill & Melinda Gates Foundation dove lavora Anita Zaidi.

È certamente un bene che i privati diano il loro contributo a combattere questa resistibile malattia infettiva. Tuttavia gli interventi filantropici rischiano di far dimenticare che il colera è solo e unicamente una “malattia della povertà”. Una malattia, anzi, della povertà estrema. Di quella condizione di vita, cioè, che impedisce – secondo la stessa Organizzazione Mondiale delle Sanità – a 844 milioni di persone di avere accesso a una quantità sufficiente di acqua potabile; a più di 2 miliardi di persone di non bere acqua contaminata da batteri fecali; a 2,4 miliardi di persone di non vivere in case con igiene insufficiente. Una situazione che potrebbe peggiorare.

Il colera, come abbiamo detto, è endemico in molte parti del mondo, soprattutto in aree tropicali. Ne sono interessati l’India, il Pakistan, l’Indonesia, i Caraibi, oltre che lo Yemen a causa soprattutto della guerra in atto. Ma i nuclei principali sono nell’Africa sub-sahariana. Dove sono in atto cambiamenti che, da qui al 2030, potrebbero peggiorare le condizioni al contorno per lo sviluppo di epidemie di colera (e non solo). La popolazione africana sta crescendo a ritmi molto rapidi e, inoltre, si sta spostando sempre più dalle campagne alle città.

I demografi delle Nazioni Unite calcolano che entro il 2030 il 50% degli africani vivrà in ambiente urbano, contro il 36% attuale. A trasferirsi saranno anche e soprattutto poveri, che andranno a vivere in quartieri periferici altamente degradati – li chiamano slums – dove l’igiene e l’accesso all’acqua potabile sono un miraggio. Già oggi il 60% della popolazione urbana dell’Africa sub-sahariana vive in slums. Già oggi tre africani su cinque che abitano in città vivono in condizioni di povertà così estrema da non avere un bagno decente, un accesso a un sistema fognario, una quantità minimia di acqua potabile.

È evidente, dunque, che per battere il colera occorre contrastare questa povertà estrema. Occorre un intervento pubblico globale in grado se non di eliminare, quanto meno di ridurre le enormi disuguaglianze nel mondo. Per fare tutto questo non basta la scienza (anche se è necessaria). Non basta la filantropia (anche se è d’aiuto). Per fare tutto questo occorre, come si sarebbe detto un tempo, anche e soprattutto la politica.

L’odissea dei minori stranieri in Grecia: diritto d’asilo sempre più lontano

Un'immagine dei migranti e rifugiati intrappolati in Grecia e costretti a vivere in condizioni degradanti a causa dell'accordo Ue-Turchia, che rischiano la vita con l'arrivo dell'inverno e del freddo, 14 dicembre 2016. ANSA / oxfam +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Arrivano in Europa attraverso due accessi: l’Italia, tramite la rotta del Mediterraneo centrale, e la Grecia, transitando per la Turchia, lungo il Mediterraneo orientale. Sono più di centomila, il 34 per cento circa non accompagnati, i minori stranieri sbarcati, nel 2016, sulle coste del vecchio continente, partiti per poter proseguire (o intraprendere) “il percorso scolastico” e per raggiungere una terra che “rispetti i pieni diritti umani”, si legge nel report Minori in transito in Italia e in Grecia, realizzato da Reach e commissionato da Unicef.

Senza prospettive (nemmeno) per l’immediato futuro e provenienti da Paesi interessati da conflitti e violenza generalizzata o da insostenibili condizioni economiche – Corno d’Africa, Siria, Iraq e Afghanistan -, i minori, generalmente maschi e di età compresa fra i sedici e i diciassette anni, nella maggior parte dei casi prendono la decisione di migrare senza informare la famiglia perché, spesso, fuggono pure da contesti di violenza domestica.

Intraprendono il viaggio con il miraggio di raggiungere (non sempre) i Paesi nordeuropei – Germania, Svizzera o Svezia – ma, soprattutto, con l’aspettativa di “accedere a migliori servizi”, spesso coscienti dei rischi che il viaggio può riservare. Ma per nulla preparati a doversi scontrare con le procedure messe in atto dai governi degli Stati di transito e di quello greco in primis. Nonostante la risposta umanitaria alla crisi dei migranti stranieri si sia concentrata sui minori, anche con la creazione di aree child friendly e di strutture di accoglienza per minori stranieri non accompagnati (Msna), le riforme giuridiche emanate dal governo ellenico sono coerenti, se non perfettamente coincidenti, con gli indirizzi proposti dalle istituzioni europee nell’imponente progetto di riforma del sistema d’asilo.

In ottemperanza all’accordo fra i capi di Stato dell’Unione europea e di quelli della Turchia, l’Eu Turkey Statement, le leggi conseguenti per fermare il flusso dei migranti che, negli obiettivi del legislatore avrebbero avuto lo scopo di rivoluzionare il diritto d’asilo, hanno, invece, sortito l’esito di una riduzione dei diritti storicamente riconosciuti ai rifugiati. Compresi i minori, i quali, poiché raramente prendono in considerazione la possibilità di rimanere nei Paesi di primo approdo, hanno incontrato numerosi ostacoli nel tentativo di concretizzare i loro obiettivi attraverso canali legali e all’interno del sistema di accoglienza nazionale.

Mesi o, addirittura, anni prima di ricevere un riconoscimento legale che, in Grecia nel 2016, è stato accordato solo a 983 minori rifugiati su 6718 domande inoltrate. Lungaggini che acuiscono la sensazione, peraltro verosimile, di trovarsi intrappolati in un limbo in attesa del completamento delle pratiche di ricongiungimento famigliare o di ricollocazione che, dalla primavera scorsa a oggi, in seguito alla chiusura della rotta dei Balcani occidentali, ha permesso solo a 1107 minori su cinquemila di arrivare alla destinazione assegnata.

Modalità di accesso ai documenti nebulose e prassi farraginose spingono molti minori ad abbandonare i centri di accoglienza e lasciare il Paese ospitante irregolarmente, esponendosi al pericolo di abusi e sfruttamento e finanche alla prostituzione minorile (di cui la Grecia, di recente, ha registrato un aumento) finalizzata al reperimento delle risorse necessarie a finanziare il proseguimento del viaggio.

Lungo sia per la distanza da coprire sia per le soste mirate al bisogno di lavorare, in condizioni usuranti, per pagarlo perché, per tanti di loro, l’Europa non è nemmeno la meta ambìta: i loro percorsi migratori sono molto frammentati ed è durante il tragitto che maturano la decisione di spostarsi sempre più lontano, mossi, sovente, anche dalla reti dei trafficanti. E a differenza di quanto racconta la narrazione prevalente, non inseguono il mito del vecchio continente, si spostano alla ricerca di un’identità. Non di un Paese.

La fucina creativa del Politecnico. Raccontata da Amedeo Fago

Il Politecnico, una storia romana degli anni Settanta, il film-documentario di Amedeo Fago, realizzato in collaborazione con il dipartimento Architettura e progetto della Sapienza di Roma, già proiettato in anteprima al MAXXI a luglio  sarà presentato il 16 ottobre nella rassegna Le vie dei Festival (al cinema Greenwich di Roma, alle 21).

E’ interessante che nella post modernità, così attenta e precisa nel riferire profili e caratteristiche dei non-luoghi , questo lavoro, condotto con garbo e una punta di nostalgia, unisca più voci e volti, per ricostruire le vicende di un “luogo” dall’identità precisa, che ha contribuito alla storia culturale della città e, nell’arco di dieci anni, si è rivolto a tutti indistintamente, assumendo originali connotati di multidisciplinarietà, polivalenza funzionale, crossmedialità.

Un luogo che rappresenta, ad oggi, una delle più significative ricerche sul dialogo tra diversi linguaggi artistici in tutta la loro potenzialità e libertà espressiva. Ex officina di un fabbro, disseminata in origine da reti, letti e scarpe; spazio dalle forme e dai volumi suggestivi, se non proprio labirintico, come un tempo ne esistevano forse solo a New York; situato nel quartiere Flaminio, il Politecnico è stato fondato dall’autore Fago con architetti come Sergio Bianconcini, Paolo Mazzocchi, a cui si aggiungeranno Gianni Giovagnoni, Giovanna de Sanctis, ma anche Mario Prosperi con la sua ricerca teatrale, Monti con le sue fotografie, Giancarlo Guastini e Bruno Restuccia con i loro anticonformistici panel di visioni cinematografiche e quella passione per il Bmovie americano, Corman in primis, allora del tutto inusuale. La costumista Lia Morandini è la voce più singolare nel comunicare l’energia, la voglia di fare, il dinamismo del gruppo fino all’apertura del ben noto bistrot. La scelta del nome è un omaggio alle riviste letterarie di Cattaneo e Vittorini, ma anche desiderio di proporre, nel disgregato e cupo scenario degli anni  Settanta, un segnale di cambiamento: la propensione dell’autore e dei suoi amici a immaginare esperienze di condivisione, scambio e fruizione dell’arte, e, al tempo stesso, di amalgamare, senza circoscriverli, gesti eversivi simil-dada e spinte creative; rivoluzione, libertà ed emancipazione; socializzazione delle cineteche e impegno politico; forme estetiche nuove e consumi di massa.
Solo un bel sogno circoscritto ad un’epoca? Forse. Se lo chiedono anche gli attori in campo, ma di certo valeva la pena tracciarne la memoria.

Ascolta la puntata di Hollywood party in cui è intervenuto il regista Amedeo Fago presentando il suo nuovo lavoro

In Colombia, alla ricerca di una via per costruire la pace

People celebrate the signing of a historic ceasefire deal between the Colombian government and FARC rebels in Bogota, Colombia, June 23, 2016. REUTERS/John Vizcaino - RTX2HUZ7

Era il mese di febbraio quando il comandante in capo dell’Eln Bernardo Tellez aveva annunciato con un comunicato radio che nel Narino (sud- ovest della Colombia) si sarebbe realizzato uno sminamento umanitario. Sì la proposta di desminado umanitario emersa dalle consultazioni popolari all’interno del progetto di cooperazione Dupla paz, portato avanti da Oikos onlus di Udine, è stata accettata dall’esercito di liberazione nazionale che si dichiara disponibile a sedere ai tavoli di pace di Quito (Ecuador), proprio con chi ha formulato la proposta. Il 13 agosto 2017 durante una riunione partecipata da oltre 950 persone Oikos e Isais (il partner colombiano della ong friulana ndr) raccolgono gli argomenti da portare al tavolo all’attenzione del governo colombiano e dell’Eln.
Dopo oltre 12 anni di attese l’Eln sembra intenzionato a discutere e accettare di realizzare lo sminamento umanitario delle zone minate del centro ovest del Narino e a parlarne con le Istituzioni. Dopo 12 anni si potrebbe riattivare quel patto locale di Pace che portò Samaniego (città di 50mila abitanti incastonata fra le ande del Narino) fra il 2005 e il 2007 a essere l’unica città della Colombia in stato di Pace. La data in cui Eln e governo vengono invitati al tavolo di Quito è il 18 settembre 2017. La conferma arriva puntuale dai guerriglieri solo 4 giorni prima con slittamento dell’appuntamento di un solo giorno: il 19 settembre è la data dello storico incontro. Un folto gruppo interetnico parte alla volta di Quito da Samaniego: ci sono 11 friulani, di cui sei giovanissimi volontari, un gruppo di amici di Oikos e un videomaker friulano, una ragazza di Padova, un giornalista di una televisione spagnola (Tele Murcia). Ai nostri si aggiungono il responsabile di Isais – Harold Montufar Andrade ex sindaco di Samaniego) con un paio di membri dello staff e 4 rappresentanti di altrettante comunità indigene. L’appuntamento è di quelli importanti.

Si parte in diciotto nel primo pomeriggio, si arriva alla frontiera con l’Ecuador in auto dopo tre ore e mezza di strade sterrate che arrivano sino a oltre 3000 metri di quota. I paesaggi sono mozzafiato e la luce del sole calante avvolge di magico le verdi montagne del sud della Colombia. Il Volcan Galera guarda tutti dall’alto dei suoi 4200 metri. Si passa il confine di Rumichaca a piedi sotto un tramonto magico e quasi irreale. Il cielo è violetto, l’orizzonte arancione contrasta con il verde intenso della vegetazione ecuadorenha. Un’oretta di dogana per il controllo passaporti ci fa apprezzare sempre di più il crollo delle barriere fra gli Stati europei e ci fa riflettere sulla pazzia di chi vuole erigere nuovi muri. Bisogna raggiungere Tuncan, dei minibus fanno servizio taxi, ne noleggiamo 2 e in 20 minuti siamo al terminal delle corriere. Da lì ora mancano solo 5 ore per Quito, dove la mesa de paz ci aspetta per le 15 del giorno seguente. Non ci sembra vero, il megabus per Quito è fornito di ogni comodità: sedili reclinabili, comodi e larghi e, udite udite, wifi gratis che va come una bomba. Le infrastrutture in questi paesi lasciano a desiderare ma la tecnologia arriva forte e chiara. Arriviamo in una silenziosissima Quito verso mezzanotte. Troviamo un buon ostello, il cuore batte forte e si fa fatica a dormire. Quota 2880 metri non aiuta a rilassarsi. Non ci troviamo né a Nord né a Sud, siamo nell’ombelico del mondo.

Il giorno dopo al mattino Harold, il nostro partner colombiano, ci impone la visita alla casa del hombre per vedere la grande mostra del pittore Guayasamin. “Se non hai conosciuto le opere di Guayasamin non puoi dire di essere stato a Quito” ci dice. Nessuno di noi lo conosce – bestie ignoranti che siamo – ma il modo di dipingere il dolore del Sud America ci conquista tutti, le sue pitture sono emozionanti e danno tanta carica … nelle sue opere il Condor dell’America Latina alla fine riesce a piegare il Toro del conquistador spagnolo, oltre alla carica c’è anche una buona dose di speranza. Un pasto al volo, c’è poco tempo, bisogna andare all’appuntamento con i comandanti dei guerriglieri.

Chi si aspetta soldati con bavaglio e uniforme armati fino ai denti si sbaglia. Ci accolgono cinque persone piuttosto distinte. Sono tutti vertici nazionali dell’esercito insorgente (come amano definirsi) dell’Eln , nato dal movimento studentesco colombiano e animato da intellettuali di un certo spessore, spesso di fede cattolica  combinata con una evidente ispirazione guevariana (ma il Che era ateo ndr). Il più giovane di loro non ha quarant’ anni ed è il responsabile della comunicazione, due sono donne di carnagione meticcia, belle ed eleganti, dal carattere forte fiere di far parte del movimento di guerriglia. “In questo Paese, con tutti questi governi che si sono succeduti nella recente storia della Colombia, l’unico modo per poter cambiare le cose è la guerriglia,  fatta con le bombe” racconta in seguito Silvana in un’intervista rilasciata alla nostra troupe. Sono discorsi che tristemente rimandano indietro le nostre menti agli anni Settanta in Italia… i due più anziani (di sicuro ultrasessantenni) hanno lo sguardo più rassegnato, le rughe testimoniano fatica e una non troppo serena constatazione che nemmeno con la guerriglia le cose sono cambiate. In Colombia sono ancora i meno abbienti e i piccoli agricoltori quelli che soffrono. Il comandante Aureliano (sì proprio questo il suo nome di battaglia) è molto colpito dalla presenza di una così folta rappresentanza di italiani. All’incontro erano state espressamente invitate dal governatore del Narino anche le nostre rappresentanze istituzionali regionali che, come da copione, non si sono degnate nemmeno di fornire una risposta… peccato la presenza (più volte invocata) di un rappresentante istituzionale nostrano avrebbe ulteriormente rafforzato il ruolo della delegazione e dato maggiore spessore internazionale al tavolo… peccato , per l’ennesima volta la nostra classe dirigente si dimostra piuttosto autoreferenziale e sostanzialmente provincialotta, incapace di interpretare il senso più bello della solidarietà internazionale… Ma non pretendiamo troppo e andiamo oltre.

Il comandante Aureliano è un campione di sintesi e di chiarezza. Spiega molto bene il loro ruolo di guerriglieri e la loro posizione all’interno di un conflitto che, nonostante i proclami successivi all’accordo fra governo e Farc, è ancora lontano dall’essere risolto. L’Eln è una forza insorgente nata per tutelare i piccoli agricoltori e i meno abbienti, di fronte a governi reazionari che hanno da sempre appoggiato latifondo e multinazionali. L’Eln non ci sta a firmare accordi di pace a porte chiuse, lo vogliono fare alla luce del sole, in contesti assembleari di partecipazione. A distanza di un anno sono sempre di più i colombiani che hanno capito che con l’accordo fra governo e Farc dello scorso anno sono stati svenduti pezzi interi di Paese a grossi potentati economici… anche la pace ha i suoi costi e qualche sponsor ci vuole.

Aureliano mette in chiaro quali sono le condizioni per poter firmare un accordo di pace a livello nazionale e l’attivazione di forme di partecipazione democratica è il primo punto all’ordine del giorno. Ma sulla partecipazione democratica il governo ovviamente non ci sente… le trattative saranno ancora lunghe.

Hanno chiesto al governo di fermare l’escalation dell’attività armata dei nuovi gruppi paramilitari (i gruppi armati di destra nati a difesa dei latifondi e poi, sotto la guida di Salvatore Mancuso, diventati i principali gestori del narcotraffico). Dal giorno della firma con le Farc sono oltre 150 i leader comunitari morti ammazzati, ma il governo non può ammettere di essere in grado di fermare i paramilitari, sarebbe come ammettere alla luce del sole di avere una certa influenza sugli stessi… le trattative saranno ancora lunghe.

Noi dobbiamo fare la nostra parte e chiediamo a gran voce quanto richiesto dalle 950 persone presenti alla riunione di Samaniego il 13 agosto: riattivare il patto locale di pace di Samaniego, interrottosi nel 2007, e soprattutto dare avvio concreto allo sminamento umanitario (che altro non è che uno sminamento portato avanti dai guerriglieri in collaborazione con la società civile). Lo chiede con forza Oikos, lo chiede con forza Isais, lo chiedono con forza le rappresentanze indigene presenti al tavolo e la gente del centro ovest del Narino. Il comandante Aureliano conferma la volontà dell’Eln a dare avvio al desminado umanitario e il tema – garantisce – sarà il primo argomento sul tavolo del quarto round di dialoghi con il governo colombiano previsti per il mese di ottobre. I rappresentanti delle comunità indigene tuonano che non ne vogliono più sapere né dell’esercito regolare, nè dei paramilitari (piaga mai sanata in Colombia) né di avere la protezione degli eserciti di guerriglia… “Ve ne dovete andare dalle nostre terre e lasciarci in pace, la nostra gente è stufa”, tuona in modo energico una rappresentante indigena Awa della millenaria comunità del Sande. Sì perché la guerriglia capitanata da Aureliano e i suoi non guarda in faccia nessuno e per finanziarsi continua a praticare estorsioni e a taglieggiare gli stessi piccoli agricoltori che dice di voler proteggere, continua nei sequestri di persona e continua a seminare morte…. certo non in modo brutale come i paramilitari ci dicono , ma anche l’Eln continua a fare le sue vittime.

Il livello di riflessione politica del comandante Aureliano è di assoluto spessore, è quasi ammaliante la semplicità con cui ti spiega le cose. E’ uno di quei vecchi rivoluzionari che quando ti parla è talmente chiaro che anche se non conosci bene lo spagnolo il messaggio ti arriva comunque, forte e chiaro. Ma mentre lo ascolti e credi che le loro motivazioni siano tutt’altro che censurabili beh… devi ricordarti che l’Eln continua a fare le sue vittime, a taglieggiare i contadini, a sequestrare innocenti figli del popolo, a rivendicare il controllo armato dei territori, a piazzare bombe in mezzo alla gente – l’ultima non più di un mese fa… proprio in centro a Samaniego. Tutto questo non torna, non batte, mi dispiace ma stride fortemente con la carica di idealità e la lucida e ricca riflessione rivoluzionaria di Aureliano, Consuelo, Carlos e Silvana. Gli occhi stanchi e le rughe di Aureliano sanno che dopo 54 anni di guerriglia armata e centinaia di migliaia di vittime le condizioni dei meno abbienti, di coloro per cui hanno voluto fare la rivoluzione, non sono migliorate…. anzi il livello di corruzione istituzionale è cresciuto, le espropriazioni e gli sfollamenti aumentati, le concessioni minerarie alle multinazionali decuplicate, l’influenza delle compagnie petrolifere americane sull’economia del paese sono più forti che mai. Si dice che gli stessi accordi di pace dell’Havana fra governo e Farc siano stati benedetti dalla Texaco, anch’essa stufa di vedersi bombardare le stazioni petrolifere di Barranquilla nel Nord del Paese. Dopo 54 anni di lotte e di guerra il Narino è ancora oggi produttore del 67% di tutta la cocaina prodotta in Colombia, il 30% di tutta la cocaina prodotta a livello mondiale……….. la cocaina, il principale sponsor dell’infinita guerra civile colombiana.

Il clima della riunione, durata oltre 4 ore, continua ad essere quello della cordialità e dell’ascolto. Sì perchè Aureliano ci tiene a dimostrare che, a differenza del Governo antagonista, lui ascolta tutti…… e prende appunti, oh se ne prende. Riempie un taccuino intero, si annota ogni parola e ringrazia generosamente tutti per la disponibilità e, perchè no, per il coraggio dimostrato nell’essere determinati ad incontrare i comandanti di un esercito di guerriglia insorgente.

Si continua a parlare di democrazia, di partecipazione, di diritti umani, di sviluppo economico e sociale ma soprattutto agricolo, di soluzioni alternative alla coltivazione della coca e Aureliano promette il suo impegno a fare di tutto per dare seguito al desminado umanitario. Ci sentiamo in dovere di credergli e rimaniamo in attesa dei fatti. Loro capiscono benissimo le sofferenze della gente e per questo hanno dichiarato un cessate il fuoco di 4 mesi, sino al 12 gennaio 2018. Ma questo cessate il fuoco non sancisce la fine del conflitto – ci tiene a rimarcare – sancisce l’inizio di un processo di pace, che avrà ovviamente la sua durata e dovrà essere trasparente, per il bene di tutte le parti in causa.

manca solo un punto dell’ordine del giorno da affrontare e lo prende in mano Harold (storico sindaco di Samaniego promotore del patto locale di pace del 2005) che spiega che per avvicinare le popolazioni l’Eln deve anche saper dare notizie dei propri cari scomparsi alle famiglie che hanno ormai perso la speranza di vederli tornare a casa. E’ così che chiede lumi su due giovani desaparecidos….. Aureliano lo convoca in coda alla riunione in una stanzetta, a porte chiuse questa volta, e gli spiega il tragico destino dei due giovani di cui vengono chieste informazioni…los mataron , non si sa chi e perchè, si sa come e quando, le uniche informazioni di cui l’Eln dispone.

La speranza di vedere la risoluzione del conflitto non muore ma quanta gente dovrà ancora morire prima di avere davvero la pace, quella vera? La delegazione italiana è rientrata alla base, ottobre è arrivato ed entro fine mese dovremo sapere se l’Eln attiverà finalmente lo sminamento umanitario nel Narino dopo 12 anni di negoziazioni.

L’esperienza è stata forte, intensa e non sempre facile da decifrare. Sono troppe le variabili in campo per pretendere di capire tutto e poter dare giudizi, sono troppe le variabili in campo per poter sperare in soluzioni di pace in breve tempo, sono troppi gli interessi in gioco (minerari e del narcotraffico su tutti) per poter pensare che tutta questa violenza possa finire tra breve. La Colombia ancora non è pacificata …ma come dicono i colombiani “siamo entrati nella fase del post conflitto… e durerà almeno 20 anni” Giovanni Tonutti per Oikos

Pacchisti Democratici

Il capogruppo del Pd Ettore Rosato (D) con Lorenzo Guerini durante l'esame della riforma della legge elettorale nell'aula della Camera. Roma, 10 ottobre 2017. ANSA/ ETTORE FERRARI

Il Partito democratico ha un giornale ufficiale. Fermi tutti, no, non è l’Unità: quella è stata rottamata con tutta la sua storia poiché il renzismo, si sa, teme la memoria e la complessità e quindi il quotidiano fondato da Gramsci era un fardello troppo pesante da sopportare. Il “nuovo” foglio democratico si chiama Democratica (a proposito di quello che doveva essere un “maestro della comunicazione”, ricordate?) e nel numero di ieri (non sei mesi fa, ieri martedì 10 ottobre) ospitava un’intervista sulla legge elettorale al deputato Pd Ettore Rosato.

Chiede il giornalista: “Sarà necessario porre la fiducia sulla legge, per superare l’impasse dei voti segreti?”.

Risponde Rosato (ieri, tenetevelo a mente, ieri): «Ritengo che sia legittimo utilizzare ogni strumento regolamentare per evitare di cadere nelle trappole del voto segreto, come è già accaduto nel recente passato. Di fronte al rischio di un uso strumentale del voto segreto, noi usiamo altri strumenti parlamentari. Dopo di che ci confronteremo in Aula, come abbiamo sempre fatto. Al momento del voto finale sul provvedimento ogni deputato si esprimerà in piena libertà per affermare se intende sostenere o no questa nuova legge elettorale”. E invece no. Non si confronteranno in aula. Guarda un po’. È tutto qui.

Non è finita. Nel giorno di insediamento del suo governo il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni disse: «La legge elettorale prenderà corpo il confronto tra le forze parlamentari e la necessaria armonizzazione delle norme tra Camera e Senato. Un confronto nel quale il governo, ci tengo a ribadirlo, non sarà l’attore protagonista. Spetta a voi, onorevoli colleghi, la responsabilità di promuovere e trovare intese efficaci». E invece no. Niente.

Ancora. Nel 2009 la democratica Lanzillotta protesta contro il voto di fiducia messo dal governo di centrodestra sul decreto sicurezza. Dice: «In questo modo si aggirerebbero le garanzie regolamentari che consentono la richiesta del voto segreto sulle disposizioni volte ad incidere sui diritti fondamentali. Siamo certi che il Presidente della Camera non vorrà consentire questa umiliazione della Camera dei Deputati». Ma poi ha cambiato idea. Evidentemente.

Poi c’è lui, il bugiardo cronico. È il 15 gennaio 2014 e Matteo Renzi twitta: «Legge elettorale. Le regole si scrivono tutti insieme, se possibile. Farle a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato».

Serve altro?

Buon mercoledì.

 

Francesco Cocco in Burkina Faso: immagini di una resistenza continua

© Francesco Cocco

Le fotografie scattate in Burkina Faso da Francesco Cocco nel febbraio 2017, in mostra dall’11 ottobre nei locali di Officine Fotografiche a Roma a cura di Giulia Tornari, raccontano, fra povertà e riscatto, paura e desiderio di cambiare, tradizioni come macigni e nuovi diritti tutti da conquistare, uno fra i paesi più poveri al mondo.
Ritratti in bianco e nero, volti di giovani donne fra i 16 e 19 anni che vivono nella provincia di Kadiogo, fuori Ouagadougou, in un centro di accoglienza per donne e ragazze che hanno subito violenza o fuggono da matrimoni combinati. E poi ancora uomini nella sala di aspetto di dispensari sanitari e madri con neonati urlanti, anziane considerate streghe e bimbi abusati da professori bianchi occidentali, bambini che scavano in miniere d’oro abusive e altri che giocano a biliardino o sulla terra arsa, nonostante tutto.
Un lavoro importante sostenuto in Burkina Faso da organizzazioni della società civile, come Associazione italiana donne per lo sviluppo Onlus e Medicus Mundi Italia entrambe appartenenti all’Osservatorio AiDS – Aids Diritti e Salute che ha promosso una missione conoscitiva in Burkina per sensibilizzare l’opinione pubblica non solo sulla lotta all’Aids, sostenuta anche dal Fondo Globale, e sull’accesso ai farmaci, ma anche sulla violenza maschile sulle donne e i minori e i matrimoni forzati: il racconto fotografico di Francesco Cocco restituisce con estrema delicatezza la battaglia quotidiana di donne e uomini per sopravvivere alla malattia e al dolore.
Per info Officine Fotografiche a Roma

© Francesco Cocco

© Francesco Cocco

© Francesco Cocco

© Francesco Cocco

© Francesco Cocco