Home Blog Pagina 830

Las Vegas, così le fake news rendono il killer un “democratico”

Un fermo immagine tratto dalla Cbs mostra un'immagine di Stephen Paddock in un riquadro montato sulle immagini della polizia sul luogo della strage. Las Vegas, 2 ottobre 2017. ANSA/ FRAME CBSN +++ NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Aveva 42 armi automatiche, migliaia di munizioni e 64 anni, una casa in Nevada e la fedina penale pulita. Una vita che il fratello adesso definisce rispettabile. L’uomo che ha ucciso quasi 60 persone dal 32esimo piano della sua stanza d’albergo al Mandalay Bay casinò, si chiamava Stephen Paddock, ma la sua azione è finita subito nei siti dell’ultra destra americana, prima ancora che lui fosse identificato.

Mentre alla Route 91 c’era ancora terrore, emergenza sangue e taxi gratis per i volontari accorsi ad aiutare, qualcuno rimaneva dietro la tastiera e lo schermo per diffondere false notizie durante il più letale massacro americano dal 1949. Quando una storia diventa una breaking news: è esattamente quello il momento in cui invadere il web e diffondere informazioni fake, per far diventare la propaganda immediatamente virale.

Il killer, sui social network, diventa subito un “democratico”, che ha compiuto quello che ha compiuto, perché era “un oppositore di Donald Trump”. Prima ancora che il nome di Stephen Paddock fosse reso noto, alcuni troll dell’ultra destra avevano diffuso il nome di un certo Geary Danley. Dell’hoax, della bufala, non è stata identificata la fonte d’origine, e l’unica cosa che i troll scrivevano di Danley era “liberale democratico”.

«Lo sparatore di Las Vegas era un democratico che amava Rachel Maddow, MoveOn.org ed era associato all’Anti Trump Army» era il titolo del pezzo su una pagina sponsorizzata da Facebook a pagamento. Per i fatti non c’erano prove, né venivano mostrate fonti affidabili. Le informazioni però rimangono per un bel po’ sulla pagina Safety Check, che servirebbe a mettersi in contatto con i propri cari durante una crisi.

L’articolo falso viene dunque, in seguito, ribattuto da Gateway Pundit, un blog complottista che ormai tutti conoscono dopo la campagna per le presidenziali di Trump. È stata diffusa poi l’informazione che il killer facesse parte di un gruppo anti-fascista e fosse legato all’Antifa della sinistra americana. A quel punto su una pagina falsa di Facebook, chiamata proprio Antifa, è apparsa una rivendicazione della sparatoria, dove si poteva leggere che «l’obiettivo dell’attacco era uccidere i cani fascisti che supportano Trump». In seguito l’omicida, per gli utenti dei social network, è diventato un sostenitore di Hillary Clinton.

Gli utenti su Google hanno cominciato a scrivere il nome falso del presunto assassino. Su Geary Danley, ormai, nel server si susseguivano le notizie connesse alla tragedia di Las Vegas e al suo odio per Trump. Ci sono volute ore ed ore per capire che era opera dei troll.

Ogni volta che una fake news si diffonde, si incolpa l’algoritmo: Google si è pubblicamente scusata per l’accaduto. Facebook ha detto di aver rimosso i post, ma che erano stati fatti degli screenshot e stavano ancora circolando on line. «Stiamo lavorando per sistemare la cos»”.

I troll non si fermano, non dormono e non smettono di scrivere nemmeno sotto fuoco americano, nemmeno dopo quello che i giornali anglofoni chiamano tutti carnage, carneficina. Sono stati gli utenti di Reddit a sospettare e bloccare l’onda di fake news. Ora tutti si chiedono: che cosa è successo? L’alt-right è riuscita a manipolare gli algoritmi del social media più famoso del mondo? È crap, spazzatura, che però alimenta il traffico di Facebook, l’unica cosa che conta davvero per il social network.

 

Onorevole senza onore

Si chiama Mario Caruso, è un ex finiano eletto all’estero nella circoscrizione Europa con la lista di Mario Monti e ovviamente adesso nega e minaccia querele. Anzi, di più: all’operatore delle Iene che lo riprendeva mentre imbarazzato (non) dava risposte ha detto, in dialetto stretto, di essere pronto a “risolverla” come fanno al suo paese, con un accento poco vagamente minaccioso.

Ed è, ancora una volta, una storia di abuso di potere intriso come al solito di insano maschilismo che sembra uscita dal manuale dei nostri politici peggiori, scollegati dalla realtà e portatori di quel fastidioso senso di impunità che indigna e e squalifica il Parlamento.

In un servizio della trasmissione televisiva Le Iene l’onorevole Caruso ammette pacificamente di avere assunto «per piacere personale» il figlio del sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi: peccato che il figlio in realtà in ufficio non si sia mai visto, sostituito da una giovane ragazza (che è la persona che ha denunciato la situazione) che ha lavorato per un anno e mezzo nell’ufficio di Caruso senza stipendio, senza contratto e con la promessa mai mantenuta di essere regolarizzata.

Poi ovviamente ci sono anche le avances nei confronti della ragazza (come un messaggio dopo mezzanotte in cui l’onorevole scrive «sono a casa, valuta te cosa fare») che avrebbero potuto “sbloccare” la situazione lavorativa: un quadretto desolante e completo di una classe dirigente che acuisce la disaffezione verso un Paese che si ostina a non cambiare nei suoi comportamenti peggiori.

Ora vedrete che Caruso (e il sottosegretario Rossi) verranno cavalcati come sineddoche della politica tutta e sventolati per sparare nel mucchio. Eppure la soluzione è semplice e veloce: l’articolo 54 della Costituzione dice chiaramente che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge» e quindi Caruso (e il sottosegretario Rossi) hanno evidentemente atteggiamenti incostituzionali. In un Paese sano verrebbero rimossi in fretta e mandati a ristudiarsi l’etica e la lealtà verso le istituzioni. Osserviamo, quindi.

Buon martedì.

Camerun, la protesta dei separatisti soffocata nel sangue

Cameroon police officials walk with riot shields on a street in the administrative quarter of Buea some 60kms west of Douala on October 1, 2017. A young man from Cameroon's English-speaking region was shot dead by security forces in the city of Kumba on the eve of an expected symbolic declaration of independence by anglophone separatists, medical and security forces told AFP. / AFP PHOTO / STR (Photo credit should read STR/AFP/Getty Images)

Il governo centrale ha vietato le manifestazioni pubbliche e i raduni di persone all’aria aperta. Ha bloccato i trasporti e ha impedito ai negozi di aprire. Insegnanti e alunni non entrano nelle scuole chiuse. Come riporta Al-Jazeera la tensione è altissima nei paesi e nella città dove gli attivisti, a migliaia, parlano una lingua diversa dalla maggioranza della popolazione e in quell’idioma hanno appena dichiarato un’indipendenza simbolica dal resto del Paese. Non succede a Barcellona, ma in Camerun, dove le due regioni in cui si parla inglese vogliono essere autonome dal resto dello Stato, che si esprime in francese.

Hanno una bandiera a due colori, bianco e blu, e un inno, in questo Paese che ancora non esiste e già si chiama Ambazonia. «Abbiamo una lingua, una storia, una cultura, le nostre leggi. Abbiamo tutto per essere una nazione. L’Onu deve riconoscere i nostri diritti». Al mondo mandano messaggi video sulle chat perché non c’è nessun giornalista per le loro strade per raccontare questa storia.

Anglofoni contro francofoni. Era una colonia tedesca, il Camerun, poi spartita tra alleati dopo la prima guerra mondiale, tra i vincitori francesi e britannici. Le regioni del Sud e del Nord si sono unite al resto del Camerun nel 1961 con un referendum, risoluzione Onu numero 1608, che oggi, dicono i “separatisti”, non è mai stata applicata nei termini dovuti dal governo centrale che agisce nella capitale Yaounde. Dei proventi del petrolio, che si trova nelle regioni del Sud, ne hanno beneficiato le altre regioni, dicono i manifestanti anglofoni, un quinto della popolazione di uno Stato di 22 milioni di persone. Le discriminazioni contro gli anglofoni, dicono gli attivisti, si compiono ovunque, specialmente sul posto di lavoro, dove sono costretti a parlare francese, nonostante l’inglese sia una delle lingue ufficiali del paese.

Marce si susseguono nelle ultime ore da Buea a Kumbo, dove negli scontri con la polizia e, conseguenti arresti, sono morte l’altra notte sette persone: cinque persone sono state uccise dai soldati, poi una prigione è andata a fuoco e due persone sono morte nell’incendio. Molti sono feriti all’ospedale. Contro gli attivisti adesso si applicano le leggi anti terrorismo stilate dopo i raid di Boko Haram nel Paese. Mille paramilitari sono stati dispiegati nelle due regioni dopo una precedente operazione di sicurezza, durata 128 giorni.

«Oggi affermiamo la nostra autonomia, il nostro retaggio sul nostro territorio» ha reso noto lo Scacuf, il fronte unito del Sud del Camerun, quando le proteste sono scoppiate nel giorno dell’anniversario dell’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1961. «Non abbiamo armi, marceremo pacificamente. Abbiamo il diritto di difenderci, ma non attaccheremo il governo» ha detto Ayuk Patrick, segretario generale dello Scacuf.

I dissidenti, fondatori di un movimento che negli ultimi anni acquisisce sempre più membri, continuano a capeggiare le sempre più numerose manifestazioni di piazza. La tensione aumenta e dall’inizio dell’anno sei persone sono morte e centinaia sono state arrestate. La risposta del governo è stata rendere inaccessibile internet solo nelle due regioni dei parlanti inglese e per più di tre mesi. Il risultato è stato bloccare i gruppi indipendentisti sui social media, ma non per strada. Il leader dei separatisti si chiama Sisiku Ayuk Tabe e continua a ripete nei comunicati video ai compatrioti che «non ci renderanno servi a casa nostra». Invece il ministro della comunicazione camerunese Issa Tchiroma Bakery del governo del presidente Paul Biya ha dichiarato che «non ci sarà alcuna amputazione o divisione del Camerun».

Così Rajòy ha fatto “di una palla di neve una slavina”

La frase l’ha scritta ieri da De Gregorio su Repubblica, per descrivere il disorientamento di una Barcellona che assiste alla militarizzazione di un voto che per insipienza politica si trasforma in scontro e così schiaccia le rivendicazioni politiche della Catalogna e il suo referendum in una turpe macchia che gocciola sulle pagine dei giornali di tutto il mondo: e così la gente, scrive la De Gregorio, si ritrova “incredula di fronte all’incapacità di una classe politica che ha fatto di una palla di neve una pericolosissima slavina. Una classe politica che passerà alla storia per avere trasformato un dosso stradale in un muro, e di avere guidata bendata allo scontro”.

Oggi invece le cronache riportano i rimasugli degli scontri: secondo fonti catalane ci sarebbero almeno 800 feriti di cui un centinaio gravi (lo dice il portavoce del governo catalano Jordi Turull) mentre il governo nazionale risponde raccontando del ferimento di una dozzina di persone e dell’arresto di sei persone tra cui un minore. Ma i numeri, si sa, non riescono mai a raccontare le storie e le persone e da queste parti negli ultimi giorni sono utili soprattutto a strappare da una parte dall’altra.

Le immagini, invece, che non hanno bisogno di troppa interpretazione raccontano delle pattuglie della polizia nazionale che usano una violenza nera, dalle radici buie, mentre azzannano anche donne ed anziani. C’è un poliziotto che come in un’esibizione di wrestling scalcia al volo una persona che è già per terra, ce ne sono due che tengono per mani e piedi una vecchia donna trasportata come un cencio, ci sono le manganellate della polizia contro i vigili del fuoco che presidiano un seggio, c’è l’espressione ferma dei Mossos (la polizia catalana) mentre mettono in atto un “ammutinamento” che non si cicatrizzerà troppo facilmente.

E il referendum è diventato un corpo a corpo da cui, comunque finirà non può uscire nulla di buono. Ma soprattutto la politica, che dovrebbe essere la difficile meccanica della sintesi, ne esce a brandelli riuscendo nel capolavoro (in questo caso come in molti altri) di partorire rabbia. E chi cavalca meglio di tutti gli altri la rabbia? Quegli stessi avvoltoi che sparirebbero nella nebbia in una sana democrazia.

Buon lunedì.

Referendum Catalogna, il pugno di ferro di Rajòy. Arresti e feriti

Scuffles break out as Spanish Civil Guard officers force their way through a crowd and into a polling station for the banned independence referendum where Catalan President Carles Puigdemont was supposed to vote in Sant Julia de Ramis, Spain October 1, 2017. REUTERS/Juan Medina

Cariche della polizia e feriti fra i cittadini catalani che pacificamente volevano votare sì al referendum per l’indipendenza della Catalogna. Le foto mostrano un uso deliberato della violenza che ricorda gli anni del franchismo. Comunque la si pensi riguardo alle istanze autonomiste degli indipendentisti catalani e al loro ricorso al referendum come strumento di rottura dal basso oggi non si può che essere dalla loro parte.

Le cronache dicono anche di arresti di attivisti ( 460 in serata). alcuni perché hanno cercato di fermare gli ufficiali  intervenuti per chiudere alcune struttura dove cittadini catalani semplicemente volevano votare al referendum non riconosciuto dal governo centrale.

Il sindaco di Barcellona Ada Colau chiede la dimissioni del primo ministro Mariano Rajòy: “Inaccettabile la violenza su personeche manifestavano in modo pacifico”.

La settimana scorsa così il collega e ricercatore Steven Forti ricostruiva su Left il quadro della situazione:

Anche se i catalani riusciranno a votare il primo ottobre, il referendum non avrà nessun valore legale e non otterrà nessun riconoscimento internazionale. La Ue lo ha ripetuto più volte: “è una questione interna al Regno di Spagna”. L’unico appoggio che ha ottenuto l’indipendentismo è quello di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, rinchiuso da anni nell’ambasciata dell’Equador a Londra.
Quella di domenica 1 ottobre sarà molto probabilmente una nuova grande mobilitazione dell’indipendentismo catalano. Una dimostrazione di forza. A Madrid e al mondo. Come nelle molte Diadas che hanno invaso pacificamente le strade di Barcellona l’11 settembre degli ultimi sei anni. L’obiettivo del governo catalano è quello di portare a votare più gente rispetto al macrosondaggio di tre anni fa: il 9 novembre del 2014 furono 2,3 milioni i catalani che parteciparono (il 37% degli aventi diritto), l’80% dei quali dissero sì alla creazione di un nuovo Stato. Ma con che fine? Per dichiarare unilateralmente un’indipendenza non riconosciuta da nessuno? Difficile. E controproducente per gli stessi indipendentisti. Per avere più forza nelle trattative che si dovrebbero aprire il day after? Probabilmente. Per mantenersi al potere nella ricca regione nord-orientale della Spagna? C’è chi sostiene che tutto, o quasi, è fatto dal governo catalano per questo.

C’è un fattore però che potrebbe modificare le cose e distorcere la lettura dell’1 ottobre: le decisioni che prenderà il governo del Partito Popolare (PP). Il governo catalano ha scommesso tutto o quasi sulla logica azione-reazione e sulla risposta della società catalana alle possibili inabilitazioni dei politici catalani o alla requisizione delle urne da parte del governo spagnolo. L’1 ottobre, in questo caso, si convertirebbe soprattutto in una manifestazione contro il governo del PP. Ancora una volta, sarà chiave capire chi vincerà la battaglia della “narrazione”.
Facciamo però un passo indietro. Come si è arrivati fino a qui? Due sono le cause principali. In primo luogo, il modo in cui si è gestito il processo di riforma dello Statuto di Autonomia catalano tra il 2003 e il 2006 e la dura campagna lanciata dal PP di Rajoy, allora all’opposizione, che portò nel 2010 alla sentenza della Corte Costituzionale che ne annullava 14 articoli. È lí che si ha un primo forte segnale di frustrazione da parte della società catalana. In secondo luogo, le conseguenze della crisi economica che ha colpito la Spagna dal 2010: una crisi che si è trasformata rapidamente in una crisi sociale, politica, istituzionale, territoriale e culturale. È il sistema spagnolo nato dalla transizione alla democrazia di fine anni Settanta che è andato in tilt. Non è un caso che la rivendicazione indipendentista diventi di massa nell’autunno del 2012, poco più di un anno dopo la nascita del movimento degli indignados che occupano le piazze di tutto il paese al grido di Democracia Real Ya.
È questo mix di frustrazione e rabbia che spiega in buona parte la nascita della rivendicazione indipendentista catalana. Nel 2006 si considerava indipendentista appena il 15% dei catalani, ora sono almeno il 40%. Frustrazione e rabbia, fomentate da un’evidente assenza di dialogo tra i due governi negli ultimi cinque anni, che sono state gestite in modo diverso dalle élites politiche di Madrid e Barcellona. A Madrid il PP approfitta della crisi per applicare politiche di ricentralizzazione giustificandole con le misure di austerity. Chi ne paga le conseguenze sono tutti i cittadini, ma anche Comuni e Regioni. A Barcellona all’inizio si calca l’acceleratore allo stesso modo: duri tagli al Welfare State, fedeli ai dettami merkeliani più rigidi, e politiche business friendly. Tutto cambia nel 2012. Il governo catalano, saldamente in mano alla destra autonomista di Convergència i Unió, cerca di calvalcare l’onda sovranista per non rimanere sommerso. Nel giugno del 2011 avevano avuto il primo avviso: gli indignados avevano circondato il Parlamento regionale per impedire la votazione delle misure di austerity più dure dalla fine del franchismo. L’allora presidente regionale, Artur Mas, era dovuto entrare in Parlamento in elicottero. Ma è un cambio di facciata perché le politiche applicate da Convergència e dai seguenti governi appoggiati dalla sinistra indipendentista continuano ad essere sempre le stesse.

La differenza è che si scarica la responsabilità sul governo di Madrid e si vende l’idea che l’indipendenza è la panacea di tutti i mali. “Un’utopia disponibile”, seconda la definizione della sociologa Marina Subirats, che fa presa su molte persone.
È qui il nocciolo della questione e l’inizio di quel che si è chiamato Procés sobiranista (processo sovranista). La sua caratteristica principale è l’eterogeneità dove ha un peso preponderante la rivendicazione democratica, ma dove entrano in scena, poco a poco, anche elementi identitari e chiaramente di destra. Come catalogare uno slogan come “Madrid ci deruba” che ricorda il Bossi dei tempi d’oro? Come giustificare l’attacco sistematico sui mass media o sui social network a chi in Catalogna si dimostra critico con l’indipendentismo e che viene tacciato di “traditore”, “spagnolista” o, direttamente, “fascista”? Come definire la rilettura nazionalista della storia fino ad affermare che la Catalogna è un paese occupato da 300 anni? O ancora: come spiegare la mancanza di rispetto delle regole democratiche nell’approvazione della Legge del Referendum di autodeterminazione, senza permetterne la discussione ai partiti dell’opposizione? O l’inclusione nella Legge di Transitorietà Giuridica di un articolo che fa dipendere la magistratura dall’esecutivo nella futura Catalogna indipendente? Cose più tipiche dell’Ungheria di Orban che di un territorio che giustifica la sua indipendenza per la “demofobia” del governo spagnolo.
Certamente l’indipendentismo catalano non ha nulla a che vedere con la Lega Nord, ma alcuni settori al suo interno, con una sempre maggiore visibilità mediatica, si sentirebbero a proprio agio nel partito di Salvini, nel Front National di Le Pen o con Trump. E questa è anche la maggiore contraddizione della sinistra indipendentista catalana, sia quella socialdemocratica di Esquerra Republicana de Catalunya sia quella anticapitalista della Candidatura d’Unitat Popular, che appoggiano un governo in cui l’egemonia è in mano alla destra catalana, rappresentata dal presidente Carles Puigdemont, il successore di Artur Mas.

È indubbio che la CUP, partito assembleare e antisistema, vede nell’indipendenza il grimaldello che permette di scardinare il sistema per creare una Repubblica catalana socialista. Il che già di per sé è questionabile: perché non farlo insieme agli andalusi, i galiziani o i castigliani che lottano per cambiare tutta la Spagna? Ma se per di più ci si lega alla destra neoliberista sotto l’ombrello ambiguo e di pessimi ricordi dell’unità nazionale si fa un pessimo favore alle rivendicazioni di quello che un tempo si sarebbe chiamato proletariato. Ci si è fermati alle lotte terzomondiste di mezzo secolo fa, senza aver capito la teoria della dipendenza di Gunder Frank, tanto cara a Che Guevara, o le considerazioni di Anton Pannekoek, scritte nell’autunno del 1914, sui rischi drammatici dell’union sacrée. E senza aver capito che, piaccia o no, ci si trova nell’Europa del villaggio globale. Che cosa cambierebbe in una Catalogna indipendente dove l’egemonia rimarrebbe in mano alla destra che, detto en passant, fino al 2012 ha sempre governato insieme al PP dell’ora odiatissimo Mariano Rajoy?
L’immagine che l’indipendentismo vuole trasmettere è che la società catalana è un blocco monolitico, ma non è così. La società catalana, ormai molto divisa sulla questione dell’indipendenza, è estremamente eterogenea. Alle elezioni regionali del 2015 i partiti indipendentisti hanno raccolto il 47,8% dei voti, per quanto, grazie ad una legge che premia le circoscrizioni meno abitate, abbiano una maggioranza di seggi nel Parlamento di Barcellona. Si tratta di un numero importante, ma non sufficiente per dichiarare unilateralmente l’indipendenza.

È quel che non si stancano di ripetere Pablo Iglesias e Ada Colau. Sia il leader di Podemos che la sindaca di Barcellona condividono l’analisi di fondo di parte dell’indipententismo di sinistra: il Régimen del ’78, ossia il sistema spagnolo nato dalla transizione post-franchista, è arrivato al capolinea ed è necessario costruire un nuovo sistema su nuove basi. Ma non ne condividono né la limitazione alla sola Catalogna, né la via unilaterale, né l’alleanza “tattica” con la destra catalana. Per Podemos e per Barcelona en Comú la soluzione è quella di trasformare la Spagna in uno Stato plurinazionale, difendendo per la Catalogna un referendum di autodeterminazione accordato, legale e con il riconoscimiento internazionale, senza rischiare di fratturare la società catalana con accelerazioni che dimostrano una debolezza di fondo del movimento indipendentista. Ossia, difesa a spada tratta del diritto di decidere. Però non solo sulla questione nazionale. Su tutto: dalla sanità all’educazione, dalle politiche di accoglienza dei migranti all’ambiente, dalla partecipazione della cittadinanza alla lotta alla corruzione… E con un’idea di fondo che contrasta il discorso indipendentista: la Spagna sì che è riformabile, a patto che tutti insieme si lotti per cambiare il sistema, cominciando da togliere il governo al PP.
È una strada difficile, ovviamente, rispetto all’utopia dell’indipendenza che trasformerebbe la Catalogna dall’oggi al domani nel paese del Bengodi. Ma sono spesso le strade più difficili quelle che permettono di costruire su basi solide un futuro dove il protagonismo, almeno per chi crede nei valori fondamentali della sinistra, deve averlo la giustizia sociale e non l’identità nazionale. È questa la sfida che si trova di fronte la sinistra spagnola e catalana.

Mario Delgado Aparaín: «Scrivo per resistere alla dittatura dell’oblio»

People walk in front of a graffitti reading "Thanks Mate Pepe" in homage to Uruguayan President Jose Mujica who will hand power back to his predecessor Tabare Vazquez on Sunday, in Montevideo on February 28, 2015. AFP PHOTO / PABLO PORCIUNCULA (Photo credit should read PABLO PORCIUNCULA/AFP/Getty Images)

«È innanzitutto un canto all’amicizia, all’amore e alla vita, il mio nuovo romanzo» ci dice Mario Delgado Aparaín a proposito del suo Tango del vecchio marinaio (Guanda), un libro di grande spessore letterario e umano. Parla dell’incontro di due amici in una solitaria casetta vicino all’oceano dopo essere stati vent’anni senza vedersi. Le loro vite cambieranno quando conoscono una giovane che stava per suicidarsi. «Ho sempre pensato che una buona storia è quella che racconta un conflitto», racconta a Left lo scrittore uruguaiano. «In questo caso i due amici sono stati “toccati” ognuno in modo diverso, da un personaggio sinistro: un medico supervisore delle torture. Uno di quelli il cui compito era accertarsi che i torturatori non “esagerassero” con i prigionieri durante “l’interrogatorio”». Era una figura tipica delle dittature latinoamericane durante gli anni 70, spiega Aparaín da sempre politicamente attivo nelle file del Frente Amplio, il partito del senatore ed ex presidente Pepe Mujica. Personaggi come il medico hanno provocato una reazione frequente tra i figli degli aguzzini nel momento in cui vengono a sapere cosa hanno combinato i genitori. Una cosa simile si è verificata anche nella Germania post nazista o nella Spagna post franchista, racconta lo scrittore: «In questa mia storia la figlia del medico, una cantante di tango, viene salvata dal suicidio dai due amici, e nasce tra loro un rapporto meraviglioso che rafforza la mia convinzione che nella vita nessuno si salva da solo». L’amicizia, la voglia di vendicarsi, la malignità senza motivo e la resistenza feroce contro la perdita della speranza in una vita “diversa”, sono i temi che ripercorrono con molta passione questa storia. E più in generale tutta la produzione letteraria di Aparaín. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’uscita del suo libro in Italia e ne abbiamo approfittato per fargli alcune domande.
Spesso tu utilizzi una frase di J. Guimaraes Rosa: «Scrivere per resistere». Cosa significano queste parole per Mario Delgado Aparaín?
La mia infanzia, in campagna nel nord dell’Uruguay vicino alla frontiera con il Brasile, è stata segnata dalla povertà e circondata da gente molto umile, spesso analfabeti e in tanti erano discendenti di schiavi afrobrasiliani. Li ricordo padroni di una memoria ancestrale notevole, grazie soprattutto agli anziani, narratori ineguagliabili della storia orale dei loro popoli, che tramandavano di generazione in generazione. Iniziai a pensare che non fosse giusto che ci siano esseri umani che nascono, vivono e muoiono senza lasciare traccia sul pianeta. Quegli uomini e quelle donne, portatori di storie e leggende incredibili, raccontate intorno al fuoco, non potevano scomparire come se niente fosse. Fu allora che a vent’anni trasformai l’atto di scrivere in una operazione di salvataggio di piccole storie che andavano inevitabilmente…

L’intervista a Mario Delgado Aparaín prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

L’antico genocidio che imbarazza la Germania

OTJIWARONGO, NAMIBIA - AUGUST 12: Herero groups parade in traditional military uniforms on horseback during a march when commemorating fallen chiefs killed in battles with Germans on August 12, 2016 in Otjiwarongo, Namibia. The area was the venue for decisive battles of the Herero uprisings in 1904. The Herero accuse the German Empire of Genocide of its people from 1904-07. They are currently trying to make the German government compensate the descendants of the people killed. (Photo by Per-Anders Pettersson/Getty Images)

Questa storia comincia con un teschio.

1907. Un teschio su una mensola, dentro una canonica, fra Bibbie e libri in tedesco, poche suppellettili, stuoie sul pavimento, un crocefisso e i paramenti appesi al muro. Fuori, la terra secca e farinosa della Namibia, dove il deserto ha lasciato da tempo lo spazio all’altopiano: pochi edifici, che vorrebbero portare nel Nuovo mondo la grazia spensierata del neogotico e dell’art nouveau, una stazione ferroviaria appena inaugurata e la Christuskirche luterana che svetta in cima a una collina con i suoi colori di biscotto e zucchero. Intorno, le case basse dei coloni e più in là – rigorosamente separate dal mondo dei bianchi – le baracche degli indigeni.

Windhoek è cresciuta all’incrocio dei venti, territorio conteso fra Herero e Nama, percorso da sorgenti calde che ne fanno un punto cruciale per le coltivazioni; non è un caso che proprio da qui, nel 1890, inizi formalmente il dominio della Germania sulla Namibia. Primo governatore della colonia è un tal Heinrich Göring, padre di quell’Hermann che sarà poi il braccio destro di Hitler. A capo del contingente militare arriva con 14mila uomini il generale Lothar von Trotha, noto per non andare troppo per il sottile. Nel 1904 sconfigge gli Herero ribelli nella battaglia di Waterberg e ordina ai suoi uomini di non avere pietà nemmeno di donne e bambini, che vengono lasciati morire di sete nel deserto.

I pochi superstiti finiscono nei Konzentrationslager, dove sono sottoposti a torture, stupri, esecuzioni sommarie; nel più grande, a Shark Island, l’antropologo Eugen Fischer fa esperimenti su cavie umane, a cui partecipa anche l’italiano Sergio Sergi. Oltre l’80% della popolazione Herero viene eliminata in soli tre mesi, tra l’agosto e l’ottobre 1904; i Nama seguiranno di lì a poco la stessa sorte. Come souvenir e prova dell’efficienza teutonica, trecento teschi sono inviati in Germania. È un genocidio….

Il reportage di Claudio Geymonat e Federica Tourn proseuge su Left del 30 settembre 2017


SOMMARIO ACQUISTA

Il papa sul lettino

"Classic and luxury red armchair isolated on white background, interior decoration image. Retro revival. Easy to use with Clipping Path."

Molte testate giornalistiche hanno riportato la notizia della uscita del libro, di Domique Wolton dal titolo Pape Francois, rencontre avec Domique Wolton. Il giornale francese Le figaro ha pubblicato un’anticipazione dalla quale si apprende che papa Francesco dal 1978 al 1979 si è sottoposto ad una psicoanalisi con una donna di religione ebraica ad un ritmo di una seduta alla settimana per 6 mesi.
Prima di morire la donna avrebbe contattato il prelato per un «colloquio spirituale». Sulla base di queste scarne rivelazioni è difficile valutare a fondo il significato dell’episodio biografico di Bergoglio: ciò che si può preliminarmente fare è di collocarlo sullo sfondo del periodo storico in cui è avvenuto. Nella seconda metà degli anni 70 era presidente dell’Argentina, Jorge Rafael Videla, a capo di una giunta militare tristemente famosa per i suoi crimini contro l’umanità.
Videla ha dichiarato nel 1978 al Times di Londra che «un terrorista» (!?) non è solo qualcuno con una pistola o una bomba, ma anche «chi diffonde idee contrarie alla civiltà cristiana occidentale». L’intransigenza ideologica che giustifica la crociate ha una lunga tradizione nella Chiesa cattolica: la complicità morale del cattolicesimo con Videla e compagni è solo uno dei tanti episodi storici di collusione con regimi totalitari; i neonati sottratti alle madri, torturate e uccise, e i desaparecidos, fra cui molti preti aderenti alla teologia della liberazione ne sono stati i terribili effetti collaterali in Argentina. Di quest’ultimi se ne è parlato in un documentatissimo libro-inchiesta di F. Tulli Figli rubati. L’Italia, la Chiesa e i desaparecidos (L’Asino d’oro ed.). Sono state individuate complicità nascoste della Chiesa con le operazioni criminali della giunta militare come quelle che ha portato alla luce Horatio Verbisky in La chiesa del silenzio a proposito di Bergoglio o come il caso di preti che parteciparono addirittura alle torture e assolsero i voli della morte.
Ci fu una responsabilità della psichiatria e della psicoanalisi parallelamente a quella della Chiesa cattolica in appoggio alla politica repressiva dello Stato? Dalla deposizione di Juan Domingo Perón (1955) al 1983 l’Argentina fu soggetta, con qualche intervallo, a una serie di regimi autoritari sempre più violenti durante i quali la psicoanalisi ebbe un eccezionale sviluppo. Si confermava una tendenza che si era manifestata durante il nazismo: Anna Freud e lo psicoanalista Ernest Jones credevano che la psicoanalisi potesse sopravvivere in un contesto totalitario…

L’articolo dello psichiatra Domenico Fargnoli prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Caporalato, la rivoluzione mancata

RIGNANO GARGANICO-FOGGIA.A Rignano Garganico, pochi chilometri da Foggia, in una una zona isolata sorge un ghetto che è diventato un villaggio, con i suoi ristoranti, i suoi bar e persino una radio autogestita che racconta la loro storia. I lavoratori stagionali, immigrati spesso senza il permesso di soggiorno, sono arruolati da caporali africani che hanno potere assoluto e che decidono chi lavora e chi no. Sono gli irregolari dell’industria del pomodoro.Baracche del ghetto di Rignano dove nel periodo dei pomodori vivono, ammassati, 1200 immigrati che vengono dal Mali, Guinea Bissau, Nigeria, Burkina Faso, Benin, Costa d'Avorio, Senegal.

Solo 2.800 aziende agricole iscritte dal 2015, su un totale di circa 1.600.000 imprese (censite dall’Istat) e almeno 100mila realtà potenzialmente interessate. Sono questi i numeri – impietosi – dell’arma che avrebbe dovuto promuovere l’agricoltura virtuosa e sconfiggere il caporalato. Si chiama “Rete del lavoro agricolo di qualità”: fortemente promossa da governo e sindacati, è nata precisamente due anni fa. Per capire di che si tratta, bisogna ripartire da lì.

La Rete che non c’è
Estate 2015. Paola Clemente, bracciante pugliese, è da poco morta di fatica ad Andria, dove raccoglieva l’uva per 12 ore al giorno, in cambio di una trentina di euro. La vicenda, definita subito come un caso di sfruttamento, turba l’opinione pubblica e fa correre il governo ai ripari. Ecco che la Rete, contenuta nel provvedimento “Campolibero” del 2014, diviene operativa. Con lo scopo dichiarato di stilare una lista di aziende “caporalato free”. Non più solo repressione, dunque, ma un intervento propositivo, per mettere al bando chi sfrutta il lavoro e rimodellare la filiera agroalimentare. Tanto che il ministro delle politiche agricole, Maurizio Martina, all’indomani degli arresti del caso Clemente a febbraio 2017, sulle colonne di Repubblica ribadiva che la Rete è uno degli strumenti principali per costruire una filiera di qualità. Peccato che «paradossalmente l’azienda della signora Paola Clemente avrebbe potuto aderire perché formalmente era in regola». La dichiarazione, del segretario nazionale Flai Cgil, Giovanni Mininni, era arrivata molto tempo prima, a pochi giorni dalla partenza della Rete, e denunciava uno dei (tanti) controsensi di questa arma, che nasce spuntata: anche chi non rispetta le regole, se ancora non è stato beccato e certifica di comportarsi bene, può avere il bollino.

Già, perché per iscriversi alla Rete è sufficiente dichiarare di non avere ricevuto multe o condanne in materia di lavoro e fiscale, di essere in regola col versamento dei contributi, e poco più. Certo, ma dopo che la domanda è stata accettata, i controlli – così come accade per qualsiasi certificazione – saranno spietati, si penserà. Tutt’altro. Una volta dentro, le aziende ricevono, per legge, meno attenzioni da ministero del Lavoro e Inps, rispetto alle già rare verifiche di un Ispettorato del lavoro nazionale che è in affanno in molte zone d’Italia, per usare un eufemismo. Il rischio, dunque, è che la Rete diventi un ombrello dietro al quale si riparano aziende sospette. Ma per chi invece non ha nulla da nascondere, quali sarebbero i benefit a cui va incontro?
Alcuni produttori iscritti, contattati da Left, non sanno nemmeno cosa sia questa Rete. Altri confermano che di benefici non vi è nemmeno l’ombra. «Siamo iscritti perché ce l’ha richiesto un nostro fornitore. Ma non abbiamo avuto nessun vantaggio economico», spiega una produttrice di agrumi di Catania. «Ce lo ha chiesto l’Esselunga, dire di no voleva dire rischiare di non lavorare più», chiosa bruscamente un agricoltore fiorentino. Perché è la Grande distribuzione organizzata, a tenere in mano le redini dell’intera filiera.

Durante la trasmissione Radio Anch’io del 22 settembre, un ascoltatore, Dimitri da Belluno, interviene nel dibattito su ghetti, caporalato e sfruttamento. Dimitri si chiede come sia possibile che una passata di pomodoro con tanto di «vaso in vetro e un tappo sopra che si apre» possa costare 15 centesimi. A rispondere in diretta è Marco Nicastro, presidente della Federazione nazionale del pomodoro da industria di Confagricoltura. Chiamando in causa la Grande distribuzione, «che offre non solamente pomodori ma anche altri tipi di prodotti a prezzi stracciati», Nicastro pone l’accento sui ricavi delle aziende per il barattolo a 15 centesimi. «Che in campagna un kg di pomodoro deve essere pagato a 2-3 centesimi per arrivare a quei costi ed essere competitivo sulla Grande distribuzione, io non ci sto».

Lo Stato? Assente ingiustificato
«La Rete del lavoro agricolo di qualità è una grande opportunità – spiega a Left Giovanni Mininni – ma non viene attuata fino in fondo». La cabina di regia si limita a «ratificare le domande di iscrizione, inserendo o depennando le aziende che inoltrano la richiesta». Ma la Rete, sulla carta, è molto di più. Almeno dal 29 ottobre 2016, quando entra in vigore la legge 199 “anticaporalato” – che ha perlomeno facilitato l’azione repressiva dei magistrati – e vengono istituite le sezioni territoriali. Composte da enti locali, centri per l’impiego e agenzie per il lavoro, sportelli unici per l’immigrazione ed enti bilaterali, le sezioni (citiamo testualmente la legge) «(…) svolgono compiti di promozione di modalità sperimentali di intermediazione fra domanda e offerta di lavoro nel settore agricolo con l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro e con la Rete nazionale dei servizi per le politiche del lavoro (…) promuovono altresì iniziative per la realizzazione di funzionali ed efficienti forme di organizzazione del trasporto dei lavoratori fino al luogo di lavoro, anche mediante la stipula di convezioni con gli enti locali». Tutto bene, tanti progetti per promuovere l’agricoltura di qualità. C’è solo un piccolo particolare: le sezioni territoriali non si sono mai riunite.

«Rispetto all’anno scorso non è cambiato nulla». Un dato reale e tangibile, che lo stesso Mininni ha toccato con mano. Con le “brigate del lavoro” il sindacato è entrato nei campi per monitorare la situazione. Dal 5 al 7 settembre, agli sgoccioli della stagione della raccolta del pomodoro, un manipolo di operatori e sindacalisti ha setacciato le campagne pugliesi per incontrare i lavoratori, informarli sull’attuale legge di contrasto del caporalato. Bottigliette d’acqua e cappellini bordati con il logo della Flai regalati nelle distese di terra e braccia. Nonostante questa mobilitazione, ammette lo stesso segretario Flai Cgil, «alle cinque e mezza del mattino, i furgoncini dei caporali raccoglievano dal ciglio della strada centinaia di lavoratori pronti per la giornata, come se nulla fosse successo».

E i centri per l’impiego? Le sperimentazioni? Le forme inedite ed innovative di collocamento, con le imprese che lamentano intoppi e rallentamenti burocratici? Il caso di Foggia è emblematico, «il centro per l’impiego è aperto dalle 9 alle 11 – dichiara sconsolato Mininni -, con la Rete del lavoro agricolo di qualità avremmo potuto avviare progetti che includessero associazioni e istituzioni locali per un collocamento diffuso, utilizzando le liste di prenotazione». Schedari e graduatorie con i nominativi dei lavoratori agricoli registrati, anche su base volontaria. «Alle nostre segnalazioni – chiarisce – poche risposte».

Insomma, siamo di fronte a una partita giocata sui gangli della Rete, sulle crepe e sulle contraddizioni del provvedimento. Nella provincia di Barletta, Andria, Trani (Bat) la Flai Cgil non ha firmato il rinnovo del contratto provinciale di lavoro degli operai agricoli. Una trattativa di 17 mesi: dalla fine del 2015, le parti sociali non riuscivano a siglare un accordo, e Confagricoltura, Coldiretti e Cia, con Fai Cisl e Uila Uil, hanno raggiunto un’intesa solo ad agosto, senza la Cgil. «Non potevamo accettare un simile contratto, penalizzante sotto il profilo salariale, contributivo e previdenziale con uno scivolamento delle figure professionalizzate al parametro più basso». Ma perché puntare ad un contratto che livelli i diritti e le tutele, comprimendo i salari? Oltre al conflitto di classe e agli interessi delle imprese, la risposta risiede nella natura della norma. «Il rispetto del contratto nazionale e provinciale degli operai agricoli è uno dei quattro requisiti introdotti dalla legge 199 per far parte della Rete – spiega il sindacalista -. Far passare un simile accordo, significa allargare le maglie del lavoro di qualità» e, in altre parole, permettere alle aziende di salire con più facilità sul carrozzone della legalità, abbassando il costo del lavoro.

Alle domande che Left ha indirizzato al ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, sul perché di questo stallo nella lotta al caporalato, non abbiamo ricevuto risposta. Ma nel frattempo, mentre si assiste al lento naufragio della Rete, regioni e prefetture guardano altrove, concentrando la loro attenzione sulle baraccopoli dove sono accampati i braccianti in numerose zone italiane.

Nei nuovi ghetti si entra col badge
Il riordino del comparto agroalimentare e la sua normativa passa anche per il “cambio d’abito” dei ghetti nel sud Italia. In Puglia, Calabria e Basilicata, dall’inizio di quest’anno, si assiste a sgomberi e all’allestimento di grandi tendopoli o campi container, che i singoli prefetti definiscono “temporanei”. Alla base di queste operazioni, sembra esserci un disegno securitario che si perpetua, e che in realtà allontana i lavoratori dalla conquista di una casa. In cambio di identificazioni e controlli, infatti, ai migranti che arrivano al sud per la raccolta di pomodori, cocomeri e agrumi, vengono offerti questi alloggi dotati di acqua potabile e assistenza sanitaria. La conditio sine qua non per potervi accedere però sono i documenti: solo con il permesso di soggiorno si ottiene il badge di ingresso.

In Puglia, a Nardò, in provincia di Lecce, teatro della rivolta dei migranti nel luglio 2011, il 23 agosto scorso, il sindaco Giuseppe Mellone ha inaugurato il “Villaggio dell’accoglienza”: 60mila euro di container con telecamere, bagni e presidio medico, finanziati dalla Regione e dal Viminale, nel piazzale antistante la Masseria Boncuri, laddove per una settimana, i braccianti scioperarono per la prima volta, chiedendo condizioni di lavoro dignitose. Le associazioni locali denunciano che il 30 settembre, il campo sarà già smontato, a danno delle decine di lavoratori che resteranno lì fino a dicembre, senza sapere dove andare. Nella zona della Capitanata, in provincia di Foggia, lo sgombero del Gran ghetto di Rignano Garganico è iniziato il primo marzo scorso, ma non ha avuto i risultati sperati. La morte dei maliani Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, nell’incendio del 3 marzo, ha accelerato il trasferimento degli ospiti dell’area, messa sotto sequestro dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari, per presunte infiltrazioni criminali.

Da allora, ad accogliere una parte degli “esodati” del Gran ghetto, sono l’azienda agricola Fortore – ribattezzata Casa Sankarà – e l’Arena, entrambe nell’Agro di San Severo, in provincia di Foggia. Qui sono 200 le persone che hanno trovato ospitalità – un numero irrisorio, a fronte delle mille circa che ospitava il ghetto – ma la lontananza dalle campagne rende difficile trovare un lavoro. È per questo che circa 500 migranti hanno scelto di restare nei pressi del Gran ghetto. «Qui c’è il grosso del lavoro ed è qui che i braccianti preferiscono vivere, anche perché c’è meno polizia», commenta Simone Cremaschi, ricercatore in Scienze sociali presso l’European university institute, che segue da mesi gli spostamenti dei lavoratori. Le operazioni di sgombero però hanno provocato la distruzione delle vecchie baracche, lasciando donne e uomini in balia di sé stessi: da giugno quindi, all’ex Ghetto, è nato il business delle roulotte, il cui prezzo adesso sfiora i 400 euro. Ma le condizioni igienico-sanitarie restano precarie, come pure il fronte delle regolarizzazioni dei lavoratori. A denunciarlo, la rete Campagne in lotta, che, dopo l’incontro del 30 giugno al Viminale, ha riportato a Left le parole del capo Dipartimento libertà civili e immigrazione, Gerarda Pantalone: «A Foggia non esistono problemi di illegalità»; e quelle del Commissario straordinario Iolanda Rolli, da poco insediata: «Non conosco ancora bene la situazione del Foggiano».

In Calabria, i riflettori sono tutti puntati sul ghetto di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, nella piana di Gioia Tauro. Anche qui, non si vede neanche l’ombra di una casa per i raccoglitori di agrumi, ma da agosto, è nata la nuova tendopoli, adiacente al vecchio ghetto sorto nel 2010, che ospitava circa 2mila persone. Nel nuovo complesso, composto da due strutture, si entra dotati di badge e solo dopo aver lasciato le impronte digitali. All’interno, la Protezione civile gestisce 464 alloggi, dotati di docce, elettricità, una cucina comune – per una spesa di 600mila euro -, ma sono ancora molti i migranti che preferiscono andare a cucinare nel vecchio ghetto, dove esistono ancora negozietti informali e non si avvertono gli occhi insistenti delle telecamere. Come racconta Michele di Sos Rosarno, l’area è attualmente presidiata da guardia di finanza, polizia e carabinieri, che inibiscono l’avvicinamento dei caporali e quindi, il lavoro dei braccianti. Michele, presente il giorno dello sgombero del vecchio ghetto, ha sottolineato che il prefetto ha indicato la nuova tendopoli come una sistemazione temporanea. «Per i mesi futuri, la prefettura sta interrogando i comuni limitrofi, per cercare di attuare forme di accoglienza diffusa». Ma c’è chi, come Campagne in lotta, non crede in questo disegno e reputa la nuova struttura «inadeguata e fortemente coercitiva».

In Basilicata, non è cambiato niente rispetto agli altri anni. Qui, gli unici ad arricchirsi continuano ad essere i caporali e chi garantisce loro l’impunità. «Solo a Palazzo San Gervasio – racconta Gervasio Ungolo, coordinatore dell’Osservatorio migranti Basilicata – la vendita del pomodoro vale 6 milioni di euro, ma per raccoglierlo, gli agricoltori devono pagare 1 milione, che va tutto ai caporali. Questo significa per i caporali 2-3mila euro al giorno di guadagno». Il ghetto di Boreano è stato sgomberato, ma i migranti vivono ancora tutti attorno a quel comprensorio rurale. Ungolo è stato raggiunto da minacce e intimidazioni e quest’anno non si è recato nei campi insieme agli altri volontari. Ci ha spiegato che, dopo la firma del Protocollo provinciale contro il caporalato, Caritas e Croce rossa italiana forniscono i principali servizi di accoglienza, in cambio di lauti finanziamenti. Ma è ancora nei ghetti che si gioca la partita più importante delle istituzioni, sempre in bilico tra il mantenimento di uno status quo malavitoso e la denuncia degli illeciti. «Ultimamente ad essere cresciuto, è il Ghetto di Strada Mulino Matinelle, un ginepraio di interessi, costruito non più con materiali di risulta, come avviene di solito, ma con travi nuove. Segno che il business dei ghetti è ancora fortissimo e destinato a perdurare».

L’inchiesta di Leonardo Filippi, Maurizio Franco e Maria Panariello è tratta da Left n.39


SOMMARIO ACQUISTA