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I rifugiati di piazza Indipendenza: Vogliono deportarci a Rieti, ma i nostri bambini vanno a scuola qui

Per i rifugiati di piazza Indipendenza non si trova una soluzione. Dopo le violente cariche della polizia di giovedì mattina i rifugiati sono stati quasi tutti dispersi. La centralissima piazza romana è stata completamente svuotata: i pochi bagagli e oggetti delle persone cacciate dal palazzo, sono stati portati via e le strade intorno all’ormai ex presidio sono sorvegliate da decine di poliziotti in tenuta antisommossa.

I rifugiati, che negli ultimi 5 giorni hanno dormito fra le aiuole di piazza Indipendenza nei pressi della stazione Termini, sono stati sgomberati dal palazzo occupato di via Curtatone in cui vivevano dal 2013. All’interno della palazzina occupata risiedevano 800 rifugiati: oltre 250 famiglie composte per la maggior parte da rifugiati eritrei ed etiopi. La proprietà dell’immobile occupato ha offerto alcuni villini nei pressi di Rieti e 80 posti in un centro d’accoglienza a Torre Maura a Roma per sei mesi. Ma le soluzioni sono del tutto inadeguate perché tra l’altro dividerebbero delle famiglie e renderebbero impossibile mandare a scuola i bambini.

«Mi è stato offerto un posto negli alloggi di Rieti, ma ho dovuto rifiutare: io lavoro a Roma, non possiedo una macchina e non avrei saputo come venire qui ogni giorno. Non posso permettermi di perdere il lavoro – ci ha raccontato una giovane rifugiata eritrea – Per fortuna stanotte dormirò al chiuso, i miei datori di lavori hanno saputo di quello che è successo oggi e mi hanno chiesto di dormire in ufficio, fino a quando non troverò una soluzione».

Gli 80 posti offerti sono poi del tutto insufficienti rispetto al numero dei rifugiati sgomberati dalla palazzina di via Curtatone: molte famiglie sarebbero quindi state divise. Gli alloggi offerti risultano inoltre del tutto inadeguati: grandi camerate spoglie in cui i rifugiati – tra cui numerosi bambini e donne incinte – avrebbero dovuto dormire tutti insieme. Un’altra giovane donna ci ha invece spiegato di aver rifiutato l’alloggio a Rieti dato che i figli, iscritti a scuola a Roma, non avrebbero saputo come raggiungere l’istituto.

Intorno alle 17 si è conclusa una riunione a cui ha partecipato una numerosa rappresentanza dei rifugiati sgomberati, due assessori del Municipio II (Anna Vincenzoni e Lucrezia Colmayer), Medici senza frontiere, Croce Rossa, Unhcr, Caritas e la Casa dei diritti sociali. La riunione si è conclusa in un nulla di fatto. Si è discusso perlopiù di dove poter dormire questa notte. Risultato? I rifugiati anche oggi dormiranno per strada e alla riunione si è discusso per capire quale piazza fosse più sicura, per evitare che i rifugiati subissero nuove cariche da parte della polizia. A tal proposito al termine della riunione, una delegazione fra cui i due assessori si è recata in prefettura.

In tutto questo il Comune di Roma rimane in silenzio e questo aggrava ancor di più una situazione indegna di un Paese civile. Alcune organizzazioni per i diritti umani stanno pertanto organizzando una grande manifestazione davanti al Campidoglio per protestare contro lo sgombero forzato. Appuntamento sabato 26 agosto. Nel frattempo centinaia di persone, tra cui decine di donne e bambini, continueranno a dormire per strada nella Capitale di uno dei Paesi più industrializzati del mondo.

La memoria di Teresa Mattei negata dal Consiglio regionale toscano

Teresa Mattei alla firma della Costituzione Teresa Mattei, L’approvazione e la firma della Costituzione Teresa Mattei, la più giovane eletta all’Assemblea Costituente, è la prima donna a ricoprire il ruolo di Segretario di Presidenza; si deve a lei la scelta della mimosa come simbolo dell’8 marzo.

L’intitolazione delle aule del Consiglio regionale della Toscana è una scelta simbolica, che cancella il rosa e il rosso dalla storia della Toscana: fra i nomi scelti non compare nessuna donna e nessuna figura del Pci.
Dopo aver chiesto in più occasioni una “correzione di tiro”, intitolando una sala a Teresa Mattei, partigiana e giovane deputata della Costituente, come capogruppo di Sì Toscana a Sinistra, ho scritto al presidente del Consiglio Giani, che sta procedendo a intitolare le principali aule del Consiglio a Piero Calamandrei, Giovanni Spadolini, Amintore Fanfani e Sandro Pertini. Intanto una prima sala è già stata intitolata a Piero Calamandrei e l’Auditorium del Consiglio a Giovanni Spadolini. In “termini cromatici” manca il rosa e manca il rosso.
La scelta dei nomi d’illustri figure istituzionali toscane cui intitolare le nostre aule non è irrilevante: è memoria storica. Il fatto che fra i nomi presentati da Giani non ci sia né una donna né una personalità riconducibile alla tradizione del comunismo democratico italiano è una mancanza sorprendente a cui chiedo di porre rimedio.
Che non sia venuto in mente un solo nome di donna e si proceda ad affrescare un olimpo tutto maschile è una scelta grave che nel 2017 si commenta da sé. Ma è altrettanto incomprensibile e preoccupante che si decida di rimuovere di sana pianta anche il Pci, il più grande partito d’opposizione di questo paese nel secondo Novecento. Il che è ancor più paradossale in Toscana, una regione che il Pci ha ben governato ininterrottamente dal 1970, anno di nascita della Regione, fino allo scioglimento del partito nel 1991. Gli orientamenti politico-culturali della così detta “seconda Repubblica” sono ormai tutti rappresentati, dato che le due sale stampa sono state recentemente intitolate a intellettuali di riferimento della destra, Indro Montanelli e Oriana Fallaci. Il Consiglio avrà aule che vanno dalla destra, al Pri di Spadolini, al Psi di Pertini, fino a Dc di Fanfani e al partito d’Azione di Calamandrei, manca solo una figura che venga dalla cultura politica del comunismo democratico. Una simile rimozione ci dice sicuramente cosa vuol essere il Pd nel 2017 ma è una ferita alla storia della nostra regione.
Propongo di intitolare un’aula a una donna straordinaria, Teresa Mattei, partigiana, comunista italiana autonoma e libertaria. È stata la più giovane deputata dell’Assemblea Costituente, eletta nel collegio Firenze – Pistoia, e fece parte dell’Ufficio di Presidenza della Costituente. Ha speso la sua vita per i diritti delle donne e dell’infanzia e fu lei ad inventare la mimosa come simbolo dell’otto marzo. C’è un episodio che rivela limpidamente la personalità di Teresa Mattei: ancora ragazzina, fu espulsa dal liceo classico Michelangiolo di Firenze e da tutte le scuole del Regno perché si rifiutò, in occasione delle leggi razziali, di accettare l’insegnamento della teoria della razza e l’allontanamento dei suoi compagni di classe e degli insegnanti ebrei.

Yemen, nella guerra dimenticata da tutti l’Arabia saudita fa strage di civili

epa06157614 Yemenis carry the body of a man allegedly killed in Saudi-led airstrikes on a two-floor building on the northern outskirts of Sana'a, Yemen, 23 August 2017. According to reports, at least 37 people were killed and 13 injured in Yemen when the Saudi Arabia-led international coalition allegedly bombed a control post in a Houthi rebel-held area of the capital Sana'a. EPA/YAHYA ARHAB

Nello Yemen, un Paese di venti milioni di abitanti, dove ogni giorno si registrano 5mila nuovi casi di colera, sono appena morte 35 persone. Qualcuno dice 40. La conta funesta è ancora in atto e per alcune fonti, le persone che hanno perso la vita sotto le bombe cadute a nord di Sana’a, capitale dello Stato arabo più povero del mondo, sono quasi 70. Settanta: ed erano tutti civili. L’obiettivo del raid aereo di ieri dell’Arabia Saudita, testa d’ariete della coalizione sunnita, era una base militare degli Houthi sciiti, i ribelli del nord che combattono per il riconoscimento del governo in esilio. Ma le bombe hanno colpito case, scuole, ospedali, alberghi. I bombardamenti di questi mesi hanno distrutto ponti, ospedali, fabbriche.

Due anni e mezzo, quasi tre, ma si continua a morire in Yemen. Si muore di bombe, di fame e soprattutto di silenzio. Di malattie che pensavamo confinate nelle pagine dei libri di storia. In tre mesi il colera ha ucciso 2mila persone e mezzo milione sono state contagiate: è la più grande epidemia della storia degli ultimi cinquant’anni. I dottori, il resto del personale medico e i soldati, non vengono pagati da tanti mesi che tra poco si potrà scrivere che per un anno avranno vissuto senza ricevere salario.

Due anni e mezzo, quasi tre. Quella in Yemen non è proprio come la chiamano – la “guerra dimenticata” -, ma piuttosto è la guerra ignorata, sempre e da sempre, da tutti i giocatori della comunità mondiale.

Le esplosioni uccidono in un istante e la malattia in poche ore. L’Arabia Saudita blocca i rifornimenti di benzina, gli aiuti medici non riescono ad arrivare ed è per questo che le organizzazioni non governative cominciano a parlare di un’epidemia man made, una catastrofe voluta ed organizzata dai sauditi, contro i sette milioni di abitanti che vivono in povertà, muoiono di fame e prima delle cure mediche, non riescono nemmeno a procurarsi cibo. Due terzi della popolazione hanno bisogno di quell’aiuto umanitario ora bloccato, per sopravvivere giorno dopo giorno, ancora un giorno, almeno fino a domani.

Per approfondire, leggi l’articolo di Chiara Cruciati su  Left n.34 del 26 agosto


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Idranti e manganelli contro i rifugiati

ANSA/ANGELO CARCONI

Dopo lo sgombero improvviso e 5 notti passate a dormire per strada i rifugiati eritrei (fra cui donne incinte e bambini) che vivevano nel palazzo di via Curtatone a Roma questa mattina sono stati caricati a piazza Indipendenza dalla polizia a colpi di manganello e con gli idranti.
Medici senza frontiere denuncia: «Eravamo solo noi a curare i feriti». E l’Unicef accusa la polizia: «Bambini terrorizzati portati in questura».

Almeno 13 persone hanno dovuto far ricorso alle cure mediche sul posto in seguito alle cariche delle forze dell’ordine e 4 rifugiati sono stati portati via in ambulanza per le lesioni riportate.

La storia dei rifugiati di piazza Indipendenza raccontata da Left:

21 agosto 2017

23 agosto 2017

Quella forza che è il cemento della ricostruzione

Mi si perdoni se, contravvenendo alle regole del giornalismo di massa, mi prendo la briga, per una mattina, di osservare il terremoto dalla parte inversa e in senso largo. C’è questa storia, bellissima, del ristorante Roma di Amatrice, il “tempio dell’amatriciana” l’hanno etichettato l’anno scorso quasi tutti tra giornali e telegiornali sempre presi dalla frenesia di sloganizzare tutto in nome di un scorrevole storytelling.

L’hotel Roma, per chi ha memoria di quelle immagini senza bisogno di didascalie, è l’albergo che abbiamo rivisto mille volte completamente afflosciato su se stesso in cui persero la vita sette persone. Se passavi da Amatrice e volevi mangiare amatriciana l’hotel Roma di Arnaldo Bucci era una tappa obbligatoria. Ed è significativo, dell’albergo come per altre attività, il fatto che il crollo abbia spazzato tutto: ciò che era casa ma anche il lavoro, la passione e la fonte di reddito. Tutto.

Tra le decine di interviste “un anno dopo” c’è n’è una a Bucci in cui la giornalista del Corriere della Sera gli chiede se è mai tornato ad Amatrice, sulle macerie del vecchio hotel, almeno per recuperare qualcosa e Bucci risponde:

«E cosa? Non sono rimaste che macerie. E poi non mi importa di recuperare niente, ormai quella è vita passata. Non mi interessa vedere che è tutto sbriciolato».

Oggi l’Hotel Roma e i suoi piatti di amatriciana sono attivi a pieno servizio nella nuova area consegnata ad Amatrice grazie anche alle donazioni. L’attività è ripresa alla grande: i clienti non mancano e gli affari vanno bene. Hanno ricostruito. Bucci e gli amatriciani si sono ricostruiti, soprattutto. E dentro quella frase c’è la forza del “lasciare andare”, con l’urgenza di rimettersi in piedi. C’è la forza (che io ammiro furiosamente) di essere già nel futuro senza abbandonarsi a funebri rimestamenti o addirittura a necrofile rivendicazioni. A me pare che quella frase sia un manifesto bellissimo. Da attaccare su tutti i muri, mica solo per i terremoti. È quello il cemento. Di ogni ricostruzione.

Nelle Marche e nell’Umbria colpite dal terremoto del 2016

The handout image made available by the Italian Fire Department shows rubbles at work in Norcia, Umbria region, the day after the strong earthquake that hit central Italy, 31 October 2016. Thousands of people are homeless after Sunday's 6.5-magnitude earthquake near Norcia rocked central Italy. The new quake compounded the already difficult situation in an area devastated by earthquakes on August 24 and October 26. ANSA/ ITALIAN FIRE DEPARTMENT +++ HO - NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Castelsantangelo sul Nera, borgo incavato tra i maestosi monti Sibillini e devastato dal sisma dell’ottobre 2016, due campanili hanno reagito in modo radicalmente diverso alle scosse: la torre campanaria di Santo Stefano (a sinistra guardando il paese) è in larga misura franata sulla chiesa distruggendo il presbiterio; il campanile a destra, della chiesa di San Martino dei Gualdesi, è rimasto in piedi. «Qui si è seguita la normativa obbligatoria dopo il terremoto del 1997 che ha indicato un buon modo di procedere e ha salvato il bene. La differenza è paradigmatica: dimostra che la prevenzione dà risultati. Con queste due chiese a una cinquantina di metri l’una dall’altra possiamo vedere l’effetto». Chi pone una questione cruciale è Luca Maria Cristini, architetto che tra l’altro ha curato il bel riallestimento del Museo Civico di Sanseverino Marche, tuttora aperto. Fino a poco tempo fa responsabile del patrimonio artistico della diocesi di Camerino, ha battuto palmo palmo i paesi e le frazioni colpite a fianco dei carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Ancona per valutare i danni e recuperare dipinti, sculture, suppellettili.

Nelle Marche meridionali prossime all’Umbria, nella Valnerina, l’epicentro ha scatenato la potenza più distruttiva. Tra le case crollate di Castelsantangelo spicca un palazzo cinquecentesco con finestre ad arco troncato a metà. Nella frazione di Vallinfante qualche operaio lavora in un cantiere del Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo in una chiesa di cui, del campanile, resta il mozzicone della base coperta da un telo azzurro. Agenti della Finanza controllano chi si avvicina. A Visso, dove qualche negozio vicino a militari e polizia brulica di vita, all’ingresso della “zona rossa” una sorta di pupazzo bianco sul ponte pare introdurre a una porta puntellata e d’ingresso alla cittadina. Salendo a nord lo scenario vira decisamente in meglio. A Camerino la vita scorre normale, l’università ha tenuto bene, mentre il centro storico in alto, circondato dalle mura, è inagibile, è “zona rossa” sorvegliata dall’esercito. Qui in una Piazza Cavour desolatamente vuota tre operai entrano nel Duomo ricostruito nell’800. Nel portico c’è qualche calcinaccio. Al capo opposto dell’abitato la chiesa di Santa Maria in Via, di metà ‘600, è un cantiere con gru e macchinari. Don Mariano Blanchi, il parroco, è «molto arrabbiato perché, dopo il terremoto del 24 agosto, c’erano evidenti crepe strutturali. Non è stato preso alcun provvedimento salvo transennare, nessuno ha ascoltato me e un altro prete. Dopo la scossa del 26 ottobre il campanile si è spezzato sotto la cella campanaria. E la neve a febbraio ha fatto cadere un pezzo della cupola lesionata lasciandone uno spicchio. Era decorata, una meraviglia. Si poteva salvarla. Si sono rimpallati tutti la responsabilità finché ho spedito al ministero una lettera documentata con foto e ad aprile è partito il cantiere. Speriamo fermi il degrado. Andava fatto prima». Intanto il dipinto-icona del Rinascimento camerte, l’Annunciazione del 1455-6 di Giovanni Angelo D’Antonio, fino al 30 luglio è agli Uffizi nella mostra con opere marchigiane dalle zone terremotate “Facciamo presto!” Non è nella Pinacoteca civica perché svuotata in quanto inagibile. Per la curatrice delle collezioni civiche e direttrice del Museo diocesano di Camerino Barbara Mastrocola «serviranno tempi lunghi. Si può immaginare che nasca un polo museale unico con le due raccolte più la biblioteca, per esempio nell’ex chiesa di San Francesco». A giudizio della museologa il compito è immane: «Questa diocesi conta 512 chiese di cui 340 lesionate e spesso in luoghi difficili da raggiungere. La gestione del dopo-terremoto? Capisco che i responsabili dei beni culturali non potevano parlare con tutti i sindaci, tuttavia avrebbe dovuto esserci più condivisione. E un tempo il ministero aveva un ispettore per l’area grosso modo della provincia di Macerata, adesso la stessa figura deve seguire più territori. La soprintendenza da sola non può farcela».
Che il Mibact abbia forze insufficienti alla tutela è opinione ampiamente diffusa fra gli addetti. «Tra architetti, archeologi, bibliotecari, storici dell’arte, restauratori e via dicendo da tutta Italia si sono avvicendate come rinforzi, a titolo volontario perché non possiamo obbligare nessuno, circa mille persone, uno sforzo enorme», ribatte il prefetto Fabio Carapezza Guttuso, responsabile dell’Unità di crisi del coordinamento del ministero dei Beni culturali. È ancor più diffusa la convinzione che il dicastero non abbia protetto molti edifici storici dopo il 24 agosto. «Parliamo di tre terremoti. Con i danni del primo avremmo concluso i rilievi in sei mesi. La messa in sicurezza difende il monumento da una scossa di un’intensità prevedibile, non da qualunque terremoto e quello del 30 ottobre è stato dirompente. A Camerino abbiamo messo in sicurezza i due campanili del Duomo perché cadendo avrebbero potuto sfondare alcuni presidi, ma anche se l’avessimo fatto a San Benedetto a Norcia la basilica sarebbe crollata lo stesso. Anzi, se irrigidisci una parete rischi di provocare un danno maggiore». Il prefetto puntualizza: «Come chiarito in incontri continui con vescovi e sindaci, un’ordinanza del Commissario alla ricostruzione Vasco Errani prevede che un Comune, una Diocesi o un privato possa chiamare direttamente un intervento in caso di “somma urgenza” per evitare il crollo di un edificio storico». E, sottintende, spesso questo non è avvenuto.
Storico dell’arte che indaga e intende affreschi, chiese, scultura e pittura dell’Italia centrale come perni del vivere civile, Alessandrio Delpriori, 40 anni, è sindaco del delizioso paese di Matelica, nel maceratese. Si è speso fin dall’inizio tanto per i concittadini quanto per salvaguardare l’arte del suo territorio ed, entro l’estate, forse luglio, confida di riaprire in sicurezza almeno parte del Museo Piersanti con la sua collezione di arte marchigiana.

Sindaco Del Priore quale ritiene siano le priorità per il patrimonio artistico?

Gli affreschi. Una vola recuperate tutte le opere mobili, e pare che le operazioni siano terminate, dobbiamo salvare gli affreschi. Stanno a terra in molte chiese quindi serve una campagna massiccia per mettere in sicurezza le murature e vedere se le pitture possono restare lì o vanno staccate.

Quali chiese le vengono in mente per prime?

Nelle Marche Santa Maria a Nocelleto, una frazione di Castelsantangelo sul Nera. O la chiesa di San Martino dei Gualdesi nel capoluogo dello stesso comune. Oppure la Collegiata di Visso. Le frazioni hanno chiese con affreschi in una quantità impressionante. Nel versante umbro ci sono le frazioni di Norcia come Ancarano, dove bisognerà capire come sta la chiesa della Madonna Bianca. Penso anche alle chiese di Preci. C’è ancora tantissimo da fare.

Come procede l’azione dello Stato?

Con i suoi tempi, a rilento, ma procede. La burocrazia è farraginosa, c’è pochissimo personale e pochissimi soldi per la tutela, però va avanti, questo sì. Purtroppo manca una vera regia complessiva.

Quindi la burocrazia crea ancora difficoltà come risultava nell’autunno scorso?

Sì. Metti in sicurezza un edificio e la Regione non ti rendiconta, non per cattiva volontà, ma perché le competenze non sono chiare. Spesso su beni culturali con danni leggeri conviene fare il ripristino altrimenti, con la messa in sicurezza, si spende il doppio e questo getta nel panico. C’è un’ordinanza del direttore del dipartimento della Protezione civile Fabrizio Curcio che dice l’esatto contrario e in alcuni casi è quasi paradossale

Come valuta l’operato del Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo?

Effettivamente il ministero con i suoi tempi ascolta, prende in carico progetti, con i suoi uomini lavora tantissimo. Il problema è che sono pochissimi e se fossero molti di più sarebbe diverso. Funzionari e amministrativi si ammazzano di lavoro e, voglio dirlo, sono ammirevoli.

Può citare qualche caso in cui le procedure frenano gli interventi?

L’apertura del nostro deposito attrezzato per opere d’arte “Matelica Museo Aperto” è stato un calvario di burocrazia. Nessuno si prendeva la responsabilità della rendicontazione delle spese. Ora abbiamo trovato la quadra. Oppure prendiamo Santa Maria in Via a Camerino. Nessuno ha fatto nulla per mesi ed è crollato il tetto. Il Comune se la prende col Ministero, la Diocesi col Comune, eccetera, eccetera. L’articolo 15 bis del decreto sul terremoto (Dlgs 226/2016) voluto dal ministro Dario Franceschini (dell’ottobre scorso, ndr) dice che se il Comune o il proprietario ravvede il rischio di perdere un bene culturale può intervenire direttamente fino a 40mila euro tanto che basta comunicarlo mentre, fino a 300mila euro, serve un progettino. Gli strumenti ci sono e qualcuno li ha usati. I Comuni possono e devono intervenire ma non lo fanno per paura, perché non sanno, perché non interessa o forse semplicemente perché non porta voti.

I numeri del ministero dei beni culturali ha conteggiato, a fine aprile, 16.111 beni mobili recuperati di cui 8.045 nelle Marche, 5.000 in Umbria, 2.856 nel Lazio, 210 in Abruzzo; 6.921 i beni librari messi al riparo (1.250 nelle Marche, 5mila in Umbria); 633 le messe in sicurezza di edifici storici (441 nelle Marche, 79 in Abruzzo, 73 in Umbria, 39 nel Lazio). Sul personale, sempre fino a fine aprile, il dicastero dichiara di aver impegnato 300 persone a settimana per un totale, a rotazione, di duemila.

Ndr Intanto i risparmi per 10 milioni di euro nel 2018 e per 11 milioni di euro in ciascuno degli anni 2019 e 2020. Sono questi gli obiettivi di spesa per il triennio 2018-2020 pianificati per il ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo (Mibact) secondo un decreto del presidente del Consiglio dei ministri dello scorso 28 giugno pubblicato in Gazzetta Ufficiale. I target, già decisi dal Documento di economia e finanza 2017 secondo le linee stabilite dal ministero dell’Economia, prevedono che le Amministrazioni centrali dello Stato contribuiscano attraverso “riduzioni di spesa strutturali” per un importo pari ad almeno un miliardo di euro, in termini di indebitamento netto. Ad essere escluse dalla scure dei tagli solo le spese relative a investimenti fissi lordi, calamità naturali ed eventi sismici, immigrazione e contrasto alla povertà.

Il Comune di Roma si accanisce sui rifugiati di piazza Indipendenza

Le operazioni di sgombero da parte delle forze dell'ordine dello stabile occupato dai migranti e richiedenti asilo a piazza Indipendenza, Roma, 19 agosto 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

A Roma in questi giorni un centinaio di rifugiati somali ed eritrei, sgomberati dal palazzo “occupato” in piazza Indipendenza sabato scorso, hanno dormito nei giardini adiacenti alla stazione Termini, sia per protestare contro la decisione del Comune sia perché le istituzioni non hanno offerto alcuna soluzione alternativa al momento dello sgombero. E questa mattina sono stati nuovamente cacciati. Questa volta la polizia ha ordinato loro di lasciare i loro giacigli di fortuna, per andare non si sa dove.

Come riporta il Redattore sociale nel frattempo in Prefettura si è svolta una riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza a cui hanno partecipato – oltre al prefetto Paola Basilone – la Regione, il Comune e la proprietà dell’immobile sgomberato. È iniziata una trattativa tra gli occupanti e il Comune per trovare una soluzione: una trattativa però che fino ad ora non è andata a buon fine. E così i rifugiati continueranno a dormire per strada.

Come Left ha raccontato oltre 800 rifugiati sono stati sgomberati dal palazzo occupato di piazza Indipendenza lo scorso 19 agosto. Nel palazzo occupato dal 2013, ex sede dell’Istituto superiore di protezione ambientale (Ispra), trovavano rifugio più di 250 famiglie per la maggior parte formate da rifugiati eritrei ed etiopi e al momento dello sgombero non sono state fornite soluzioni alternative ai rifugiati, che si sono visti costretti a dormire per strada.

Tramite questa nota l’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) lo scorso 21 agosto ha espresso la propria preoccupazione per lo sgombero dei rifugiati: «L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), esprime profonda preoccupazione per lo sgombero senza preavviso ieri di circa 800 rifugiati dal palazzo di via Indipendenza a Roma. Il palazzo, occupato nel 2013, era abitato prevalentemente da rifugiati eritrei e etiopi presenti a Roma stabilmente da molti anni.Desta inoltre particolare preoccupazione l’assenza di soluzioni alternative per la maggioranza delle persone sgomberate. Infatti nonostante ad alcune persone vulnerabili sia stato concesso di rimanere nel palazzo, circa 200 persone, tra cui circa 50 donne, sono state costrette a dormire in strada vicino a Via Indipendenza.Questa operazione si aggiunge ad un quadro già problematico, sono centinaia infatti le persone in fuga da guerre e persecuzioni in transito nella città di Roma, attualmente costrette a dormire per strada in assenza di strutture di accoglienza adeguate.La situazione di grave disagio e marginalità in cui vivono migliaia di rifugiati, incluse molte famiglie con bambini, in insediamenti informali ed occupazioni si protrae ormai da molti anni rendendo urgente la messa in atto di concrete strategie di intervento sociale per tali contesti. Unhcr auspica che le autorità a livello locale e nazionale possano trovare una soluzione immediata per le persone attualmente all’addiaccio e che possano garantire ai beneficiari di protezione internazionale presenti a Roma adeguati servizi per l’integrazione».

23 agosto 1927 Sacco e Vanzetti giustiziati perché anarchici e italiani

Il 23 agosto 1927 i due anarchici Sacco e Vanzetti furono condannati a morte negli Usa. Accusati di omicidio durante una rapina. Una condanna politica voluta dal Ministro della Giustizia americano. Solo nel 1977 il governatore del Massachusetts ammisse le falle del processo e ne riabilitò la memoria. A novant’anni da quella feroce ingiustizia l’articolo scritto da Riccardo Michelucci per Left

«Se non fosse per questi fatti, sarei potuto morire inosservato, sconosciuto, un fallimento. Ora non siamo un fallimento. Mai nella nostra intera vita potevamo sperare di fare così tanto lavoro per la tolleranza, per la giustizia, per la mutua comprensione tra gli uomini, come ora facciamo per accidente. Questa agonia è il nostro trionfo». Così scriveva poco prima di morire Bartolomeo Vanzetti, il cui nome era destinato a diventare – insieme a quello di Nicola Sacco – un simbolo immortale della lotta contro l’ingiustizia del potere e a mostrare al mondo il volto più spietato e brutale del capitalismo statunitense. Dopo la fine della Prima guerra mondiale, la crociata lanciata dal presidente Woodrow Wilson contro la “minaccia sovversiva” aveva preso di mira i socialisti, gli anarchici, gli stranieri e chiunque non fosse in qualche modo assimilato alla cultura dominante. Nel gennaio 1920, in soli cinque giorni, furono compiuti raid in decine di città statunitensi che portarono all’arresto o al fermo di circa diecimila attivisti politici. In un clima di caccia alle streghe senza precedenti, tra scioperi, scontri e manifestazioni di protesta, i due anarchici italiani diventarono i capri espiatori perfetti. Arrestati in un primo momento solo per possesso di armi e materiale considerato sovversivo, Sacco e Vanzetti furono poi accusati di una rapina e di un duplice omicidio, e sottoposti a un calvario giudiziario lungo sette anni. Il tragico epilogo della loro vicenda – raccontata magistralmente nel 1971 da uno splendido film di Giuliano Montaldo con Gianmaria Volonté – fu scritto dai giudici razzisti e corrotti che li mandarono a morte sulla sedia elettrica nell’agosto 1927, incuranti della totale assenza di prove e di una clamorosa testimonianza che li scagionava. Negli Stati Uniti la loro memoria sarebbe stata riabilitata ufficialmente solo cinquant’anni dopo, quando il governatore del Massachusetts Michael Dukakis riconobbe finalmente l’errore giudiziario e l’atrocità subita dai due immigrati italiani. Ben pochi, anche prima di quel gesto tanto doveroso quanto tardivo, continuavano a dubitare della loro innocenza. Eppure, per chiudere davvero quella tragica vicenda e consegnarla definitivamente alla storia, è sempre mancato un tassello fondamentale: l’analisi della dimensione ideologica di Sacco e Vanzetti, del loro pensiero e degli ideali che li portarono alla morte. Finora, il sacrosanto impegno per denunciare il sistema corrotto e discriminatorio che li portò al patibolo aveva fatto passare in secondo piano un elemento che risulta invece imprescindibile al fine di rendere piena giustizia ai due anarchici italiani. Una lacuna inspiegabile soprattutto nel nostro paese,  prima che un editore italiano (Claudiana) decidesse qualche anno fa di dare alle stampe le lettere che i due scrissero dal carcere ai loro familiari. Il volume Lettere e scritti dal carcere – a cura di Lorenzo Tibaldo – riproduce quanto fu pubblicato negli Stati Uniti subito dopo la loro morte, nel 1928, e racconta i lati più personali di Sacco e Vanzetti. Ma ancora più interessante appare Altri dovrebbero aver paura. Lettere e testimonianze inedite, il libro edito da Nova Delphi editore che racconta la dimensione intellettuale della loro militanza politica. Il merito di un lavoro che è andato a colmare un significativo vuoto storiografico è tutto dello studioso Andrea Comincini, che ha tradotto e curato la raccolta di lettere e testimonianze inedite custodite negli archivi universitari della Lilly Library di Bloomington, nell’Indiana. Si tratta di materiale che consente un’analisi approfondita del pensiero politico e delle radici culturali dei due anarchici. In particolare di Bartolomeo Vanzetti, il cui lungo epistolario con le due attiviste Mary Donovan e Alice Stone Blackwells rappresenta una testimonianza straordinaria dalla quale emerge chiaramente la sua volontà di far conoscere le irregolarità del processo, il suo convinto anticlericalismo e la sua convinta al bolscevismo. Vanzetti era un migrante di umili origini costretto a lavorare duramente fin dalla più giovane età, eppure fu sempre pervaso da una profonda tensione intellettuale intorno alla quale ruotò la sua coscienza politica. Scrive nel 1921: “lessi il Capitale di Marx, i lavori di Leone, di Labriola, il Testamento politico di Carlo Pisacane, i Doveri dell’uomo di Mazzini e molte altre opere dall’indole sociale … Mi schierai dalla parte dei deboli, dei poveri, degli oppressi, dei semplici e dei perseguitati […] Compresi che i monti, i mari, i fiumi chiamati confini naturali, si sono formati antecedentemente all’uomo, per un complesso di processi fisici e chimici, e non per dividere i popoli. […] Cercai la mia libertà nella libertà di tutti, la mia felicità nella felicità di tutti”. Assai meno corposa è la corrispondenza di Nicola Sacco, la cui consapevolezza politica avviene per sua stessa ammissione attraverso l’esperienza diretta: “Di idee politiche, nel lasciare il paese che mi vide nascere, credo di non averne avute, se togliete una certa passione per gli ideali che avevano avuto apostolo e agitatore melanconico Giuseppe Mazzini”. Le loro lettere assumono un valore ancora più forte e toccante se si pensa che entrambi, durante la loro lunga prigionia, furono costretti a scriverle in inglese (tranne quelle inviate ai familiari) e che il personale carcerario le sottoponeva a un rigido controllo censorio. Come spiega bene Valerio Evangelisti nella prefazione, finora Sacco e Vanzetti erano sempre stati descritti pensando a quello che diventarono, cioè due poveri immigrati vittime di un sistema corrotto e razzista, e mai per quello che erano stati, cioè due militanti anarchici che lottarono – e morirono – per i loro ideali.

Nardella e Brugnaro. Classe dirigente (Olio su tela, 2017)

Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni durante l'incontro con il sindaco Dario Nardella a Palazzo Vecchio, Firenze, 30 marzo 2017. ANSA/UFFICIO STAMPA COMUNE DI FIRENZE +++EDITORIAL USE ONLY - NO SALES+++

Classe dirigente. Olio su tela. 2017.

A Venezia c’è un sindaco, Luigi Brugnaro, che è amato a destra e da una parte di una certa sinistra. È un tipo moderno, Brugnaro: ha capito che di questi tempi una sparata che accenda gli animi porta più spazio (giornalistico) e consenso di quelle altre noiosissime cose come l’amministrare bene, il fare seriamente politica, lo studiare soluzioni praticabili e giuste o prendersi la responsabilità delle parole oltre che dei comportamenti. Così ieri nel pomeriggio Brugnaro decide, mentre è ancora caldo il dolore per la strage di Barcellona, di rassicurare i suoi concittadini con uno sceriffesca dichiarazione ad hoc: «Il primo che urla Allah akbar a San Marco lo abbattiamo dopo tre passi», dice. Risate e qualche sdegno simulato. La battuta deve essere piaciuta se Brugnaro (che stava parlando al meeting di CL a Rimini che quest’anno è dedicato all’amicizia, giuro) ha addirittura aggiunto: «Volevano mettere una bomba al ponte di Rialto dicendo che volevano andare da Allah. Noi li mandiamo dritti da Allah senza buttare giù il ponte di Rialto».

Scena due. Il sindaco di Firenze Nardella, anche lui a Rimini per onorare la propria amicizia con Comunione e Liberazione, incrocia il sindaco di Venezia Brugnaro. Pensateci: sono i sindaci di due città che da sole contengono gran parte della bellezza, dell’arte e della cultura nel mondo. E cosa fanno? Nardella finge un assalto al sindaco di Venezia. Urlando cosa? Lo so, non volete crederci. “Allah akbar! Allah akbar!” strepita Nardella mentre chiassosamente ride come ridono quelli che hanno il terrore di non essere abbastanza simpatici e quindi antipaticamente esagerano. Pacche sulle spalle, sorriso larghissimi e via.

Scena tre. La gente si incazza. E non poco. Lo scherzo non fa ridere solo che questa volta a Nardella non glielo dicono i compagni di classe ma qualche migliaio di persone. Lui si scusa (ci mancherebbe). «Mi scuso per alcune espressioni riprese in un video pubblicato online – ha scritto così Nardella su Facebook – non era mia intenzione offendere alcuna persona,  né tanto meno la comunità musulmana né scherzare sulla sua religione, né evocare i tragici fatti di questi giorni. Anzi – continua il post – durante quel video prendevo le distanze dalle dichiarazione del collega Brugnaro sui musulmani rilasciate durante il suo intervento ad un incontro al Meeting di Rimini». Avete capito? Dice Nardella che prendeva le distanze dalle dichiarazioni del collega Brugnaro sui musulmani. Siamo noi che non lo abbiamo capito. Chiaro?

Vola troppo alta. Questa classe dirigente.

Buon mercoledì.

Ischia: oltre sette secoli di terremoti e zero soluzioni per il patrimonio edilizio

Damages caused by a 4.0 magnitude earthquake that hits Ischia island on 21 August, killing two people and injuring 39. ANSA/CESARE ABBATE

Con il salvataggio oggi di Ciro e Mattia, i due fratelli di 11 e 7 anni che erano rimasti intrappolati sotto alle macerie, il bilancio del terremoto di magnitudo 4.0 che ieri sera alle 20.57 ha colpito Ischia è di due vittime, 42 feriti e 2600 sfollati. Ma quello di ieri è solo l’ultimo di una lunga serie di fenomeni sismici che ha interessato l’isola situata al limite del golfo di Napoli e all’interno di un’area estremamente attiva dal punto di vista vulcanologico.

L’isola di Ischia infatti ha una sismicità storica nota, come viene ricordato dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) nel Catalogo parametrico dei terremoti italiani, dove si ricostruisce la cronistoria dei terremoti con magnitudo compresa tra poco meno di 3.0 e poco superiori a 4.0 che hanno colpito l’isola. La scossa più antica viene registrata il 2 novembre 1275, mentre il più recente è del 23 aprile 1980. I terremoti principali sono avvenuti nel 1275, 1796, 1828, 1881 e 1883.

È del 28 luglio 1883 il tristemente noto terremoto di Casamicciola, in cui persero la vita più di 2mila persone, fra cui l’intera famiglia del filosofo Benedetto Croce, estratto vivo dalle macerie, che decise di lasciare l’isola. Il disastro di Casamicciola colpì talmente l’immaginario degli italiani – che poi nel 1908 vennero di nuovo sconvolti dal terremoto di Messina – che il nome del paese ischitano è diventato sinonimo di confusione, disordine, finendo nei dizionari della lingua italiana.

La caratteristica che contraddistingue i terremoti che colpiscono Ischia è che a stime di magnitudo piuttosto modeste corrispondono effetti di intensità macrosismica molto elevata e distruttiva, che in genere però interessano un’area estremamente limitata. Sostiene il rapporto appena pubblicato di Ingv terremoti: «tra le concause che in passato hanno determinato la elevate consistenza degli effetti ci sono gli ipocentri molto superficiali, la geologia dell’isola, la vulnerabilità del patrimonio edilizio e l’elevata densità abitativa».

Problemi questi ultimi perduranti negli anni come ricorda Legambiente.  Le case abusive con ordine definitivo di abbattimento ad Ischia sono circa 600, mentre sono 27mila le pratiche di condono presentate in occasione delle tre leggi nazionali sulle sanatorie edilizie. «Ischia è da sempre simbolo di abusivismo edilizio, di cementificazione disordinata e di impunità – prosegue Legambiente – l’Italia è un paese fragile deturpato da cemento speculativo e illegale i cui numeri sono eloquenti: nel 2016 gli abusi sono stati circa 17mila».