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La fantasia di John Fante e la sua America vera

Strana sorte davvero, quella di John Fante. In Italia e non solo. Approdato nel nostro Paese con la prima ondata di grandi autori novecenteschi; ospitato in Americana, la memorabile antologia con la quale Elio Vittorini formò una generazione di intellettuali, scrittori e lettori, nel segno del vitalismo e dell’antiretorica; presenza fissa, accanto a Hemingway, Faulkner e Fitzgerald, nella storica collana mondadoriana Le Meduse, Fante non è però mai assurto allo stato di classico contemporaneo.

La prima generazione di critici che inaugurarono, anche a livello accademico, gli studi americani, lo inserì piuttosto tra i minori, pur riconoscendone il talento di narratore: una valutazione che discendeva probabilmente dalla stessa critica statunitense, a sua volta pronta a incasellare Fante tra gli scrittori italoamericani (insieme al Di Donato di Cristo tra i muratori) oppure, insieme a Nathanael West, tra gli autori losangelini, capaci di raccontare in una chiave inedita la città dei sogni e di guardare a Hollywood e al suo mito con la giusta dose di disillusione e di cinismo.

Se lo status di “minore” ha rappresentato per certi versi una condanna – e certamente non rese felice Fante, il quale, fatta salva la parentesi di Full of Life, non avrebbe mai conosciuto in vita il successo dei suoi più prestigiosi coetanei, e avrebbe finito per accettare di guadagnarsi da vivere con i lauti e “sporchi” compensi delle major cinematografiche -, non è irragionevole pensare che, con il senno del poi, sia stato una fortuna…  ( l’articolo continua su Left in edicola, dal 25 al 27, lo scrittore, editor Minimum Fax e traduttore parla dell’autore di Chiedi alla polvere al Jhon Fante festival)

L’articolo di Luca Briasco prosegue su Left in edicola


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Lungo i sentieri della transumanza i passi della poesia

Ma Trivento, dov’è? E Pietracupa, davvero esiste un paese con un nome così strano? Dietro il nome di un paese si nasconde una storia che è il sedimentato di secoli, la sovrapposizione di popoli, le dispute e guerre lontane di epoche. A volte si parte proprio per il curioso desiderio di conoscere geografie italiane nascoste, appartate, di cui si scoprono improvvise bellezze o stati di brutale degrado. Incontrare paesi spopolati che vivono nel loro silenzioso abbandono, passeggiare su strade assolate, vicoli rabbuiati, strade di polvere che si perdono nelle campagne più selvagge, affacci da dove poter scorgere come nel Molise di mezzo un paesaggio arcaico che incanta, quello antico delle radici, lo spettacolo di colline ondulate e la profondità della terra. L’Italia originaria, quella contadina, si può vedere ancora qui nel suo paesaggio armonico e naturale, privo d’insediamenti industriali e sfregi architettonici, le grandi distese di terra gialla e le macchie verdissime di lecci e faggete, le vaste vallate dove può perdersi lo sguardo. Un patrimonio di alberi, animali, montagne, che l’uomo contemporaneo sembra non volere più, attratto invece dai luoghi metropolitani e frenetici del consumismo di massa dove i riti della Società dello Spettacolo imperversano in un infinito show, nella stagione estiva soprattutto sulla costa adriatica.
Invece, uscito dalle arterie autostradali di Vasto San Salvo, che quando si va a Sud, superata Pescara, sono sempre più vuote e ventose, meravigliosamente a misura d’uomo, sembra di varcare una frontiera invisibile, dalla Ss 650 lentamente si sale verso Trivento, nella provincia di Campobasso, sede di questo piccolo anti-festival paesologico, Rocciamorgia, una sorta di tentativo culturale di rianimazione, un pronto soccorso artistico che tenta di risvegliare un territorio il quale sembra addormentato in un sonno quieto che è quello dell’Italia interna, di cui ci si accorge che esiste solo quando arrivano a scuoterla i terremoti, i nubifragi, o qualche frana la minaccia nel profondo delle sue viscere fragili. Così, spostandomi in auto tra….

Il reportage di Angelo Ferracuti prosegue su Left in edicola


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La tragedia dimenticata: a Raqqa si muore ancora

TOPSHOT - People gather around the rubble of a hospital supported by Doctors Without Borders (MSF) near Maaret al-Numan, in Syria's northern province of Idlib, on February 15, 2016, after the building was hit by suspected Russian air strikes. MSF confirmed in a statement that a hospital supported by the aid group in Idlib province was "destroyed in air strikes". / AFP / AL-MAARRA TODAY / GHAITH OMRAN (Photo credit should read GHAITH OMRAN/AFP/Getty Images)

«Nella città di Raqqa, se non si muore per gli attacchi aerei, si muore per un colpo di mortaio; se non si muore per un colpo di mortaio, si muore colpiti dai cecchini; se non sono i cecchini, allora è un esplosivo. Anche qualora si riuscisse a sopravvivere, sopraggiunge la fame e la sete per mancanza di cibo, acqua, elettricità».

A ricordare la drammatica situazione della città siriana – scomparsa dai quotidiani e dai telegiornali come se fosse stata definitivamente liberata dall’Isis – è un paziente di 41 anni, soccorso da Medici senza frontiere mentre fuggiva portandosi dietro ferite di schegge al torace e il ricordo di sette familiari che – a differenza sua – non ce l’hanno fatta.

Per fare il punto, abbiamo contattato Robert Onus, il coordinatore per le attività a Raqqa di Msf, una delle poche organizzazioni presenti sul posto per rispondere alle necessità mediche della popolazione. Msf non fornisce la posizione esatta dei suoi operatori, ma sappiamo che ci sta telefonando dal nord della Siria. «Stiamo supportando gli ospedali di Tal Abyad, Kobane, Manbij, abbiamo altre attività in zone limitrofe, ed un team di ambulanze (otto in tutto, ndr) ponte a soccorrere i profughi vicino alle prime linee». Msf ha anche una postazione medica avanzata fuori Raqqa, dove i pazienti vengono stabilizzati. Si tratta di una postazione importante, perché per arrivare a Tel Abyad – il centro di soccorso principale – bisogna percorrere 100 Km.

«I pazienti che arrivano dalla città ci parlano di una situazione piuttosto difficile, con pesanti scontri in atto – prosegue Onus -. Noi riceviamo molti dei feriti. In gran parte vengono colpiti, durante il tentativo di allontanarsi dalla città, principalmente dall’esplosione di mine o dei cosiddetti dispositivi esplosivi improvvisati (Ied), che sono disseminati nelle strade. La possibilità di accesso a cure mediche all’interno della città al momento è limitato: l’ospedale di Raqqa sembra essere ancora in funzione, garantisce in parte un primo soccorso, ma non riesce a gestire tutte le richieste che arrivano».

Ad avere bisogno di aiuto, sono in particolare i più piccoli. «Riceviamo bambini feriti che scappano da Raqqa, ma anche famiglie e gruppi di persone che tentano la fuga, spesso nel mezzo della notte per evitare i controlli; l’altra settimana abbiamo ricevuto 12 persone, tutte colpite da esplosione, uno è inciampato su uno Ied, che ha colpito più persone, tra cui tre bambini appunto».

Le équipe di Msf gestiscono anche una clinica nel campo di Ain Issa e lavorano in diverse aree nella Siria nordorientale, che fino a poco tempo fa erano controllate dello Stato islamico. In tutto, nel nord della Siria, Msf gestisce 4 ospedali, e fornisce assistenza in totale a più di 150 strutture sanitarie nel Paese.

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


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Sepulveda: «Rifiutare l’oppressione del neoliberismo è vitale»

Nel tuo romanzo, La fine della storia pubblicato in Italia da Guanda attraversi latitudini e ripercorri momenti storici diversi, combinando fatti realmente accaduti e finzione. In queste pagine e nel personaggio di Belmonte quanto c’è della tua storia personale?

Belmonte e io condividiamo molte cose; abbiamo lo stesso passato da militanti, siamo stati quasi negli stessi posti e abbiamo conoscenti in comune.

Hai dedicato il libro alla tua compagna, la poetessa Carmen Yáñez, la prigioniera 824 di Villa Grimaldi. In questo centro di tortura della polizia segreta di Pinochet “regnava” Miguel Krassnoff che nel 2011 è stato condannato a 120 anni di carcere per crimini di lesa umanità. Anche tu sei stato prigioniero della dittatura. Cosa ha significato a livello personale indagare su fatti di quel periodo storico per la costruzione del romanzo?

Non è mai semplice affacciarsi sull’abisso dell’orrore. L’inchiesta è stata soprattutto una conferma di ciò che sapevo già. Tuttavia mi ha permesso di mettere in ordine le informazioni e trasformare dati, nomi e notizie in letteratura. In ogni caso, affrontare situazioni del recente passato che hanno a che fare con i campi segreti di detenzione, con la tortura e le sparizioni forzate, è qualcosa che faccio con completa delicatezza e pudore, per rispetto verso le tante persone che hanno subito questi crimini.

L’ombra di quello che eravamo e dei fatti che sono accaduti in quegli anni in America Latina, ci accompagna sempre. Pensi che manchi una memoria collettiva, al di là di quella personale, che consenta di evitare che la storia si ripeta?

Il problema non è se ci sia o no memoria collettiva. Il problema è l’intenzione di annientare la memoria collettiva, di cancellare la storia e tutti quei fatti che oggi risultano scomodi al potere. Per esempio mentre ti rispondo, in Argentina, il governo di Macri sta liberando dei delinquenti condannati più volte per crimini contro l’umanità. Si tratta di torturatori, assassini, ladri di beni delle vittime della dittatura civico-militare degli anni 70. La legge dell’obbedienza dovuta (emanata nel 1987 allo scopo di sollevare i militari dalle responsabilità, senza possibilità di prova contraria, ndr), le amnistie, gli indulti, le liberazioni di criminali “per ragioni umanitarie” hanno avuto e hanno come obiettivo l’oblio dei crimini, l’eliminazione della memoria collettiva e della storia.

Sempre per Guanda è appena uscito in Italia Vivere per qualcosa, un dialogo a tre con José “Pepe” Mujica e Carlo Petrini sulla felicità. Cos’è la felicità per Luis Sepúlveda e per chi e cosa vale la pena vivere?

Immagino che ci siano molte definizioni di felicità. Una potrebbe essere quella che cantava Palito Ortega, un cantante argentino degli anni 60. Per me la felicità ha a che fare con l’armonia esistenziale che si raggiunge solo dove c’è giustizia sociale. Vivere senza paura e tra persone che non hanno paura, vivere senza l’oppressione di non sapere se domani si riuscirà a mangiare o no, e tra esseri umani che non sentano quella stessa oppressione. La felicità è un diritto e una questione sociale, si raggiunge con lo sforzo collettivo e si vive lottando per conquistarla.

Il modello neoliberista basato sul concetto di consumismo indiscriminato si è venduto per anni come l’unico possibile. Però ci offre un mondo virtuale, costruito solo sulle cose materiali. Cosa possiamo o dobbiamo fare per superare questo concetto e immaginare un futuro diverso per le nuove generazioni?

La proposta neoliberista consiste nell’accumulare ricchezza in poche mani, offrendo la possibilità di consumare come palliativo per coloro che restano fuori dall’élite ristretta che si arricchisce. L’idea della società di consumo, che consuma e si consuma, si appoggia su una serie di negazioni minori che portano a negazioni maggiori. Si nega l’accesso alla conoscenza di come, chi e dove si produce ciò che si consuma; si nega l’accesso all’informazione riguardo lo sfruttamento dei lavoratori e delle materie prime necessarie per i prodotti che si consumano; si nega l’accesso alla informazione riguardo l’impatto della produzione di massa sulle realtà sociali presso cui si svolge gran parte del processo produttivo e sulle sue ricadute nel nostro ambiente sociale, lavorativo e politico. Questa serie di negazioni porta ad accettare il consumo come unica proposta di vita. Ci privano della condizione di cittadini per farci acquisire lo status di consumatori.

Abbandonando l’idea di costruire società migliori ci ritroviamo a vivere con meno giustizia, sanità, educazione, sicurezza e cultura. Cosa possiamo fare?

Resistere, anche se è difficile resistere. E fare di questo atteggiamento la pietra angola re della nuova etica di cui la vita ha bisogno. 

Come vedi la situazione in Cile, pensando alle elezioni presidenziali di novembre e al difficile momento storico-politico dell’America Latina? 

In Cile c’è un panorama abbastanza coerente con una esperienza politica che si è esaurita. Nel 1990 si recuperò la normalità democratica, ma come disse il primo presidente post dittatura, quella cilena sarebbe stata, e lo è ancora, una democrazia “entro i limiti del possibile”. Quali siano questi limiti è molto chiaro: il modello economico neoliberista imposto dalla dittatura civico-militare è intoccabile, così come lo è la Costituzione che lo garantisce. Le forze politiche che presero in carico i successivi governi, una coalizione di “centro sinistra” e la destra tradizionale “pinochetista”, si unirono in un profilo unico di amministratori del sistema ereditato dalla dittatura dando continuità al modello economico neoliberista imposto dal 1973 in poi. Allo stesso tempo ci sono state alcune conquiste nel campo dei diritti umani, sono stati celebrati processi e comminate condanne ai militari criminali della dittatura, ma senza toccare mai nessun civile, responsabile tanto quanto gli aguzzini in divisa. Le politiche dei governi post dittatura hanno frustrato qualsiasi speranza di cambiamento generando delusione, abulia, fatalismo e rassegnazione. Alla intoccabilità del sistema, che ha fatto del Cile il Paese con la maggiore crescita economica e al contempo il più socialmente diseguale dell’America Latina, si è aggiunta la corruzione di quasi tutta la classe politica al governo. Che ha ceduto a ricatti sistematici, anche quotidiani, per legiferare nella direzione di una crescente perdita di potere dello Stato e di un sempre maggiore concentramento della ricchezza in poche mani. Bisogna ricordare che il Cile è l’unico paese al mondo che ha privatizzato tutta l’acqua. Ogni singola goccia dei fiumi, dei laghi, e anche i ghiacciai delle Ande. Come se non bastasse il governo cileno ha privatizzato anche il mare, consegnando lo sfruttamento senza controllo delle risorse marine a sette gruppi economici. Fino a dieci anni fa nessuno si è opposto a questa deriva. Poi gli studenti hanno iniziato a reagire mettendo in discussione il funzionamento del sistema. Oggi alcuni dirigenti della rivolta studentesca sono parlamentari e stanno dimostrando che è possibile fare politica senza essere corrotti. Poggia su di loro l’unica possibilità di cambiamento.

Durante la dittatura di Pinochet ti è stata tolta la tua cittadinanza naturale. Ora, dopo oltre 30 anni, l’hai recuperata. Cosa hai provato nel ricevere la notizia della restituzione?

Mi tolsero la cittadinanza cilena nel 1986. Io ero in esilio in Germania, ad Amburgo, e da lì partecipavo alle attività della resistenza. Collaboravo soprattutto con Analisis, un settimanale informativo che diventò il bastione della lotta contro la dittatura e che per questo pagò un caro prezzo, come l’uccisione di Pepe Carrasco, editore internazionale del giornale. Un giorno il dittatore emise uno dei suoi “decreti transitori” e tolse la nazionalità a 86 cileni in esilio, me compreso. Mi è stata restituita meno di due mesi fa. Come ho reagito? Con un po’ di allegria perché si riparava una ingiustizia e allo stesso tempo con tristezza perché molti dei miei compagni condannati alla condizione di apolide, nel frattempo sono morti. Mi sarebbe piaciuto festeggiare con un uomo molto degno, il generale dell’aviazione Sergio Poblete, un ufficiale integro che fu torturato dai propri compagni d’armi. Ricordo che dal suo esilio in Belgio cominciava qualsiasi intervento e azione di solidarietà con il Cile dicendo: “Mi chiamo Sergio Poblete, sono generale della Repubblica del Cile e socialista”. Mi sarebbe piaciuto celebrarlo con lui, ma è morto senza mai chiedere né implorare che gli fosse restituito il diritto alla sua nazionalità. Quanto a me, sono stato contento ma non ho espresso il minimo ringraziamento, perché non si dice grazie al ladro che ci ha restituito ciò che ci aveva rubato.

L’intervista di Gabriela Pereyra a Luis Sepulveda è stata pubblicata su Left del 13 maggio 2017

 

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Un pensiero per la sinistra

Una delle cose più importanti che ho capito nei tanti anni che ho frequentato l’Analisi Collettiva e Massimo Fagioli è stata che la sinistra ha un grave problema con il pensiero.
Quello che si ripete continuamente, per lo meno da 30 anni, è che c’è una crisi di valori, che c’è una crisi delle ideologie. C’è una crisi della sinistra, perché essa non riesce più a rappresentare i bisogni dei suoi possibili elettori perché non ha idee.
Nessuno però mette in discussione il fatto che ci possa essere una crisi del pensiero che in qualche modo fonda la politica di sinistra.
Come se le ideologie e i valori che sono in crisi, non siano pensiero. Il pensiero non viene messo in discussione. Come se la politica non abbia la sua origine in un pensiero che ne guida l’azione. Forse andrebbe capito cosa è il pensiero e poi, capito questo, andrebbe capito cosa è o dovrebbe essere un pensiero di sinistra.
Ma quando parliamo di pensiero? Certamente quando c’è rapporto con la realtà. Il pensiero scientifico ha un rapporto precisissimo con la realtà materiale. Tramite la sua applicazione l’attività umana ha acquistato una enorme potenza, una enorme possibilità di intervenire modificando la realtà materiale. L’attività umana ha di fatto sottomesso la natura. Possiamo evitare di svolgere tanta parte dell’attività fisica necessaria per la sopravvivenza perché ci sono macchine che possono sostituire la gran parte delle attività ripetitive che sono sempre state necessarie nella storia per produrre ciò che era necessario per vivere. E sempre più sarà così grazie allo sviluppo della tecnologia, figlia dell’enorme sviluppo del pensiero scientifico.
Il pensiero, come conoscenza del mondo, si è trasformato in azione economica potendo esprimere possibilità mai raggiunte prima. Perché il pensiero come rapporto con il mondo funziona perfettamente. Si hanno idee certe su cosa sia la verità relativamente alla realtà fisica. La conoscenza scientifica ha strutturato un metodo che permette di stabilire con certezza quando una teoria che descrive una realtà fisica sia vera o falsa. La certezza della verità e del rapporto con la realtà materiale ha permesso e permette le enormi conquiste della tecnica.
Ma poi si parla di ideologie politiche più o meno in crisi e di valori.
È perché non c’è un pensiero scientifico sull’essere umano che permette di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso?
La politica e l’economia sono ciò che, di fatto, elabora nella pratica il pensiero sull’essere umano. Esse creano valore economico dai rapporti tra gli esseri umani. Qualunque transazione economica comprende gli esseri umani. Qualunque politica regola i rapporti tra gli esseri umani. Un’economia o una politica senza esseri umani non esiste. È allora evidente che affinché la politica e l’economia siano “umane” chiedono che si sappia qual è la verità umana. Esiste un’uguaglianza tra gli esseri umani? E se esiste un’uguaglianza, che cos’è la libertà?
La democrazia moderna è in fondo l’estensione dei diritti dei cittadini della polis a tutti i cittadini dello Stato. Ma la parola è rimasta la stessa: cittadini.
Non è stato mai messo in discussione che questo implica il concetto che esistono esseri umani che sono, usando le parole della fattoria degli animali di Orwell, “più uguali degli altri”. I cittadini sono tali perché diversi dai non cittadini, ossia da chi è fuori dalla città.
Qual è allora il pensiero degli esseri umani rispetto agli altri? C’è chi esercita un pensiero come ricerca, con il solo scopo di volere il bene e la realizzazione degli altri. Chi cerca la conoscenza senza un fine necessariamente materiale. La realizzazione materiale è lasciata al singolo, non è prestabilita a priori.
E c’è invece chi pensa che gli altri abbiano di base un pensiero errato e ritengono che sia necessario imporre il loro pensiero agli altri.
Il lavoro di Massimo Fagioli è sempre stato quello di cercare la realizzazione degli altri.
C’era un’impostazione di pensiero che aveva la certezza della possibilità della realizzazione umana e spingeva ad essa. Perché questo pensiero aveva e ha in sé la certezza della verità della sua origine dalla realtà biologica alla nascita. Un’eredità a disposizione di una politica di sinistra che volesse trovare la strada per elaborare un pensiero nuovo sulla realtà più profonda dell’essere umano.
Una possibilità di completare la rivoluzione scientifica che ha la certezza del rapporto con la realtà materiale con una rivoluzione culturale e politica basata sulla verità e la certezza del rapporto con la realtà umana.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto dal numero di Left in edicola


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Siria, una guerra che tutti hanno già perso

TOPSHOT - A Syrian woman peers out the window as she sits in a train travelling through Aleppo's devastated eastern districts for the first time in more than four years, on January 25, 2017. It is the train's first such trip since rebels overran east Aleppo in the summer of 2012, effectively dividing the northern city into a regime-held west and a rebel-controlled east. / AFP / George OURFALIAN (Photo credit should read GEORGE OURFALIAN/AFP/Getty Images)

«La mia presenza era diventata un alibi. Né in Ruanda, né nell’ex-Jugoslavia ho mai visto cose così gravi come quelle che stanno accadendo in Siria: è una grande tragedia, non esiste ancora un tribunale». Con queste amare considerazioni, Carla Del Ponte ha annunciato la sua decisione di lasciare la commissione d’inchiesta Onu sulla Siria. Quella del magistrato svizzero, che è stata procuratrice capo del Tribunale penale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (1999-2007) e per quello che si è occupato del genocidio in Ruanda, è l’ammissione di una sconfitta. Personale, certo, ma che nelle motivazioni che la sottendono chiama in causa le responsabilità di una comunità internazionale che ha osservato nel silenzio, complice, o fomentando una guerra per procura, il martirio di un popolo e la distruzione di uno Stato.

Istituita nel 2011, la commissione – composta da tre membri – ha visto l’ingresso di Carla Del Ponte nel 2012. Pur non potendo entrare nel Paese – e limitandosi quindi a interviste, foto e referti – negli anni ha documentato le atrocità commesse da entrambe le parti durante la guerra. Le indagini sono state a 360 gradi: armi chimiche, attacchi ai convogli umanitari, assedi che hanno decimato migliaia di civili. I loro rapporti, però, non hanno fatto breccia in un consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite ostaggio del veto russo che, ad esempio, ha sempre mostrato la ferma intenzione di non coinvolgere la Corte penale internazionale dell’Aja.

Con le sue dimissioni, Carla Del Ponte ha voluto denunciare sette anni di impunità, chiamando in causa le responsabilità delle due potenze globali, Russia e Usa e dei loro leader, di ieri (Obama) e di oggi (Putin e Trump). In un Paese ridotto a un cumulo di macerie, parlare di “vittoria” è un oltraggio alla memoria delle vittime oltre che un insulto alla ragione. Perché tutti hanno perso in Siria. Perché in Siria è morta l’umanità. Perché in Siria potenze globali e regionali hanno giocato con la vita di una intera nazione, mettendola in ginocchio, ipotecando il futuro delle generazioni a venire…

L’articolo di Umberto De Giovannangeli prosegue su Left in edicola


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Martiri e assassini come vuole il monoteismo

Secondo Meir Hatina, autore de Il martirio nell’Islam moderno non si possono definire kamikaze perché non compiono attentati in un contesto di guerra con lo scopo di colpire al cuore il sistema militare altrui. I fondamentalisti musulmani uccidono suicidandosi in nome di una fantomatica ricompensa nell’al di là. Devoti di un dio assoluto perdono ogni rapporto con l’umano, diventando completamente anaffettivi, lucidi, crudeli, come abbiamo letto ne L’origine del terrore. Dopo l’approfondimento psichiatrico ora con il professor Meir Hatina vorremmo analizzare alcuni aspetti storici del jihaidismo e della sua “evoluzione”.

Nel libro Il martirio nell’Islam moderno, pubblicato in Italia da ObarraO, il docente di studi islamici e mediorientali della Hebron University indaga l’idea di martirio comune a tutti e tre i monoteismi. «L’ebraismo, nel periodo maccabeo, adottò il concetto di una lotta contro il male in nome del monoteismo. La cultura greca introdusse in questa ideologia una dimensione particolare con l’immagine del filosofo ascetico». Poi «il Cristianesimo creò il modello dell’uomo di fede guerriero». La figura del martire, dunque, è propria del monoteismo. Nella storia dell’islam ha subito una metamorfosi: se nell’antichità era una figura isolata, in tempi recenti – vedi l’esempio di Hamas – ha guadagnato consenso sociale nell’ambito della lotta all’oppressione israeliana, corroborato da risarcimenti alle famiglie. Ma è soprattutto con Osama bin Laden, agli inizi degli anni Novanta, che è avvenuto un salto.
Professor Hatina il concetto di jihad globale è stato inaugurato da al-Qaeda?
Nei primi anni Novanta ha introdotto una nuova dimensione nell’islam moderno, quello del jihad che attraversa i confini geografici e politici ed è diretto sia contro l’Occidente che contro il mondo arabo-musulmano. Parlo del jihad transnazionale accompagnato dall’intensificazione della violenza e santificato dall’ethos del martirio. Gli attacchi spettacolarizzati di al-Qaeda in tutto il mondo hanno catturato l’immaginazione dei musulmani, ma non hanno portato l’organizzazione a guadagnare tutta la scena. Era e rimane una minoranza ideologica nello spettro islamico, che continua a essere più orientato verso movimenti comunitari come I Fratelli musulmani o Al-Nahda (in Tunisia). L’incapacità di al-Qaeda di diventare davvero egemone ha portato alla radicalizzazione dei suoi ranghi e all’ascesa di un’ala guidata da Abu Mus’ab al-Zarqawi in Iraq e deli’Isis.
Con l’emergere di Isis cosa è cambiato?
L’Isis è stato alimentato dalla lotta contro le forze americane in Iraq, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein nel 2003 e le fratture delle relazioni sunnite-sciite. Ma ha costruito la sua posizione principalmente grazie alla debolezza di Bagdad e di Damasco (dopo lo scoppio della guerra civile nel 2011). L’Isis ha adottato una fredda crudeltà, non solo negli attacchi suicidi a musulmani e non, ma anche nelle esecuzioni pubbliche di prigionieri e civili. Anche l’Isis ha cercato di fondare istituzioni di governo, di diritto e di istruzione in tutti i territori sotto il proprio controllo. La rete virtuale di Isis, in cui ha dimostrato capacità impressionanti, era strettamente intrecciata a reti fisiche di presenza e di governance. L’organizzazione è riuscita a terrorizzare i rivali locali e ha costretto l’Occidente a una posizione difensiva, ma come è accaduto per al-Qaeda, rimane una minoranza ideologica, incapace di allargare i confini della propria presenza in alcune parti dell’Iraq e della Siria, zone in cui è attualmente quasi sconfitta. Anche se la sua ideologia continuerà ad attrarre seguaci, il futuro presto ci dirà cosa ne sarà del sedicente Stato islamico.
I bambini, le donne o le persone malate non erano mai state un target. Attacchi terroristici come quello avvenuto al concerto di Ariana Grande dove hanno perso la vita più di venti adolescenti, ci dicono che qualcosa è drammaticamente mutato.
La radicalizzazione dell’Islam durante il XX secolo ha posto una nuova enfasi sul ruolo del credente, a cui chiede di diventare agente attivo nella missione di realizzare il regno di dio. Per i musulmani radicalizzati di oggi, il vero uomo di fede deve percepire il mondo come arena di lotta e la propria vita come temporanea. Deve combattere a morte contro un regime corrotto e tirannico. Ma il suo compito principale è attaccare e uccidere senza mettersi a rischio deliberatamente. Sì, è vero, i civili non erano un target. Questi due parametri – la morte circostanziata del miliziano e la desistenza nei confronti dei civili – facevano una ideologia del martirio incardinata su un divieto teologico dell’auto-immolazione e dell’uccisione di civili. Questi parametri segnano uno spartiacque tra i primi gruppi radicalizzati degli anni Settanta e Ottanta rispetto a quelli di al-Qaeda e dell’Isis dagli anni Novanta in poi, che hanno sostituito il cauto sacrificio di sé con un jihad transnazionale che non fa alcuna distinzione tra soldati, prigionieri e civili. Già nel 1998, bin Laden dichiarò che non esistevano civili innocenti: «Sono tutti soldati in guerra>>. I’Isis ha fatto un passo ulteriore, prendendo di mira anche i musulmani che non si oppongono ai regimi “infedeli” nei propri Paesi.
«Il terrore è una fine in sé per Isis, il cui unico scopo è quello di infliggere dolore e istigare la paura», ha scritto Kenan Malik dopo l’attacco di Manchester. Autore di Il multiculturalismo e i suoi critici (Nessun dogma) rileva forti analogie fra la mente dei jihadisti e quella di mass murders americani come, ad esempio, Dylann Roof. Cosa ne pensa?
Non penso che la violenza e l’intimidazione siano l’unica finalità dell’Isis. Sono strumenti centrali per imporre una certa immagine dell’islam. Gli serve per differenziare l’Isis da altre correnti e movimenti islamici e proiettare un’idea di islam potente sulla scena internazionale. Questo tipo di immagine dell’islam appariva già erosa dopo il colonialismo europeo, la disintegrazione dell’impero ottomano e dopo la prima guerra mondiale. L’Isis sta conducendo una lotta moralistica e una guerra psicologica non meno che politica e cerca di ridefinire i criteri del vero credente e di chi non lo sarebbe. L’aver proclamato la fondazione di un califfato islamico nel 2014 indica un programma per imporre una visione ideale in una realtà concreta, non si limita a terrorizzare i nemici.
Possiamo dire tuttavia che il jihad globale rimane ai margini del consenso islamico?
In larga misura è così. Una prospettiva pan-islamica è irrealistica, astrattamente utopica e non rappresenta il punto focale del discorso islamico. Inoltre la violenza globale non produce concrete conseguenze politiche o una trasformazione radicale della politica statale. In definitiva, i movimenti radicali rappresentano una “cultura dell’enclave” che necessita costantemente di compattare la propria coesione interna di fronte a un ambiente ostile, lo fa con diktat violenti e adottando un approccio puritano e dogmatico.

 

Paco Ignacio Taibo II: «Il Messico rialza la testa e guarda a sinistra»

Ha in mano una copia del suo nuovissimo Patria quando lo intravedo nell’ombroso cortile dell’Hotel dove alloggia. Paco Ignacio Taibo II lo sfoglia con evidente soddisfazione fra un’intervista e l’altra in attesa del suo prossimo incontro con il pubblico di Encuentro, il festival di letteratura latinoamericana in corso a Perugia. «È il primo volume di una trilogia ed è ambientato nel più grande periodo rivoluzionario che il Messico abbia conosciuto, quello che va dal 1854 al 1866», mi racconta mentre ordiniamo un caffè e, lui, la sua solita Coca Cola. Giornalista, scrittore di romanzi di avventura, di polizieschi dal piglio caustico e travolgente Taibo II è un grande maestro di controstorie, capace di smascherare le narrazioni menzognere targate Usa ai danni dei latinos. E non solo. «In questo nuovo libro racconto una vera rivoluzione democratica. In quel preciso momento in Messico, con la rivoluzione di Ayutla, cominciò la costruzione della Repubblica. Fu fatta contro tutto e contro tutti». Ovvero? «Contro la dittatura del generale Antonio López de Santa Anna che aveva perso la guerra contro gli Stati Uniti, contro i conservatori nel corso di una guerra che durò tre anni, direttamente contro la Chiesa per la prima Costituzione progressista del 1857. Contro l’invasione dell’esercito di Napoleone III e contro l’impero di Massimiliano d’Austria. Questa è la storia di una guerra e di una resistenza popolare che durò 14 anni».
Perché hai sentito l’esigenza di tornare a scrivere dell’Ottocento?
Da noi la preistoria comincia nel XIX secolo; non c’è niente prima. Il Messico aveva bisogno di un libro così per rendere evidente il contrasto fra quella esperienza e quella di oggi, per vedere bene chi è al potere in Messico.
Un romanzo storico che denuncia il governo Nieto?
Patria ha due gambe. C’è una visione narrativa del passato, una storia complicata, ampia, piena di avventura e c’è un sotto testo che riguarda il modo attuale di governare. I messicani hanno rialzato la testa e cominciano a premere per una svolta. Prima di venire a Perugia per la strada i lettori mi fermavano chiedendomi: “Quando esce Patria? Facciamo il culo al governo di Nieto?”. La risposta è sì.
Perché una trilogia, vista l’urgenza dell’attualità?
Servono pagine su pagine su pagine per raccontare tutta questa storia. Ho avuto una lunga discussione con il gruppo editoriale Planeta che pubblica il mio libro in Messico. Ha un pubblico di lettori giovani, un volume di mille pagine sarebbe stato troppo caro per loro. Per rendere abbordabile l’opera e venire incontro ai meno abbienti lo abbiamo diviso in tre tomi. Perciò abbiamo deciso di lanciare una campagna pubblicitaria fuori dal comune, che dice: “Hai 59 giorni per leggere il primo tomo. Perché il giorno seguente, il sessantesimo, esce il secondo volume”.
Sembra una storia alla Balzac, fa pensare all’attesa febbrile che accompagnava ogni nuova puntata di un feuilleton…
Mi sento un autore di romanzi popolari. Mi piacerebbe scrivere romanzi d’appendice. Ma oggi è impossibile perché è un genere anti economico.
Mentre in Messico esce Patria in Italia esce in nuova edizione L’ombra dell’ombra grazie a La Nuova frontiera che sta ripubblicando tutto il tuo catalogo. Come è riviverne l’uscita oggi?
È una sensazione particolarmente piacevole. Il recupero del catalogo è un progetto divertente perché mi permette di rivedere come fosse un film tutto il mio lavoro letterario.
I tre romanzi che la Nuova frontiera ha appena ripubblicato hanno rappresentato una svolta nel genere poliziesco tradizionale.
Sono libri che segnano una svolta nel mio percorso. Ero cascato senza volerlo nei classici romanzi di detective. L’ombra dell’ombra, A quattro mani, La bicicletta di Leonardo e Ritorniamo come ombre (i primi tre sono già usciti, il quarto sarà in libreria a fine anno, ndr) rappresentano modi diversi di avvicinarsi al poliziesco, con grande attenzione alla storia ma anche con il gusto dell’avventura, cercando di portare nuovo ossigeno.
In L’ombra dell’ombra s’incontrano personaggi come il sindacalista dal nome asiatico, Wong, o il poeta costretto a darsi alla pubblicità per sbarcare il lunario. Un romanzo che preconizzava le contraddizioni del nostro presente?
Sì, è vero, questi personaggi incontrano il presente. All’epoca volevo uscire dall’idea del protagonista unico e centralissimo, tipica del genere poliziesco. Sono nati così questi quattro personaggi molto, molto forti, con luci e ombre. Tutti quanti conducono la narrazione. Ho voluto ambientare L’ombra dell’ombra nel periodo successivo alla sconfitta della rivoluzione messicana. Il libro comincia quando Pancho Villa ed Emiliano Zapata sono già morti e con loro molti eroi della rivoluzione. A ben vedere c’è un parallelo con i nostri giorni. Dopo l’onda lunga degli anni Sessanta e Settanta ha preso il sopravvento un senso di sconfitta, di scoramento. Ma questi quattro personaggi dicono no, la rivoluzione deve rifiorire. Erano gli anni in cui lo Stato cercava di nazionalizzare il petrolio. C’è una trama nella trama, una storia occulta che riguarda il controllo delle zone petrolifere, cosa che sta diventando palese ora.
La storia del Messico negli ultimi anni ha avuto pagine molto dure. È stata uccisa Miriam E. Rodriguez, leader di un movimento di famiglie di desaparecidos. Il corpo di sua figlia fu ritrovato a due anni dalla scomparsa in una fossa comune. Aveva 5 anni. Lei si batteva perché emergesse la verità sui 43 studenti scomparsi nel 2014…
Purtroppo tutti i giorni accade una storia simile in Messico. Il governo non fa nulla e il Paese è a pezzi.
Ma c’è anche un altro volto del Messico, cosa sta accadendo davvero?
Hai sette pagine… È un momento complicato, durissimo. Tuttavia c’è anche un gran fermento, ci sono segnali che fanno sperare in una vittoria della sinistra alle elezioni del 2018. L’apparato di potere è in allerta, è disperato, è impazzito.
Colpi di coda come i nazisti in ritirata?
Stiamo parliamo di un governo neo liberale corrotto, distrutto dai traffici illeciti. Ci sono complicità di apparati dello Stato con i narcos, c’è uno scandalo finanziario tutti i giorni e un livello insicurezza altissimo. Lo Stato messicano ha centomila figli di puttana che sanno vivere solo in un modo nelle strutture del potere: facendo traffici turpi. Centomila non sono pochi perché intorno c’è un milione di portaborse. Il cittadino medio in Messico rischia ogni giorno la vita, perché per quanto tu possa cercare è difficilissimo trovare un avvocato degno di questo nome, un ingegnere che sappia fare il proprio lavoro, un professore universitario brillante, un economista serio. Incontri solo uomini di potere, persone mediocri e poi uomini di rapina, autoritari, insolenti, abbrutiti, semi analfabeti.
Perciò il governo ha attaccato il sistema scolastico?
Sì, da quattro anni cercano di distruggere la scuola messicana.
E uccidono gli insegnanti che protestano.
La resistenza è forte ma la realtà del mondo del lavoro tende a spezzare i legami. I giovani che entrano nel mondo del lavoro oggi non conosceranno mai parole come “ferie”, “scatti di anzianità”, che erano comuni un tempo. Se chiedi a un lavoratore di 16 o 17 anni del suo riposo settimanale, ti risponde “Cosa? Di che parli?”. Sono sotto contratto dal lunedì al giovedì, vengono licenziati il venerdì, e ripresi al lavoro il lunedì.
Ma la protesta sta salendo?
La grande sfida è quella delle elezioni del prossimo anno. Ribadisco, ci sono possibilità concrete che la sinistra vinca.
Sarebbe un segnale importante per tutta l’America Latina, dove molte democrazie sono in crisi come stiamo vedendo in Brasile. Per non dire dell’Argentina che sta tornando indietro di anni con le politiche di destra del neoliberista Macri.
L’uscita dalle dittature militari è avvenuta in Argentina e in Cile ma non c’è stata ancora in tante altre zone. Il pendolo della democrazia ha coinvolto il Messico con trent’anni di ritardo rispetto ad altri Paesi, mentre non è ancora arrivato in Colombia. La questione dei desaparecidos è drammatica in Messico. In Argentina la verità è stata in gran parte messa nero su bianco ed è in corso l’elaborazione della memoria ma ora questo processo rischia di fermarsi con l’attuale governo. Il fenomeno dei desaparecidos è uno dei temi centrali nella società messicana ed è intimamente legato all’impunità della criminalità. Il sistema giuridico non funziona, è un sistema piramidale, in cui gli ordini arrivano dall’alto. Risponde a delle necessità politiche.
Dunque da dove ripartire?
Non importa da dove, ripartiamo e basta. Già sta accadendo. Nell’ultimo anno la sinistra ha ripreso campo. Il sindacato ha una marea di affiliati. Tutto questo non riguarda solo le grandi città. Ho fatto su e giù per il Paese e ho trovato un bel fermento ovunque sia andato.
La nuova frontiera ha da poco pubblicato Operazione Massacro di Roberto Walsh con una tua appassionata prefazione. Scrittore e giornalista desaparecido dalla dittatura argentina nel 1977, Walsh in Italia sta diventando un autore di culto.
Lo stesso accade in Messico. Con la nostra Brigada abbiamo fatto un corso sul “nuevo periodismo” negli anni Venti raccontando autori come Reed Moscon, Walsh. Era un corso per un numero ristretto di persone ma abbiamo fatto delle riprese integrali. Dalla pagina della Brigada risulta che l’hanno già viste ottomila persone.
La tua Brigada continua a distribuire libri in giro?
Se l’impresa della Brigada continua? Certo che sì! Solo cinque giorni fa eravamo in mezzo alla strada a fare conferenze. Stiamo facendo una fiera del libro tutti i giorni dell’anno nei quartieri. Lo facciamo 350 giorni all’anno, con conferenze, dibattiti. E poi regaliamo libri, facciamo baratti.
Quanto conta il lavoro culturale sul territorio?
È il pesce che muove l’acqua. La Brigada trova il suo humus in questo nuovo movimento del sindacato, nelle scuole, nelle università.
Il Messico è però, ancora, un Paese pericoloso?
Sì lo è in larga parte. Dipende a che ora ti muovi. Non lo avverti in maniera diretta. Io non ho paura a camminare di notte, ma non lo consiglierei a tutti.
Con l’omicidio di Javier Valdez Cardenas, dall’inizio dell’anno sono già 7 i giornalisti uccisi.
Puoi incappare molto facilmente in zone dove rischi la vita. Se non hai una guida esperta può capitare di finire in zone di conflitto. Indubbiamente fare il giornalista in Messico vuol dire mettere a rischio la propria vita.

Allargando lo sguardo al continente latinoamericano?
Oggi non riesco a vedere bene il quadro. Ho un problema molto messicano. I messicani sono ossessivamente messicani. Anche perché la pressione delle questioni nazionali è così forte che sei sempre molto concentrato. La nostra situazione è talmente ingarbugliata che ti assorbe completamente. Ho viaggiato di recente in Argentina, in Venezuela, ma sono impressioni fugaci, non approfondite. Stranamente non sono più andato in Brasile.
Come vedi questo nostro centro sinistra che rincorre la destra sul suo terreno? Come ricostruire un orizzonte di sinistra?
La ricostruzione di una idea di sinistra è una faccenda che va giocata a livello internazionale. Io lo vedo come un processo che comincia con una domanda: dove sono i miei interlocutori? I miei, individuali, personali, nei quali mi riconosco pubblicamente. Quando il Paese è pervaso da questa domanda inizia a nascere la sinistra, come fenomeno dal basso. È vero che in Italia la saturazione sta arrivando al limite. Quando qui mi chiedono dov’è la sinistra? Io rispondo sempre dicendo, se sei di sinistra sei tu che devi trovare gli altri duecento che vogliono stare con te perché tu sei di sinistra. Il punto è incontrarsi. Il guaio è che la sinistra ha rinunciato ai grandi progetti nazionali in nome del lavoro da formica. Difendiamo i delfini, portiamo la luce elettrica nelle case occupate, organizziamo una biblioteca popolare. Questo lavoro parcellizzato disperde l’idea di un progetto complessivo. La burocrazia e i conservatori ne approfittano.

Da noi il fascino che ha esercitato sul centro sinistra il pensiero neo liberista ha contribuito alla sconfitta. Che ne pensi?

Tutto questo ha un nome: malattia mentale. È una patologia purtroppo diffusa in tutto il pianeta per cui la destra ha assunto tinte fascistoidi. È accaduto negli Stati Uniti e in Francia. Il centro scompare, e la sinistra corre al centro diventando il nulla, perché il centro è il nulla. Questa sinistra possibilista che si preoccupa solo del potere, di fatto, si sta convertendo in centro destra.

Stai per incontrare il pubblico del Salone del libro di Torino, che invita a riflettere sul tema dei confini. Vediamo sorgere nuovi muri con Trump, vediamo il dramma dei migranti che perdono la vita nel Mediterraneo avendo il miraggio dell’Europa.

È un tema molto complicato. Trump ha una sorta di delirio. La frontiera messicana è già fatta di muri grandi, piccoli, fili spinati, rottami. Trump pensa davvero che un muro possa fermare il flusso di migranti dall’America latina o è un discorso retorico per la politica interna? Qualche anno fa ero a Mexicali. A delle persone ho chiesto: “Cosa sta nascendo?”. “Stiamo costruendo un cazzo di muro”, mi ha risposto uno con chiaro accento messicano. E io: “Perché c’è un pezzo, un muro e un altro pezzo?”. E lui: “Il buco? Il buco è per passare”.

Su Left in edicola, un estratto de L’ombra dell’ombra di Paco Ignacio Taibo II


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Jim Al-Khalili: L’arabo è la lingua madre delle scienze

Il pensiero scientifico e culturale occidentale è in debito, ben più di quanto comunemente si pensi, con ciò che realizzarono oltre mille anni fa gli scienziati e i pensatori del mondo arabo. Nella storia della scienza si è soliti mostrare una linea temporale che, nel periodo compreso tra la grande civiltà classica greco-latina e il Rinascimento europeo, elusivamente descritto come Età Oscura, non mostra alcun progresso significativo in campo scientifico. Si omette così, troppo spesso, di dire che per 700 anni la lingua internazionale della scienza fu l’arabo.Tutto ha inizio durante il IX secolo quando il califfo abbaside di Bagdad, Abu Jafar Abdullah al-Mamun, crea uno dei centri di studio più imponenti che la storia umana abbia mai conosciuto, noto col nome di Bayt al-Hikma, La casa della saggezza. Qui numerosi intellettuali lavorarono alla traduzione e al commento di opere greche e indiane di matematica, medicina e astronomia, ponendo le basi per lo sviluppo della scienza moderna. Jim Al-Khalili, docente di fisica teorica alla University of Surrey di Londra, che in quei luoghi è nato e cresciuto prima di trasferirsi in Inghilterra nel 1979 due settimane prima dell’ascesa al potere di Saddam Hussein, ha ripercorso questa straordinaria avventura culturale nel suo libro La casa della saggezza (Bollati Boringhieri). Svelando, da fine divulgatore scientifico, i nomi dei protagonisti di questa epopea: Abu Rayhan al-Biruni, Ibn al-Shatir, al-Khwarizmi, Ibn al-Haytham, al-Razi ed altri ancora.

Left gli ha rivolto alcune domande. «È un fatto documentato – racconta Jim Al-Khalili – che dal XII al XVII secolo e oltre, scienziati e artisti occidentali studiarono a fondo i testi di medicina, di ottica di matematica provenienti dal mondo arabo. Dove ad esempio per la prima volta fu sistematizzato un sistema di numeri che permetteva di contare da zero a infinito. Un punto di snodo fondamentale per la trasmissione dei manoscritti della scienza araba è stata nel Duecento la corte di Federico II in Sicilia, ma anche la penetrazione araba nel sud della Spagna aveva prodotto una capillare diffusione della tradizione araba e dell’islam».

Alla luce del contributo dato dalla scienza araba alla realizzazione dell’identità culturale occidentale, si può ipotizzare che questo apporto sia stato negato dalle società europee?

Non direi che è stato negato, ma più semplicemente dimenticato. Con il Rinascimento, seguito dalla rivoluzione scientifica guidata da Copernico e Galileo, l’Europa è progredita molto velocemente e in un certo senso ha reinventato la propria identità culturale, distruggendo gran parte di ciò che è venuto prima. Nonostante ciò parole antichissime restano ancora oggi quasi uguali nel linguaggio della scienza moderna. Parlo di parole come algebra, come algoritmo, come sostanza alcalina. Non ci sarebbe la matematica senza algebra, non ci sarebbero i computer senza algoritmi, non ci sarebbe la chimica senza il termine alcalino. E non ci sarebbe stata una moderna astronomia se gli arabi non avessero corretto gli errori di Tolomeo, tracciando così mappe per la navigazione assai precise.

In Paesi come la Spagna, l’influenza araba è andata oltre la scienza.

Il contributo è stato vastissimo. Durante il Medioevo, nel corso di centinaia di anni, centinaia di testi arabi furono tradotti in latino, in particolare in città come Toledo, Granada e Cordoba. Da lì sono stati diffusi in tutta Europa. Non si trattava solo di traduzioni in arabo di testi della Grecia “antica” – sebbene in molti casi, i classici tra cui Aristotele, Galeno, Tolomeo ed Euclide, arrivano in Europa solo attraverso le loro versioni in arabo. C’erano anche numerosi testi originali in arabo che hanno inciso profondamente sulla cultura occidentale e il progresso scientifico.

Ci faccia qualche esempio.

Penso al Libro di Ottica di Ibn al-Haytham, tradotto prima in latino e poi dal latino in italiano “comune”, rendendolo accessibile a un numero molto più ampio di persone tra cui diversi artisti rinascimentali come Leon Battista Alberti e Lorenzo Ghiberti e, indirettamente, il pittore olandese, Jan Vermeer. Tutti hanno fatto uso delle sue tesi sulla prospettiva per creare l’illusione della profondità tridimensionale su tela e nelle sculture. Lo stesso Leonardo, che aveva una ricca collezione di manoscritti, si interessò alla tradizione araba. E penso alle tabelle astronomiche di al-Farghani (Alfraganus), che hanno influenzato enormemente Dante. Deriva da al-Farghani la maggior parte delle conoscenze astronomiche che il poeta fiorentino include nella sua Divina Commedia. Per non dire di Cristoforo Colombo che ha preso spunto dai suoi calcoli sulla circonferenza della Terra per convincere i reali di Spagna a finanziare il suo famoso viaggio. Storie simili possono essere trovate in medicina, astronomia, ingegneria, matematica e geografia.

Venendo all’oggi e alle questioni di bioetica, molti Paesi arabi e di religione islamica sembrano più avanzati – scientificamente parlando – rispetto a nazioni di tradizione cattolica. Pensiamo in particolare alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Inoltre nell’islam il feto non è considerato un essere umano.

Ritengo che alcuni Paesi islamici, come l’Iran, siano in grado di svolgere più facilmente rispetto all’Italia attività di ricerca sulle cellule staminali per una semplice questione di fortuna. Nel senso che la loro particolare interpretazione religiosa della sacralità della vita è diversa da quella cattolica. Essi credono che l’anima entri nel feto di 40 giorni dopo la fecondazione. E questo non vuol dire che il loro pensiero scientifico sia più evoluto, perché non è un pensiero.

Lei si definisce un “tenero ateo”. Ritiene possibile essere un bravo scienziato avendo la mente piena di dogmi religiosi?

Molto dipende dall’ambito scientifico nel quale si lavora. Per esempio, può il biologo essere un creazionista? Certamente no. Il concetto basilare in biologia è la selezione naturale delle specie teorizzata da Darwin. Non si può al tempo stesso credere che l’evoluzione sia corretta e che la Terra sia stata creata 6000 anni fa. Tuttavia se mi chiede: può essere creazionista chi condivide la Teoria delle stringhe (teoria che tenta di conciliare la meccanica quantistica con la Relatività generale formulata da Einstein, ndr), posso risponde di sì in via di principio. Sarei però deluso se qualcuno abbastanza intelligente da capire la Teoria delle stringhe arrivasse a credere nel creazionismo. Ma sul piano pratico quella teoria e l’idea di un Disegno intelligente possono non confliggere. Naturalmente, la fiducia nella scienza comporta l’adesione a una visione del mondo per cui l’universo è intelligibile tramite leggi e principi profondamente basilari che scaturiscono dalla logica e dalla deduzione e che sono comprensibili dalla mente umana. Pertanto, dovendo rispondere alla domanda se tutto ciò sia compatibile col credere che esista un essere soprannaturale che non ha bisogno di essere dimostrato, allora rispondo: no.

L’attentato a Barcellona rivendicato dall’Isis. Uccisi nella notte cinque terroristi

In un frame tratto da un video su twitter uno dei feriti dal furgone bianco sulla Rambla a Barcellona, Barcellona, 17 agosto 2017. ANSA/TWITTER ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Tredici morti e oltre ottanta feriti, fra loro anche molti bambini. E’ il drammatico bilancio dell’attentato a  Barcellona, accaduto nel pomeriggio del 17 agosto. Intorno alle 17.20 un furgone bianco ha investito la folla sulla Rambla, vicino a Plaza Cataluña, un posto molto frequentato anche dai turisti. La modalità usata dagli attentatori, un viecolo lanciato all’impazzata sulla folla assomiglia a quella che è stata messa in atto a Nizza un anno fa. Attentati molto simili sono stati quelli di Londra e di  Berlino al mercatino di Natale. Jihaidisti affittano un camion e fanno strage di civili, a casaccio. Dal loro punto di vista criminale questo tipo di attacco produce il maggiore effetto con meno rischi di fallimento.

Come prevenire? E’ la domanda che si ripropone con urgenza. Evidentemente non basta il monitoraggio delle strade, delle piazze; i luoghi sensibili sono moltissimi, difficile poter mettere in sicurezza tutti quelli potenzialmente sensibili. Per la prevenzione sarebbe importante il monitoraggio del processo di radicalizzazione, conta l’osservazione dei comportamenti via internet dei soggetti sospettati, conta la capacità di leggere sintomi e segnali da parte dei servizi  di intelligence prima che i fondamentalisti passino all’atto. I miliziani dell’Isis, come è noto, reclutano persone “borderline”, spesso  si tratta di giovani che hanno già avuto a che fare con la criminalità oppure di persone comunque già segnalate. Era questo il caso dell’attentatore di Manchester. Nel caso di Barcellona il giovane arrestato sarebbe il fratello del giovane attentatore,si saprà di più nelle prossime ore.

Per approfondire come avviene il processo di radicalizzazione religiosa da leggere L’origine del terrore.  

L’Isis ha rivendicato l’attentato, lasciando intendere che si tratta di una risposta gli attacchi anti Isis a Mosul ( liberata dall’Isis) e a Raqqa dove i miliziani dell’isis sono assediati.  Per cercare di comprendere quale scenario internazionale sia alla base delle violente rappresaglie dello Stato islamico abbiamo dedicato la storia di copertina di Left in edicola il 19 agosto alla guerra in Siria.

Quello che segue il messaggio via twitter del sindaco di Barcellona, Ada Colau, a cui ci associamo:

 

 

 

 

 

 

Aggiornamento del 18 agosto ore 8:00:

Dopo l’attentato a Barcellona, nella notte c’è stato un nuovo tentativo di attacco a Cambrils una cittadina lungo la costa a sud di Tarragona. La polizia ha intercettato un’auto sulla Avenida de la Diputaciò, il lungomare. Sembra che la macchina avesse l’obiettivo di investire le persone tra i bar ancora affollati. Per mezz’ora si è scatenato un conflitto a fuoco violentissimo, inseguimenti, ancora persone in fuga dalle raffiche. Il tutto sarebbe stato parte di un piano che prevedeva anche un attacco con esplosivo. Su questa pista sta lavorando la polizia catalana. Nella sparatoria di  Cambrils cinque terroristi sono rimasti uccisi.  Questi due episodi sono stati preceduti da una esplosione in una casa nel comune di Montecarlo de Alcanar Platja, 110 chilometri a sud di Tarragona e una novantina a sud di Cambrils.  Nell’abitazione sono state trovate molte bombole di gas forse utili a preparare degli ordigni. Proseguono le indagini.