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Maurizio Landini: «La vita reale delle persone torni al centro della politica»

Il segretario uscente della FIOM, Maurizio Landini, Roma, 14 luglio 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Maurizio Landini, una politica di sinistra sul lavoro da dove deve ripartire?
Dall’assumere il diritto al lavoro come un tema di rappresentanza generale. Si tratta quindi di ricostruire un’unità sociale del mondo del lavoro e al tempo stesso riaffermare una protezione universale del mondo del lavoro. Questo significa tante cose: combattere la precarietà, affermare un’idea di maggiore democrazia economica, ampliare gli spazi di autogoverno del lavoro e permettere la realizzazione delle persone nel lavoro. Lo dico spesso: bisogna rimettere al centro della politica il lavoro. Ovvero, si tratta di avere un’idea e un progetto di cambiamento della situazione che stiamo vivendo. Accanto ai diritti del lavoro si deve aprire una discussione più generale su cosa si fa, come lo si fa, con quale sostenibilità ambientale. Insomma, bisogna tornare, dal punto di vista politico, a occuparsi della condizione reale di vita delle persone che lavorano. Ma questo è anche un problema culturale.

In che senso è un problema culturale?
Faccio un esempio, per essere chiari. Siamo passati dal fatto che la politica – tutta, di centro, di destra, di sinistra – nel 1970 vota lo Statuto dei lavoratori. Tutto l’arco della politica allora considerava che i diritti, la dignità nel lavoro e l’applicazione della Costituzione nei luoghi di lavoro erano punti fondamentali di unità sociale. Per questo motivo i licenziamenti dovevano avere una giusta causa. Oggi invece il Jobs act è una legge in cui non si tutela più una persona da un licenziamento ingiusto, si tutela l’imprenditore che può ingiustamente licenziare. Siamo di fronte a una logica e a una cultura che tornano a rimercificare il lavoro. È una logica commerciale, in cui tutto si può comprare e vendere. Quando ti spiegano che la cosa più di sinistra che il governo ha fatto è il Jobs act, è chiaro che sei di fronte a un elemento di rottura con la storia ma anche al cambiamento del significato delle parole. Rimettere al centro il lavoro e la persona significa che è il lavoro che ti dà la dignità e anche che una persona lavorando non deve essere povera.

Tra assenza di politica industriale e cambiamenti tecnologici come si può ripensare il lavoro?
Di fronte alla produzione tecnologica in cui sta cambiando tutto, è evidente che si deve poter ragionare su quali prodotti e quali processi produttivi siano sostenibili con l’ambiente. E quindi definire quale politica pubblica, quali vincoli economici e sociali occorre mettere al mercato, perché non può accadere che questi vengano cancellati…

L’intervista di Donatella Coccoli a Maurizio Landini prosegue su Left in edicola


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Senza parole

Ho nostalgia / Una frase, una parola, un cenno / Avrei voluto come sogno di stanotte / Fossi qui con noi / Una festa, un sorriso / Rinnovare un saluto / Avrei voluto con la carezza del vento, i fiori, gli amici, una poesia / Scambiare uno sguardo / Ho nostalgia, dirò al vento stasera di dirti piano: / Che noi, nella storia, saremo custodi delle tue parole / e nel cuore del tuo calore. / Con il suono ci si può intendere. Domenica 24 settembre alla Feltrinelli di via Appia a Roma una donna ha letto queste parole in lingua persiana e poi in italiano. Ziba Mariam Moinzadeh ha raccontato di averle scritte la mattina, in persiano, la lingua della sua infanzia. Il foglio che ho potuto vedere aveva molte linee lunghe e alcune molto piccole, piccoli cerchi e ovali irregolari. Sembrano dei grandi sorrisi e piccole lacrime in bilico su una rima palpebrale. Il pensiero sensibile del risveglio dell’autrice aveva pensato bene quanto sarebbe accaduto quel pomeriggio. Una presentazione di un libro, una cosa più che normale e quotidiana in una libreria importante come Feltrinelli. Ma domenica non è stata una presentazione normale. Un’occasione per una quantità indefinita di persone di incontrarsi e stare insieme. Per ritrovare o forse meglio ricreare il calore e l’emozione dello stare insieme. Per ritrovare quel sentire particolare che accadeva con uno stare insieme che era particolare.Uno stare insieme in cui si ascoltavano le parole di altri. Occasionalmente poteva capitare di parlare.

Un’emozione unica ogni volta, l’ascoltare ed il parlare. Domenica è stata la ricreazione di qualcosa… ma in realtà non era affatto la stessa cosa. Era la presentazione di un libro, la presentazione di Conoscenza dell’istinto di morte di Massimo Fagioli. Le parole erano diverse. Erano doloranti e forti allo stesso tempo. Erano commosse e ferme. Erano parole di nostalgia e di separazione. I 4 relatori della presentazione hanno detto ognuno parole splendide. Parole emozionanti, parole intelligenti, parole che hanno detto cose nuove, parole che hanno affermato una realtà nuova. Grazie Ana, Elena, Mariam e Franco. Perché quello che accade di solito quando un grande leader muore è che quelli che gli stavano attorno e lo seguivano si disperdono, ognuno va per la sua strada. In genere rimane poco di quel che era. Ma Fagioli non era un leader. Era un grande ricercatore e scienziato e un grande medico psichiatra. Il grande gruppo di psicoterapia che teneva 4 volte alla settimana non era un gruppo definito. Non c’è mai stato un elenco delle persone che partecipavano ad esso. Era una formazione spontanea che accadeva ogni volta in modo del tutto imprevedibile. Ogni volta c’era un gruppo sconosciuto e nuovo. Non c’era programmazione, non c’era definizione, non c’era organizzazione di nulla. Alla Feltrinelli, io penso, è accaduto che un grande gruppo di persone ha creato qualcosa di nuovo grazie alle bellissime parole dei 4 relatori. Un modo nuovo e diverso di stare insieme. Senza che questo fosse programmato o organizzato, senza accordi precedenti. Un movimento spontaneo di fantasia e di vita umana.

Questo numero di Left è dedicato alle parole e alle idee per la sinistra. Abbiamo chiesto a nomi illustri di elaborare su quali possono essere le parole e le idee per costruire una nuova sinistra. Con il nostro lavoro su Left noi vogliamo affermare una speranza ma anche una certezza di possibile esistenza della sinistra. Noi pensiamo che la sinistra può essere definita prima di tutto come il pensiero umano di voler stare con gli altri e di stare bene insieme agli altri. Ma anche come il pensiero di volere il bene degli altri. Non solo il proprio. Come pensiero di amore per gli altri che significa volere che l’altro realizzi se stesso e realizzi la propria capacità di amare. L’arte medica e la ricerca scientifica di Massimo Fagioli erano fatte di parole. Il suo fare era parlare e scrivere. Le migliaia di parole della lingua italiana sono state da lui composte per raccontare l’armonia di un pensiero che ha compreso la mente umana fino nella sua origine, fino alle 21 parole del luglio 2016.

La teoria della nascita non ha lacune. La struttura della teoria dice che non c’è niente che non si possa comprendere. Esiste lo sconosciuto, ciò che ancora non si conosce. Ma non c’è l’inconoscibile. Il suo lavoro di una vita è stato ricreare negli altri la fantasia, la capacità di amare e le parole perdute per le delusioni ricevute. Il suo strumento di lavoro erano le parole. Parole comuni che diventavano speciali perché avevano la capacità di ricreare nella mente degli altri quanto pensato perduto per sempre. Parole che avevano in sé un suono invisibile perché avevano in sé la conoscenza dell’istinto di morte. Sarebbe bello che la sinistra riesca un giorno a trovare le parole giuste, quelle che abbiano quella magia che è la capacità di parlare al profondo degli esseri umani. Le parole giuste che raccontino che la verità umana è la capacità di amare.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Quelle parole essenziali per la sinistra

I dati Istat parlano di 4.742.000 poveri “assoluti” in Italia che non possono permettersi l’indispensabile per vivere e per curarsi, e di 8.465.000 poveri “relativi” «con spesa mensile pro capite più che dimezzata rispetto a quella media degli italiani». Vale a dire che nel nostro Paese più di una persona su cinque vive in povertà. Disoccupazione, precarietà, frammentazione sociale sono diventate strutturali. L’affossamento del welfare, la sanità sempre più privatizzata e gestita con criteri aziendalistici, i tagli alla ricerca e al sistema formativo hanno fatto il resto.

Il risultato è un Paese in continuo declino, non solo economico, ma anche politico e culturale. In cui spicca fortissima la crisi della rappresentanza. Di fronte a questo drammatico quadro il governo di centrosinistra cosa fa? Gioca sulla paura e sull’ignoranza, alimentando razzismo e xenofobia: con il codice Minniti, con una gestione emergenzialistica e securitaria dell’immigrazione, con la retorica cripto colonialista di slogan come «aiutiamoli a casa loro». Lo fa concretamente bloccando l’approvazione di provvedimenti come lo ius soli e il biotestamento, pur moderatissimi.

La cancellazione dell’antifascismo dallo statuto del Pd ha dato il la a una mutazione inquietante nel maggior partito di sinistra che a poco a poco si è spostato sempre più a destra, diventando indistinguibile da quelli che un tempo erano i partiti avversari. Un percorso per molti versi analogo a quello dell’Spd in Germania. La sonora sconfitta subita il 24 settembre dal Partito socialdemocratico guidato da Martin Schultz, ma anche il -9% registrato dai cristiano-democratici della (pur riconfermata) cancelliera Angela Merkel dicono chiaramente che abdicare alla propria identità democratica non paga. L’avanzata di un partito populista e di un’ultra destra come l’Afd va di pari passo con una sinistra tedesca sempre più sbiadita.

Ma i vertici del Pd non sembrano aver colto l’antifona. Così, mentre guardiamo con speranza a quella parte della sinistra che tenta di unirsi badando ai contenuti e non ai tatticismi, ci è sembrato importante tornare a riflettere su alcune parole chiave della sinistra, che oggi più che mai ci appare da ricostruire.

O forse, per dire meglio, da cominciare a costruire con un pensiero nuovo. Lottando per la soddisfazione dei bisogni ma anche – forti di una visione articolata e complessa dell’essere umano non riducibile all’Homo oeconomicus di marca neoliberista – considerando le esigenze di realizzazione di se stessi nel rapporto con gli altri a cui accenna l’articolo 3 quando afferma che compito della Repubblica è «rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana».

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Cittadinanza come legge di civiltà

A multi-ethnic group of elementary age girls are standing together in a row at the park and are smiling and looking at the camera.

Se la destra vince è perché la sinistra non è credibile quando parla di eguaglianza e di giustizia nella libertà. Non solo perde il suo tradizionale elettorato ma è abbandonata dai suoi militanti. Una cosa in questi ultimi anni la sinistra ha dimostrato di saper fare bene: alimentare l’astensione elettorale. Difficile per i cittadini che hanno idee di sinistra riconoscersi nei candidati, nei progetti e nei discorsi rappresentati dal simbolo dei partiti di sinistra. Difficile comprendere la frammentazione, anche perché basata solo sul protagonismo dei leader (generalmente maschi). La sconfitta della Spd nelle recenti consultazioni politiche tedesche fa tremare i polsi, perché sconfitta dura a vantaggio della destra neo-nazista, xenofoba e antidemocratica. Convincere a votare a sinistra per paura che vinca la destra non è una strategia vincente, perché è la destra maestra nell’uso della paura, non la sinistra. La sinistra deve saper usare al meglio le idee per le quali è credibile.

Un’idea che la sinistra non sa più coniugare è l’eguaglianza. Tutte le nostre costituzioni democratiche la contemplano, eppure la sinistra, quando ha avuto l’opportunità di governare, ha adottato politiche e fatto leggi che violano l’eguaglianza: come nel caso del lavoro, del diritto effettivo alla salute, del diritto a una scuola pubblica (e gratuita negli anni dell’obbligo), del giusto trattamento pensionistico. E hanno violato l’eguaglianza quando hanno mostrato timidezza nel disegnare una legge sulle unioni civili, nell’approntare un iter ragionevolmente breve per la legalizzazione delle droghe leggere, nella regolamentazione della naturalizzazione di chi è nato/a in Italia e frequenta scuole italiane, essendo nato/a da genitori non italiani e che però vivono regolarmente nel nostro Paese da anni. Quest’ultima proposta si è arenata al Senato per la poca convinzione della coalizione di governo; e, anche, per la propaganda controproducente che il segretario del Pd le ha fatto da fuori del Parlamento con la massima «aiutiamoli a casa loro».

Mentre in Senato si discuteva quella legge moderata sull’integrazione di chi non era a tutti gli effetti più un migrante, il capo del partito di maggioranza faceva del suo meglio perché i cittadini identificassero il tema dell’integrazione con quello dell’immigrazione. Evidentemente la sinistra…

Il brano dell’articolo  di Nadia Urbinati è tratto da Left del 29 settembre


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Chiesa e pedofilia, chi è l’ex parroco Ruggero Conti evaso da una clinica

Don Ruggero Conti in una foto d'archivio. E' stato condannato a 15 anni e 4 mesi di reclusione Don Ruggero Conti, un ex parroco di Roma accusato di aver abusato tra il 1998 e il maggio del 2008 di sette bambini. Lo ha deciso la VI sezione del Tribunale penale di Roma. ANSA +++NO SALES - EDITORIAL USE ONLY+++

Don Ruggero Conti, condannato in via definitiva nel 2015 a una pena di 14 anni e due mesi, è evaso da una clinica di Genzano alle porte di Roma, dove si trovava ai domiciliari. L’ex parroco di Selva Candida si trovava nella struttura per ragioni di salute. Era stato arrestato nel giugno del 2008 poco prima di imbarcarsi con alcuni piccoli parrocchiani su un volo per l’Australia dove si celebravano le Giornate della gioventù.

Ecco una sintesi della vicenda che è conclusa con la condanna per pedofilia più pesante mai inflitta a un sacerdote della Chiesa cattolica in Italia.

Con l’accusa di aver abusato di sette bambini di 10-12 anni che gli erano stati dati in custodia, don Ruggero Conti, allora potentissimo parroco della chiesa romana “Natività di Maria santissima” a Selva Candida, viene fermato il 30 giugno 2008 dai carabinieri mentre con i ragazzi della parrocchia era in procinto di partire per Sidney, dove avrebbe partecipato alla Giornata mondiale della gioventù in programma dal 12 al 21 luglio. I grandi scandali europei del 2009-2010 dovevano ancora scoppiare pertanto, di norma, per non far innervosire la Conferenza episcopale di Ruini e Bagnasco i media italiani non davano mai grande risalto alle storie di pedofilia clericale. Ma – forse per la prima volta – il caso Conti non rimase a lungo relegato nelle pagine di cronaca locale. Sin da subito lo abbiamo seguito su Left ma come raramente accade in questi casi, ha trovato spazio anche su altri media nazionali. Risultò difatti impossibile ignorare che a fronteggiarsi in sede civile si sarebbero trovati a un certo punto niente meno che il Comune di Roma e lo Stato di Città del Vaticano. Loro malgrado, come vedremo.

Ma andiamo per ordine e cominciamo col dire che l’eccezionalità del processo Conti verteva su diversi punti. Non solo perché don Ruggero fino a poche settimane prima dell’arresto – e dunque nel periodo che comprendeva gli stupri a lui imputati – era stato il garante della famiglia del candidato sindaco di Roma (poi vincitore) Gianni Alemanno. Oltre a questo, per la prima volta un tribunale riconobbe l’interesse specifico di una amministrazione comunale a costituirsi parte civile nei processi per violenza “sessuale” commessa su minori. Dando così più respiro alla giurisprudenza che lo ammetteva solo in caso di violenza nei confronti delle donne. Infine, terzo punto e nodo del caso politico, la costituzione in parte civile non fu operata dal Comune di Roma, quindi dal sindaco Alemanno, ma da un cittadino, il futuro segretario dei Radicali Mario Staderini. Il quale, assistito dall’avvocato Elisabetta Valeri, esercitò “l’azione popolare”, una norma che permette a qualsiasi cittadino elettore di intraprendere le azioni legali che il Comune potrebbe svolgere e che invece non fa. E questo fu il caso del Campidoglio che espresse la volontà di non entrare nel processo, sulla base di motivazioni contraddittorie contenute in una determinazione del 27 maggio a firma di una dirigente, la dottoressa Cavilli, rimossa da Alemanno dopo che il Tribunale di Roma nell’udienza del 16 giugno ammise la costituzione di parte civile di Staderini a nome del Comune.

In realtà, agli atti del processo risulta un documento datato 4 giugno e con firma autentica di Alemanno, in cui il sindaco dichiarava «di non costituire l’amministrazione comunale nel processo» e di «non aderire» all’iniziativa di Staderini. La qual cosa mal si combinava con «l’indagine interna» annunciata dal sindaco per far luce sulla vicenda e con la rimozione del dirigente comunale. Il resto è cronaca nera.

Nel febbraio del 2011 Ruggero Conti viene condannato a quindici anni e quattro mesi per prostituzione minorile e per aver abusato di sette bambini tra il 1998 e il 2008 in oratorio e nei campi estivi. Secondo il Pm Francesco Scavo, il sacerdote aveva indotto due dei ragazzini «a compiere e/o subire atti sessuali in cambio di denaro o altra utilità (in genere capi di abbigliamento)». Abusi che il Pm a definì «di inaudita gravità», perché «prolungati negli anni» e perché avrebbe approfittato di situazioni «di debolezza o di difficoltà familiare in cui si trovavano i piccoli». In un caso, un bambino era stato affidato al prete dalla madre indigente perché lo aiutasse a superare i problemi dovuti alla perdita del padre; ma il sacerdote ne avrebbe approfittato per violentarlo circa quaranta volte in cambio di abiti o denaro (dai dieci ai trenta euro). Come è potuto accadere? Gli stessi accusatori del sacerdote definirono don Ruggero come una «persona sensibile, un tipo molto carismatico». Insomma, uno di cui fidarsi che «si ricordava subito i nomi di tutti quanti, che ti metteva subito a tuo agio, come se fosse una persona che conoscevi da tanto tempo».

Torniamo alle grane processuali dell’ex parroco. Il 31 maggio 2013 l’uomo di cui si era fidato anche Alemanno è stato condannato in Appello a quattordici anni e due mesi di reclusione per violenza sessuale continuata e aggravata. La pena inflitta al prelato in primo grado venne ridotta in secondo grado (e poi confermata in via definitiva nel 2015) perché nel frattempo tre degli episodi contestati sono risultati prescritti. Per quanto riguarda la curia guidata dal vescovo Gino Reali, dopo l’arresto non prese alcun provvedimento. Tanto meno si mosse il Vaticano. E così è stato per tutta la durata del processo di primo grado. Solo dopo la prima condanna a quindici anni e quattro mesi don Ruggero è stato sospeso a divinis.

Vale la pena soffermarsi su mons. Reali perché in qualche modo avrebbe potuto mettere il sindaco di Roma sul chi vive. Nel corso del dibattimento il ‘superiore’ di don Conti è stato infatti accusato di non aver dato importanza alla lettera di denuncia che era stata presentata alla diocesi dai genitori di alcuni bambini. Lui si è difeso facendo presente di aver inviato a don Conti una nota di ‘scorrettezza’ nella quale lo invitava a «un corso di esercizi spirituali e a una costante frequenza al sacramento della Penitenza». Quindi sapeva. E in seguito è stato accertato che l’ex parroco continuò ad abusare dei bambini fino a tre mesi prima di essere arrestato. Proprio mentre collaborava con Alemanno, contribuendo, grazie al potere di cui godeva nel quadrante nord-ovest della Capitale, a farlo diventare il sindaco del “decoro” e “antidegrado”.

Aggiornato 29 settembre ore 21: durante la serata di venerdì Ruggero Conti è stato rintracciato e arrestato a Milano.

Gli stranieri e i reati, i numeri del Sole 24 ore

Un fermo immagine di un video della Polizia di Stato di una delle 69 rapine commesse ai danni di supermercati, farmacie, tabaccherie, distributori di carburante e altre attività commerciali tra ottobre 2015 e novembre 2016 da presunti componenti di un'associazione per delinquere finalizzata alla realizzazione di numerosissime rapine. Questa mattina sono stati eseguiti alcuni arresti a Bari e provincia, Trani e Castel Volturno, Bari, 11 agosto 2017. ANSA/ FRAME VIDEO POLIZIA DI STATO +++EDITORIAL USE ONLY - NO SALES+++ di un'frame Video de La Polizia di Stato di Bari arresta 9 persone per associzione per delinquere finalizzata alla realizzazione di rapine LA POLIZIA DI STATO DI BARI ARRESTA 9 PERSONE PER ASSOCIAZIONE A DELINQUERE FINALIZZATA ALLA REALIZZAZIONE DI UNA SERIE DI RAPINE La Polizia di Stato, nelle prime ore di questa mattina, a Bari ed in altre località della provincia, a Trani ed a Castel Volturno, ha eseguito un´ordinanza di custodia cautelare, in carcere e ai domiciliari, emessa dal GIP del Tribunale di Bari su richiesta della locale Procura della Repubblica, nei confronti di 9 persone, tutte con precedenti di polizia, ritenute responsabili a vario titolo dei reati di associazione per delinquere, finalizzata alla realizzazione di una serie indeterminata di rapine, rapina aggravata e ricettazione. A carico dei predetti, a seguito di mirata attività investigativa condotta dalla Sezione Contrasto al Crimine Diffuso della Squadra Mobile della Questura di Bari, sono stati raccolti concreti elementi di responsabilità in ordine alla consumazione di 69 rapine commesse nell´arco temporale tra ottobre 2015 e novembre 2016.

In un articolo dal titolo “Reati di stranieri, l’allerta del Viminale” che volendo potete trovare sul sito del Sole24ore, il quotidiano di Confindustria nel riportare i dati relativi ai reati imputati a stranieri residenti in Italia si è dimenticato di suddividere per nazionalità le percentuali riportate nel documento del ministero dell’Interno.

«I numeri sui reati parlano da soli» sostiene l’autore dell’articolo per dare forza al suo ragionamento (e alle percentuali). «Sul totale delle “segnalazioni riferite a persone denunciate/arrestate” nel periodo 1° agosto 2016-31 luglio 2017 (dati del Viminale “non consolidati”), pari a 839.496, quelle che riguardano stranieri sono 241.723. La percentuale è del 28,8%. Poco differente dal 30% dei dodici mesi precedenti. Il punto decisivo non è tanto la comparazione nel tempo: c’è un calo generale dei reati e gli stranieri non fanno differenza. Sgombrata ogni tentazione politica strumentale, resta il peso specifico della criminalità straniera. Rapportato il numero di denunce/arresti alla popolazione residente, nel caso degli stranieri siamo al 4,78% contro l’1,07% degli italiani. Se consideriamo anche gli extracomunitari non residenti la percentuale si può abbassare. Ma non di molto. Resta il fatto, per citare i numeri più alti, che il 55% dei furti con destrezza è di origine di soggetti stranieri. Così come il 51,7% dello sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorile. Il 45,7% delle estorsioni, il 45% dei furti in abitazione e il 41,3% di ricettazioni».

Mettere tutta la popolazione straniera nello stesso calderone in contrapposizione a quella italiana,  come fa il Sole24ore, assomiglia molto alla logica xenofoba del “noi e loro”. Una logica binaria tesa ad alzare muri (e chiudere porti) tra l’Italia e il resto del mondo in nome di una inesistente superiorità culturale oltre che purezza della razza di mussoliniana memoria.

Non sappiamo se il Sole24ore abbia fatto confusione di proposito, anzi sicuramente no. Di certo questa cosa di dividere per due – italiani da una parte, stranieri dall’altra – è un “giochino” che ha già funzionato nel caso degli stupri. Ricordate i titoli dei soliti media, nei giorni seguenti allo stupro di Rimini? “Il 40% delle violenze sulle donne in Italia sono compiute da stranieri”, più o meno tutti citavano così (con Repubblica in testa, del resto il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari è recidivo). Acchiappando click e guadagnandosi la ola del ventre molle del Paese.

Considerando che la nostra popolazione è composta solo per l’8% da immigrati, la percentuale messa in evidenza tentava di confermare la validità dell’idea di chi sostiene che la (presunta) invasione di extracomunitari vada fermata a tutti i costi perché gli stranieri sono tutti delinquenti.

I sostenitori di quella ignobile propaganda dal canto loro si sono guardati dal suddividere le statistiche per nazionalità di appartenenza e riportare tutto nei binari della realtà. Sarebbe emerso che, sempre riguardo gli stupri denunciati, il 61 % viene compiuto da italiani, a seguire, l’8.6% da cittadini romeni (che sono comunitari), il 6% da marocchini, l’1,6 % da tunisini e poi via via percentuali da prefisso telefonico. Il che restituisce un’istantanea del fenomeno criminale un pochino diversa da quella che raccontano i fan del “60-40”, non trovate?

I responsabili di questa ignobile campagna mediatica e politica si sono guardati bene, altresì, di ricordare al lettore poco attento che la responsabilità penale è personale. Perché questa omissione? Di fronte a questa misera gara a chi la spara più grossa, giocata sulla pelle dei migranti e delle donne (in estrema sintesi, più dell’incolumità e delle conseguenze per la donna nel dibattito pubblico diventa importante la nazionalità e il colore della pelle dello stupratore), è lecito ipotizzare che l’alterazione della verità sia considerata da costoro necessaria per prendere voti e visibilità. Ed eccoli senza alcun pudore allisciare il pelo ai fautori della in-cultura razzista che si esplica nell’attribuire a un’intera etnia la responsabilità e/o la propensione a delinquere del singolo appartenente a quella etnia. Salvo poi evitare accuratamente di fare questi stessi “nessi logici” se l’autore del reato è un cittadino italiano o… un carabiniere.

L’Italia alla prova dell’editing del genoma umano e vegetale

Un momento della conferenza stampa sulla fecondazione eterologa tenutasi oggi nella sala stampa della Camera dei Deputati dall'Associazione per la Libertà di ricerca scientifica Luca Coscioni. Roma, 21 aprile 2016. Roma, 21 aprile 2016. ANSA/ FABIO CAMPANA 

La tecnica di editing dei geni, nota anche come Crispr Cas9, s’è rapidamente guadagnata una reputazione rivoluzionaria. I primi esperimenti risalgono a trenta anni fa, ma è dal 2012 che la tecnologia ha concorso ad avanzamenti straordinari del progresso scientifico. Eccone dieci, tra quelli scoperti nel 2017:

1. La possibilità di modificare embrioni umani per curare una patologia cardiaca;

2. L’estrazione totale dell’Hiv da un organismo vivente. Oltre alla completa rimozione del Dna del virus, si è riusciti ad impedire il progresso dell’infezione latente acuta;

3. Lo sviluppo di organismi semi-sintetici, ottenuto coltivando batteri di Escherichia coli con un codice genetico a sei lettere, anziché con la normale sequenza a quattro, per assicurare che le nuove molecole del Dna non vengano identificate come una presenza invasiva;

4. La creazione di un gene in grado di eliminare i tumori nei topi che trasportano cellule tumorali della prostata e del fegato umano, arrivando a colpire con successo il “centro di comando” del cancro;

5. Il rallentamento della crescita delle cellule cancerose puntando su Tudor-Sn, una proteina chiave nella divisione cellulare. Questa tecnica potrebbe anche rallentare lo sviluppo delle cellule in rapida crescita;

6. L’innesco di meccanismi auto-distruttivi che proteggono i batteri, aggiungendo sequenze di geni resistenti agli antibiotici nei virus batteriofagi

7. L’estinzione delle malattie della zanzara, mediante alcuni interventi che colpiscono i geni della fertilità. Gli scienziati hanno acquisito la capacità di limitare la diffusione degli insetti grazie alla capacità di Crispr di fare più modifiche genetiche simultaneamente;

8. La modifica della malattia di Huntington nei topi, spingendo in avanti la progressione sintomatica della condizione. Questa tecnica promettente potrebbe esser applicata agli esseri umani nel prossimo futuro;

9. Lo sviluppo del primo “registratore molecolare” attraverso un processo di editing che ha codificato direttamente un’immagine Gif nel codice del Dna incorporando le informazioni in un genoma di EscherichiaColi;

10. L’ottenimento di biocombustibile sostenibile derivato da alghe progettate per produrre fin a due volte il materiale biocarburante ad oggi disponibile.

Per affrontare queste nuove “sfide”, il 28 settembre a Bruxelles la Commissione europea ha convocato la conferenza Modern Biotechnologies in Agriculture – Paving the way for responsible innovation per capire come l’Ue possa trarre vantaggio dalle moderne biotecnologie e dall’innovazione nel settore alimentare e agricolo bilanciando il principio di precauzione con quello d’innovazione. In Italia le ricerche con Crispr sono possibili e finanziate (pochissimo) dal governo. Quel che però non è ancora stato consentito è la sperimentazione in campo aperto del frutto della ricerca.

Dall’inizio dell’anno l’associazione Luca Coscioni si è appellata e ha più volte sollecitato i ministri Fedeli, Martina e Galletti affinché sbloccassero i primi esperimenti di Crispr vegetale in campo aperto. L’editing del genoma umano e di quello vegetale pongono dubbi etici, ma solo un dibattito aperto, trasparente e inclusivo, potrà consentire una regolamentazione della tecnologia che sia rispettosa dei diritti umani contro divieti e proibizioni ideologiche.

In occasione del XIV Congresso dell’associazione Coscioni, il 30 settembre si terrà una commissione interamente dedicata alle biotecnologie. Un contributo tecnico e politico dedicato a chi deve prendere delle decisioni per il futuro.

Sudafrica, la protesta “rossa” contro la corruzione del governo Zuma

epa06230085 Members of COSATU (Congress of SA Trade Unions) and other affiliated unions take part in a day of mass protests on the streets of downtown Johannesburg, South Africa, 27 September 2017. The powerful union took to the streets to protest against the widespread problems of corporate capture and corruption that involve the ruling ANC and President Jacob Zuma and that have been exposed in recent months. COSATU is one of the ANCâs (African National Congress) most important partners and is the biggest trade union in the country. EPA/Cornell Tukiri

Sono decine di migliaia, sono neri e sono vestiti di rosso. Sono lavoratori del più grande sindacato sudafricano, il Cosatu, e molti fanno parte del Sacp, Partito comunista del Sud Africa. Perché “il socialismo è il futuro. Costruiscilo adesso”.  La corruzione è “uno scandalo, una piaga” e “la disoccupazione è una violazione dei diritti umani”.

Il dolore nero è un privilegio bianco, c’era scritto sui cartelli della protesta degli studenti nel 2016, quando il campus dell’università di Johannesburg finì in fiamme perché i giovani chiedevano educazione gratuita e furono attaccati dalla polizia. “La corruzione è un crimine contro l’umanità”. Zuma must go. “Zuma deve andare via”. Zuma must fall. “Jacob Zuma deve rassegnare le dimissioni“.

Sono migliaia le persone che hanno marciato mercoledì contro la corruzione del presidente e queste erano le frasi più ricorrenti scritte sui cartelli che agitavano in aria. Il paese non aspetterà le prossime elezioni nel 2019 e vuole che una commissione giudiziaria investighi sul sistema corruttivo endemico del governo. Gli scioperi sono in corso da mesi in un paese diviso da sempre per etnie, ma soprattutto per classe sociale, e sono un chiaro messaggio ai membri della cleptocrazia sudafricana e al settore privato, che fiorisce a scapito dei più poveri e dei più deboli nel paese.

Zuma adesso ha favorito i Gupta, una famiglia di imprenditori in arrivo dall’India, per fare affari milionari, i loro appalti ammontano a centinaia di milioni di dollari. Non è la prima volta che il presidente finisce sulle labbra degli arrabbiati per le strade da quando è salito al potere nel 2009. Per Bheki Ntshalintshali, il segretario generale del Cosatu, Congresso dell’Unione dei sindacati sudafricani, arriverà la “madre di tutte le marce”. È stato proprio il Cosatu a sostenere Zuma agli albori, ma ora caldeggia la presidenza di Cyril Ramaphosa, il vice presidente, contro Nkosazana Diamini Zuma, l’ex moglie del presidente.

Solo un mese fa, ad agosto, il presidente era riuscito a rimanere saldo sulla sua poltrona a 76 anni, nonostante la mozione di sfiducia al Parlamento, dove, con voto segreto, gli è stata riconfermata la fiducia con 198 voti contro 177. Ora che le strade sono di nuovo piene di lavoratori in rosso a Johannesburg, a Cape Town, Durban e altre dieci città sudafricane, tutti, dentro e fuori al palazzo del potere, vogliono che Zuma si dimetta, compresi i membri dell’Anc, Congresso Nazionale Africano, il partito di cui Zuma è leader e che una volta era di Nelson Mandela.

 

 

Un battitore libero si aggira per l’Europa

Greek Finance Minister Yanis Varoufakis (L) speaks with International Monetary Fund (IMF) Managing Director Christine Lagarde prior to a eurozone finance ministers meeting at the European Union Council headquarters in Luxembourg on June 18, 2015. Greece must make the next move towards reaching a debt deal with its EU-IMF creditors but there is little chance of an agreement at a meeting of eurozone finance ministers on June 18, Eurogroup chief Jeroen Dijsselbloem. AFP PHOTO / THIERRY MONASSE (Photo credit should read THIERRY MONASSE/AFP/Getty Images)

La sera del 15 aprile 2015 il ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis ha un incontro riservato con Lawrence Summers. Nella penombra del bar di un albergo di Washington, davanti a un bicchiere di whisky, l’ex consigliere economico di Obama pone a Varoufakis la seguente alternativa: deve decidere se essere un insider, oppure un outsider. Se sceglie la prima strada, oltre all’accesso alle informazioni rilevanti ha la possibilità di partecipare a importanti decisioni sulle sorti dei popoli. Deve però rispettare una regola fondamentale: non ribellarsi agli altri insider, né denunciare agli outsider quello che gli insider dicono e fanno. Se invece sceglie di essere un outsider, mantiene la libertà di esprimere le proprie opinioni, ma paga questa libertà con l’essere ignorato dagli insider, dunque con l’irrilevanza delle sue posizioni. L’apertura del libro di Varoufakis Adults in the Room, è illuminante. Quello che molti intuiscono, fin dalle prime pagine del volume è raccontato con precisione: il meccanismo di costruzione del potere è costituito da reti e canali d’informazione all’interno dei quali politici ed economisti, ma anche opinionisti e mezzi di comunicazione, sono costretti a coprire la verità, oppure, se scelgono di dirla, pagano questa scelta con l’esclusione dai circuiti informativi e dal potere. L’opacità e la copertura delle informazioni rilevanti, o più semplicemente l’attitudine alla menzogna, sono in sostanza la naturale condizione di ogni insider. Illuminante è però tutto il libro di Varoufakis, il quale nell’occasione risponde a Summers di essere per carattere un outsider, ma che è disposto a comportarsi come un insider se questo può servire ad aiutare il proprio Paese; poi Varoufakis, nell’impossibilità di cambiare il corso degli eventi, racconta nel dettaglio, da outsider, tutto quello che ha visto e sentito nei mesi in cui ha avuto la possibilità di vivere tra gli insider. Unico nel suo genere, il volume ci consente pertanto di comprendere i meccanismi del potere nell’Europa di oggi e il ruolo dei vincoli monetari nel condizionare la sovranità dei Paesi. La lettura del volume è imprescindibile per chiunque voglia seriamente affrontare il tema della democrazia nell’ambito dell’attuale costituzione europea. La prima menzogna che gli insider sono costretti a raccontare, e i media acriticamente a riprendere, riguarda la questione del debito della Grecia e la necessità delle politiche di austerità per ripagarlo.

Nel suo primo incontro con Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario internazionale, Varoufakis spiega che, se è vero che una famiglia indebitata, per restituire un debito, deve ridurre i consumi, la stessa logica non si applica ai governi; la spesa statale, infatti, sostiene l’economia ed è fonte di reddito per i cittadini, perciò le politiche di austerità, indebolendo il sistema economico, riducono le entrate dello Stato e rendono più difficile al governo onorare i propri debiti. La risposta della Lagarde è sconcertante: «Hai ovviamente ragione, Yanis, gli obiettivi su cui i creditori insistono non possono essere raggiunti. Ma devi capire che abbiamo investito troppo in questo programma (di austerità), e dunque non possiamo tornare indietro. La tua credibilità dipende dall’accettare di lavorare all’interno del programma». Il capo del Fondo monetario internazionale dice dunque al ministro delle finanze che le politiche imposte al suo Paese non possono funzionare, ma che non c’è modo di fare altrimenti: la sua “credibilità” – come insider appunto – consiste nel continuare a imporre inutili sofferenze alla popolazione. La ragione è presto detta. Abbiamo a suo tempo ricostruito anche noi su Left il meccanismo del cosiddetto salvataggio della Grecia (“Controstoria delle crisi greca”, Left n.10, 21 marzo 2015), salvataggio che in realtà, lungi dall’aver aiutato il popolo greco, si è risolto in una colossale truffa ai danni di tutti gli europei. Il debito greco nei confronti delle banche (principalmente francesi e tedesche), infatti, è stato trasferito agli Stati, anche a quelli più poveri della stessa Grecia, cosicché un default della Grecia, oggi, rischia di essere destabilizzante per l’intero continente. Scorre dunque nelle pagine del volume il film di una classe dirigente europea intrappolata nelle proprie menzogne e nei doppi giochi: da una parte la realtà di un Paese, la Grecia, che non può uscire dalla sua crisi senza l’abbandono delle politiche seguite finora, dall’altra un messaggio ripetuto all’infinito per il quale, per la Grecia come per gli altri Paesi indebitati, l’austerità e l’adesione ai dogmi del neoliberismo sarebbero l’unica soluzione. Scorrono anche le miserie umane e le doppiezze, in ossequio appunto alla loro posizione di insider, dei vari leader della sinistra socialista e socialdemocratica.

Varoufakis racconta del suo incontro con Michel Sapin, ministro delle finanze del governo Hollande, che in una conversazione privata esprime pieno sostegno alle sue richieste – ristrutturazione del debito, politiche fiscali compatibili con le condizioni del Paese, riforme che colpiscano gli oligarchi, rispetto della sovranità del Paese e dell’esito elettorale – e pochi minuti dopo, in una conferenza stampa pubblica, con durezza richiama il ministro greco al rispetto delle politiche di austerità. «Devi capirlo Yanis, la Francia non è più quella di una volta» gli ricorda Sapin al termine della conferenza stampa: non è più quella di una volta da quando Hollande, eletto nel 2012 con un programma contrario all’austerità, fu informato dal governatore della propria Banca centrale che era impensabile contrastare Berlino perché senza il sostegno della Banca centrale europea, dunque della Germania, il sistema bancario francese sarebbe andato in frantumi. Pertanto, se anche la Francia fu costretta a cedere, cosa potrebbe fare la piccola Grecia? Un’analoga doppiezza Varoufakis la sperimenta tra i tanti con Sigmar Gabriel, Ministro dell’economia tedesco della Spd, e con Pierre Moscovici, presidente della Commissione Europea, umiliato dall’arroganza di Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, vero luogo dove si prendono le principali decisioni sulle sorti dei popoli europei ma che, come si scopre nel volume, è privo di qualsiasi statuto legale. L’asse tra l’olandese Dijsselbloem, il potente ministro delle finanze tedesco Shäuble, e la Merkel, è troppo saldo perché Varoufakis e il governo greco possano aver successo nell’opporsi alla devastazione del Paese.

Il volume di memorie di Varoufakis ci consente anche di seguire tutte le fasi di quella vera e propria guerra mediatica ed economica attivata per piegare il governo greco alle politiche di austerità. In conformità al mandato ricevuto dagli elettori il 25 gennaio 2015, il governo greco cerca di uscire dalla logica dei cosiddetti “salvataggi”: chiede pertanto una ristrutturazione del proprio debito, l’abbandono delle politiche di austerità, il recupero della sovranità fiscale per colpire gli oligarchi e l’evasione (il ministro delle finanze è privo di controllo sui suoi uffici fiscali, affidati invece ai creditori), il varo d’iniziative per far fronte all’emergenza umanitaria del paese. All’interno del governo, Varoufakis sostiene fermamente che la Grecia non debba abbandonare la moneta unica, ma ritiene anche che sarebbe inutile entrare in una trattativa con le più potenti istituzioni del mondo senza un piano da attivare nell’eventualità che non si giunga ad un compromesso onorevole. Egli pensa quindi che il governo debba dotarsi di alcuni deterrenti da far valere nella trattativa: la minaccia di default sui titoli di stato detenuti dalla BCE, la predisposizione di una moneta fiscale, una proposta di legge che riporti la Banca centrale sotto il controllo del governo. Questi deterrenti, se usati con accortezza, a suo avviso possono servire per indicare che il governo greco, pur non volendolo, piuttosto che abdicare alla propria sovranità è disposto a uscire dalla moneta unica, innescando una crisi di enormi proporzioni negli assetti dell’Europa.

Sul piano economico i margini per un accordo erano ampi. Vi è sempre, infatti, un interesse comune tra i creditori e i debitori affinché i debiti impossibili da esigere siano cancellati (o formulati diversamente), lasciando quelli che il debitore può realisticamente onorare riprendendo a produrre. Le proposte tecniche di Varoufakis trovavano pertanto apprezzamento in una parte del mondo finanziario e dell’Amministrazione americana, come anche in think-tank liberisti quali l’Adam Smith Institute che, ricorda con ironia l’autore del volume, rappresentava tutto quello che egli aveva combattuto nella sua vita accademica. Sul piano politico, invece, un successo del nuovo governo greco costituiva un incubo per le istituzioni europee: altri popoli e altri governi sarebbero stati indotti a perseguire quella stessa strada, rendendo non più praticabili in Europa le politiche di austerità. Nell’opinione del potente ministro tedesco Shauble, inoltre, se ciascuno dei diciannove paesi della moneta unica avesse il diritto di rivedere gli accordi ogni volta che elegge un nuovo governo, l’Europa diventerebbe ingovernabile. Dunque o austerità o democrazia, dunque ogni arma fu impiegata per piegare il paese.

L’arma principale fu la vera e propria azione eversiva esercitata dalla Banca Centrale Europea di Mario Draghi, che, riducendo la liquidità alle banche greche, le costrinse alla chiusura. I dettagli e i tempi della manovra sono illustrati nel volume. Non solo, ma Draghi si rifiuta anche di versare al governo greco 1,9 miliardi di profitti ottenuti su operazioni di compravendita compiute dalla BCE. Le ripetute richieste di Varoufakis che la BCE rispetti i suoi obblighi, consentendo alla Grecia di saldare a sua volta una rata del proprio debito verso il FMI per un importo analogo, cadono regolarmente nel vuoto.

Accanto al ricatto economico e al blocco delle trattative, Varoufakis subisce anche un pesante linciaggio mediatico: inconcludente, dilettante, narcisista, privo d’idee e di proposte concrete, i mezzi di comunicazione travisano e alterano i fatti, rendendo invece acritici omaggi alla concretezza, al realismo e alla buona volontà dei negoziatori europei. Nel volume troviamo invece un resoconto completo degli scontri e i colloqui intercorsi, finora privi di smentita, che ci mostrano piuttosto come tutte le sue proposte, anche le più moderate, cadessero nel vuoto.

Nel corso dei mesi le divergenze tra lui e i membri del partito aumentano, cosicché la sua posizione si indebolisce. Il capo del governo e segretario del partito Alexis Tsipras, con cui egli aveva concordato la linea da seguire prima di accettare l’incarico ministeriale, confidava nell’appoggio della sinistra europea, degli Stati Uniti, della Cina e della Russia. Presto realizza invece di essere completamente isolato. Lentamente, secondo quanto ricostriusce Varoufakis, Tsipras finisce per confidare nelle promesse della Merkel, che appare in effetti come l’unica persona che avrebbe potuto favorire un esito positivo delle trattative. Varoufakis confida anch’egli nella Merkel, ma ritiene che solo se il governo greco si mostra unito e determinato nell’attivare i suoi deterrenti, essa interverrà per favorire un accordo. Mentre proseguono lo stallo e il logoramento del paese, Varoufakis comincia invece a essere anche visto, anche all’interno del governo, come un ostacolo per un esito positivo delle trattative. Così, infine, per sbloccare una situazione sempre più insostenibile, Tsipras decide per la convocazione del referendum del 5 luglio: il popolo greco è chiamato a esprimersi con un Sì o con un No all’accordo nei termini posti dai creditori. Tutte le previsioni sono che il paese, stremato dalla crisi, si pronunci per il Sì, ma il No vince con un largo 61,3%. Varoufakis però è l’unico a festeggiare: gli altri membri del governo invece, nonostante fossero ufficialmente schierati per il No, si attendevano un Sì che potesse legittimare la loro capitolazione.

Gli ultimi colloqui tra Tsipras e Varoufakis, riportati ampiamente nel volume, illustrano bene il dramma della democrazia greca (ed europea). Tsipras, con le banche chiuse e la campagna referendaria in corso, chiede al suo ministro quali possibilità ha il governo di raggiungere un accordo con i creditori perseguendo nella linea del rifiuto dell’austerità. Sebbene Varoufakis nel testo esprima spesso la convinzione che, ove il governo fosse rimasto compatto e abbia predisposto i suoi deterrenti, un accordo sarebbe stato raggiunto, ci racconta che in quell’occasione fornisce una risposta diversa: se avessimo di fronte dei creditori che pensano ai propri interessi, un accordo sarebbe certo; ma siccome le classi dirigenti agiscono spesso in modo autodistruttivo, la probabilità che si giunga a un esito disastroso per tutti è del cinquanta per cento.

Tsipras, logorato da mesi di pressioni umanamente insostenibili, sfiduciato e isolato in campo internazionale, con una compagine governativa debole e incerta, si trova di fronte a una scelta drammatica: proseguire nella linea del rifiuto rischiando di condurre il paese fuori dalla moneta unica, oppure capitolare alle richieste delle cosiddette istituzioni. Messo anche in allarme sui presunti preparativi di un colpo di stato dal Presidente della Repubblica, dal governatore della Banca centrale, dai servizi segreti e da membri del governo, nonostante l’esito del referendum decide per la capitolazione. Varoufakis, in disaccordo, si dimette. Nelle settimane successive la Grecia firma tutte le condizioni imposte dai creditori, senza ottenere nulla in cambio.

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L’economista greco Yanis Varoufakis sarà intervistato oggi insieme a Lorenzo Marsili (European alternatives) al Festival di Internazionale a Ferrara (Teatro Comunale, ore 14.30), nell’incontro dal titolo

Il tempo dell’impegno

Per creare uno spazio nuovo tra classi politiche screditate e nazionalismi xenofobi

Con Michael Braun (Die Tageszeitung), Eric Jozsef (Libération) e Stephanie Kirchgaessner (The Guardian)

 Al festival del settimanale Internazionale a Ferrara

L’economista ed ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis e Lorenzo Marsili saranno intervistati sul futuro dell’Europa, stretta tra il fallimento delle classi politiche tradizionali e l’affermarsi dei nazionalismi xenofobi. Grazie alla collaborazione con il Global progressive Forum ci sarà anche il socialista belga Paul Magnette, ministro-presidente della Vallonia che a ottobre 2016 si oppose alla firma del Ceta (Accordo economico e commerciale globale) sul libero scambio tra Canada e Unione europea. Di come la grande finanza minaccia i diritti umani discuteranno, nell’evento realizzato Andrea Baranes e Barbara Happe insieme a Jesse Eisinger di ProPublica. Mentre, in collaborazione con Bonifiche Ferraresi  un incontro sulle startup innovative per l’agricoltura sostenibile. Qui il programma completo: www.internazionale.it/festival

 

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Il libro inedito in Italia

Adults in the Room. My Battle With Europe’s Deep Establishment (The Bodley Head, 2017), firmato dall’ex ministro greco delle finanze, Varoufakis è una denuncia della capitolazione della sinistra e dell’essenza di democrazia nell’Europa di oggi. Colloqui e riunioni, ufficiali e informali, sono riportati nel dettaglio. Varoufakis lo ha dedicato «a coloro che cercano un compromesso, ma preferirebbero essere schiacciati che finire compromessi», mostrando l’impossibilità, in assenza di una ricostruzione della sinistra, di un’economia basata sulla solidarietà tra i popoli.

Versione integrale dell’articolo di Andrea Ventura pubblicato su Left del 16 settembre 2017


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Crimini di guerra sauditi con armi made in Italy, la denuncia delle ong yemenite

Sanaa

Venti settembre 2017. Una data da cerchiare in rosso. Rosso-vergogna. La Camera dei Deputati  respinge l’ipotesi di embargo relativo alla fornitura di bombe italiane verso l’Arabia Saudita e la conseguente partecipazione, seppur indiretta, dell’Italia a una guerra senza autorizzazione né mandato internazionale come quella in atto nello Yemen. L’Italia invia da Cagliari armi fabbricate negli stabilimenti sardi della RWM Spa, di proprietà della tedesca Rheinmetall. Armi che hanno provocato la morte di centinaia di civili. «L’Italia non può contribuire a questo scempio con ordigni fabbricati sul proprio territorio e inviati in particolare all’Arabia Saudita, Paese che guida la coalizione militare è intervenuta, senza alcun mandato internazionale, nel conflitto in corso in Yemen contro i gruppi armati Houti. Nessuna alleanza in materia di contrasto al terrorismo internazionale, né la mancanza di formali embarghi internazionali e nemmeno l’impegno sul fronte diplomatico può giustificare il protrarsi di queste forniture di morte e distruzione…». E’ un passaggio dell’appello congiunto di Amnesty International Italia – con la Rete Italiana per il Disarmo e altri – rivolto a tutti i membri del Parlamento alla vigilia del pronunciamento del 20 settembre. La risposta è stata il voto della vergogna. «Parlamento e Governo – annota Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia – dimostrano lo scarso interesse per il rispetto dei diritti delle vittime di un conflitto violentissimo e illegale, per fare un favore all’industria degli armamenti e all’Arabia Saudita, il Paese che riesce a farsi perdonare ogni abuso col peso della sua potenza finanziaria. La decisione della Camera di rimandare a una generica «linea d’azione condivisa» con gli Stati dell’Unione europea è il classico metodo per guadagnare tempo e rinviare la questione sine die.

L’Ue si è già espressa tramite il Parlamento Europeo, l’Italia ha sottoscritto nel 2013 il trattato ATT (Arms Trade Treaty) che impedisce la vendita di armamenti ai paesi in conflitto, e la legge italiana 185 del 1990 già prevede questo divieto. Ancora non basta? Le prove indiscutibili dei crimini di guerra e delle brutalità commesse contro la popolazione yemenita evidentemente non sono sufficienti a risvegliare una classe politica ormai priva di riferimenti morali». «È incredibile come la maggioranza parlamentare, continui a essere sorda alla situazione dello Yemen, ignorando le nostre richieste di uno stop dell’invio di armi verso le parti in conflitto – gli fa eco Francesco Vignarca, portavoce di Rete Disarmo. «Fermare la fornitura di armamenti alle forze militari della coalizione guidata dall’Arabia Saudita – sottolinea a sua volta Oxfam – è un dovere nazionale, è una decisione di responsabilità, è dimostrare che l’Italia mette la pace, la sicurezza e la difesa dei diritti umani al centro della propria politica estera e di difesa». Diversi Paesi europei con cui l’Italia è alleata, tra cui Germania, Svezia e Olanda, già da tempo hanno interrotto le forniture di sistemi militari all’Arabia Saudita, in particolare quelle impiegate dall’aviazione saudita in Yemen. «Fin da gennaio – denuncia Giorgio Beretta dell’Osservatorio sulle armi di Brescia (Opal) – le Nazioni Unite hanno reso noto un rapporto nel quale non solo documentano che «la coalizione guidata dall’Arabia Saudita non ha rispettato il diritto umanitario internazionale in almeno 10 attacchi aerei diretti su abitazioni, mercati, fabbriche e su un ospedale», ma certificano che diversi di questi attacchi sono stati compiuti con bombe di fabbricazione italiana denunciando, senza mezzi termini, che queste azioni militari «possono costituire crimini di guerra» (may amount to war crimes): che è il massimo che può dire un gruppo di esperti, perché non è un tribunale». In particolare, quel Rapporto ci dimostra il ritrovamento, a seguito di due bombardamenti a Sana’a nel settembre 2016, di più di cinque «bombe inerti» sganciate dall’aviazione saudita contrassegnate dalla sigla Commercial and Government Entity (CAGE) Code A4447. Quest’ultima è riconducibile all’azienda RWM Italia S.p.A. del gruppo tedesco Rheinmetall, con sede legale in via Industriale 8/D a Ghedi, in provincia di Brescia.

Secondo gli esperti delle Nazioni Unite, «l’utilizzo di queste armi rivela una tattica precisa, volta a limitare i danni in aree in cui risulterebbero inaccettabili». Gli esperti spiegano inoltre che «una bomba inerte del tipo Mk 82 ha un impatto pari a quello di 56 veicoli da una tonnellata lanciati a una velocità di circa 160 km all’ora «.Dopo le ripetute denunce presentate all’Italia dall’Onu e da organizzazioni umanitarie internazionali e italiane circa l’esportazione all’Arabia Saudita di bombe fabbricate in Sardegna e usate contro civili nella guerra in Yemen, è emersa la prima vera conferma da organizzazioni indipendenti yemenite del ritrovamento di frammenti di ordigni made in Italy della RWM di Ghedi (Brescia) sul luogo di un sanguinoso raid aereo di otto mesi fa nel nord-ovest dello Yemen e nel quale sono morti almeno sei civili: una donna, un uomo e quattro minori. La denuncia è dell’ong yemenita Mwatana (Cittadinanza), che riceve fondi, tra l’altro, dall’agenzia Onu per l’infanzia (Unicef). Nata nel 2013, Mwatana dal 2015 monitora costantemente e in tutto lo Yemen le violazioni contro civili nella guerra in corso tra più parti e a cui partecipa la Coalizione a guida saudita contro l’insurrezione Huthi. Il capo ufficio stampa di Mwatana, Taha Yaseen, ha confermato quanto scritto dalla stessa organizzazione lo scorso 24 marzo in un rapporto sulle vittime civili causate, tra l’altro, da un raid aereo compiuto alle 3 del mattino dell’8 ottobre 2016 su Der al Hajari, località nel distretto di Bajel nella regione nord-occidentale di Hodeida. «Sul luogo dell’attacco sono stati rinvenuti resti degli armamenti usati nel bombardamento. Tra questi un frammento di una bomba di fabbricazione italiana identificata grazie all’analisi delle sigle».

A conclusione di una approfondita indagine, che ha incrociato tabelle ministeriali e altre fonti, Opal ha potuto riscontrare «una licenza da 411 milioni di euro alla Rwm Italia è destinata proprio all’Arabia Saudita», rimarca ancora Beretta. Si tratta dell’autorizzazione all’esportazione di 19.675 bombe Mk 82, Mk 83 e Mk 84. Bombe sganciate su obiettivi civili, comprese scuole e ospedali pediatrici. E a morire o a restare menomati per sempre in questi attacchi sono i bambini «Negli ultimi 15 mesi i bambini yemeniti sono stati vittime di una violenza indicibile. Tutte le parti in conflitto sono responsabili di una situazione terribile, di orrori inimmaginabili», racconta Edward Santiago, direttore di «Save the Cildren» in Yemen. «Giungono notizie davvero tragiche dallo Yemen dove la guerra sta uccidendo una generazione di bambini innocenti», incalza Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef in Italia: «Abbiamo notizie fondate che parlano di numeri agghiaccianti di questo conflitto. Nel solo 2017, 347 bambini e bambine sono stati mutilati, 377 bambini sono stati reclutati come soldati e vittime di violenze ma sappiamo che sono molti di più. Per non parlare sempre in questo anno dei bimbi uccisi che ad oggi risultano essere oltre 200». Una «nuova Siria», afferma Iacomini , «sta esplodendo davanti ai nostri occhi senza che nessuno muova un dito. Gridiamo a gran voce pace o sarà l’ennesima catastrofe umanitaria di cui non possiamo restare complici» E tra i complici di questa strage infinita c’è l’Italia. Con le sue bombe. Con il suo voto. E con dichiarazioni come quella rilasciata al Palazzo di Vetro dall’impalpabile ministro degli Esteri, Angelino Alfano, sottratto per qualche giorno alla sua attività basilare: contrattare col Pd posti nel prossimo Parlamento. “L’Italia è impegnata a promuovere, anche come membro del Consiglio di Sicurezza Onu, il conseguimento di una soluzione duratura e inclusiva della crisi in Yemen. Sosteniamo con convinzione gli sforzi dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Cheikh Ahmed per individuare una soluzione nel negoziato. Ma l’Italia si attende dalle parti, compreso il governo legittimo, un atteggiamento responsabile e aperto al raggiungimento dei compromessi politici necessari”, declama il titolare della Farnesina dopo aver incontrato, ai margini dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente dello Yemen, Abdurabo Mansour Hadi, e il vice premier e ministro degli Esteri, Abdulmailk Al-Mekhlafi, ambedue a libro paga di Riyadh e destinatari delle armi italiane. Non c’è limite alla vergogna.