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Esultanze per un rinvio a giudizio “solo” per falso

La sindaca di Roma Virginia Raggi durante la presentazione della prima edizione della "Rome Half Marathon via Pacis" presso la sala della Protomoteca in Campidoglio, Roma, 03 luglio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Luigi Di Maio scrive: “La Procura ha chiesto di archiviare le accuse a Virginia Raggi per cui la stampa ci ha infangato per mesi”. Omette di dire che è staro richiesto il rinvio a giudizio per falso in atto pubblico.

Virginia Raggi scrive che “la Procura di Roma ha deciso di far cadere le accuse di abuso d’ufficio”. Dimentica di dire della richiesta di rinvio a a giudizio per falso. Anche lei. Tra l’altro la Procura ritiene quelle nomine illegittime pur non intravedendo dolo. L’errore sarebbe per “insipienza” che, evidentemente, è diventata una virtù.

Sotto al suo post i commenti. Alcuni:

Se di tre reati ne rimane uno, è positivo. E’ innocente fino alla condanna in primo grado.”

“Io sono di Milano e il sindaco e nella merda per Expo eppure si sente solo di te !!!
Forza virgy 🎉

“Ottimo, ora tenteranno di infagarti con un rinvio a giudizio preventivato dai magistrati di magistratura dem, andrà avanti per tutta la campagna elettorale comprese le politiche.
Faccia il suo corso la giustizia a senso unico, nn abbiamo da nascondere nulla, mentre invece sembra debbano nascondere molto il PD di Sala e le varie collusioni mafiose di quest’ultimo in tutto il Paese, in ultima la Sicilia con liste spudoratamente di condannati o figli di mafiosi o collusi con Cosa Nostra.”

“Con un irrisorio falso ideologico fa proprio una brutta figura con i suoi predecessori con le loro amministrazioni, arresti x mafia, corruzione…
Vai avanti Virginia, devono rosica’, ora più che mai”

“Comunque non aspettiamoci scuse, pentimenti, applausi, riverenze, congratulazioni…un servilismo mediatico tragicomico come il nostro, non prevede contrizione; è programmato per sputtanare il M5S sempre, comunque, ad oltranza, oltre lo sfinimento.”

“Non capisco perché tutti si meravigliano perché la sindaca di Roma è stata rinviata a giudizio tutti scandalizzati pronti a puntare il dito ma tutta questa gente fino ad oggi ma dove ha vissuto? Per la prima volta Roma chiude con un bilancio attivo di 64 milioni e la gente sta lì a puntare il dito poveri pidioti!!!!!”

“siamo in guerra contro il sistema corrotto e colluso fino al midollo, un sistema che vuole continuare a magnare, prova ne è le denucie dell’opposizione alla sindaca Raggi colpevole di rispettare le regole e la legalita’.”

“Alla faccia dei “professori” e di chi a Gufato contro… Chi ha affossato Atac e voleva privatizzarla
La faccia come il culo di certi personaggi è incredibile!!!”

“guarda caso però i giornali mettono in risalto prima il rinvio in giudizio per falso e in secondo piano leggendo tutto l’articolo si dà notizia dell’assoluzione per gli altri reati! Sempre così uno schifo!”

“Anche se fossi giudicata colpevole resterai sempre quella che ha fatto qualcosa in più di coloro che hanno rovinato Roma. Bella e brava continua così🌼

Cara Virginia, i falsi e corrotti sono sempre attivi. Oggi il tg Studio Aperto come prima notizia ha dichiarato che tu come sindaco di roma sei stata rinviata a giudizio per una accusa che non ho capito quale sia. Perché questo accanimento nonostante la magistratura ti abbia dato ragione?”

“Tutti sapevamo che le accuse era mirate ad infangare Virginia Raggi e il movimento. Avremo perso uno 0,… di fiducia? forse si. Avanti così, alla prossima falsa accusa ci sarà più gente consapevole che l’infame è sempre dietro l’angolo!”

“OGGI QUEST POST E’ PIU’ ADEGUATO CHE MAI…GRAZIE VIRGINIA DI CUORE.HAI SALVATO FAMIGLIE INTERE DI LAVORATORI…ZITTISSERO I PIDDINI..GLI PSEUDO INTELLETTUALI..FINO ALL’ULTIMO DEI TROLL…E ROSICASSERO ALL’INFINITO. W IL M5S W LA RAGGI”

“Io ti avrei creduta anche senza assoluzione. A pelle lo sento che sei una persona onesta. Chi ti butta fango addosso è perché tifa per qualche altro partito a prescindere.”

“Perdonatemi e spero che quello che hanno detto al tg5 sia una notizia fasulla….prprio oggi hanno dato la notizia che la Sindaca Virginia Raggi e indagata per falso dalla magistratura di roma ” e sapiamo benissimo chi sono i magistrati”

“Il problema è che sti infami di giornalisti…compreso quelli di Sky , …hanno dato la notizia come se l’avessero accusata nuovamente!!!!! Andate a rivedervi il TG di Sky….chi non si infornma…chi pende dalle labbra di questi infami “giornalisti”…ha creduto che fosse di nuovo un’accusa !!!! BASTA………..RDI !!!”

“Virginia scusami facci capire, quindi rimane l’unica accusa di falso in atto pubblico per aver dichiarato che avevi deciso da sola ogni dettaglio della nomina di Renato Marra? Cioè davvero i magistrati vogliono perseguirti per questo. È ridicolo, davvero basta un esposto dell’opposizione di questo tenore?”

“Io sono torinese e abbiamo un grave problema piazza san carlo.
Per me lei sig.Raggi è il futuro di roma, ma a qualcuno del potere non le va bene. Daie Forza Raggi.”

“basta fango . basta dare contro a un sindaco solo per ragioni politiche ! deve cadere anche l’accusa di falso . invito i magistrati a lasciar in pace la raggi . basta fango . basta politica mischiata alla magistratura ! lasciate lavorare in pace la sindaca ! non basta ancora ???”

Ed è un peccato.

Buon venerdì.

(PS: per quelli che commenteranno scrivendo “e allora Sala a Milano?” basta farsi un giro su Google. Abbiamo parlato lungamente anche di lui. E ne parleremo ancora.)

 

Violenza contro le donne, la denuncia di Dire: «Il nostro lavoro nei centri non conta. Decidono altrove»

Women attend a protest rally marking the International Women's Day in Turin, Italy, 08 March 2017. Many people in Italy joined an international strike called to protest against discrimination and gender violence on Women's Day. The strike has affected public transport, schools and the health sector. International Women's Day is celebrated globally on 08 March to promote women's rights and equality. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

«Io vengo dalla Campania, da una zona complicata. Molto. Difficile non solo per la deprivazione socioeconomica e culturale ma anche per le infiltrazioni della camorra e per una cultura di genere veramente molto molto indietro rispetto al Paese», premette Raffaella Palladino, la nuova presidente di Dire, l’associazione Donne in rete contro la violenza costituita da oltre 80 centri in tutta Italia. Nel giorno in cui in tutto il mondo si organizza la mobilitazione di Non una di meno – di cui fa parte anche Dire – Left fa il punto sulle strategie per contrastare la violenza contro le donne. Mentre ogni tre giorni in Italia viene uccisa una donna e nel 70 per cento dei casi l’uomo è un ex o il marito o il fidanzato, è importante sapere come le istituzioni stanno affrontando il problema. L’Italia, pur in ritardo, ha sottoscritto la convenzione di Istanbul, che comprende anche una serie di interventi di prevenzione a livello culturale a partire anche dalle scuole che però, non sono contenuti per esempio nella Buona scuola.

Raffaella Palladino ha una grande esperienza, maturata sul campo, visto che nel 1999 ha fondato una cooperativa di donne «con l’obiettivo di lottare e contrastare la violenza di genere». In un territorio, quello tra Napoli e Caserta, che ha visto nel giro di pochi anni, crescere il numero di centri e di case rifugio, luoghi indispensabili per accogliere donne in fuga dal partner violento. E in una regione, la Campania, che è seconda in Italia per violenze contro le donne. Del 2003 è «la nostra prima casa rifugio con un centro antiviolenza a Maddaloni, e una a Santa Maria Capua Vetere e poi quella più conosciuta a Casal di Principe che ha la sede in un bene confiscato». Quest’ultima è diventata ben presto un progetto pilota, perché « abbiamo dato un lavoro alle donne che nella situazione in cui si trovano hanno il grande problema dell’autonomia economica». Un’attività di catering che va fortissimo e poi la confezione di creme e confetture per quel brand Casa Lorena che a suo modo è diventato famoso. Nell’ultimo anno la cooperativa ha gestito 10 centri antiviolenza e 3 case rifugio, «più di mille donne sono state accompagnate fuori della violenza in questi anni».

A livello nazionale, che ne pensa del Piano nazionale contro la violenza? Il 7 settembre si è riunita la cabina di regia.
Sì, una riunione insieme all’Osservatorio nazionale di cui facciamo parte. Il piano strategico? Noi l’abbiamo già in parte contestato. Abbiamo condiviso un anno di lavoro e di confronto, abbiamo fatto un lungo percorso e molte cose sono state recepite, ma altre, fondamentali, no. Nel senso che i centri anti violenza sono valorizzati per il loro ruolo ma sono fuori dei luoghi decisionali. E quindi come al solito, si prendono le nostre esperienze, le nostre prassi operative, il nostro know-how e le decisioni vengono prese altrove. La politica non prende in considerazione le nostre istanze. Non siamo presenti nelle nuove linee guida, né nella cabina di regia che è tutta istituzionale. E nemmeno nell’analoga cabina a livello regionale, per cui le Regioni utilizzeranno le poche risorse a disposizione per il contrasto alla violenza secondo il loro giudizio. Faranno finta di ascoltare i centri nei momenti di concertazione e poi decideranno, a prescindere dalle nostre richieste.

Un atteggiamento che si ripete?
Questa è la nostra storia della nostra relazione con le istituzioni, anche l’altro piano di violenza che adesso si chiude, era stato concertato ma non ci era piaciuto per niente. Queste linee strategiche in verità non sono estranee alla nostra cultura politica, riprendono tutte le indicazioni della convenzione di Istanbul e anche nel linguaggio, nell’approccio e nella strategia, sarebbero condivisibili, se non per alcuni punti nodali che per noi sono veramente inaccettabili.

Quali?
Chi prende le decisioni, in realtà, è altrove. E poi c’è un problema a prescindere, sia dalle linee guida del pronto soccorso che del piano strategico: tutto questo doveva arrivare dopo aver rivisto l’intesa Stato-Regioni del 2014 che definisce i requisiti minimi essenziali dei centri e delle case rifugio. Quell’intesa ha aperto il fianco, perché molto poco stringente, a chi si proponeva sulla scena dei servizi, ovvero una serie di enti senza esperienza, senza ottica di genere, organizzazioni non di donne. Questo genera problemi, perché è chiaro che se una donna si rivolge a un centro e viene accolta da chi si occupa di servizi per gli anziani o per i minori, lei se ne va. Invece l’intesa non è stata rivista, per cui finirà la legislatura e i problemi rimarranno quelli ed uguali.
Abbiamo chiesto tante volte di ripensarci, sia alla cabina di regia sia alla ministra Boschi direttamente, ma ci è stato risposto che i tempi non ci sono più.

Vengono considerati quindi altri soggetti estranei?
Certo, come è accaduto in questi anni. Il centro antiviolenza infatti può essere gestito o da associazioni di donne che hanno questa esclusiva oppure da chi ha maturato 5 anni di esperienza. Il che vuol dire l’universo mondo, delle suore, delle cooperative che hanno aperto sportelli. L’ultimo bando del Dpo è stato vinto da una serie di enti che nulla avevano a che vedere con il lavoro con le donne e molti centri antiviolenza non sono stati finanziati. Quindi, noi continuiamo ad avere dei problemi e alcuni centri chiudono e altri soggetti esterni si candidano. Adesso stanno arrivando le grandi Ong, la violenza contro le donne viene usata per veicolare qualsiasi tipo di politica.

Oggi è la giornata di mobilitazione di Non una di meno, sabato 30 settembre ci sarà quella promossa dalla Cgil soprattutto per chiedere di modificare la depenalizzazione del reato di stalking. Che ne pensa?
Noi siamo contente che un sindacato come la Cgil abbia attenzione a questo tema e che dia un supporto nelle piazze. Il problema è stato il tempismo e la scelta della data del 30 che arriva a ridosso di oggi che è la data internazionale di Non una di meno, la mobilitazione che parte dall’Argentina. Noi come Dire siamo tra le socie di Non una di meno e stiamo preparando questa manifestazione da tempo. C’è il rischio che facendo una manifestazione il 30, si oscuri e si depotenzi la manifestazione di oggi. Noi non abbiamo aderito a quell’appello, precisando perché e mantenendo tuttavia un buon rapporto con il sindacato.

E del reato depenalizzato di stalking?
È chiaro che noi non vediamo di buon occhio questa depenalizzazione, che tra l’altro, è di classe, nel senso che favorisce chi ha più risorse. Noi però chiediamo una riflessione in un’ottica un po’ più complessiva. Ci sono mille cose che vanno riviste anche anche nell’ambito dell’impianto giuridico perché di certo ci sono delle buon eleggi ma ancora nei tribunali le donne vengono rintuzzate sempre. Comunque, oggi come sabato, più siamo in piazza e meglio è.

Rifugiati, dopo il blocco dei flussi arriva il piano “equilibrato” per l’integrazione

"I nuovi dati sulla crisi globale dei rifugiati e sfollati, saliti a 65,6 milioni di persone, sono sconvolgenti e testimoniano come oggi ci troviamo di fronte alla più grave crisi umanitaria dalla Seconda Guerra Mondiale, in cui un numero sempre crescente di persone ha bisogno urgente di sostegno, protezione e accoglienza": così Oxfam commenta i numeri diffusi oggi dall'Unhcr (l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati). ANSA/UFFICIO STAMPA OXFAM ITALIA +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Esclude gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, e qua e là fa sfoggio della politica della “decrescita” dei flussi migratori verso il Belpaese grazie alle «recenti linee di indirizzo politico, all’accordo bilaterale tra il governo italiano e quello libico per il controllo dei flussi» che non poche polemiche hanno sollevato per le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere i migranti respinti in Libia. In sintesi, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, con il sapore di un documento rassicurante per placare la xenofobia degli elettori, è stato varato il primo Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale.

Nel piano del ministero dell’Interno sono dettagliati «doveri e responsabilità per garantire una adeguata convivenza civile», alla ricerca di un armonioso «bilanciamento tra i diritti di chi è accolto con quelli di chi accoglie». Assodato (finalmente) che l’imposizione dell’integrazione per «via legislativa non sembra funzionale» all’uopo perché «obbligare all’assimilazione rischia di causare processi di deculturazione degli stranieri», dal Viminale è stato ritenuto necessario procedere a «sviluppare interventi diretti a facilitare l’inclusione nella società e l’adesione ai suoi valori». Previsti, essenzialmente, nella Costituzione, il Piano fa riferimento, in primo luogo, alla «regolamentazione dei rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose» basato su «intese paritetiche» e solo poi all’adesione ai principi di uguaglianza.

Specificando che la strategia di integrazione italiana deve essere “sostenibile”: il buon esito di questo modello «non può prescindere dalla capacità concreta di accoglienza dei territori, che non può essere illimitata». D’altronde, «l’afflusso massiccio irregolare di persone si ripercuote negativamente sulla possibilità di integrare». Nel documento del Viminale «le comunità di fede possono rappresentare le sedi privilegiate dell’attuazione delle politiche di integrazione», a cui si può arrivare anche obbligando i rifugiati a un percorso di formazione linguistica già in fase di prima accoglienza e agevolando l’accesso al sistema di istruzione.

Il Piano, oltre a indicare una stima dei destinatari  (74.853 rifugiati o in protezione sussidiaria), ne considera le specifiche esigenze, «nei limiti delle risorse disponibili». E, cercando di distribuire equamente i migranti onde evitare di congestionare i grandi centri urbani, inserendo piccoli numeri di stranieri nei comuni minori, permette di “governare” i flussi dei migranti. I quali, responsabilizzati da un attaccamento alla comunità di residenza, diventano, sostiene il Piano, il «principale anticorpo in grado di prevenire e neutralizzare fenomeni di radicalizzazione». Evitabili questi, anche autorizzando il ricongiungimento famigliare considerato che «la separazione dai membri di una famiglia può avere conseguenze devastanti per il benessere psicofisico delle persone» e generando una «condizione di insicurezza (…) può rappresentare un forte ostacolo al percorso di integrazione».

Pur non dimenticandosi dei connazionali e perciò «nella consapevolezza della situazione d’emergenza abitativa che coinvolge le fasce deboli di tutto il Paese, l’obiettivo, per il prossimo biennio, è che le persone titolari di protezione internazionale possano accedere alle risorse che il welfare territoriale mette a disposizione (…), verificando anche la possibilità di includerle negli interventi di edilizia popolare e di sostegno alla locazione».

Il piano punta anche all’inserimento socio-lavorativo, a rendere accessibile l’assistenza sanitaria con particolare riferimento alle necessità delle categorie più vulnerabili e a garantire la possibilità effettiva dell’iscrizione anagrafica e l’acquisizione della residenza. Questo è il Piano nazionale d’integrazione per i rifugiati sulla carta. Vedremo come sarà attuato.

L’identikit di chi ha votato i neonazisti in Germania

epa03004396 The jacket, with an armband and swastika symbol, of a man detained by German Police who is suspected of opening fire on a Turkish-owned grocery shop is presented during a press conference at police headquarters in Bielefeld, Germany, 15 November 2011. The German police are reporting that an apparently confused man, fired shots at a Turkish food store wearing a swastika arm band in Rheda-Wiedenbrueck,  Germany. The 27 year old had attached explosives to his body with tape, according to the police and public prosecuter in Bielefeld. The police found a helmet with the SS symbol on it in a backpack, which he had placed in the Ems river. Police said there was no record of him ever belonging to a neo-Nazi group, but he had been in long-term psychiatric treatment. EPA/OLIVER KRATO

“Gli Yankee americani sono ancora nel Vecchio Continente” mentre Putin è “l’unica garanzia per la pace in Europa”, dicono. Loro vogliono un referendum per lasciare l’eurozona. Loro non vogliono assolutamente vedere una moschea o un minareto da queste parti. Loro foraggiano sentimenti anti-islamici e credono che quella dei musulmani sia una religione che non rispetta la costituzione, cioè sia incompatibile con la democrazia. Loro non vogliono più vedere i propri soldi finire in banche straniere, europee. Ma soprattutto loro dicono che “il governo spende tutti i fondi per i rifugiati e niente per i pensionati, che non possono permettersi dentiere e occhiali nuovi”.

Loro non sono elettori della Lega di Salvini, ma tedeschi intervistati in Sassonia, Germania, al confine con la Repubblica Ceca e fanno parte di quel bacino di elettori che ha fatto trionfare l’Alternative fur Deutschland (Afd) alle ultime elezioni, rendendo il gruppo di estrema destra il terzo partito più forte nel Bundestag di Angela Merkel: 12,6% è la percentuale di tedeschi che ha votato per l’Afp, ovvero sei milioni di cittadini. La vittoria, per loro, è storica, perché era quasi mezzo secolo – più di cinquant’anni – che la destra estrema non sfondava il blocco parlamentare, rimanendo sempre fuori, sulla soglia del potere, senza accedervi mai.

La Germania scricchiola, sui banchi parlamentari i volti sono ancora stupefatti. L’Afp ha adesso 94 seggi su 709 e nel lungo day after delle elezioni si tirano le somme e si fanno i conti: chi li ha scelti? Oltre agli elettori di destra tradizionali, un milione e duecento mila persone che non aveva mai votato alle precedenti elezioni in Germania ha deciso di recarsi ai seggi. Proprio come è successo, in proporzione, nella nuova America di Donald Trump. E proprio come in America i rappresentanti di Alternativa per la Germania flirtano con i neo-nazisti di Berlino, Amburgo, Francoforte, Colonia e province adiacenti. Un milione di voti sono stati persi dalla Cancelliera e dal suo partito, la Cdu, che non è più dominante in Bavaria, come è invece stato per decenni. Si stima che quei voti siano finiti a loro, quelli che negano i crimini dei nazisti. Un altro mezzo milione di voti è arrivato all’Afp da chi ha sempre sostenuto la sinistra politica del paese, che di solito votava per i social democratici e i loro alleati. Altri quattrocentomila voti sono arrivati dagli elettori che votavano il partito Sinistra.

La ragione della vittoria secondo gli esperti? Due cifre: 2015 e un milione. La migrazione fino ad ora non era un ago pendente sulla bilancia delle elezioni. Ora, in ritardo, i politici tedeschi capiscono che lo è stata. Nel 2015 un milione di rifugiati arriva in Germania per volere e decisione della Cancelliera. Il partito nero più giovane della Germania era nato solo due anni prima l’ondata di richiedenti d’asilo che cercavano rifugio in Germania, ma allora erano davvero solo in pochi ad ascoltarli. Nel 2015 l’Afp comincia ad acquisire popolarità e membri, parlando di confini, sicurezza e immigrazione. I toni sono nazionalisti, poi diventano populisti, infine razzisti. E nessuno ha saputo fermarli in tempo.

 

Essere Angelino Alfano

Il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, rende omaggio a Cristoforo Colombo, 22 settembre 2017. A New York per i lavori dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, il titolare della Farnesina ha deciso di recarsi a Columbus Circle - nel cuore di Manhattan di fronte all'ingresso del Central Park - dove svetta la statua del navigatore più famoso della storia. ANSA/UGO CALTAGIRONE

«Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata. Può diventare un favore alla Lega»: parole, opere e omissioni di Angelino Alfano, il leader di un minuscolo partito con più colonnelli che elettori che da anni imperversa nelle diverse vesti di differenti ministeri rimbalzando con leggerezza da governi di destra a governi di sinistra come un’ape sempre alla ricerca di polline.

La “cosa giusta fatta al momento sbagliato”  in questo caso è il cosiddetto Ius soli (che ius soli non è) ma non è questo ora che ci interessa. Angelino Alfano con la sua dichiarazione dice spudoratamente che il risultato elettorale (suo e del suo partito) alle prossime elezioni politiche è una priorità rispetto a una legge giusta. E lo fa così, come se niente fosse, da impunito seriale qual è, perché la sensibilità sul tema del “profitto elettorale” dei partiti ormai si è narcotizzata completamente: lo scopo non è più il “bene del Paese” ma “vincere” e non importa che per vincere si debba snaturare la propria missione e si debba accettare la manomissione dei propri princìpi. Conta vincere.

Se solo avessimo il tempo di fermarci a pensare a una dichiarazione del genere la riconosceremmo: è il conato di uno sforzo di autopreservazione. E invece ci scivolano spesso le parole di questa brutta pasta e alla fine non abbiamo nemmeno le energie per ricacciargliele in gola.

E intanto, in nome della “vittoria” alle prossime elezioni, vale tutto. Anche essere Angelino Alfano.

Buon giovedì.

Arabia saudita, dietro lo storico ok alle donne al volante c’è un’idea medievale dei diritti civili

Dal mese di giugno 2018, le donne d’Arabia Saudita potranno avere la patente di guida secondo il recente decreto di re Salman. È una buona notizia. È una notizia che piace molto nel cosiddetto Occidente. È uno degli effetti della visita, maggio 2017, di Abu Ivanka Al-Amriki come si divertono i jihadisti a chiamare Donald Trump e del piano “Visione 2030” del concitato giovane erede al trono Mohamed bin Salman.

È dal 1990 che le donne saudite chiedono di poter guidare l’auto. Quell’anno 47 donne si sono messe al volante sfidando il potere e la società. Sono 500mila gli autisti immigrati che lavorano presso le famiglie saudite per uno stipendio mensile di 400 dollari. L’estate 2018 il salario minimo sarà portato a 666 dollari e quindi le autorità che da qualche anno stanno “saudizzando” il lavoro con l’espulsione di migliaia di lavoratori immigrati, mettono nel conto l’espulsione di tanti immigrati che perderanno il lavoro con questo provvedimento. Secondo la Banca Mondiale, gli immigrati hanno trasferito dall’Arabia Saudita 41,8 miliardi di dollari nel 2015. L’Arabia Saudita che ha speso miliardi nelle guerre in Siria e nello Yemen, intende espellere almeno 2 o 3milioni di immigrati (su 10,7 milioni) per recuperare un po’ di soldi persi.

Forse non sarà facile né immediato: è vero che, secondo il centro di studi femminili saudita Khadija bint Khouiled, le donne rappresentano il 49,6% dei laureati ma soltanto il 16% della forza lavoro e il cosidetto progetto Visione 2030 prevvede un maggiore coinvolgimento della donna saudita nella vita pubblica. Tuttavia, il Majlis Ashoura, una autorità consultiva, dando il proprio assenso al decreto che autorizza le donne a guidare l’auto, pone alcune condizioni: che la donna abbia raggiunto l’età di 30 anni, che il tutore (padre, marito, fratello, figlio, zio…) dia il proprio assenso scritto, che la donna al volante sia vestita in “modo adeguato” e che non usi in nessun modo make up o trucco o abbia accessori di bellezza. Che la guida della donna sia limitata solo nei centri urbani dalle ore 7 alle ore 20 da sabato a mercoledì e dalle 12 alle 20, il giovedì e il venerdì. Infine dovrà essere sempre munita dal proprio cellulare collegato con il Centro Femminile del Traffico Stradale. Centro che dovrà essere istituito prima di giugno 2018. Leggere le motivazioni di questa consulta “Majlis Ashura” è come un tuffo nel medioevo ed è la dimostrazione che il Fiqh, tradotto abusivamente come “diritto islamico”, sia la piaga del mondo musulmano.

L’annuncio di questo decreto in questo preciso momento serve anche a nascondere le notizie degli arresti di molti oppositori al regime saudita, alcuni molto in vista come Salman Al Awdah che chiedono una monarchia costituzionale e più diritti civili. Forse è meglio guardare le cose con ottimismo e dire con i saggi che è meglio un uovo oggi che una gallina domani.

Cristina Donà: «Più musica per tutti. A partire dalle scuole»

Sono passati venti anni dal suo debutto e la sua voce, la sua presenza sulla scena nazionale, ma anche internazionale, sono una certezza. Artista dalla sofisticata semplicità, versatile e con un’energia vocale ricercata, Cristina Donà è una delle protagoniste della canzone d’autore. Donà vanta un curriculum sfavillante tra targhe Tenco e molte collaborazioni – tra tutte quella con Robert Wyatt – ed è stata la prima artista italiana a esibirsi al Meltdown di Londra. Da quel Tregua, prodotto da Manuel Agnelli nel 1997, passando per una decina di album, fino a questa ultima riedizione arricchita dal contributo di giovani artisti: Tregua 1997-2017 Stelle buone. Da molti anni Donà vive in un paesino della Val Seriana ed è da lì, mentre sta nel boscoche risponde alle nostre domande. Dal bosco in cui si trova, iniziamo a parlare delle sue “stelle buone”, ma anche di scuola, dell’importanza dei maestri, e anche di natura: «Ci dimentichiamo quanto sia importante il contatto con la natura, e non è un discorso da hippy, è qualcosa che ci riporta alla dimensione giusta, anche per ridimensionare il nostro modo di vivere. Ci siamo un po’ disconnessi e scollegati da tante cose importanti».
Un album per festeggiare questi venti anni di successi, ma c’è stato un altro compleanno importante, proprio in questi giorni: i tuoi primi cinquant’anni!
Sì, un bel traguardo di vita, poi artistico ovviamente. Ho capito subito che la mia strada era la musica, anche se ho iniziato tardi a scrivere le mie canzoni. Diciamo che in questi giorni è il “festeggiamento” per essere riuscita a scrivere, anche se avrei voluto pubblicare più album.
Ti ricordi quando hai iniziato a scrivere?
Mi ricordo esattamente, è stato una specie di colpo di fulmine. In quegli anni, i primi anni Novanta, mi esibivo nei locali facendo cover, il mio materiale erano le canzoni degli autori che amavo. C’è stato un giorno esatto in cui ho pensato, e desiderato, di lasciare quelle voci, quelle parole di altri e trovarne di mie. Volevo trovare la mia voce anche nelle parole.
Dagli esordi a oggi, che cosa ti porti dietro e che cosa è cambiato?
La musica per me ha sempre avuto un valore “alto”. Quando ho cominciato a fare la mia, mi è sembrato il modo migliore per ringraziare e restituire ciò che mi è stato dato da tutti i musicisti. Intanto, va detto, è cambiato il mondo intorno a noi ed è cambiato il modo di fruizione della musica che è diventata un bene gratuito. Questo ha influito tantissimo sull’essere artista. In qualche modo ha tolto valore e possibilità, anche se però ce ne sono altre. È un momento di passaggio ma bisogna trovare il modo di riconoscere agli artisti il loro lavoro perché di questo si tratta in fondo.
Da dove potremmo ricominciare o, forse, cominciare per la musica?
Mancano dei bravi maestri e, inoltre, quella parte istituzionale che dovrebbe formare le coscienze della parte musicale del nostro Paese è nulla. Mi riferisco alla scuola, ma anche alle reti nazionali, in tv. Sulla Rai che programmi di musica si sono?
A questo punto è d’obbligo chiederti cosa pensi dei talent.
Il problema non sono tanto i talent, ma il fatto che non c’è un’alternativa, quindi se quello è l’unico modo di proporre la musica, allora sì che diventa un problema. Quello è un format, ma io che guardo la tv non ho scelta, per me la musica è quella lì: è competizione, è imparare a stare in tv, a essere sottoposti a una pressione mediatica pazzesca, che è ammirevole. Io ho una grande stima, infatti, per questi ragazzi, ma anche per i giudici. Però, esiste solo questo.
Quindi, torniamo sempre alla scuola, alla formazione.
A proposito di scuola, ogni volta che cambia il governo viene ribaltata come un calzino e ne stiamo pagando le conseguenze tutti. Comunque, sempre a livello educativo, in ambito musicale, c’è un’impreparazione di massa. Almeno, vorrei vedere rischiare un po’ di più la televisione pubblica con un programma di approfondimento dove si racconta anche solo la storia dei nostri cantautori, la storia della musica. Decidere a priori cosa vuole la gente è una grande violenza. Allora viva il web perché lì un po’ di speranza c’è.
Ti sei fatta conoscere per le tue idee e la tua intelligenza. Qual è oggi, la tua percezione  della condizione femminile, mentre ovunque avvengono fatti tragici contro le donne?
Una parte di queste violenze è il risultato della nostra cultura che comprende tante cose, compresa l’influenza della Chiesa che obbliga la donna a stare in casa, a fare i figli. Ma fortunatamente i tempi sono cambiati. In ogni caso dobbiamo liberarci da una cultura negativa e il discorso dovrebbe essere affrontato insieme nelle scuole, nelle famiglie.
Insomma, il problema è soprattutto culturale.
Da qualche anno con Isabella Ragonese condivido uno spettacolo, un reading concerto (Italia Numbers ndr). Si tratta di un emblematico percorso di letture, durante il quale parliamo di quello che pensiamo: le cose devono essere fatte insieme, non barricandosi dietro al femminismo, che isola l’uomo, ma cercando di raccontare come si sviluppa la violenza contro le donne da più aspetti.

Corbyn al congresso dei Labour lancia la sfida: «Il neoliberismo va rimpiazzato»

epa06229884 Britain's opposition Labour Party Leader, Jeremy Corbyn delivers his keynote speech during the Labour Party Conference in Brighton, Britain, 27 September 2017. Over 11,000 people are expected to attend the Labour's annual party conference in Brighton from 24 to 27 September EPA/NEIL HALL

«Serve un nuovo modello economico, che rimpiazzi i dogmi falliti del neoliberismo». Lo ha dichiarato oggi il leader Jeremy Corbyn a Brighton, dove è intervenuto in occasione della giornata conclusiva del congresso del Partito laburista inglese iniziato domenica. Un intervento, spezzato di frequente da calorosi applausi e standing ovation, dove Corbyn ha toccato svariati temi, dal welfare alla scuola, dai tagli dei servizi pubblici alla Brexit.

Secondo il leader laburista, i conservatori in modo «spietato» hanno «calcolato che rendere più povere le persone in nome dell’austerità avrebbe permesso forti tagli alle tasse per i ricchi e per i potenti». Questi tagli hanno fatto sì che il Regno Unito sia stato persino ripreso dalle Nazioni unite per «aver violato i diritti delle persone disabili».

L’economia inglese – accusa Corbyn – non si occupa più della questione abitativa, di garantire un lavoro alle persone e di innalzare gli standard qualitativi della vita. Bisogna cambiare modello economico, aggiunge, perché «in Gran Bretagna stiamo assistendo ad un aumento di senza tetto e di poveri senza precedenti». Bisogna puntare su servizi pubblici, sull’istruzione, sulla sanità e su un nuovo piano di investimenti per creare lavoro, argomenta con decisione il capo del Labour party.

«Se vuoi vedere come i poveri muoiono, vieni a vedere la Grenfell Tower», dice il leader, citando una poesia di Ben Okri ispirata alla catastrofe di giugno nella quale sono morte almeno 87 persone nel quartiere North Kensington di Londra.

Il partito laburista, ammonisce Corbyn, non deve inoltre giocare sulla contrapposizione tra giovani e vecchi, ma anzi unire le generazioni, perché «soltanto uniti si può arrivare alla vittoria».

Sulla Brexit, «il partito laburista accetta il risultato del referendum», ma questo non deve per forza portare a mettere a rischio posti di lavoro. «I tre milioni di cittadini dell’Unione europea che vivono e lavorano in Gran Bretagna – prosegue – sono i benvenuti qui». «E il loro futuro – aggiunge appellandosi alla premier May – deve essere garantito».

Lo scopo malcelato della manovra di fuoriuscita dall’Ue – secondo Corbyn – è il trasformare il Paese in un paradiso fiscale senza regole, nel quale poche aziende al top possono fare profitti, mentre tutti gli altri cittadini soffriranno sempre di più. I Tories, inoltre, sarebbero colpevoli di «spendere più tempo a negoziare con tutti meno che con l’Unione europea».

Il partito laburista – spiega – è pronto a governare, e i risultati elettorali positivi lo confermano. Idee estremiste? No, «il labour – si difende – è il partito del nuovo senso comune».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Usa, continua la protesta dei big dello sport contro il presidente Trump

San Francisco 49ers back-up quarterback Colin Kaepernick (2-R), San Francisco 49ers outside linebacker Eli Harold (C), San Francisco 49ers free safety Eric Reid (R) take a knee during the US national anthem before the NFL game between the Dallas Cowboys and the San Francisco 49ers at Levi's Stadium in Santa Clara, California, USA, 02 October 2016. Kaepernick is protesting police brutality and oppression in America. ANSA/JOHN G MABANGLO

Gli uomini più muscolosi d’America sono tutti in ginocchio da settimane. Il mondo dello sport statunitense non assomiglia a quello europeo: è nero, è arrabbiato ed ha una coscienza sociale. Basket. Baseball. Football. Sono i giochi dei nuovi dissidenti americani.

Tutto è cominciato quando il quaterback di San Francisco Colin Kapernick ad agosto 2016 si è rifiutato di «onorare l’inno e mostrare orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime i neri e le persone di colore. Devo battermi per gli oppressi. Se mi porteranno via il football, se mi porteranno via gli endorsement, so che mi sarò battuto per qualcosa di giusto», ha detto il giocatore con la sua maglia 49, un numero che ora è associato ad un nuovo “american hero”, un ragazzo «birazziale, nero di colore, ma cresciuto in una famiglia bianca». Sulla linea chiara del campo verde si è giocato stavolta davvero tutto, rischiando lavoro, carriera, supporto, squadra, fan, soldi. Ma ha fatto valere il suo diritto al primo emendamento americano mentre tutta la nazione stava a guardarlo.

Trump ha consigliato ai tifosi di abbandonare gli stadi e ha detto che i giocatori che protestano vanno fired, licenziati, imitando voce e gesto che usava nel suo reality show. Le esatte parole sono state: «licenziate i figli di puttana che non rispettano la nostra bandiera». In soccorso all’atleta nero della Nfl National football league, sono arrivati i giganti scuri dell’ Nba, in particolare i cestisti più forti del mondo. Kevin Durant e l’altra metà del cielo del basket americano, Stephen Curry, hanno deciso di non partecipare all’incontro alla Casa Bianca, meeting di rito per i campioni d’America, attirandosi le ire bionde e nucleari del presidente su Twitter.

Kobe Bryant ha detto: «un Potus – President of the United states – che crea divisione e rabbia, le cui parole ispirano dissenso e odio, non può rendere l’America great again». La scelta di Curry è stata difesa dal suo avversario storico, il campione del mondo LeBron James. Dopo Charlottesville – dove una ragazza che partecipava alla marcia contro i neonazisti ha perso la vita – il 23 dei Cleveland Chevaliers ha detto: «l’odio è sempre esistito in America. Trump l’ha solo reso di nuovo di moda». The people run this country, not one individual, damn sure, not him. Sono le persone a portare avanti il Paese, ha detto LeBron, di sicuro non lui.

Non hanno paura di lottare per i diritti civili dei neri d’America i giocatori di football che da una squadra all’altra continuano ad inchinarsi giorno dopo giorno. Come non ne hanno più le star del baseball. Si è piegato su un ginocchio, durante l’inno, anche Bruce Maxewell, degli Oakland Athletics, prima della partita contro i Texas Rangers. L’ultimo campo di battaglia per la democrazia negli Stati Uniti ora è l’erba verde calpestata prima di una partita.

La lezione politica e l’uomo Pietro Ingrao. Lenola lo ricorda

«I prati mi hanno incantato sempre, nel loro assoluto trascorrere silente. Oggi i prati della città in cui vivo sono mischiati al tumulto della corsa e dell’affanno. L’isola non esiste. Ed è giusto. Perché chiedere di salvarsi da soli? E poi io non so andare a cavallo». Pietro Ingrao in Volevo la luna conclude il lungo racconto della sua vita, ricordando la storia del Disperso di Marburg di Nuto Revelli.
A due anni di distanza dalla sua morte, avvenuta il 27 settembre 2015 –  val la pena di tornare a leggere i suoi scritti che pongono domande attualissime. Chi ha avuto la possibilità di conoscerlo sa quanto fosse profondo il suo interesse per la politia e per gli esseri umani.
«Queste memorie – scriveva – sono in qualche modo la ricostruzione di una vicenda personale e sociale nelle insanguinate vicende del mio tempo. Ma – anche per il memorialista- non è proprio certo che le cose siano andate così, e con tale “ordine” sotteso. L’accaduto forse diverrà più sicuro, quando saranno appurati nessi ed eventi che a tutt’oggi , almeno per chi scrive, risultano ambigui o ancora nel da farsi, o ancora troppo personali e segreti. Quell’evento fu così, come sta aggrappato nella mia dolce, dolorosa memoria? O si è consumata la chiave, ammesso che ci sia in campo una chiave, sia pure per una raccolta di frammenti? Essendo incerta la lingua, come si dà e si legittima la memoria? E perché temiamo tanto che la memoria si perda? È la vanità di stare ancora e per sempre sulla scena o un tentativo di salvezza? O forse è la memoria di una soggezione ad altri, tale che non può reggere il silenzio».
Ingrao in gioventù avrebbe voluto occuparsi di cinema e poesia. Dell’uomo che amava la musica, Montale, Leopardi e il cinema di Chaplin, ma con l’inizio della guerra di Spagna, quei sogni furono «bruscamente spazzati via da eventi più aspri e cruciali».
Cominciò così quel rapporto con la politica che lo accompagnò per tutta la vita e che, nel febbraio del 1947 lo vide impegnato come direttore dell’Unità dove rimase per dieci anni.
«Mi ritrovai capocronista dopo essere stato, fino ad allora, un giornalista di frodo, in quelle pagine brevi e tanto amate dell’Unità clandestina. Avevo dubbi seri sulle mie capacità giornalistiche: ero organicamente un “lento” e questo di sicuro non combaciava con la rapidità di decisione e di realizzazione che chiedeva in ogni momento il giornale quotidiano: sino, a volte, alla necessità di cambiare la selezione delle notizie principali all’ultim’ora, quando la pagina di piombo era già conclusa sul bancone del tipografo». Questo il suo racconto.
In pochi mesi nacquero quattro edizioni del giornale: a Roma, a Torino, a Milano a Genova.
Insieme con Ingrao arrivano diversi giovani intellettuali alla redazione di Roma e tra questi Alfredo Reichlin, Luigi Pintor, Maurizio Ferrara, Pasquale Balsamo.
Fu un decennio importante, perché il quotidiano crebbe, grazie anche ad una diffusione capillare, diventando un grande giornale raccontando di cronaca, politica, sport e cultura.
A Lenola, il suo paese d’origine, Pietro Ingrao sarà ricordato domenica primo ottobre.
«Lenola l’aveva e la sentiva nel sangue – scrive Fabio Pannozzo autore di Pietro Ingrao, le origini (Atlantide) – nulla lo rendeva più felice che mettere piede in quel paesello; lui diceva che bastava aprire lo sportello della macchina per sentire quell’aria che già… era tutta un’altra cosa. Ripassava mentalmente quei cieli, quei colori, il verde intenso della primavera. Il nascere e nascondersi della luna e del sole dietro quelle due montagne di Appiolo e Chiavino che cantò meravigliosamente in Variazioni serali”.
La cerimonia “La casa di Pietro” organizzata dall’associazione Pietro Ingrao si svolgerà il primo ottobre a Lenola a partire dalle 17 con i saluti del presidente dell’associazione Marrigo Rosato, l’intervento di Giancarlo Di Fonzo sulla “storia della casa di Francesco e Pietro Ingrao”, l’intervento del sindaco Andrea Antongiovanni e quello del Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Alle 18 ci sarà il concerto di Giovanna Marini e della scuola di Musica popolare di Testaccio.