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Le truppe Usa rimangono in Afghanistan, parola di Trump che manda altri quattromila soldati

epa06155618 US President Donald J. Trump (L) greets military leaders before his speech on Afghanistan at the Fort Myer military base in Arlington, Virginia, USA, 21 August 2017. Trump was expected to announce a modest increase in troop levels in Afghanistan, the result of a growing concern by the Pentagon over setbacks on the battlefield for the Afghan military against Taliban and al-Qaeda forces. EPA/MARK WILSON / POOL

Donald Trump cambia idea sull’Afghanistan: le truppe americane non lasceranno il Paese. L’operazione militare in Afghanistan che il presidente americano aveva precedentemente definito «una perdita totale» non finirà. «Il mio primo istinto sarebbe stato di ritirarsi – ha detto Trump – ma questa decisione creerebbe un vuoto di cui i terroristi si approfitterebbero immediatamente, esattamente come prima dell’11 settembre». Il presidente statunitense ha delineato in diretta tv le linee guida della nuova strategia militare americana: i comandanti sul territorio avranno molta più libertà, senza date di scadenza o restrizioni, prefissandosi come unico scopo l’eliminazione del terrorismo: «l’America sta uccidendo i terroristi», ha dichiarato durante il suo discorso.

E così, mentre Obama aveva ridotto il numero dei militari presenti sul territorio da 100.000 a 9.000, promettendo il ritiro finale delle truppe, il nuovo presidente degli Stati Uniti compie l’ennesimo dietrofront, e dice che l’America non batterà in ritirata «fino alla vittoria finale» e la Casa Bianca ha già autorizzato il Pentagono a mandare altri 4.000 soldati in Afghanistan
. Trump ha detto che gli Usa non useranno più le proprie forze militari per costruire democrazie somiglianti a quella americana: «questa volta non stiamo costruendo una nazione, stiamo uccidendo i terroristi», ha ribadito il presidente.

Durante la campagna elettorale Trump aveva dichiarato di essere contrario alla guerra in Afghanistan, ma per giustificare il suo voltafaccia ha affermato che: «è risaputo che agisco d’istinto, ma per tutta la vita ho sentito dire che le decisioni da prendere appaiono molto diverse quando sei seduto nello Studio ovale, ed è vero». E così, questa guerra che continua da 16 anni, la più lunga nella storia degli Stati Uniti, non avrà ancora fine.

Aggiornato alle 19.04 del 22/08/2017

Usa, cresce la protesta contro i suprematisti. E la madre di Heather zittisce Trump

epa06152440 Hundreds of people participate in the Georgia Resists: Take Down White Supremacy March in downtown Atlanta, Georgia, USA, 19 August 2017. Several activist groups organized the march after the violence in Charlottesville, Virginia. EPA/ERIK S. LESSER

Non ha alzato la cornetta del telefono, perché sapeva che dall’altro lato del cavo c’era la Casa Bianca. Perché il presidente del suo Stato, il più potente al mondo, aveva detto che per la violenza della protesta c’era da «blame on both sides», cercare la colpa da entrambi i lati, da entrambe le parti. Perché lei lo aveva visto e sentito durante la conferenza in tv comparare sua figlia, un’antirazzista militante, ai manifestanti del Kkk, ai suprematisti bianchi, ai nazisti e ai fascisti. E ha deciso che questo lei non glielo avrebbe né permesso né perdonato.

Così Susan Bro ha fatto sapere al mondo dal suo paesino, Ruckersville, attraverso gli schermi di “Good Morning America” – una trasmissione che parla a migliaia di americani al mattino molto presto – che l’uomo che twitta stupidità ad ogni ora della notte, il signor Trump, non se la sarebbe cavata così: «Non laverà via quello che è successo stringendomi la mano e dicendo I’m sorry, mi dispiace. Io non lo perdonerò».

Susan Bro ha la pelle bianca come i suoi capelli, gli occhiali, una camicia rosa, come il colore dei fiori che hanno lasciato per sua figlia. Susan Bro è la madre di Heather D.Hayer, morta durante gli scontri tra suprematisti bianchi e antirazzisti a Charlottesville, in quegli Stati Uniti dove l’inquilino della Casa Bianca ha tardato a condannare le torce, le marce e le svastiche di chi si era preso le strade reclamando white power, potere bianco, per gli uomini bianchi e solo per gli uomini bianchi.

«Pensa, prima di parlare» ha detto Susan a Trump. È la madre di Charlottesville adesso a parlare per tutta l’America. L’uomo dai capelli gialli pensava di cavarsela con un tweet: ha detto di sua figlia che era una «special young woman che verrà ricordata da tutti».
Mentre le marce antirazziste si moltiplicano in tutta l’America, Susan ha detto: «I’m sorry, I’m not talking to the president. Non parlerò al presidente, mi dispiace, dopo quello che ha detto su mia figlia. Avete provato a zittirla, invece l’avete resa immortale».

Heather D.Hayer era una giovane antifascista di 32 anni ed è stata investita da un auto – stessa modalità degli attentatori di Barcellona – perché partecipava alle proteste multietniche di un’America sempre più violenta contro i suoi figli afroamericani. Adesso bisogna ricordare la sua memoria, non quella di Robert E. Lee, il generale capo dei sudisti. È stata per la rimozione della sua statua dalla città che i suprematisti sono scesi in piazza. Il sindaco di Charlottesville, Mike Siger, ha detto che è tempo di fare passi concreti per creare il memoriale di una battaglia più recente, per ricordare per sempre non il generale sudista Robert Lee, ma l’antifascista americana Heather D.Hayer.

La provvidenziale morte di “faccia da mostro”

L'ex poliziotto in pensione Giovanni Aiello in un fermo immagine del 2014. I pentiti lo chiamavano "faccia da mostro", per quel volto sfigurato da una fucilata. ANSA/UFFICIO STAMPA SERVIZIO PUBBLICO ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

È morto mentre trascinava la sua barca sulla spiaggia di Montauro, sulla costa ionica cataranzese. Giovanni Aiello muore “da innocente” come si affrettano a dire i suoi avvocati: un malore sulla spiaggia. Forse un infarto, dicono.

Eppure Giovanni Aiello è anche il cosiddetto “faccia da mostro” di cui parlano alcuni pentiti di Cosa Nostra. «C’entra con tutti gli omicidi più strani di Palermo», aveva detto di lui il pentito Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio. Recentemente una nuova “fonte” aveva raccontato ulteriori particolari su di lui alla Procura di Reggio Calabria. Alcuni collaboratori di giustizia l’hanno indicato come elemento di congiunzione tra i servizi segreti e gli uomini di Cosa Nostra (ma i servizi smentiscono) mentre a Palermo è stato indicato come elemento fondamentale nell’uccisione dell’agente Nino Agostino, barbaramente ucciso con la moglie Ida Castelluccio. La scena del riconoscimento da parte del padre dell’agente, Vincenzo Agostino, al tribunale di Palermo è una di quelle che straziano solo a pensarle.

A Reggio Calabria Aiello era  indagato dell’inchiesta “Ndrangheta stragista”, che di recente ha svelato il ruolo dei clan calabresi nella strategia della tensione messa in atto dalle mafie negli anni Novanta con le cosiddette “stragi continentali”, in quel pezzo di storia d’Italia in cui mafie, massoneria e servizi deviati hanno avuto un ruolo determinante nella strategia del terrore.

A luglio, per l’ennesima volta, l’abitazione di “faccia da mostro” era stata perquisita. Nello stesso giorno erano state perquisite anche le abitazioni di Bruno Contrada e  dell’ex agente di polizia Guido Paolilli e dei fratelli Gagliardi di Soverato.

Ora Giovanni Aiello invece è morto. Se n’è andato prima che arrivasse la verità. Come succede troppo spesso, qui da noi. E la verità diventa ancora più ripida.

Buon martedì.

A Damasco si continua a morire, razzo sui civili alla Fiera internazionale

La Fiera Internazionale di Damasco, in corso nella capitale siriana per la prima volta dopo sei anni, avrebbe dovuto essere il simbolo se non della fine della guerra in Siria, almeno del lento ritorno ad una vita “normale”. E’ stata invece purtroppo l’ennesima occasione per un altro attentato su civili da parte di mano ignota. Come riporta Michele Giorgio su Nena-news , ieri sei persone, tra cui due donne, sono state uccise da un razzo caduto vicino alla sede della manifestazione. I feriti si contano a decine. Un attentato che sembra cancellare la speranza della fine di una guerra che in quasi sette anni ha distrutto il Paese.

Dal canto suo Bashar Assad si dice convinto che ci sono «segni di vittoria» ma comunque anche per il presidente siriano la fine della guerra è lontana.

Dal resto un altro attacco terroristico era stato compiuto sabato scorso a Latakia, la più importante città portuale della Siria, lasciando per terra tre morti.

Allargando il campo di osservazione c’è da rilevare che prosegue l’operazione dell’esercito libanese contro i miliziani dell’Isis al confine tra Libano e Siria: decine di jihadisti sarebbero stati già uccisi nel corso delle operazioni e, stando ai media locali, sono già stati liberati 2/3 del territorio libanese occupati per anni dall’Isis. La resistenza dei miliziani dell’Isis si sta rivelando meno efficace del previsto e il pericolo maggiore per i militari libanesi sono le mine disseminate per tutto il territorio di frontiera.

Ecco la Carta di San Gimignano, un appello per i diritti dei minori stranieri non accompagnati

Migranti arrivano nel porto di Augusta, in Sicilia, in un'immagine di archivio. ANSA/ UFFICIO STAMPA SAVE THE CHILDREN ITALIA +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

La Carta europea di San Gimignano per i minori stranieri non accompagnati è una iniziativa che parte dal basso, per la precisione nasce dall’esperienza di Circomondo, il festival dei bambini artisti di strada, dei circhi sociali che per anni sono venuti a San Gimignano. Ci tengo a precisarlo perché per noi è un elemento importante. La Carta non nasce dalle chiuse stanze della Commissione o dal Parlamento europeo, o da un gruppo ristretto di esperti.

A noi interessa coinvolgere il più possibile cittadini, enti locali, associazioni di tutti Paesi europei, perché per noi è prioritario creare, attorno ai diritti dei minori stranieri non accompagnati, un vero movimento culturale. Prima ancora di ottenere atti legislativi che comunque rappresentano il nostro obiettivo, pensiamo che solo con una battaglia culturale si possa contrastare il vento xenofobo che tira un po’ in tutta Europa. Con la Carta gettiamo un sasso nell’acqua, sperando che i cerchi si allarghino sempre più. Per questo motivo abbiamo in programma tante piccole iniziative in Europa prima del seminario internazionale d’autunno durante il quale verrà elaborato il testo base della Carta.
E poi veniamo ai punti della Carta.

Il primo naturalmente è quello di riconoscere che i minori, una volta che hanno toccato il suolo europeo, hanno diritto a un visto che dia loro tutti i diritti senza limiti. Devono potersi muovere all’interno dell’Unione, poter raggiungere parenti in altri Stati, con canali immediati per cui la ragazzina che sbarca in Sicilia possa andare immediatamente dalla zia che vive in Germania, per esempio. Devono avere un tutor e in modo quasi automatico una famiglia affidataria a livello europeo. Il tentativo è quello di ridurre in modo drastico la permanenza nei centri di accoglienza. E poi devono veder rispettati tutti gli altri diritti, dalla salute alla scuola.
Questi i punti fondamentali della Carta che discuteremo in autunno a San Gimignano. Dall’Italia per coinvolgere tutta l’Europa sul tema dei diritti dei bambini e adolescenti che cercano una nuova vita. Il loro futuro è anche il nostro.

Adriano Scarpelli è presidente di Carretera Central, associazione titolare del progetto Carta europea di San Gimignano

La «profonda preoccupazione» dell’Onu per lo sgombero di 800 rifugiati a Roma

Le operazioni di sgombero da parte delle forze dell'ordine dello stabile occupato dai migranti e richiedenti asilo a piazza Indipendenza, Roma, 19 agosto 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) in una nota ha espresso «profonda preoccupazione» per l’improvviso sgombero del 19 agosto scorso di 800 rifugiati dalla palazzina di via Indipendenza a Roma. Lo stabile, a pochi metri dalla stazione Termini, dell’ex sede dell’istituto superiore di protezione ambientale (Ispra) era occupato dal 2013 e dava accoglienza a circa 250 famiglie, per la maggior parte formate da rifugiati eritrei ed etiopi. Lo sgombero, cominciato alle prime luci dell’alba ha colto di sorpresa i rifugiati che sono scesi in strada per una breve protesta, sebbene l’operazione si sia svolta in modo pacifico.

Nella nota l’Unhcr sottolinea come quello di via Indipendenza non sia un caso isolato: a Roma sono migliaia i rifugiati costretti a dormire per strada in assenza di strutture di accoglienza adeguate. Come si legge nella nota: «La situazione di grave disagio e marginalità in cui vivono migliaia di rifugiati, incluse molte famiglie con bambini, in insediamenti informali ed occupazioni si protrae ormai da molti anni rendendo urgente la messa in atto di concrete strategie di intervento sociale per tali contesti». E nonostante lo sgombero del palazzo di via Indipendenza sia stata una delle più grandi operazioni avvenute nella Capitale negli ultimi anni, le istituzioni non hanno offerto soluzioni di accoglienza alternativa per i migranti sgomberati dalla palazzina. «Desta particolare preoccupazione – continua l’Unhcr – l’assenza di soluzioni alternative per la maggioranza delle persone sgomberate. Infatti nonostante ad alcune persone vulnerabili sia stato concesso di rimanere nel palazzo, circa 200 persone, tra cui circa 50 donne, sono state costrette a dormire per strada vicino a via Indipendenza». L’Unhcr conclude la nota richiedendo alle autorità locali e nazionali di trovare una soluzione immediata per gli 800 rifugiati ora costretti a dormire in strada, con l’auspicio che il problema dell’accoglienza nella Capitale possa essere risolto. 

Dagli attentati del 2004 a Barcellona, ecco come è cambiato in Spagna il fronte jihadista

A police officer gestures, backdropped by an overturned car at the spot where terrorists were intercepted by police in Cambrils, Spain, Friday, Aug. 18, 2017. A white van jumped up onto a sidewalk and sped down a pedestrian zone Thursday in Barcelona's historic Las Ramblas district, swerving from side to side as it plowed into tourists and residents. Police said 13 people were killed and more than 50 wounded in what they called a terror attack.(ANSA/AP Photo/Emilio Morenatti) [CopyrightNotice: Copyright 2017 The Associated Press. All rights reserved.]

Era il marzo 2004 – in 192 morirono, in 1800 rimasero feriti – e la tragedia della stazione di Atocha, Madrid, per gli spagnoli diventò una sigla funesta: 11M. Per tredici anni la Spagna era rimasta lontana dalla furia dei folli islamismi che hanno colpito negli ultimi anni l’Europa in Belgio, Francia, Germania.

Tredici anni fa il terrore islamista non è cominciato a caso, senza movente: ha avuto una miccia, la guerra d’Iraq. Quando Jose Maria Aznar accusò i separatisti baschi del terrore di Madrid – invece di capire che era una diretta rappresaglia dell’invasione – fece spallucce e poi spalla a spalla con George Bush e Tony Blair, in un conflitto che solo dopo fu dichiarato inutile, sbagliato, di cui nessuno dei potenti ha mai pagato le conseguenze, un conflitto poi riconosciuto come l’evento catalizzatore dell’insorgenza. All’epoca la Spagna, territorio dei mori dall’ottavo al quindicesimo secolo, era, secondo il verbo di al Quaeda, stata rubata dai cristiani. Nel 2003 la Spagna di Aznar mandò le sue truppe ad invadere l’Iraq, ma nel 2015 la Spagna di Rajoy annunciò di non volersi unire alla campagna contro l’Is nel Levante di Siria e Iraq.

Tredici anni fa la Spagna fu colpita dal “gruppo islamico combattente del Marocco”, un gruppo in arrivo da un paese dove Mohamed VI, che regna dal 1999, ha combattuto il salafismo con un pugno di ferro, un pugno che è di una mano ferma, quella del Bcij, Bureau central de Investigations Judiciaries, i capillari servizi segreti di uno stato nordafricano, colpito nelle sue capitali, nel 2003 a Casablanca, a Marrakesh nel 2011. Se in Europa gli attentatori erano di origine marocchina, alcuni di quelli di Casablanca – sei – erano di origine europea. All’epoca, nel 2003, gli attentatori ragazzini di Barcellona forse stavano imparando a camminare, erano appena nati e sarebbero cresciuti in un mondo in cui l’arena della jihad è globale, un mondo in cui anche ciò che dovrebbe fermare il terrore, lo alimenta. Sono stati gli accademici dell’università di Granada e gli ufficiali carcerari che hanno confermato che «le attività dei jihadisti non terminano al momento dell’arresto, in cella, privati della loro libertà, ma continuano nelle istituzioni penitenziarie. Sono proprio le mura delle celle che permettono di indottrinare, di portare avanti il messaggio di disperazione, generare un’identità collettiva e legittimare il terrorismo. Le prigioni favoriscono la radicalizzazione».

Le prigioni spagnole, dove si coltivano jihadisti come piante da seminare e annaffiare, sono piene. Nonostante le polemiche del giorno dopo, quelle che accompagnano ogni attentato, in ogni parte del mondo, su ogni giornale e dibattito tv del globo, questo era un attacco che si aspettava da anni: lo dicono le statistiche e i servizi segreti. Secondo l’Europol, la Spagna ha il secondo numero più alto di arresti di terroristi islamici: 187 solo nel 2015. Precede la penisola iberica solo la Francia, con 424 detenuti, ma la popolazione di musulmani in Spagna è pari al 2,1% della popolazione, mentre in Francia al 7,5%.

Almeno 170 spagnoli sono andati a combattere in Siria da foreign fighter, un numero inferiore a quello di molti Stati europei, dove però non sempre tutti i dati sono registrati o noti. Le agenzie di sicurezza stanno monitorando attualmente 1100 persone con visioni radicali, mentre il Paese sta ricevendo il più alto numero di migranti da anni: 9000 arrivi negli ultimi 8 mesi, 3 volte di più che nell’ultimo anno. Nonostante la maggior parte siano migranti in cerca di asilo, l’Is cerca di infiltrarsi tra loro. Robert Verkaik ha scritto che due cose non sono state dette dopo lo stupore della tragedia: è stato un attentato da low tech terror, da tecnologia primitiva, e questo vuol dire che l’Is non ha più i mezzi per lanciare operazioni sofisticate, vuol dire che ormai questi sono i suoi spasimi. Il low tech terror model, una strategia militare di basso livello tecnologico, è però quello che le agenzie hanno paura diventi il modus operandi delle prossime generazioni di jihadisti.

Gli attentatori di Barcellona erano troppo impreparati perfino per usare la “madre di satana”, l’esplosivo di perossido di acetone, che avrebbero scagliato contro la Sagrada familia. Il loro addestramento, come la loro radicalizzazione, era pari alla loro conoscenza reale del Corano: rapida, superficiale, irrisoria. Intanto tante frasi e foto si dedicano ai morti, quasi mai ai sopravvissuti. Tanta retorica scorre a fiumi dalle bocche dei politici: «non cambieranno il nostro modo di vivere». No, non lo cambieranno, a prescindere dalle frasi del giorno dopo. A Barcellona c’era Chris Pawley, 30 anni, che c’era già a Manchester, all’arena di sangue del 22 maggio, quando 22 persone sono morte. Era in Spagna per un altro festival musicale, un paio di quartieri da Las Ramblas. Quando il Manchester evening news l’ha chiamato per una dichiarazione, tutto quello che è riuscito a dire è “non posso crederci”, ma ha continuato a visitare la città.

È l’Europa che si sposta e che in fin dei conti, nonostante il sangue, – non immaginato, ma visto, annusato, sentito -, continua comunque a vivere, a camminare, viaggiare. Non si è fermata nel 2004, non si fermerà nel 2017. L’australiana che passeggiava nella capitale catalana, Julia Monaco, era a Londra quando a giugno un ufficiale di polizia veniva accoltellato al Borough Market. E adesso? «Finiremo la vacanza» ha detto alla Bbc.

No, non ci aiuterà contro il terrorismo questo nostro provincialismo ignorante

Guardate bene questa mappa:

Ad oggi gli attentati terroristici nel 2017 sono 866 e hanno provocato 5.225 morti circa. Guardatela bene. è una di quelle immagini che serve per sprovincializzare un pregiudizio che troppo spesso qui dalle nostre parti è più figlio di un inquinamento politico o delle false convinzioni figlie della paura piuttosto che di una reale informazione. Osservatela e poi, se ne avete lo stomaco, sfogliate alcuni di quei quotidiani che da giorni raccontano il terrorismo come conseguenza diretta degli sbarchi, delle ONG, della Boldrini e tutte le altre mischiate che ci vengono propinate a tamburo battente.

Eccola la dimensione del mondo. Ecco le dimensioni di una guerra vigliacca e infame che i terroristi stanno appiccando nelle teste, ancora più che per le strade. Ecco soprattutto il provincialismo di una narrazione tossica che ha il fegato di ridurre tutto questo a un editorialino smunto e bilioso contro lo Ius Soli.

Del resto questo nostro contemporaneamente “federalismo delle responsabilità” intriso di xenofobia funziona così: continuiamo a credere di essere il centro del mondo mentre stiamo in una risibile periferia e ci convinciamo di dovervi occupare di spazi sempre più ristretti. La solidarietà diventa qualcosa da esercitare solo nel raggio di qualche metro e il pensiero si infeltrisce in uno sguardo miope e insieme strabico. L’ignoranza, appunto. L’ignoranza.

 

Perché i diritti umani in Siria non contano più

Evirato, le sigarette spente sul corpo paffutello, le ossa rotte e un colpo di pistola alla nuca per finirlo. Era morto così il dimenticato Hamza Ali al Khateeb, tredici anni, che il 29 aprile del 2011, poco dopo l’inizio della primavera siriana, insieme ai genitori era andato a manifestare per chiedere la fine dell’assedio alla città di Dara’a, vicino al confine con la Giordania, epicentro manifestazioni antiregime. “Alcune persone sono state uccise, altre ferite, altre ancora arrestate. A un certo punto, non sapevamo cosa fosse successo a Hamza: era semplicemente scomparso” raccontò un cugino del ragazzo. Il tredicenne riemerse pochi giorni dopo. In un video pubblicato dai parenti si vedeva il corpo disteso su un cellofan di plastica: sul cadavere i segni delle torture ben visibili. Le immagini vennero trasmesse da diverse televisioni e scioccarono il mondo. Molti giornali dedicarono la copertina alla storia del “ragazzino di Dara’a ucciso dal regime siriano”….

L’articolo di Shady Hamadi prosegue su Left in edicola


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La fantasia di John Fante e la sua America vera

Strana sorte davvero, quella di John Fante. In Italia e non solo. Approdato nel nostro Paese con la prima ondata di grandi autori novecenteschi; ospitato in Americana, la memorabile antologia con la quale Elio Vittorini formò una generazione di intellettuali, scrittori e lettori, nel segno del vitalismo e dell’antiretorica; presenza fissa, accanto a Hemingway, Faulkner e Fitzgerald, nella storica collana mondadoriana Le Meduse, Fante non è però mai assurto allo stato di classico contemporaneo.

La prima generazione di critici che inaugurarono, anche a livello accademico, gli studi americani, lo inserì piuttosto tra i minori, pur riconoscendone il talento di narratore: una valutazione che discendeva probabilmente dalla stessa critica statunitense, a sua volta pronta a incasellare Fante tra gli scrittori italoamericani (insieme al Di Donato di Cristo tra i muratori) oppure, insieme a Nathanael West, tra gli autori losangelini, capaci di raccontare in una chiave inedita la città dei sogni e di guardare a Hollywood e al suo mito con la giusta dose di disillusione e di cinismo.

Se lo status di “minore” ha rappresentato per certi versi una condanna – e certamente non rese felice Fante, il quale, fatta salva la parentesi di Full of Life, non avrebbe mai conosciuto in vita il successo dei suoi più prestigiosi coetanei, e avrebbe finito per accettare di guadagnarsi da vivere con i lauti e “sporchi” compensi delle major cinematografiche -, non è irragionevole pensare che, con il senno del poi, sia stato una fortuna…  ( l’articolo continua su Left in edicola, dal 25 al 27, lo scrittore, editor Minimum Fax e traduttore parla dell’autore di Chiedi alla polvere al Jhon Fante festival)

L’articolo di Luca Briasco prosegue su Left in edicola


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