Home Blog Pagina 834

Bolaffi: La Germania vuole imporsi come “modello”

Election posters of German Chancellor Angela Merkel (CDU,L) and her main rival Martin Schulz (SPD, R) are seen as a cyclist cross Yorckstrasse in the Schoeneberg neighbourhood in Berlin on September 17, 2017. / AFP PHOTO / Odd ANDERSEN (Photo credit should read ODD ANDERSEN/AFP/Getty Images)

Germanista e filosofo Angelo Bolaffi è stato professore universitario a La Sapienza di Roma e direttore, dal 2007 al 2011, dell’Istituto di cultura italiana di Berlino. Numerosi i saggi pubblicati che riguardano il modello politico tedesco, esaminato da ogni angolazione. Sempre per Donzelli, nella collana Saggine, è da poco uscito il libro che Bolaffi ha scritto insieme all’economista Pierluigi Ciocca, dal titolo Germania/Europa. Due punti di vista sulle opportunità e i rischi dell’egemonia tedesca.

I due autori si sono spartiti l’analisi attualissima della nazione più potente d’Europa, il baricentro del continente, come la definisce il filosofo romano, per riflettere sulle possibilità che oggi ha di esercitare una reale leadership. Ciocca, dal canto suo, offre un parallelo interessantissimo, riflettendo sullo status della nazione di creditrice, un tempo indefessa debitrice. Per avvicinarci a questo loro lavoro abbiamo rivolto alcune domande ad Angelo Bolaffi, che si appresta a partire per un piccolo tour di presentazioni in tutta Italia.

In questo scenario globale, fra Trump, Putin e Macron, la signora Merkel “rischia” di passare per la paladina dei diritti umani?

Non rischia, a mio avviso, la Cancelliera è la paladina dei diritti umani. O meglio ha difeso più che i diritti umani, i valori occidentali, storicamente difesi dall’“anglo-sfera”, ossia dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti d’America. Paesi, osserviamo, che oggi si sono incamminati su una tradizione politica che non è quella che inaugurarono nella lotta al fascismo.

Parlando di casa nostra, Berlusconi si sta riallineando al partito popolare della cancelliera Merkel, che ne pensa?
Non ne penso granché bene. Penso che sia un brutto risultato di una situazione pessima italiana; sarebbe stato molto meglio che delle forze della sinistra progressista e democratica avessero fatto proprie, in maniera convinta, com’è nella loro storia, i valori dell’europeismo…

L’intervista di Alessandra Grimaldi ad Angelo Bolaffi prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Ius soli, «il centrosinistra è troppo simile alla destra»

La preside Maria Teresa Furci accoglie gli studenti per l'inizio dell'anno scolastico 2017/2018 alla scuola Drovetti in Via Bardonecchia, Torino, 11 settembre 2017 ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

«Chi amministra deve pensare al consenso, ma quando si tratta di bambini uno può perdere le elezioni, non può perdere l’umanità». Antonio Decaro, «assolutamente favorevole allo ius soli», è presidente dell’Anci ma preferisce parlare a titolo personale come sindaco di Bari, perché, dice, in Italia ci sono 8mila comuni e ogni primo cittadino «ha la propria sensibilità e posizione politica». La sua, l’ha dimostrata a metà luglio, quando al porto di Bari ha attraccato una nave con 643 migranti a bordo. «La nostra è una città accogliente, qui 25 anni fa si è verificato il primo grande flusso migratorio, con ventimila albanesi sbarcati tutti insieme». Ma stavolta qualche problema c’è stato – racconta – dopo l’appello rivolto ai suoi concittadini per chiedere cibo e vestiti per le persone appena arrivate. «Nonostante le polemiche di quei giorni sono stato orgoglioso di essere stato il sindaco di un Paese che non ha sbattuto la porta in faccia a un bambino appena nato durante il viaggio in mare. Ricordo quel momento: era in mezzo ai migranti, in braccio a un volontario e, nonostante quel giorno ci fosse un sole accecante, quel bambino ha aperto gli occhi. Io ero lì, per me è stato come se fosse nato una seconda volta» sottolinea Decaro, eletto nelle file del Pd, ma che adesso, precisa, è «solo sindaco, senza tessera di partito». I tempi sono cambiati da quando nel 2011 Graziano Delrio, allora primo cittadino di Reggio Emilia e presidente dell’Anci, guidava la campagna di raccolta firme per l’Italia sono anch’io. Adesso lo ius soli viene agitato come spauracchio dalla destra per incutere paure senza senso, tra minacce di invasioni e malattie. E mentre i titoli dei giornali di destra salutano con un “Ciaone” la legge sulla cittadinanza rimasta al palo, il centrosinistra si dimostra impotente nel condurre una battaglia culturale per una legge simbolo di democrazia. Come è noto, alla ripresa dei lavori al Senato dove la legge è ferma, il capogruppo Pd Zanda ha preferito non calendarizzarla nel mese di settembre per «mancanza di numeri». Eppure il Pd nella campagna elettorale del 2012 con Bersani segretario aveva messo come primo punto proprio la legge sulla cittadinanza. Perché abbandonare 800mila giovani italiani senza cittadinanza, nati in Italia o arrivati qui da bambini? «Lo ius soli è finito in un binario morto all’interno di uno scambio di potere con Angelino Alfano legato all’accordo sulla legge elettorale e sulle elezioni in Sicilia», afferma Arturo Scotto deputato di Mdp. Poiché Ap di Alfano aveva votato la legge alla Camera, dice Scotto, «mi sarei aspettato che che il Pd facesse un appello al centrodestra invece di rinunciare». Di rinunce a una propria autonomia….

 

L’articolo di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Rivoluzione

Come spesso accade, sempre più spesso ultimamente, lo stupro assume nel modo come viene recepito e comunicato dai media, come un fatto di maggiore o minore gravità, se non addirittura di completa inesistenza della violenza, a seconda di chi è che commette il reato.
Lo stupro diventa il tentativo di sottomissione della donna bianca da parte dell’invasore straniero. Meglio ancora se lo straniero è di colore o proviene dall’Africa.
Oppure lo stupro diventa la provocazione della donna se l’uomo che commette il reato è in divisa e rappresenta l’istituzione.
I media instillano l’idea che l’uomo straniero che violenta la donna italiana sia diverso dall’uomo bianco che violenta la donna straniera.
Naturalmente non c’è nessuna differenza.
La domanda da farsi è invece: qual è il motivo per cui un uomo violenta una donna?
Per rispondere a questa domanda va prima osservato che la sessualità umana non ha come fine la procreazione. La sessualità umana è uno stare insieme fine a se stesso. Questo stare insieme diventa realizzazione con la separazione. La realizzazione dell’uno che è anche e per la realizzazione dell’altro e viceversa. È una nascita. Se vogliamo trovare un fine della sessualità è il separarsi essendo diversi da come si era prima di incontrarsi.
Che la sessualità possa essere realizzazione personale è qualcosa di inconcepibile per la nostra cultura basata sul pensiero giudaico-cristiano e logico razionale. Che poi lo sia anche per la donna ancora di meno.
Anche per questi argomenti Massimo Fagioli sosteneva che il violentatore è in realtà un impotente, ossia colui che in realtà non è in grado di avere rapporto con la donna se non con la violenza fisica. Questo perché il violentatore annulla la realtà interna della donna. Rimane solo il corpo che viene violentato come fosse un fantoccio, un oggetto inanimato.
Nella violenza sessuale non c’è in realtà nessuna sessualità. Ed è in questa assenza la violenza maggiore che la donna subisce.
Il violentatore vuole imporre alla donna il pensiero che una sessualità libera e felice che sia realizzazione non esiste. Perché prima di tutto per lui non esiste. La verità del rapporto sessuale che è il massimo della realizzazione di rapporto di due amanti viene detto essere in realtà violenza e non amore.
In altro modo è stato trattato il caso dell’uccisione della ragazzina pugliese uccisa dal suo ragazzo diciassettenne.
È evidente la malattia grave del ragazzo, già ricoverato due volte malgrado abbia solo 17 anni. Ancora più grave è il fatto che nessuno degli operatori sanitari che lo avevano in cura avesse ipotizzato una sua pericolosità malgrado i numerosi segnali molto evidenti.
Uno psichiatra avrebbe dovuto leggere nell’episodio dell’aggressione alla macchina una richiesta d’aiuto del ragazzo: “sto per fare del male a qualcuno, fermatemi!”
Dovevano perlomeno avvertire la ragazza, dirle di stare attenta, di non frequentare il ragazzo. Dirle che una psicosi grave come quella a volte può sfociare in atti violenti senza un motivo apparente.
La ragazza probabilmente non vedeva o non voleva vedere. Forse pensava di poterlo controllare, di farlo calmare. Forse pensava che la grandezza del suo amore lo avrebbe salvato. Forse è anche per questo che lui l’ha uccisa.
Nessuno le ha fatto vedere la realtà della grave malattia del suo ragazzo, la violenza nascosta in quella malattia. L’avrebbero potuta salvare.
In realtà lei, insieme al ragazzo che l’ha uccisa, è la vittima della cultura stupida e violenta con cui abbiamo a che fare tutti i giorni.
È la cultura che dice che la pazzia non esiste, che la malattia mentale non esiste, che quello del pazzo è solo un modo di essere al mondo. Secondo questo pensiero non essendoci malattia mentale non c’è sanità mentale. E non essendoci malattia non esiste cura.
Questo pensiero porta con sé una logica che dice che la violenza, quando c’è, è l’espressione naturale della realtà umana.
I due episodi così distanti hanno un pensiero che li accomuna, un pensiero sugli esseri umani e la loro natura più profonda.
La natura umana sarebbe perversa e naturalmente cattiva fin dall’origine. La nascita sarebbe violenza e cattiveria innate.
Questa costruzione di pensiero ne nasconde un’altra e cioè che la nascita umana, intesa come quella dinamica che è l’inizio del pensiero umano scoperta da Massimo Fagioli, non esiste.
La nascita è invece realizzazione di un proprio io che compare come reazione allo stimolo inanimato della luce sulla retina, la fantasia di sparizione del mondo inanimato e conseguentemente creazione di un’idea-immagine di un rapporto con un altro essere umano, ossia con una realtà non-inanimata. Compare la certezza dell’esistenza di un seno con cui avere rapporto.
È un idea rivoluzionaria perché pone l’inizio dell’essere sociale e politico dell’uomo alla nascita: la fantasia originaria dell’essere umano è quella di avere rapporto con un altro essere umano. L’essere umano è un essere sociale e politico, fin dalla nascita!
Tutti questo deve essere distrutto. Si pensa il bambino come l’esatto opposto.
I genitori, la società, la cultura devono costringerlo ad essere un bravo cittadino. Devono convincerlo a limitare la sua cattiveria innata convincendolo prima di tutto di essere spontaneamente cattivo.
Il modo? Semplice. Violentando il desiderio di rapporto del bambino.
Convincendo le madri, che hanno rapporto con lui, che il bambino non esiste, che in realtà è un animale, un non-essere umano, nella migliore delle ipotesi un mezzo essere umano.
Questo si ottiene facendo in modo che le donne non abbiano una sessualità libera e felice, convincendole che la sessualità non esiste e se esiste è violenza.
Il primo violentatore delle donne è il pensiero religioso e logico razionale che annulla la loro identità.
Perché se le donne hanno l’identità, potranno realizzare una sessualità libera e felice e avranno poi un rapporto con il bambino che non annullerà la sua nascita.
Questa è la vera rivoluzione.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Sulla pelle delle donne e dei migranti

Siamo sicuri che ci sia una sostanziale differenza fra la visione misogina e razzista del sindaco leghista di Pontida, che rilascia permessi di parcheggio alle donne incinte solo se italiane, e quella del sindaco Pd di Firenze che commentando lo stupro denunciato da due studentesse americane di cui sono accusati due carabinieri, ha detto: «E’ importante che imparino che Firenze non è Disneyland dello sballo»?
A fine estate, ricorderete, Dario Nardella, delfino di Matteo Renzi, era andato al meeting di Comunione e liberazione per presentare un manifesto dei sindaci a favore di politiche peo crescita demografica (auspicando due figli per donna!).
Nel frattempo si mostrava in posa da sceriffo trionfante accanto a cumuli di borse requisite a venditori ambulanti senza licenza. Dettagli? Solo folclore? Il primo cittadino di Firenze, come quello di qualsiasi altro comune, è una figura pubblica e i suoi discorsi e le sue azioni sono legittimamente criticabili dai cittadini che dovrebbe rappresentare (anche se non l’hanno votato).
La campagna elettorale con tutta evidenza è già iniziata e il Pd al pari delle destre la sta giocando sulla pelle delle donne e dei migranti. Beninteso non sono solo gli amministratori locali a renderlo evidente dalla sindaca Pd di Codigoro che alza le tasse a chi affitta ai migranti al sindaco di Nereto che stava per concedere la sala Allende a dei neofascisti per un convegno su Salò. Ma lo si evince chiaramente dall’operato del governo Gentiloni.
Al codice Minniti che va alla guerra contro i migranti e le Ong, colpevoli di fare tutto il possibile per salvare vite umane, Left ha dedicato una storia di copertina di aperta denuncia. Ci torniamo in questo sfoglio esaminando le opacità nella gestione di Cie e Cara e raccogliendo la testimonianza di Gino Strada che non esita a denunciare le politiche «razziste e neonaziste» di questo governo che lucidamente soffia sul fuoco della paura paventando un’invasione di immigrati che non c’è. I media, accusa il medico e fondatore di Emergency, fanno da cassa di risonanza, riportando in modo falso e tendenzioso le notizie su casi di stupro alimentando la paura dello straniero violentatore, quando tutte le statistiche dicono che purtroppo le violenze sulle donne avvengono soprattutto in famiglia da parte di mariti e parenti italianissimi. L’obiettivo è chiaro: criminalizzare i migranti e ricacciare in casa le donne. A spingere in questa direzione non sono solo i manifesti di Forza Nuova esemplati su quelli di epoca fascista, ma contribuiscono anche vademecum per signorine come quello stilato sul Messaggero Lucetta Scaraffia (già collaboratrice dell’Osservatore Romano) candidata a Roma con una lista civica pro Rutelli nel 2008 e che dal 2007, interrottamente siede nel Comitato nazionale per la bioetica, organo consultivo del governo. L’imbarazzante Fertility day varato esattamente un anno fa dal ministro per la Salute, Beatrice Lorenzin, ora pare niente rispetto alla proposta di Scaraffia che dispensa consigli e insegnamenti rivolti alle giovani donne su come non farsi stuprare e su come mettersi al riparo dalla violenza maschile. Sul Messaggero ha scritto che per le donne è meglio «evitare le situazioni pericolose», rassegnandosi alla «necessità di riconoscere i rischi e le debolezze del destino femminile» e di accettare protezione. «Educare le ragazze alla diffidenza» consiglia cattolicamente alle madri e alle figlie comportamenti castigati. Pena l’essere additata come una che se l’è andata a cercare!
In questo Paese, che fino al 1996 giudicava lo stupro un reato contro la morale e che fino al 1981 accettava il delitto d’onore e l’infame “matrimonio riparatore”, il centrosinistra invece di lavorare alacremente per l’evoluzione della società e per il superamento degli ultimi residui della politica patriarcale, per un calcolo politico (sbagliato) e per ideologia (cattolica) rischia di riportare l’orologio indietro di cinquant’anni, annullando le conquiste degli anni Settanta.
Cosa aspetta la sinistra, laica e progressista, a scendere in piazza?

Migranti: 7 giorni alla deriva prima di affondare. Così si muore in Libia ai tempi del codice Minniti

È notizia di ieri che al largo delle coste occidentali della Libia – nonostante il calo di sbarchi in Italia delle ultime settimane – si è verificato un nuovo naufragio di migranti. Stando alla Marina libica, il barcone che li trasportava era salpato venerdi 15 da Sabrata, con circa 130 persone a bordo. Alcuni resti del natante sono stati rintracciati a circa 20km a ovest di Zuara, insieme a 4 cadaveri, fra cui i resti di due donne. Di sette naufraghi salvati, uno è morto successivamente in ospedale. L’ammiraglio Ayob Amr Ghasem – portavoce della Marina libica – ha dichiarato che «oltre cento migranti sono dati per dispersi». La Guardia costiera di Zuara aveva ricevuto una richiesta di soccorso da parte di un barcone in difficoltà.

Ieri sera, la portavoce in Sud Europa dell’agenzia Onu per i rifugiati Carlotta Sami ha retwittato la nota della sede libica dell’Unhcr che fornisce un’ulteriore conferma: l’imbarcazione sarebbe restata alla deriva per almeno una settimana, senza che nessuno sia intervenuto a soccorrerla. Un «orrore devastante», ha poi commentato.

Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr) di Londra, ha dichiarato all’Ansa che: «i flussi sono calati perché alcuni grandi trafficanti, con i quali ci si può rapportare in quanto anche esponenti delle forze di sicurezza libiche, hanno deciso che avevano più da guadagnare nel bloccare i flussi che nel continuarli».

Il ministero dell’Interno segnala 3.970 sbarchi dall’inizio del mese, a fronte dei 16.975 arrivi di settembre 2016.

Ma, in questo momento, sembrerebbero riprese le partenze. Solo nella scorsa settimana circa 3000 migranti sarebbero stati intercettati dalla Guardia costiera libica, mentre 2000 sono stati soccorsi dall’Italia.

Per approfondire il tema delle politiche sull’immigrazione adottate dal governo Minniti-Gentiloni, segnaliamo la storia di copertina di Left n.38, in edicola da sabato 23 settembre

Gino Strada: La politica di Minniti è un atto di guerra contro i migranti

ROME - APRIL 17: Fondator of Italian medical charity Emergency Gino Strada delivers a speech during a demonstration to support three Emergency employees held in Afghanistan over an alleged assassination plot at Piazza San Giovanni on April 17, 2010 in Rome, Italy. (Photo by Ernesto Ruscio/Getty Images)

È finito su tutti i giornali per avere definito il ministro Minniti “sbirro” eppure Gino Strada, fondatore di Emergency, da tempo sta provando a denunciare ben altro che un semplice aggettivo: la situazione libica adottata dal governo miete, giorno dopo giorno, le sue vittime nel silenzio di un pezzo d’informazione e della politica. Per questo abbiamo voluto sentirlo cercando di andare oltre la polemica buona per qualche articolo indignato.

Gino Strada, si è parlato dello “sbirro Minniti” ma sembra che si sia perso il cuore del suo discorso sulla questione umanitaria in Libia. Che ne pensa?
Ovvio, perché ai media non interessa quello che dico ma preferiscono fermarsi sullo “sbirro”. Noi abbiamo fatto un comunicato stampa, tre settimane prima, in cui dicevamo che la politica di Minniti era un atto di guerra contro i migranti. Abbiamo usato esattamente queste parole: “atto di guerra contro i migranti” e quel comunicato non lo ha ripreso nemmeno il giornale delle focolarine… è bastato dire “sbirro”. Questa è la cosa più deprimente dell’informazione italiana.
Ma cosa manca, al di là della politica, per riuscire a raccontare le dimensioni del dramma che si sta vivendo? Mancano gli intellettuali?
Manca l’etica. Mancano i valori e mancano quelle che una volta si chiamavano “le palle”. Mancano etica e valori perché la politica non segue più il principio che poi dovrebbe plasmare la sua azione: in base ai principi si dovrebbero prendere certe scelte. Il caso dei migranti (che ha segnato di fatto la fine dell’Europa: possono andare avanti per vent’anni, gettare centinaia di milioni di euro ma l’Europa è sostanzialmente finita) è un esempio paradigmatico: si è messa in atto la politica “a prescindere”. Se le mie scelte politiche determinano il fatto che alcune persone ci lascino la vita o vengano torturate o vengano stuprate e io non mi occupo di queste cose, che modello di società sto proponendo? La mia visione sociale diventa quella di Pablo Escobar, capisci? Anche lui ha fatto ammazzare non so quante persone in Colombia eppure Medellin in dieci anni si è trasformata da case di fieno e paglia a una città decine di volte più ricca. Non si può prescindere dai principi!

L’intervista di Giulio Cavalli a Gino Strada prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Quale realismo

Il realismo. Alla sinistra viene rimproverata soprattutto la mancanza di realismo.
I commentatori di quasi tutti i giornali ripetono in coro che una sinistra che non abbia come obiettivo un’alleanza con il Pd non tiene conto della realtà. Ed è questa anche la tesi di Giuliano Pisapia, aspirante federatore di quella stessa Sinistra: sempre in nome del realismo.

In nome del realismo bisognava votare sì al referendum costituzionale.
In nome del realismo oggi si invoca una legge maggioritaria che assicuri la “governabilità”.
In nome del realismo si continua a votare la fiducia al governo di Minniti. Anche se si restituisce contemporaneamente la tessera del partito di quest’ultimo, per un’insormontabile questione di diritti umani (così Gad Lerner).
In nome del realismo si continua a parlare di centrosinistra.

Ma che significa, davvero, realismo? Significa andare al governo. Ma per fare che cosa? Ecco, qua il realismo finisce: si vedrà. Per fare quello che si riesce a fare. Ma intanto, ecco, saremo al governo.
Una delle ragioni principali per cui metà del Paese non vota più è che la politica non riesce a cambiare la vita della gente: con un’eccezione importante, perché cambia la vita della gente che fa politica. È in questa confusione (non troppo innocente) tra mezzi e fini che la politica si è persa.
Per uscirne bisogna provare a ridefinire il “realismo”…

L’articolo di Tomaso Montanari prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Hollywood contro Cremlino, la “guerra” corre nel web

«Siamo in guerra. Siamo stati attaccati». Da una spia del Kgb e quella spia è Vladimir Putin. Hollywood contro Cremlino: la battaglia la dichiara Morgan Freeman. È stato il famoso attore americano a dare fuoco alle polveri per la nascita del Cir, Comitee to investigate Russia, il comitato che investigherà il Russiagate, ovvero l’influenza russa nelle elezioni americane del 2016.
«Immaginate questa sceneggiatura: un’ex spia del Kgb, arrabbiata per il collasso della sua patria, sfrutta il caos per salire ai vertici più alti del potere e diventa presidente. Fonda un regime autoritario, poi si concentra sul suo nemico giurato, gli Stati Uniti. E proprio come l’ex spia che è, usa segretamente la guerra cybernetica per attaccare le società democratiche. E vince. Quella spia è Vladimir Putin. Abbiamo bisogno che il nostro presidente ci dica la verità. Il mondo libero conta su di noi. Lo dobbiamo a tutti quelli che hanno combattuto per questa grande nazione».

La Russia è in guerra con noi, dice Freeman. Il fuoco di risposta del Cremlino non si fa attendere: per Peskov, portavoce presidenziale, l’attore è «in sovraccarico emotivo». Per il canale tv Rossia 24 Freeman «fa uso di marjuana». Per la tv 5 di Pietroburgo l’attore«“per diffondere cliches antirussi ha perso milioni di fan». Il canale RT parla di isteria armata.

Due indagini – una del Congresso, una della Nsa, sicurezza nazionale americana – vanno avanti per determinare se «l’intervento russo durante le elezioni americane del 2016» ha determinato la vittoria di Donald Trump. Per il momento evidenze lampanti mancano, prove schiaccianti sono assenti e non hanno permesso agli inquirenti di procedere. Procede invece l’inchiesta della stampa americana contro il presidente Trump, che sta seguendo le impronte digitali russe sul web. Sono le tracce lasciate nella rete da circa 470 account finti, di “fake americans”, americani finti, con indirizzi ip tutti in cirillico. Questi account hanno speso 100mila dollari su Facebook per pubblicizzare post, articoli, materiale compromettente su Hillary Clinton nel 2016. Nonostante l’azienda di Cupertino si sia rifiutata finora di rendere pubbliche queste informazioni, proprio ieri dalla legge americana è stata costretta a cederle.

Una scienziata (scomoda) in Senato

Italian professor of pharmacology and a co-founding director of the University of Milan's Center for Stem Cell Research, Elena Cattaneo, during an audience between Pope Francis and Huntington's Disease patients in Nervi Hall, Vatican City, 18 May 2017. ANSA/CLAUDIO PERI

Senatrice Cattaneo, durante la discussione del ddl sulle vaccinazioni lei ha detto che questa «è una delle più importanti leggi di sanità pubblica della legislatura, quella che più di tante altre migliorerà le prospettive di salute dei cittadini italiani». Eppure la norma è stata approvata non senza “reazioni avverse”. A tal proposito Piero Angela dice in queste pagine (v. Left n. 34-2017) che forse più della scienza è sotto attacco il metodo scientifico, la linearità del pensiero che innerva il metodo scientifico. Lei cosa ne pensa?

Sono d’accordo con Piero Angela ed è grosso modo quello che anch’io sostengo da quando ho iniziato a interessarmi ai rapporti fra scienza e politica. Il metodo scientifico rimane lo strumento conoscitivo più portentoso che l’umanità abbia a disposizione, da alcuni secoli, per controllare i fatti e riconoscere il vero dal falso, procedendo attraverso la progressiva riduzione degli spazi di incertezza e tenendo a bada i nostri pregiudizi e le errate percezioni. È il primo strumento di difesa a presidio della razionalità delle scelte e decisioni. E ci porta delle prove. Non credo sia un caso che esso sia quotidianamente svilito e frainteso. Ad esempio, in decine di anni e studi sperimentali su vaccini o su Ogm (Organismi geneticamente modificati) sono state raggiunte evidenze oggettive circa l’efficacia dei primi o la non nocività dei secondi (cui si associano altri benefici per l’uomo). Considerarli pericolosi non è quindi un’opinione come un’altra. È solo una falsa credenza, una convinzione soggettiva e ideologica, che viene alimentata per raggiungere obiettivi diversi da quelli dichiarati. È questa la “post-verità” tanto in voga, cui almeno linguisticamente ci siamo arresi, e che non è altro che la difesa fanatica del “falso”, del “non empiricamente controllato”, promosso a “verità alternativa”.

Le reazioni “avverse” sono avvenute sia fuori che dentro l’aula.

Incredibilmente durante il dibattito sui vaccini da una (piccola) parte del Parlamento abbiamo ascoltato strampalati interventi nei quali, ad esempio, l’innocuo (etil)mercurio è stato confuso con il mercurio, il vaccino della pertosse dato per non protettivo verso la trasmissibilità del patogeno (è esattamente il contrario), erano citate inesistenti morti da vaccino e non ricordate le morti (vere) causate dai patogeni. Tutte cose false ma che costituiscono una verità di comodo perché congeniale agli interessi di chi la narra (e alle aspettative di chi la ascolta).

Come è possibile che nel 2017 in un Paese evoluto e laico ci siano ancora addirittura uomini delle istituzioni ostili nei confronti della cultura (e della storia) della scienza?

Ritengo che lo spieghi bene Andrea Grignolio, storico della medicina, nel suo libro Chi ha paura dei vaccini (ne parliamo a pag. 46, ndr): il cervello di Homo sapiens non compie scelte razionali, in altre parole spesso sbagliamo di fronte a decisioni in cui compaiono il rischio, la probabilità e le previsioni a lungo termine. Il nostro cervello ha avuto una lunga storia evolutiva durante la quale le scelte da compiere erano relative al presente (e con una aspettativa di vita intorno a 30 anni) e limitate al singolo individuo. L’uomo non si è selezionato per affrontare i temi di cui stiamo parlando, emersi solo recentemente. Diamo quindi maggior peso a informazioni che suggeriscono alti rischi anche se irrilevanti statisticamente, mentre sottostimiamo i benefici e le informazioni a basso rischio, sebbene siano forniti da istituzioni scientifiche e sanitarie. La scoperta e soprattutto la conoscenza di questi processi mentali, sono comunque utili non solo quando si intende fare una buona divulgazione scientifica ma anche per chiunque si trovi a dover mediare tra il mondo della scienza e quello della società, della politica e delle istituzioni. Possono essere tra gli elementi di conoscenza e consapevolezza necessari per capire perché ci sia questa resistenza a inserire nel contesto legislativo le competenze tecnico-scientifiche, ma anche per comprendere come, per fare un esempio recente, il Parlamento abbia potuto considerare attendibile, e materia su cui legiferare (salvo poi correggersi), il cosiddetto “metodo Stamina”.

In una intervista il medico e divulgatore Salvo Di Grazia ci ha detto: «L’ignorante di cento anni fa, era ignorante perché non aveva nessuna informazione, gli mancavano del tutto le notizie. Quello di oggi è ignorante perché ha troppe informazioni e gli mancano i mezzi per selezionarle». Qui sono chiamate in causa indirettamente le politiche scolastiche che non mettono (più) in grado i futuri cittadini di sviluppare il senso critico e quella sensibilità necessaria per distinguere ciò che è coerente con la realtà da ciò che non lo è. Cosa può fare lo Stato per contrastare questa sorta di ignoranza 2.0?

L’“ignoranza 2.0”, nasce dall’“ignoranza classica”, quella che vede il Paese con percentuali di analfabetismo di ritorno impressionanti, cui è difficile porre rimedio se non con programmi di incentivo alla formazione permanente, così come da performance scolastiche che non smettono di descrivere – con le dovute eccezioni – un Paese a più velocità nord/sud. Per altro verso, la rivoluzione digitale in corso, impone anche un ripensamento degli obiettivi propri della formazione, che dovrebbe mirare, non più e non solo al possesso delle nozioni, quanto al senso critico con cui riconoscere e gestire ogni informazione. Nel campo scientifico ad esempio, ancor prima della scoperta, è fondamentale far conoscere il procedimento e le modalità con cui si è arrivata a validare quella scoperta, senza tacere gli innumerevoli fallimenti che accompagnano ogni sfida alla conoscenza. Si tratta proprio di insegnare il metodo scientifico nelle sue fondamenta. Inoltre, in campo scientifico si sperimenta l’ignoranza anche della popolazione più acculturata cui spesso sfuggono alcune nozioni elementari, quali ad esempio la mera conoscenza del processo che da una molecola porta ad un farmaco, le fasi di sperimentazione etc. Si tratta di buchi conoscitivi propri di una classe dirigente che finiscono col lasciare aperte autostrade a chi su questa ignoranza voglia fare leva per interessi particolari.

Il diritto alla conoscenza, a essere informati, è un diritto costituzionale. È garanzia di democrazia. Questo basterebbe a spiegare perché è importante fare corretta/equilibrata informazione e divulgazione scientifica. Pensando anche alle sue ricerche sulla Corea di Huntington, perché questo concetto fa fatica a passare?

L’Huntington è una malattia ereditaria e neurodegenerativa. Il gene mutato può essere trasmesso di generazione in generazione e quando presente la malattia purtroppo accadrà. Vi sono intere discendenze colpite, con più casi per famiglia. Molti anni fa, in assenza di scienza e conoscenza, la malattia veniva ritenuta segno della presenza del “demonio” per i sintomi cognitivi e motori, caratterizzati da movimenti a scatti, bruschi, incontrollabili, del corpo, delle braccia e delle gambe, che alteravano anche la gestualità espressiva e la mimica facciale. Ai tempi dei nazisti l’Huntington era una malattia da eliminare, i malati e familiari venivano sottoposti a sterilizzazione obbligatoria e poi alle camere a gas. Ancora oggi c’è uno stigma da combattere, perché si tende a discriminare ciò che non si conosce, lo si ritiene diverso, posizionandolo in una scala inferiore. Le scoperte scientifiche su questa malattia, come su altre, ne hanno spiegato la biologia, dato riconoscibilità e visibilità al problema medico, fornito alcuni farmaci per combattere i sintomi, una forma di assistenza (anche se mai sufficiente), un test genetico e quindi la possibilità di operare in modo autonomo scelte di vita. La scienza può quindi insegnare a essere cittadini migliori rispettosi delle evidenze e insofferenti di fronte agli abusi. La democrazia è quella che riconosce e offre opportunità a tutti sulla base delle prove che si rendono disponibili.

Di recente un bimbo di 7 anni è morto per un’otite curata con l’omeopatia. Nel 2015, la rivista Nature ha inserito l’omeopatia in una speciale classifica dei nove falsi miti “medici” duri a morire. Lei cosa ne pensa?

In sistemi sanitari pubblici universalistici come il nostro, per cui le terapie di ciascuno sono sostenute dalle tasse di tutti, nessun atto medico o cura che non sia “evidence based”, fondato sulle prove, dovrebbe farvi ingresso. A ciascuno – adulto e capace di intendere e volere – la libertà di curarsi (o non curarsi) come preferisce, senza però pensare che questa libertà sia esercitata a spese di altri. Sul merito del tema omeopatia non posso che fare mio il documento del Comitato nazionale di bioetica (Cnb) dello scorso 20 aprile, predisposto da Cinzia Caporale, in cui si giudica criticamente che i preparati omeopatici in commercio in Italia non rechino specifiche indicazioni sull’etichetta, che invece dovrebbero comparire per trasparenza. Andrebbe cambiata la denominazione da: “Medicinale omeopatico senza indicazioni terapeutiche approvate” con “Preparato omeopatico di efficacia non convalidata scientificamente e senza indicazioni terapeutiche approvate”. Se la libertà di scegliere se e come curarsi resta indiscussa rimane il dovere di aiutare i cittadini a fare chiarezza e di eliminare ogni ambiguità tra ciò che ha un senso scientifico e ciò che non è mai stato dimostrato averne. A tal proposito è da rilevare una deprecabile timidezza sul tema dell’omeopatia da parte dell’Ordine dei medici. In occasione del voto sul documento del Cnb il rappresentante dell’Ordine si assentò. Né si possono dimenticare dichiarazioni cerchiobottiste in occasione della tragica morte di quel bambino.

Pensiamo al caso Stamina. Se un esperto di marketing laureato in scienza della comunicazione arriva a testare un intruglio su dei bambini malati terminali in un ospedale pubblico grazie a un decreto ministeriale, è chiaro che c’è una responsabilità da spartire tra diversi soggetti. Sul caso Stamina si è assistito ad un colossale deragliamento dalla ragionevolezza mediatica, parlamentare e giudiziaria. Di tutta questa terribile vicenda resta il danno fatto alle persone, ai malati ingannati, ai cittadini abusati nella loro credulità su argomenti che masticano a fatica. Resta anche il danno culturale dovuto al dileggio della medicina, della cultura, delle competenze, dei giovani che nelle aule universitarie si ribellavano all’idea che la propria preparazione potesse essere messa, dalle massime istituzioni nazionali, sullo stesso piano delle chiacchiere di un ciarlatano. Come può un normale cittadino difendersi da questi ciarlatani? 

É sulle spalle di tutti l’onere di informarci per difenderci da chi semplifica e banalizza i temi politici, ma è altrettanto vero che studiare per associarci e dialogare con gli eletti è una buona pratica. Solo se saremo informati e consapevoli dei fatti potremo capire se essere insoddisfatti di chi ci rappresenta, consentendoci di concorrere direttamente all’attività politica, partecipando a costruire la democrazia e, nel caso, determinarci nel «premere o addirittura sostituirci» a chi eventualmente riteniamo essere mediocre.

«In laboratorio l’errore è sempre in agguato ma la frode è un’altra cosa. La questione dell’integrità nella scienza richiede una particolare attenzione da parte del mondo accademico. Servono regole condivise in grado di proteggerla, valorizzarla e apprezzarla, tali da garantire anche la fiducia che è insita in questo lavoro». Questo lei ci disse in un’intervista a proposito del caso Infascelli-Ogm della Federico II. (Fu proprio la senatrice Cattaneo durante un’audizione alla Camera a mettere in discussione i dati prodotti da Infascelli in base ai quali il ricercatore affermava di aver riscontrato l’esistenza di un gene Ogm nei tessuti di animali nutriti con soia geneticamente modificata. In seguito si scoprì che aveva modificato in modo fraudolento i dati inseriti in tre pubblicazioni). Dopo lo scandalo, la Federico II si è dotata di un rigoroso regolamento a tutela dell’integrità scientifica nella ricerca. Era gennaio 2016, cosa è cambiato da allora? Ritiene che la ricerca sugli Ogm in Italia sia sufficientemente libera?

Ci sono ancora molte lacune in Italia relativamente alle regole a tutela dell’integrità scientifica nella ricerca. Non c’è una disciplina legislativa che intercetti o sanzioni simili comportamenti. E soprattutto non vedo sufficiente sforzo da parte degli atenei di “insegnare” che non si tradisce la ricerca della verità. Gli Ogm sono sempre stati una delle parole proibite in Italia e nei nostri tanti governi degli ultimi 20 anni. E’ un altro esempio di accecamento sociale e politico, stile Stamina, stile Di Bella, associato alla volontà di far credere che siano pericolosi per alimentare paure e crescere interessi di parte, anche di politiche vecchie di decenni e mai aggiornate ma che nessun politico ha la forza e la capacità di rivedere criticamente. La verità sugli Ogm non è troppo diversa da quella sui vaccini: nessuno ha mai avuto danni, tanti sono i benefici (sanitari ed economici per noi, incluso la riduzione dell’uso di pesticidi). Non solo la commercializzazione di piante ogm sicure per la salute e l’ambiente è vietata ma nel nostro paese con stratagemmi politici viene anche impedita la ricerca pubblica sugli Ogm. Così abbiamo perso tante piante, dal pomodoro San Marzano al riso Carnaroli, infestati da parassiti. Incomprensibilmente si vedono sostenute dalla politica agricolture “alternative”, come quella biologica di massa (spesso falsa) o peggio quella biodinamica, che si rifà a riti esoterici e non ha nulla di scientifico e validato. Servirebbe molta scuola e molta scienza e spirito critico anche in politica e nelle decisioni ministeriali e governative che su questi temi mirano ancora al consenso invece che alla ricerca delle prove oggettive.

A cosa serve la scienza?

Ad ancorare un Paese alla realtà delle prove accertabili, a rafforzare le premesse di una democrazia matura, a migliorare la vita di sempre più persone, ad affrontare il futuro e gli eventi avversi della natura con capacità, realismo e conoscenza, ad allontanarci dai riti magici, dalle superstizioni e dai ciarlatani di cui il mondo continua ad essere popolato. A volte faccio un esperimento con i miei interlocutori, presentandomi come ricercatrice o come scienziata. Le reazioni sono completamente diverse. Alla parola “scienziato” seguono spesso sorrisi e parole divertite, che richiamano l’immaginazione del pazzo studioso da sottoscala tra alambicchi e provette fumanti, sempre pronto a far saltar per aria un bancone di laboratorio. In Germania, Gran Bretagna o Stati Uniti alla parola scienziato si associano spesso frasi di riconoscimento sociale, di ammirazione, di consapevolezza degli anni di studio, di colui che indaga per tutti. Il secondo errore a livello di opinione pubblica è l’abbaglio che la ricerca scientifica serva a generare “prodotti” da vendere. E che quindi sia degna di considerazione solo quella che “cura domani”.

E qui torniamo al ruolo sociale svolto da chi fa divulgazione.

La ricerca, in tutti gli ambiti del sapere, anche ovviamente quello umanistico, serve a renderci capaci di interrogare tutto ciò che ci circonda, a prepararci moralmente e intellettualmente alle risposte magari diverse da quelle attese, a spingere i nostri pensieri oltre ciò che a prima vista “ci sembra” (basti pensare a come era “trattato” l’Huntington solo un secolo fa), sviluppando un metodo di indagine condivisibile e controllabile, cioè che riproduca lo stesso risultato una volta date le stesse condizioni sperimentali, e su questa oggettività affinare la nostra capacità di convivenza sociale, nel frattempo sviluppando metodi sempre più efficaci per studiare ambiti inimmaginabili, e raggiungere obiettivi imprevedibili. I “prodotti” della scienza sono persino meno importanti e certamente meno duraturi della scienza, perché ogni giorno si aggiornano. Quello che resta per sempre è l’acquisizione di un metodo, l’allenamento al pensiero critico, al fallimento, la consapevolezza della conquista per tutti. Sono acquisizioni che diventano modo di vivere, e dei quali, una volta provati, non ne puoi più fare a meno. Ben poco di questo è di dominio pubblico. Non bisogna raccontare la sublimità delle scoperte e la loro “inavvicinabilità”, diceva il premio Nobel Ramon Cajal. Bisogna parlare degli uomini che le hanno condotte, della loro fatica, dei loro fallimenti, delle tante strade sbagliate. Si scoprirebbe così – scriveva – «che i grandi intellettuali, i grandi studiosi per quanto geniali possano essere, alla fine sono esseri umani, come tutti gli altri». Questo è per me lo scienziato. Credo che si debba raccontare questa scienza.

 

Versione integrale dell’intervista pubblicata su Left n. 34 del 26 agosto 2017

La senatrice Elena Cattaneo interviene insieme a Cristina Battocletti ai Dialoghi di Trani nella conferenza dal titolo “La scienza del buon governo”

(sabato 23 settembre ore 18, Palazzo delle Arti Beltrani, Trani)

I piccoli comuni ribelli: «No alle fusioni, sono scelte calate dall’alto»

L’«elevata frammentarietà dei comuni italiani» proprio non va giù ai parlamentari, di qualsiasi schieramento. Gli 8mila comuni risultano troppi e ingombranti. Dopo il ddl Lodolini (Pd) che prevedeva la fusione dei comuni sotto i 5mila abitanti, ritirato dopo una protesta vivace dei sindaci e dei comitati spontanei sorti in tutta Italia, adesso è in ballo un’altra proposta di legge, presentata l’8 marzo 2017, questa volta targata Ap con primo firmatario Marcello Gualdini. Il ddl S 2731 si trova adesso in Commissione Affari costituzionali del Senato e “supera” il ddl presentato da Emanuele Lodolini. In questo nuovo testo di legge si prevede la fusione di centri che non raggiungono il numero di 10mila abitanti, con l’unico obiettivo: «ridurre l’elevata frammentarietà dei comuni italiani». Se entro il 1° gennaio 2020 ciò non dovesse avvenire, la regione che non ha provveduto alla fusione obbligatoria subirà un taglio del 50% dei trasferimenti statali, esclusi però, per fortuna, la sanità e i trasporti.
Come era accaduto per il ddl Lodolini è di nuovo partita la mobilitazione dal basso. I piccoli comuni non ci stanno a queste scelte obbligate. Non convince il motivo che sottende la proposta di legge, e cioè l’ottimizzazione dei servizi esistenti. La“sperimentazione” già avviata da alcuni anni con le unioni dei comuni, per esempio, non ha portato quei benefici che si pensava potessero arrivare. La stessa Corte dei Conti nella relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali pubblicata all’inizio del 2017 e relativa al 2015 solleva alcune critiche alle modalità della sperimentazione delle unioni. Anche i sindaci sono scettici e sostengono che con le unioni dei comuni si sono creati organismi terzi che fanno diventare la gestione degli enti locali ancora più complicata. «Ma visto che l’unione dei comuni non funziona, non si può passare direttamente alla fusione», dice Marco Buselli, sindaco di Volterra che a marzo del 2016 ha ospitato la giornata dell’Orgoglio Comune con l’adesione di 4700 sindaci. Il suo comune non è toccato dall’operazione prevista dall’ultimo testo di legge, tuttavia Buselli, eletto per il secondo mandato in una lista civica, ne fa una questione di principio. «Identità e territorio sono termini che i nostri parlamentari non prendono in considerazione e invece sono fondamentali per la democrazia», dice. Identità e territorio che non si significano arroccamento e chiusura, concetti molto spesso cavalcati dal centrodestra e dalla Lega. «Non c’entro nulla con le destre, sono un uomo di sinistra e il mio comune è all’insegna dell’inclusione, abbiamo anche 50 richiedenti asilo», sottolinea il sindaco di Volterra. I problemi che racconta Buselli sono vissuti da centinaia di sindaci italiani attanagliati dalla crisi e dalle minori risorse statali. Ma sotto accusa sono soprattutto le scelte “dall’alto” che si basano sui numeri, su aride cifre e non tengono conto delle esigenze delle persone in carne e ossa che vivono in piccoli centri isolati che sono più complesse rispetto a chi vive nelle aree urbane e costiere. Le cosiddette aree interne d’Italia, i piccoli comuni dove vive il 17% della popolazione diventano le “vittime” di «politiche di austerità» che producono diseguaglianze tra i cittadini. Chiudere un poliambulatorio o un ufficio postale in un piccolo comune o in una frazione rappresenta un problema enorme per gli abitanti e perché no, un vulnus quanto ai diritti sanciti dalla Costituzione, sottolinea il sindaco Buselli. Ci sarà anche lui sabato 23 settembre alla seconda giornata di Orgoglio comune a Torrita di Siena. La manifestazione con tanto di corteo e banda e interventi dalla piazza del Comune è promossa tra gli altri dall’Associazione nazionale piccoli comuni italiani (Ancpi), dalla Società dei territorialisti e da alcuni sindaci soprattutto delle regioni “rosse” Emilia Romagna e Toscana. Tra gli organizzatori c’è anche il Comitato No fusione Torrita di Siena-Montepulciano, nato perché un anno fa, racconta Antonio Canzano, uno dei portavoci, le due giunte a maggioranza Pd degli splendidi paesi della Val di Chiana senese hanno presentato la proposta di fusione. Un fulmine a ciel sereno, «visto che si tratta di due comuni di 10mila e 7mila abitanti con il bilancio a posto. E non hanno fatto neanche un’assemblea per spiegarlo ai cittadini», dice Canzano che si definisce uomo di sinistra. Il comitato è costituito da cittadini di Torrita – il paese più piccolo -, in gran parte di famiglie dai nonni e padri comunisti, o fuoriusciti dal Pd e naturalmente anche da elettori di destra. La protesta è nata, ci tengono dirlo, proprio attorno alla proposta, senza alcun fine politico. «Secondo noi davvero questa fusione dipende dalle politiche di austerità che in Italia vengono portate avanti anche in ossequio della lettera della Bce del 2011. Altrove è diverso. In Francia i comuni sono 36mila, in Germania 12mila e non ci pensano a toccarli». «Le fusioni poi non convengono». Canzano cita i dati del Ministero dell’Interno relativi al 2013 secondo i quali in effetti la spesa pro capite cresce in modo esponenziale nei comuni grandi, dai 100mila abitanti in su, così come è elevata nei comuni piccolissimi, tra i 500 e i mille residenti mentre la spesa si dimezza nei comuni dai 3mila ai 20mila abitanti.
Andrea Rossi, sindaco di Montepulciano, stempera gli animi: «L’idea della fusione non c’entra niente con la legge nazionale, nasce due anni fa all’interno di due consigli comunali. Nei prossimi mesi faremo una campagna di comunicazione tra i cittadini. E poi, dopo, i referendum che saranno consultivi ma vincolanti, cioè terremo conto del voto delle persone. Se in ogni comune il 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto, si esprime contro la fusione, la fusione certamente non si farà». Ma il sindaco di Montepulciano conferma però quella che è la tendenza a livello nazionale sposata a pieno dal Pd. « L’indirizzo è che al di sotto dei 15mila abitanti si andrà o all’unione o alla fusione. Siccome noi stiamo sperimentando l’unione dei comuni  e abbiamo verificato che è un meccanismo che svuota il territorio dei servizi, abbiamo proposto la fusione».
Rimane il fatto che “per forza” bisogna intervenire in territori in cui il comune – per storia, cultura – è un’istituzione molto sentita, in cui la presenza di un consiglio comunale direttamente espressione dei cittadini di quel luogo è garanzia di democrazia. In una realtà politica, economica e culturale italiana, questa sì sempre più frammentata e contraddittoria, togliere anche quel punto fermo, quel “presidio di collettività” come può essere un comune con la sua manciata di amministratori – che nei piccoli centri hanno rimborsi minimi – significa che il tessuto sociale sarà a rischio di ulteriore disgregazione.
Un’idea poi che circola tra i promotori della manifestazione è che “meno siamo e meglio ci controllano”, citando alcuni esempi di comuni ribelli che si oppongono o si sono opposti a progetti calati dall’alto. Se nascondesse questo disegno, «l’indirizzo per la fusione», non sarebbe certo un’operazione di democrazia.

Leggi anche La rivolta dei piccoli comuni contro la fusione obbligatoria, Left, 11 febbraio 2016