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Fanno gli sceriffi e intanto sono gli zerbini della ‘ndrangheta

Un fermo immagine tratto da un video postato da Edoardo Mazza, sindaco di Seregno, sul suo profilo Facebook. Mazza è stato arrestato nell'ambito di una maxi inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Brianza e Lombardia. Milano, 26 settembre 2017. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

«Basta dare soldi a chi chiede l’elemosina». Era l’appello ai cittadini di Seregno che lanciava il sindaco di centrodestra Edoardo Mazza: «Non se ne può più, ogni giorno fuori dalle nostre chiese o dai nostri negozi, rom e zingari, con insistenza e talvolta utilizzando metodi che sfiorano l’intimidazione, chiedono soldi soprattutto agli anziani. È una situazione inaccettabile».

Era il 21 marzo scorso e Mazza si bullava di essere stato uno dei primi ad avere messo in pratica il “Daspo urbano”, un’altra genialata di quel gran ministro Minniti. Il prototipo del sindaco di centrodestra in Lombardia: forte con i deboli, sempre pronto a inventare allarmi sociali, sempre attento a mostrare il pugno di ferro con i disperati. E intanto era il barboncino della ‘ndrangheta, pronto a farsi inzerbinare dall’imprenditore filomafioso di turno.

Accade sempre così: i moralisti, quelli che sventolano su tutto ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, basta grattarli un po’ per trovarci in fondo la melma. Eppure basterebbe avere occhio: l’aspirante sindaco (eravamo ancora in campagna elettorale) che sorrideva beatamente con l’attuale vicepresidente di regione Lombardia Mario Mantovani (un altro che ha la sfortuna di essere spessissimo nel posto sbagliato con le persone sbagliate) al bar “Tripodi pane & caffè” di Seregno, di quello stesso Tripodi che da anni tutti sapevano essere componente di famiglia mafiosa (e infatti quel bar alla fine è stato chiuso, guarda un po’).

E Salvini, che sorrideva con lui in campagna elettorale, ieri si è dimenticato di twittare e Maroni, che da sempre ha l’aria di quello che la mafia la riconosce a un miglio, alla fine se l’è ritrovata in casa.

Avanti così.

Buon mercoledì.

 

La spia che se ne andò al freddo

Una delle uniche immagini pubbliche note di Kim Philby negli anni dell'esilio. Un video, ripescato dalla Bbc da vecchi archivi il 4 aprile 2016, ha restituito alla memoria degli spettatori britannici il volto elusivo della piu' famosa (o famigerata) superspia del cosiddetto 'gruppo di Cambridge', che tradi' Londra per l'Unione Sovietica in nome della fede comunista e riusci' infine a rifugiarsi a Mosca. ANSA / FERMO IMMAGINE DA VIDEO BBC +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING; NO TV+++

C’era una volta un comunista a Cambridge. Si chiamava Kim Philby e agli occhi della società era un eccentrico socialista, non sospetto perché alto borghese e ricco. Divenne un agent, o meglio un aghent. Ovvero una spia di Mosca, che ora celebra le imprese della più famosa spia britinglese al soldo dei servizi segreti russi con una mostra.

Sangue freddo, speranze comuniste e non molto altro. Così hanno scritto la sua carriera leggendaria. Agente doppiogiochista, negli anni della guerra fredda ne ha combattuta una tutta sua, estremamente segreta. Divenendo il più eminente rappresentante di quella che chiamavano la “cinquina di Cambridge” (Cambridge five), un gruppo ristretto di spie filosovietiche inglesi che per anni hanno passato a Mosca documenti e informazione segrete.

All’inaugurazione della mostra su Philby c’erano anche diversi agenti segreti da lui addestrati. Uno di questi è più famoso degli altri. Si chiama Sergej Naryshkin ed è il direttore del servizio dell’intelligence russa all’estero.

Sui documenti ora visibili a tutti, sotto una teca di vetro, fino a un decennio fa c’era scritto top secret. La spia di Cambridge passò all’intelligence russa informazioni e dati, migliaia di documenti sensibili, tra cui il tentato assassinio di Hitler o l’incontro del Fuhrer con Mussolini.

Rimase sotto copertura per oltre trent’anni, dal 1930 al 1963, quando scappò a Mosca, dove morì senza mai imparare a parlare russo. Apprezzava Felix Dzerzhinsky, fondatore della polizia segreta, e Rufina Pukhova, che amò e sposò. Morì da comunista, continuando a chiamare la sua patria «una terra di lupi» e la Russia «una terra di compagni».

Donne senza fissa dimora, vittime invisibili dell’indifferenza

20030812 - NAPOLI - ESTATE: CONTINUA IL CALDO E AL' AFA A NAPOLI - Sole ed afa non allentano la morsa ed allora anche l'ombra ottenuta con mezzi di fortuna puo' essere d'aiuto come per la barbona in piazza Garibaldi a Napoli . Ciro Fusco/ANSA/DEF

Derubata, legata, picchiata e stuprata mentre stava preparandosi il giaciglio per passare la notte, a Villa Borghese a Roma. Ma è solo l’ultimo caso, in ordine di tempo: la violenza subita dalla donna senza fissa dimora è soltanto «l’iceberg di una serie di soprusi e reati di cui persone come lei sono vittime, spesso taciuti dai media mainstream», dice a Left, il presidente di Avvocato di Strada, Antonio Mumolo.
Il caso in questione sfata quello stereotipo culturale, tanto presente nell’immaginario collettivo, che da una parte vuole i senza fissa dimora colpevoli di stare in una condizione che si sono cercati, e dall’altra li designa come artefici delle violenze.

«Quest’ultimo episodio, drammatico sia per l’avvenimento sia per la persona, è un esempio che smentisce tutto ciò», dichiara il presidente della cooperativa sociale Europe Consulting Onlus, Alessandro Radicchi. L’essere senza fissa dimora è, invece, una condizione che può interessare chiunque e «tutti, uomini e donne, vorrebbero stare da un’altra parte, non sulla strada», aggiunge il vicepresidente, Fabrizio Schedid.

«Il problema – sostiene, senza mezzi termini, Radicchi – è legato al fatto che non ci sono sufficienti luoghi per dare accoglienza, soprattutto alle donne, costringendole a scegliere dei posti per passare la notte che le espongono alle violenze più crude. Perché la capacità di accoglienza istituzionale a Roma, per esempio, è ridotta: ottocento i posti notturni (e duecento diurni) istituzionali messi a disposizione, di cui circa 150 dedicati al circuito dei padri separati e madri con bambini e 650 agli adulti in difficoltà».

Ma, numeri alla mano, nel 2016, «a fronte degli ultimi dati Istat che stimano 7700 persone senza fissa dimora nella Capitale, la realtà dei fatti, invece, conta sedicimila persone che hanno chiesto aiuto ai servizi della Direzione accoglienza del Dipartimento politiche sociali di Roma capitale, di cui undicimila persone senza dimora si sono rivolte alla Sala Operativa Sociale e seimila immigrati in protezione umanitaria al circuito dell’assistenza ai migranti. Tra questi ultimi, in particolare, c’è circa un 10 per cento che è uscito dal circuito dell’accoglienza istituzionale dello Sprar (o non vi è mai entrato) ed è finito in quello delle persone che vivono in abitazioni insicure, ovvero senza propria dimora stabile», spiega.

Ed è così che i conti non tornano: «Proprio partendo dalle 7700 persone stimate dall’Istat, il ministero ha stabilito, lo scorso anno, i fondi del Piano operativo nazionale, riservando a Roma un importo pari a 5 milioni di euro, su 50 milioni per tutt’Italia, di cui 13 milioni a Milano, un Piano dunque non adeguato alle vere esigenze e chiaramente insufficiente a far fronte al problema».

Fra le persone senza fissa dimora, il 30 per cento circa sono donne. Tante ma meno degli uomini. «Perché le caratterizza una maggiore capacità di resistere che le porta a cercare una via d’uscita prima di finire sulla strada: avendo un maggior attaccamento alla rete parentale, riescono, talvolta, a trovare dei luoghi di accoglienza fra i famigliari», racconta Radicchi.

«Hanno maggiore resilienza – conferma Schedid – più possibilità di trovare lavoro come badanti che assicura loro anche un alloggio e sono, pure, dotate di maggior pudore. Lo si vede dalla difficoltà a chiedere aiuto e dalla cura del corpo. Che è, anche, indice di un riconoscere che esiste un altro essere umano al quale proporre un’immagine dignitosa.

Sono più coraggiose, hanno più rapporto con la realtà e sempre una speranza perché, sempre, mantengono un pensiero per qualche affetto che, da qualche parte intimamente, è rimasto custodito». E, però, «laddove non riescono a salvarsi, è più facile che il tutto abbia conseguenze psichiche, più intense rispetto agli uomini, che le portano all’isolamento con i drammatici epiloghi che lo stupro della donna senza tetto ha rivelato», conclude Schedid.

Più vulnerabili degli uomini, diventano, come loro, completamente invisibili «perché, nel momento in cui perdono la casa, perdono la residenza, e, collegata com’è a una serie di diritti soggettivi del cittadino, a quel punto, non hanno più nulla: niente carta d’identità, nessun diritto previdenziale, alla salute e al welfare e nemmeno i diritti politici», specifica Mumolo.

E continua: «Spesso, con una causa legale che restituisce loro l’identità, escono dalla strada e per le donne (nel 2016 sono state il 30 per cento delle 3700 persone che si sono rivolte ad Avvocato di Strada) diventa più facile perché riescono a rientrare in un circuito di welfare locale che consente loro di intraprendere una serie di percorsi salvifici». E di ripartire da via Modesta Valenti.

Pirozzi, Amatrice e l’indignazione “pro domo sua”

Il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, lascia palazzo Chigi al termine dell'incontro con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, Roma, 26 giugno 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

A Roma in molti sono sicuri: per il sindaco Pirozzi è già pronto lo scranno in Parlamento sotto la bandiera di Fratelli d’Italia, con la benedizione di Giorgia Meloni e lui, il sindaco simbolo di Amatrice (che faticosamente cerca di sollevarsi dal terremoto), ha capito bene che per iniziare la “campagna elettorale” (qualcuno dice anche in vista delle prossime elezioni regionali nel Lazio) serviva la “notizia” che attraversasse tutti i giornali.

Così alla festa di Atreju ha urlato tutta la sua indignazione dicendo che «nessun euro degli sms solidali» era arrivato ad Amatrice, ha parlato di «gestione sciagurata» da parte della Protezione Civile e per di più ha giudicato «poco saggi» i membri del Comitato dei Garanti che ha stabilito la destinazione dei fondi. Poi, per il solito gioco perverso del giornalismo e un po’ per il giochetto del telefono senza fili, la notizia è stata storpiata in “spariti i soldi degli sms per i terremotati”. Così. Nuda e cruda.

E poi? Poi è intervenuta la Procura (ovviamente) e Pirozzi capisce che è meglio correggere il tiro. «La Protezione civile non c’entra nulla. Non ho mai detto che i fondi degli sms sono spariti», dice Pirozzi, che aggiunge: «Ho detto, e lo ribadisco – aggiunge il sindaco di Amatrice – che in merito alla gestione di quei fondi è stata fatta una scelta scellerata che non ha tenuto conto degli italiani».

E la Procura? «Secondo quanto abbiamo appreso dai giornali si va secondo me verso l’insussistenza della notizia di reato, perché se i fondi raccolti sono confluiti nelle casse della Protezione civile il fatto si rivelerà una grossa bolla di sapone» dice il procuratore di Rieti Giuseppe Saieva che smonta così il caso dei fondi raccolti per Amatrice e Accumoli con gli sms solidali.

E per vedere dove sono finiti quei soldi basta leggere un articolo del 31 luglio scorso su Vita, a firma di Gabriella Meroni che elenca, centesimo per centesimo, tutti i progetti: «Gli sms sono infatti destinati essenzialmente a progetti che vanno a favore di intere comunità, e non di singoli o famiglie (non servono, per intenderci, a ricostruire le case distrutte), e l’utilizzo dei fondi raccolti in questo modo viene accuratamente monitorato da un Comitato di Garanti. Restauro di otto scuole, un centro commerciale, due centri di comunità, una strada, recupero di beni artistici e costruzione di sette piazzole per elisoccorso: a questo, in sintesi, serviranno i quasi 23 milioni destinati dagli italiani ai terremotati via sms, così come è stato deciso nell’ultima riunione del Comitato, svoltasi il 17 luglio».

E Pirozzi? Pirozzi non partecipò alle riunioni del Comitato istituzionale per la ricostruzione post-terremoto: dai verbali, infatti, si evince che non ci fu nessun voto contrario alle decisioni prese. Nessun voto contrario. Nemmeno Pirozzi.

Così i problemi (veri) della ricostruzione finiscono sotto la polvere di una polemica che desta più di qualche perplessità. «Oggi il fuoco nemico non mi darà pace, perché io sono un personaggio scomodo che dice sempre la verità»: dice Pirozzi. E anche questa è la frase tipica da campagna elettorale. Avanti così.

Buon martedì.

Dopo Firenze, il ministro Minniti verrà contestato anche a Roma

Il ministro dell'Interno Marco Minniti ad "Atreju", la festa di Fratelli d'Italia, Roma, 23 settembre 2017. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Il ministro dell’Interno Marco Minniti il 26 settembre risponde alle domande di Enrico Mentana presso l’Ex mattatoio di Roma al Testaccio, di fronte al pubblico amico della festa dell’Unità. Ad attenderlo, però, ci sarà anche il pubblico “meno amico” di attivisti e centri sociali, radunati sotto l’insegna “Minniti, Roma non ti vuole!”.

I manifestanti bocciano Minniti su tutta la linea: «Da un lato – si legge nel comunicato dei militanti di sinistra – gli attacchi e le restrizioni alle Ong che negli anni hanno salvato migliaia di vite nel Mediterraneo, gli accordi e i finanziamenti a Niger, Libia e Ciad per costruire veri e propri lager dove i migranti vengono detenuti tra violenze e soprusi. Dall’altro le politiche liberticide del decreto sicurezza, che in nome di una distorta idea di decoro attaccano gli ultimi, invece di combattere la piaga dell’impoverimento promuovendo politiche di welfare e l’estensione dei diritti. Lo zelo nella pulizia sociale del centro sinistra è tale, che incontra anche il plauso della destra neofascista».

Nella nota viene poi ricordato il «vergognoso sgombero dei/lle rifugiati/e di piazza Indipendenza», per poi concludersi così: «Rifiutiamo ogni razzismo, sia quello di Minniti sia quello speculare delle destre xenofobe che indicano nei migranti un facile capro espiatorio».

Anche a Firenze, dove il capo del Viminale il 23 settembre ha presenziato al Festival delle Religioni, una folta platea di manifestanti, in gran parte costituiti dai Comitati di lotta per la casa, si è trovata alle 10.30 davanti alla Prefettura per “dare il benvenuto” al ministro, al grido di «O le case, o le barricate».

A definire «criminale» la politica di Minniti, perché «esprime una visione razzista della società», è anche il fondatore di Emergency Gino Strada. Potete trovare la sua intervista su Left n.38 in edicola.

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Asgi: L’Italia e l’Europa hanno la responsabilità morale dei nuovi naufragi

La mano di un profugo assistito all?interno di un tendone fuoriesce, in una immagine presa all'arrivo nel porto di Reggio Calabria della nave militare "Vega" con a bordo 629 migranti e 45 corpi recuperati in mare dopo l'ennesimo naufragio avvenuto al largo della Libia, 29 maggio 2016. ANSA/ GIORGIO NERI

«I nuovi naufragi con oltre 100 morti avvenuti negli ultimi giorni in “acque di competenza libica” potevano essere evitati» Lo scrive in una nota l’Asgi-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. «L’Unione Europea, e l’Italia in particolare – prosegue l’Asgi – ne portano la tremenda responsabilità morale». Il motivo è presto detto e facilmente intuibili. «L’area nella quale i tragici fatti si sono svolti è infatti un’area nella quale fino a poche settimane fa operavano le attività di ricerca e soccorso realizzate dalle organizzazioni umanitarie e dalle unità navali italiane». Come è noto, in luglio, queste attività sono progressivamente cessate sia a seguito delle pressioni esercitate dal governo italiano attraverso il cosiddetto “codice di condotta” elaborato dal ministro Minniti e imposto alle organizzazioni umanitarie, sia a seguito della proclamata competenza da parte della Libia della propria area SAR, comunque non riconosciuta dall’Organizzazione marittima internazionale delle Nazioni unite.

Secondo l’Asgi, «questa situazione ha costretto le organizzazioni umanitarie, già oggetto di incredibili campagne di denigrazione e delegittimazione, a ritirarsi dall’area di operazioni nella quale operavano. In violazione delle convenzioni internazionali sugli obblighi degli Stati nel predisporre misure adeguate a garantire il soccorso in mare, l’area di cosiddetta competenza libica è divenuta di fatto una sorta di “area di nessuno”, nella quale le attività di soccorso non vengono affatto garantite, come le stesse specifiche dinamiche del naufragio di cui si è venuti a conoscenza, con i pochi superstiti rimasti in balia del mare per giorni permettono di evidenziare con chiarezza». Va sottolineato, inoltre, «come non sia purtroppo possibile stabilire quante altre tragedie siano avvenute nelle settimane scorse e di cui l’opinione pubblica internazionale non è a conoscenza perché i singoli episodi, anche per dimensioni, sono stati facilmente occultati da parte di chi oggi precariamente controlla pezzi del territorio libico».

Boom demografico, il Pakistan in difficoltà. Impossibile garantire cibo, sanità e istruzione

«Ho imparato come nascono i bambini da un magazine che si chiamava Happy Home. Era stato pubblicato dal dipartimento pakistano del Ministero della Popolazione, che doveva incoraggiare le persone ad avere meno figli». Mohammed Hanif, l’autore di queste righe, vincitore di svariati premi prestigiosi destinati agli scrittori di lingua inglese, aveva dieci anni all’epoca e si ricorda l’illustrazione su quel giornale.

«Un uomo, una donna, due bambini paffuti sono seduti intorno ai fornelli e mangiano. Ho concluso allora che i bambini venivano concepiti mangiando, intorno ai fornelli. Quando i risultati del censimento della popolazione in Pakistan sono stati resi noti il mese scorso, sembravano indicare che il messaggio di Happy Home era stato frainteso da molti». La popolazione pakistana conta oggi 207 milioni di persone. È aumentata del 57% dall’ultimo censimento datato 1998. Il Pakistan è diventato così il quinto stato più popoloso del mondo.

«In 150 anni, ha detto il fisico Pervez Hoodbhoy, il Paese sarà come una stanza dove tutti potranno solo stare in piedi». Dove non c’è spazio. Dove non stanno crollando solo le limitate risorse e i carenti servizi. «Un ottavo dei bambini che al mondo non vanno a scuola, sono in Pakistan. E le conversazioni su come si fanno i figli non sono cambiate molto dai tempi di Happy Home, quaranta anni fa». Nonostante gli avvertimenti sull’esplosione demografica, nel Paese non si parla ancora di controllo delle nascite, «perché parlare di controllo demografico, vuol dire parlare di sessualità e non puoi farlo né in tv, né alla radio, né nei villaggi, né in Parlamento». Le pubblicità di preservativi sono vietate e «sesso rimane una parola sporca. Come se pronunciarlo e farlo fossero la stessa cosa», scrive Hanif: «Noi non parliamo di sesso nemmeno con la persona con cui lo facciamo».

Per i poveri del Paese, la stragrande maggioranza della popolazione, i bambini sono fonte di reddito, cominciano a lavorare a 5 o 6 anni. Il governo pakistano poteva coinvolgere il clero per sfatare il mito della contraccezione, considerata anti-islamica, ma non l’ha fatto. Potevano fare lo stesso con il vaccino contro la polio, che per molti «era solo una copertura di una cospirazione americana per sterilizzare i pakistani. Poi il governo ha mandato gli imam in tv per spiegare che non era desiderio di Allah rendere zoppa la nuova generazione».

Com’eri vestita? Eccolo in mostra

Un maglione rosso e una gonna nera. C’è un costume da bagno, un normale costume da bagno. E poi una polo. Una maglietta arancione. «Com’eri vestita» è la domanda velenosa e liquida che si pone alle donne vittime di violenza, il primo senso di colpa si infila proprio lì, sulla colpa di essere “sembrata disponibile” addirittura per gli abiti che indossi.

Così al quarto piano dell’Università del Kansas studenti e professori hanno deciso di metterli in mostra, quegli abiti della vergogna che diventano un’onta per le vittime prima ancora dei carnefici: «vorremmo – ha detto Jen Brockman, direttore del centro – che la gente possa rendersi conto che questa idea dei vestiti che sono causa delle violenze è completamente falsa».

La giornalista Rebecca Gannon ha pubblicato alcune foto dal suo profilo Twitter e basta guardare le immagini per percorrere in pochi istanti l’abisso che c’è tra le mostruose strumentalizzazioni che agitano le bocche marce di certa stampa e di certi politici e la drammatica normalità del dolore e della violenza.

Una mostra che è un manifesto perché “manifesta” le bugie mostrando la verità. E ho pensato che è un atto bellissimo: politico, artistico, culturale e sociale tutto insieme. Come dovremmo essere noi ogni volta che incrociamo una bugia che, anche se ripetuta milioni di volte e infiocchettata con una narrazione irresistibile, abbiamo il dovere di affondarla con l’emersione dei fatti, piuttosto. La cultura, appunto.

Buon lunedì.

La fabbrica della bellezza Salviamo il museo Ginori

La fabbrica della bellezza

«L’acquisto è una bella notizia: finalmente si sblocca una situazione di stallo che durava da troppo tempo e la splendida collezione di porcellane avrà il rilancio e la visibilità che merita», commenta il sindaco di Firenze Dario Nardella: «Adesso è il momento di rilanciare l’azienda e di salvare i posti di lavoro superando l’empasse che ha portato i dipendenti a proteste come scioperi e occupazioni». Il sindaco di Sesto Fiorentino Lorenzo Falchi ha invece detto: «Manifesto, oltre alla grandissima soddisfazione, la massima disponibilità del Comune di Sesto a discutere con tutti i soggetti interessati alle forme di gestione del Museo Ginori che, dopo l’acquisto dovrà essere il primo punto dell’agenda per il suo rilancio. E per questo ripropongo l’idea della fondazione di partecipazione: una fondazione mista pubblico privata con soggetti istituzionali e soggetti del territorio». Così commenta l’acquisto del museo da parte del Mibact il sindaco di Sesto fiorentino Lorenzo Falchi. «Spero che questo possa essere di stimolo verso il governo per continuare a lavorare con ancora più forza alla soluzione per la permanenza e il rilancio della manifattura Ginori a Sesto Fiorentino».

«Non fermate le mani che creano la bellezza». Queste parole campeggiavano su uno striscione apparso nel Museo nazionale del Bargello sabato scorso. Nell’ultima settimana di apertura della mostra La fabbrica della bellezza (fino al primo ottobre) dedicata alle più importanti creazioni della Richard Ginori sono gli stessi operai della storica manifattura di ceramiche a far sentire la propria voce perché 300 posti di lavoro sono a rischio dopo che la DoBank, banca creditrice di Ginori Real Estate, ora in liquidazione, assieme a Bnl e Popolare di Vicenza, ha detto no alla vendita alla Richard Ginori dei terreni su cui sorge. L’offerta vincolante, si legge in una nota sindacale, era stata presentata il 6 giugno scorso quando l’accordo sembrava ormai raggiunto tra le parti e con il ministero dello Sviluppo economico, il Comune di Sesto Fiorentino e la Regione Toscana.

Si carica dunque di nuovi significati politici l’esposizione al Bargello curata da Tomaso Montanari e Dimitrios Zikos. Con il catalogo edito da Mandragora il progetto era nato per salvare il museo collegato alla Richard Ginori. Chiuso da tre anni e ormai pieno di muffe non fu acquistato dal marchio Gucci quando acquisì la fabbrica nel 2013. Ma ora, come accennavamo, il quadro si complica: da salvare non è più solo la collezione di 8mila ceramiche e maioliche prodotte a Sesto nel corso di quasi quattro secoli ma anche la produzione odierna a cui concorrono con arte e competenza numerosi ceramisti oggi. In una serie di 21 video-ritratti Matilde Gagliardo ne ha raccolto le storie. Grazie alla video-installazione La fabbrica della bellezza la Manifattura Ginori e il suo popolo, i loro volti, le loro parole, il loro lavoro, il 23 settembre, sono comparsi sulle pareti del cortile del Bargello. La storia della manifattura Ginori così ha acquistato umanità e maggiore spessore; visitando la mostra suddivisa in sei sezioni tematiche, parevano meno fredde le monumentali figure di porcellana uscite dall’azienda fondata dal marchese Carlo Leopoldo Ginori nel 1737 a Doccia, vicino a Firenze.

Per allargare la produzione anche alle grandi sculture andò a caccia di forme nelle botteghe appartenute agli scultori del tardo Rinascimento e del Barocco e acquistò modelli dagli atelier degli scultori del suo tempo: così le fornaci di Doccia furono in grado di produrre anche gruppi scultorei di grandi dimensioni. Accanto a quelle realizzazioni complesse e un intero camino antico in ceramica spiccano soprattutto le riduzioni dell’Aurora e del Crepuscolo ideate da Michelangelo per le Cappelle Medicee.

Aggiornamento del 27 novembre 2017:
Il ministero dei Beni culturali acquisterà il Museo Ginori e la sua collezione di ceramiche antiche, grazie a un procedimento regolato dalla norma del 1973, che prevede la possibilità di pagare le imposte dirette tramite cessione di beni culturali. Il nuovo museo farà parte del Polo museale della Toscana. Ma resta aperta la questione della fabbrica Ginori (rilevata dal marchio Gucci) dove molti lavoratori sono a rischio.

Non c’è femminismo senza antirazzismo

foto dal fb di nonunadimeno Firenze

Le opposte chiavi di lettura che media e politica hanno adottato per parlare del caso degli stupri di Rimini, per i quali sono state arrestate quattro persone di origine africana, e di quello di Firenze, dove gli accusati sono due italianissimi carabinieri, hanno messo in luce quanto gli usi strumentali del corpo delle donne e dei migranti siano radicalmente intrecciati. Due fatti simili, due letture diverse, ma in ballo ci sono migliaia di voti da mettere in cascina, quale che sia il prezzo da pagare. C’è pero chi se ne è accorto, e lo denuncia con forza.

«Quando è utile ai fini razzisti, allora la donna è una “povera vittima indifesa” da proteggere dall’immigrato, maschio, brutto, stupratore delle “nostre” donne, retorica utilizzata dalla destra ma anche da alcune delle forze cosiddette “di sinistra”; quando invece ad essere indagati sono membri delle forze dell’ordine, allora la discussione scivola incredibilmente sulle responsabilità delle donne, sulla loro imprudenza, sulle loro condotte, sui rischi dello sballo del sabato sera».

A parlare è Tatiana Montella, avvocato e attivista romana del collettivo Degender Communia e di Non una di meno: un movimento vivace, femminista, che muove una feroce critica a queste strumentalizzazioni, tiene insieme lotte diverse, e ha dimostrato di essere in grado di riempire piazze in tutto il mondo. Dopo aver portato nel cuore di Roma 200mila persone lo scorso 26 novembre, e dopo lo sciopero dell’8 marzo che ha cnoinvolto circa 40 Paesi, Montella spiega quali sono prossimi obiettivi del movimento e qual è il segreto di tale successo.

«Una delle carte vincenti è stata sicuramente la capacità di assecondare la volontà di mobilitazione delle donne, a partire da questioni sulle quali da tempo si era sedimentata una necessità diffusa di reagire: il femminicidio, il diritto alla salute e all’aborto, l’uso strumentale del corpo delle donne. Il movimento è stato in grado di tradurre questa necessità in azioni concrete».

Tutto ciò, in una prospettiva che supera non solo i confini nazionali, ma anche quelli generazionali…

L’intervista a Tatiana Montella prosegue su Left in edicola


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