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In Tunisia, tra i pescatori di Zarzis che respingono gli xenofobi

«I razzisti qui non entreranno», dice chiaramente Chamseddine Bourassine, presidente dell’associazione dei pescatori di Zarzis, città costiera del sud della Tunisia e vicina al confine libico. È appena tornato da cinque lunghi giorni di pesca, sotto un sole cocente di agosto che ha fatto alzare le temperature a ben oltre i 40 gradi. Stanchissimo e seduto al bar del porto, chiacchierando con colleghi e amici tra un caffè e una sigaretta, viene informato da altri pescatori dell’imminente arrivo della nave C-Star, noleggiata dal gruppo europeo di Generazione identitaria e partita con l’intento di sabotare le missioni di salvataggio delle Ong europee.
L’aria bonaria svanisce mentre inizia a girovagare in tutte le direzioni chiamando al telefono la capitaneria di porto, colleghi pescatori e amici. «Di qui non passano!» continua a ripetere in modo cupo.

In rete, il collettivo antirazzista del Nord Africa stava monitorando la C-Star, e si era mobilitato in tutte le città costiere tunisine, informando le capitanerie di porto e creando reti civili di appoggio per contrastare l’arrivo degli “identitari”. Ugtt, il potente sindacato tunisino, Ftdes, il Forum economico e sociale, la Lega dei diritti umani, tutti si sono uniti alla mobilitazione impedendo, di fatto, l’approdo di C-Star in suolo tunisino. Ma a rendere l’azione veramente significativa è stata la manifestazione spontanea dei pescatori di Zarzis.

Dal piccolo caffè del porto è partito un passaparola telefonico tempestivo. Salah Mcherek, capitano di una sardiniera, cammina avanti e indietro attaccato al telefono per allertare i colleghi ai porti di Gabes e di Sfax: «Si chiama C-Star, sono un gruppo di razzisti» agita la mano per spiegarsi. Con andatura fiera e sorridente porta due sacchi pieni di palloncini colorati per addobbare le tre piccole imbarcazioni che serviranno a fare il blocco del porto, mentre arrivano Andrea e Walid, coppia mista italo-tunisina. «Ho lavorato qui per anni prima di imbarcarmi nel 2011» sulle primissime imbarcazioni per l’Italia. «Quando Mohamed El Aoudi ci ha chiamati, siamo subito accorsi per dare il nostro sostegno alla protesta» continua Andrea…

Il reportage di Giulia Bertoluzzi prosegue su Left in edicola


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Lucia Ianniello, dipingere con i suoni

Lucia Ianiello

Un disco live regala l’imprevisto, racchiude l’imperfezione, costringe l’ascoltatore a un rapporto dinamico”. Queste le parole, quasi una melodia, con cui la musicista Lucia Ianniello ci presenta il suo nuovo progetto musicale: Live at Acuto Jazz, uscito il 30 giugno. Era agosto dello scorso anno, la notte delle stelle, nella chiesa di San Sebastiano ad Acuto, in occasione dell’omonimo e suggestivo festival frusinate, accompagnata dal suo quintetto (Diana Torti, voce; Andrea Polinelli, sassofono e flauto; Paolo Tombolesi, tastiere; Cristina Patrizi, basso elettrico), Ianniello si esibiva con i brani del precedente album, Maintenant. L’eccellente registrazione dell’evento ha portato l’etichetta a pubblicare questo live. Brani della stessa musicista che si alternano a quelli di Horace Tapscott e agli altri membri della P.A.P.A., acronimo della Pan Afrikan Peoples Arkestra, come Jesse Sharps, Michael Session, più un pezzo del contemporaneo Fuasi Abdul Khaliq, che il 27 agosto saranno presentati a Velletri nella rassegna Chiostro in musica; mentre il 30 agosto al Diva’s jazz, alla Casa internazionale delle Donne di Roma. Un lavoro, espressione di un rapporto, quello intenso con il gruppo, condizione imprescindibile ammette l’artista, e di un cambiamento, quello suo personale, quando anni fa ha incontrato Massimo Fagioli e l’Analisi collettiva: «Ho sentito l’esigenza di riacchiappare i suoni così ho cominciato a prendere di lezioni di canto. Man mano che andava avanti il rapporto con Massimo Fagioli, le cose mi si chiarivano, capivo come lavorare sulla voce, facendo scelte timbriche su paesaggi sonori come chi usa i pennelli. Poi mi sono innamorata degli ottoni. Massimo ha portato i suoni nella mia vita».
Potremmo dire che questo album è un’evoluzione del precedente?
A differenza del primo disco, questo va in profondità, essendo dal vivo. I brani si aprono ad ampie aree di improvvisazione collettiva nelle quali i musicisti dialogano tra loro, sperimentando e rischiando un linguaggio musicale mai scontato.
L’album, attingendo dal repertorio della P.A.P.A., è il frutto di una ricerca teorica, confluita nella tua tesi di diploma in jazz al Conservatorio.
Nel 2010 stavo cercando un argomento per la tesi e mi sono imbattuta in un’intervista fatta a Horace Tapscott, al festival Verona Jazz nel 1987. Ho scoperto un personaggio incredibile, in Italia ai più sconosciuto, di cui si parla troppo poco. Esponeva il suo concetto di musica contributiva e non competitiva; del fatto che non si può fare musica sotto il giogo del mercato, indirizzando la propria ricerca in finalità che non sono quelle della propria libera espressione. Molto spesso i contesti collettivi, sociali, soprattutto se problematici, vanno ricompattati e in questo il ruolo dell’arte, in particolare della musica, può essere risolutivo per la velocità che ha di essere veicolata tra la gente. Con queste idee, lui ha fondato la P.A.P.A., insieme ad altri artisti.
E quando hai sentito la loro musica?
L’ho trovata modernissima. Le composizioni mi hanno fatto venire i brividi, e poi le ho completamente reinterpretate, esprimendomi come sono io.
Intendere la musica che va oltre l’espressione artistica, ma ha forza di contenuto sociale, potrebbe essere una soluzione.
Le arti sono da potenziare e la musica in particolare. L’educazione musicale forma il pubblico, che all’estero è preparato perché ci sono molti luoghi dove fare musica e la gente è formata di più, senza parlare di Cuba dove c’è molta attenzione all’ educazione musicale. Da noi mancano le scuole per la formazione teorica, ma anche pratica, fin dalle scuole primarie. Nell’orizzonte delle politiche di sinistra è un tema importante…
Sì, visto che noi siamo alla ricerca di una nuova sinistra potremmo ripartire da qui. L’importanza delle arti all’interno del tessuto sociale è un bene primario, come l’acqua.

Francesca Bria, assessora di Barcellona: «Serve una politica aperta non lo stato di emergenza»

BARCELONA, SPAIN - AUGUST 21: Two women hug as they mourn during a demonstration against terror attacks and solidarity with the victims of the terror attack in Barcelona, Spain on August 21, 2017. (Photo by Albert Llop/Anadolu Agency/Getty Images)

«Abbiamo provato dolore, rabbia, disgusto, inquietudine. Ma anche un grande orgoglio per la reazione della città». Francesca Bria, economista italiana, è assessora all’innovazione tecnologica, chiamata dalla sindaca Ada Colau a coordinare la strategia digitale su cui si fonda la democrazia partecipativa a Barcellona.
Qual è stata la reazione dell’amministrazione?
La nostra priorità, nell’immediato, è stata la gestione operativa dell’emergenza per dare tutto il supporto possibile alle vittime e ai feriti. È stata esemplare la reazione di tutti: la polizia locale, il servizio d’emergenza e gli operatori comunali e c’è stata la collaborazione fra la polizia catalana e la guardia civile, la polizia centrale e i servizi di intelligence. Ma soprattutto è stata esemplare la reazione dei cittadini a livello umano: le persone hanno risposto a partire da piccoli ma significativi gesti come quello dei tassisti che hanno messo a disposizionei loro veicoli per l’emergenza. Oppure le centinaia di persone che hanno donato il sangue, i lavoratori dell’aeroporto che hanno interrotto lo sciopero in corso, gli abitanti che hanno offerto le proprie case a chi ne avesse bisogno e poi le migliaia di persone che si sono messe in fila al Comune per firmare il libro di condoglianze in solidarietà con le vittime e le loro famiglie.
L’attentato ha provocato rigurgiti xenofobi?
Il giorno dopo gli attacchi, oltre centomila persone hanno partecipato ad una manifestazione a Plaza Catalunya. Hanno anche cacciato i pochi neonazisti presenti al grido di «Fuori i fascisti dei nostri quartieri», non permettendo alcun gesto di intolleranza, razzismo e islamofobia. Oggi (21 agosto ndr), centinaia di persone hanno partecipato ad una cerimonia interreligiosa indetta da oltre 153 comunità musulmane per dire no al terrorismo e alla violenza barbarica. Tutti sono stati chiari nell’affermare la convivenza nella diversità e nel richiedere una riflessione profonda per espellere «ideologie perverse». Sabato 26 abbiamo lanciato una manifestazione cittadina al grido di «No tinc por!», non ho paura. Ci saranno centinaia di migliaia…

L’intervista a Francesca Bria prosegue su Left in edicola


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Non si può “combattere” senza capire

«Non c’è niente da capire solo da combattere» disse Manuel Valls dopo la strage al Bataclan, rivendicata dall’Isis. «Una frase profondamente sbagliata» dice lo scrittore catalano Javier Cercas. «Il problema è che non si può veramente combattere senza capire. Non bastano gli eserciti, non basta la polizia. Bisogna capire. Capire non significa affatto giustificare, al contrario significa dare a noi stessi le armi per combattere tutto questo. Se non capiamo perché un ragazzo di vent’anni compie un gesto così folle è impossibile mettere fine a questa pazzia», ha detto l’autore di Anatomia di un istante, intervistato da La Stampa. Poche parole, essenziali, quelle dell’autore di tanti romanzi che cercano di indagare l’invisibile, il latente, ciò che le cronache non riescono a dire di stragi, attentati, dittature. Come può accadere che un ragazzino si faccia esplodere uccidendo adolescenti a manciate durante un concerto come è accaduto a Manchester? Cosa è successo nella mente di quel ventenne che alla guida di un furgone si è lanciato su turisti e passanti come fossero birilli, oggetti e non persone in carne ed ossa? La cosmopolita Barcellona il 26 agosto torna a manifestare, ripetendo: «Non abbiamo paura». La coraggiosa reazione della città catalana, che ha una lunga tradizione di ospitalità e accoglienza, è raccontata in queste pagine dalla viva voce dell’assessore Francesca Bria.

Da Barcellona è arrivato in redazione anche il toccante messaggio del soprano Romina Krieger, che come tanti ragazzi italiani si è trasferita nella città catalana, per passione e lavoro. «Anni fa, Jaume Sisa, scrisse una canzone: “Han tancat la Rambla”, hanno chiuso la Rambla, hanno cacciato tutti, hanno spogliato gli alberi da uccelli e fiori», ricorda Romina. «17 agosto 2017: la Rambla ha chiuso a causa dell’orrore, del crimine orribile. Ma oggi? Oggi la città è viva, combatte, si rialza e non è disposta a cedere. La Rambla stamattina era di nuovo piena, per non dimenticare, per non arrendersi. Quel mezzo chilometro di via pedonale, simbolo della città, ha subito urlato “no temim por”, non abbiamo paura. No! Non abbiamo paura. Non si può chiudere uno spazio libero, non si può smettere di immaginare il futuro». «Non chiuderemo le porte, non alzeremo muri», le fa eco la sindaca di Barcellona Ada Colau, rifiutando la xenofobia delle destre che strumentalizzano la paura per cercare di criminalizzare l’immigrazione. La capacità di reagire è fondamentale per uscire dalla paralisi indotta dal terrore, lasciando fluire il dolore.

Per saper reagire è necessario capire. Tornano a risuonare le semplici parole di Javier Cercas. È urgente capire non solo cosa non abbia funzionato nei servizi di intelligence e in quei presidi territoriali che avevano avuto l’opportunità di cogliere segnali di profondo malessere in alcuni ragazzi della cosiddetta cellula spagnola che al grido di Allah Akbar ha ucciso e ferito persone inermi. Sono storie che si ripetono. In Spagna, in Inghilterra, come in Italia. L’abbiamo scritto nel caso della coppia dei giovani foreign fighters partiti dalla provincia torinese per andare a combattere per l’Isis, come nel caso del giovane italo marocchino, partito da Bologna, per prendere parte all’attacco terroristico sul London Bridge. La domanda che ritorna è, come può un ragazzino arrivare a perdere completamente gli affetti e il rapporto con l’umano al punto da uccidere in modo freddo e pianificato in nome di dio? Come possono dei compagni di scuola diventare un gruppo psicotico che compie azioni criminali sulla base di una ideologia religiosa che inneggia alla reconquista di Al Andalus, dove vissero i Mori dal 711 al 1492? Loro, ma neanche noi, ci ricordiamo che l’Andalusia per secoli è stata una straordinaria fucina culturale araba e musulmana. Per cercare di capire occorre tornare a interrogare la storia facendo i conti con quelle sedicenti radici cristiane dell’Europa che hanno prodotto feroci crociate e innumerevoli figure di martiri guerrieri. Occorre fare i conti con il passato colonialista e il persistente razzismo che si nasconde sotto il nostro orgoglioso eurocentrismo. Un lavoro immane. Intanto, ci siamo detti, potremmo andare a vedere la mappa degli attacchi terroristici nel mondo, potremmo cominciare andando a vedere quel che accade a Ouagadougou, a Bamako, a Nairobi e a Mogadiscio oppure in Yemen. La settimana scorsa l’Isis, Al Qaeda e Boko Haram hanno fatto stragi di civili, ma i giornali italiani non ne parlano, domandiamoci almeno perché.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto dal numero di Left in edicola


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La potenza distruttiva della religione

epa06156140 A message reads 'We are all Barcelona. Madrid cries with you but we will also smile again. We have no fear' next to other messages, soft toys and flowers placed at Blanquerna library in the Catalonian Government headquarters in Madrid, Spain, 22 August 2017, as tribute to the victims of the terrorist attacks in Catalonia. At least 15 people were killed and some 130 others injured after cars crashed into pedestrians on the La Rambla boulevard in Barcelona and on a promenade in the coastal city of Cambrils on 17 August. The so-called 'Islamic State' (IS) claimed responsibility for the attacks in Barcelona and Cambrils. EPA/DARWIN CARRION

L’esistenza di una agguerrita e nutrita cellula terrorista con base a Ripoll – piccolo centro della Catalogna a ridosso dei Pirenei -, la strage alla Rambla di Barcellona e la fallita strage (con uccisione dei cosiddetti “soldati del Califfato”) a Cambrils hanno colpito molto di più l’opinione pubblica, almeno quella italiana, rispetto agli attentati di Stoccolma o del London Bridge, in poco tempo digeriti e archiviati, nonostante la presenza, a Londra, dell’italo-marocchino Youssef Zaghba per il quale l’Italia era la seconda patria.
Questo perché la sensazione diffusa è che i destini della Spagna potrebbero essere simili a quelli che attendono l’Italia, che è sempre di più nel mirino della propaganda del Califfato. Roma, ossia il cuore della cristianità, è da tempo un obiettivo simbolico palesemente dichiarato, tanto che lo slogan utilizzato dopo la strage parigina del Bataclan (e di altri luoghi) era “Parigi prima di Roma”, per indicare che la capitale italiana aveva un destino segnato.
Ma, al di là dei timori, si può dire che la strage di Barcellona ha segnato un punto chiaro rispetto alle strategie dell’Isis. Ossia che con l’approssimarsi della sconfitta militare (e quindi con il venir meno dell’immagine “vincente” che è stato il principale volano per il reclutamento) è probabile che lo Stato islamico, non più “Stato” che governa un territorio, possa “qaedizzarsi” e diventare una temibilissima forza terrorista capace di colpire sull’intero pianeta, indipendentemente da calcoli politici che non sono propri dei seguaci di al-Baghdadi ma che…

L’articolo di Gianni Cipriani apre la cover story e prosegue su Left in edicola


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La scrittrice Ribka Sibhatu: «In Eritrea c’è ancora la schiavitù»

«Italiani brava gente è un’espressione che non usano solo gli italiani. Anche mia nonna la usava, per dire che si trattava di gente sapiente, dalla lunga civiltà. Intorno ai dieci anni, però, ho scoperto che gli italiani, appena arrivati in Eritrea, avevano espropriato i nostri terreni e che la mia famiglia era stata ridotta alla povertà», racconta la scrittrice Ribka Sibhatu, che abbiamo incontrato a Roma al Convegno dell’associazione Amore e Pische Diversità nell’uguaglianza  e che abbiamo ritrovato con i suoi libri di fiabe e racconti al Salone del libro di Torino allo stand dell’editore Sinnos.  Il colonialismo italiano in Eritrea è un buco nero nella nostra memoria. Ma non in quella di chi l’ha subito. «Ben presto non solo, ho scoperto le leggi razziali, che ci giudicavano inferiori e ci impedivano di frequentare il centro di Asmara. Allora, sconvolta, chiesi a mia nonna come mai amasse tanto gli italiani. E lei mi rispose: Figliola, stai attenta: non confondere gli italiani e la cultura italiana con la politica italiana. La politica è una cosa; gli italiani sono un’altra cosa. La penso così anch’io tanto che dovendo scegliere fra l’Inghilterra e l’Italia ho deciso di venire qui».

La realtà del colonialismo però era ben diversa.
I nostri colonizzatori sono stati uno peggiore dell’altro. C’è un detto eritreo che lo riassumebene: “Gli italiani ci dicevano mangiate e non parlate; gli inglesi, parlate e non mangiate; gli etiopi, non mangiate e non parlate”. La cosa grave del colonialismo italiano è l’eredità che ci ha lasciato: l’ignoranza. Per 60 anni ci è stata proibita l’istruzione. E questo nel ’41, nonostante l’Italia avesse investito parecchio in Eritrea e l’Eritrea fosse uno dei Paesi più sviluppati dell’Africa subsahariana. Poi ci hanno federato e l’Italia ci ha tradito, consegnandoci all’Etiopia. Ne sono seguiti 30 anni di guerra. E adesso dove siamo? Al processo di Khartoum, con il quale l’Italia ci ha tradito ancora una volta, rafforzando la dittatura più feroce del mondo, che ci sta letteralmente sterminando.

Qual è la situazione oggi sotto il presidente padrone Isaias Afewerki?
La peggiore possibile. Nel 2016 per l’ottavo anno consecutivo l’Eritrea è all’ultimo posto nella classifica di Reporters sans Frontières e Freedom House sulla libertà di stampa, occupando il 180° posto e venendo definita “una dittatura dove l’informazione non ha alcun diritto”. Dopo il processo di Khartoum, proseguito a Roma e a Malta, Isaias Afewerki si è sentito protetto peggiorando la schiavitù. Forse non tutti sanno che in Eritrea vige una schiavitù mascherata sotto forma di servizio militare. Un anno prima di finire le scuole superiori i giovani vengono portati nei campi militari, dove vivono con una paga di 10 euro al mese che non basta neanche  alla loro sussistenza. Prima del processo di Khartoum il limite di età per il servizio militare era 50 anni, ora è stato portato a 70 anni. Tutta la vita a 10 euro al mese, affamati e schiavi, privati del diritto di parlare. È per evitare la leva obbligatoria che molti ragazzini stanno arrivando in Europa. Il Paese si sta letteralmente svuotando. Eravamo 5 milioni, adesso non so neanche se siamo 3 milioni.

E l’Europa, l’Italia, cosa fanno? 
Invece di aiutare noi dissidenti, rafforzano una dittatura terribile, creando in Eritrea i germogli per una futura Siria dove crescono le vittime dell’Isis. Possiamo immaginare cosa può succedere a un popolo offeso, privato della propria cultura senza consapevolezza della propria storia.

Come se ne può uscire?
Con l’educazione, con la storia. Dobbiamo investire nella pace, nel futuro, perché siamo tutti sulla stessa barca.Quando sono arrivata in Italia, 30 anni fa, tanti vecchietti mi cantavano “Faccetta nera”, pensando di essersi comportati bene in Eritrea. Oggi i giovani non sanno neanche dove si trovi l’Eritrea. L’ignoranza della propria storia è la cosa peggiore che può succedere, perché ti fa perdere l’orientamento verso il futuro.

Lei è stata in carcere e poi è stata costretta all’esilio. Qual è la sua vicenda personale?
Sono stata in carcere durante il regime di Menghistu Hailè Mariàm, prima dell’arrivo di Isaias Afewerki. La mia unica colpa è stata quella di aver rifiutato di sposare un generale che mi voleva in moglie. Il governo però mi ha accusata di essere una spia di quei guerriglieri che ora sono al potere. Ovviamente non c’entravo nulla con le accuse che mi erano state mosse, anche il mio aguzzino se ne accorse già il primo giorno. Fortunatamente io parlavo perfettamente l’amarico, che è la lingua dei colonizzatori etiopi, perché sono vissuta in un ambiente interculturale fra etiopi, cristiani e musulmani. Perciò ebbi modo di spiegarmi. Sono stata fortunata, perché, le altre donne arrestate con me hanno subito violenze per mesi. Alle donne erivano le piante dei piedi e le costringevano a camminare nella ghiaia con i piedi sanguinanti. Molte svenivano per il dolore. Mentre tornavo in cella dalla sala delle torture, per il dolore delle percosse alla schiena mi sono accasciata e ho sentito il mio torturatore dire ai suoi colleghi che ero innocente, come se il mio esame fosse finito. Poi cercarono di arruolarmi come infiltrata e volevano inviarmi in Russia. Temendo ritorsioni per il mio “no”, decisi di fuggire dal Paese.

Quando ha trovato “la propria voce” come scrittrice?
Durante la mia fuga dall’Eritrea portai con me quattro libri. Uno era Il diario di Anna Frank. Mi colpì il fatto di vivere nascosta come lei. Mi sentii meno sola. “Ma come, i morti parlano con i vivi?” pensavo. Decisi  così di misurarmi con la scrittura.

L’Eritrea ha una grande tradizione di narrazione orale, fiabesca e poetica, in che modo ne ha tratto ispirazione?
Io vengo da una famiglia agiata, di cosiddetti feudatari, nella quale c’era un forte culto degli antenati. Quando ero bambina mia mamma mi parlava del nostro albero genealogico, raccontandomi storie che risalivano anche a 500 anni fa. In famiglia sono l’unica ad essere rimasta folgorata da questa tradizione e sto cercando, da un lato, di proseguire la mia ricerca e, dall’altro, di continuare a trasmettere la nostra storia.

I suoi libri sono pubblicati da Sinnos con testo a fronte, in italiano e tigrino. La possibilità di avere un doppio sguardo in che modo arricchisce la sua visione?
Ora le due lingue convivono dentro di me  in armonia. C’è stato un periodo della mia vita in cui stavo per perdere il tigrino, perché prevaleva l’italiano, poi l’ho recuperato e ora penso e sogno in tutte e due le lingue.  Dopo l’ultimo tradimento del processo di Khartoum, mi sono sentita offesa e per un attimo ho pensato di andare via e di rinunciare a scrivere in italiano, perché questi politici stanno facendo soffrire di nuovo il mio popolo. Ci ho riflettuto, parecchio, e mi sono resa conto che non siamo solo noi ad essere danneggiato. Parlo l’italiano  anche per denunciare la violenza che il mio popolo sta subendo.
Per aiutare gli immigrati e i rifugiati a diventare sempre più risorsa, lavorando e conoscendo i propri diritti e doveri. Anche per questo ho deciso di accettare l’invito dei Radicali a candidarmi alle prossime elezioni per la IX circoscrizione e per il Comune di Roma.

(Ha collaborato Jennifer Zocchi) @simonamaggiorel

I rifugiati di piazza Indipendenza: li vogliono mandare a Rieti per far scoppiare una guerra

«Ieri la polizia mi ha picchiata davanti a mio figlio. Guardate cosa mi hanno fatto», dice una giovane rifugiata eritrea mostrando il braccio destro, su cui è visibile un’evidente contusione. «Ecco come hanno trattato una donna incinta – dice –  hanno usato manganelli e idranti, come se fossimo animali. Dove dormiremo adesso? Siamo in Italia da 10 anni e non abbiamo nessuna libertà. Dov’è la libertà?».

Le storie di chi è stato sgomberato dal palazzo di via Curtatone a Roma e ha poi subìto le cariche della polizia ieri a piazza Indipendenza sono molte e sono state in parte raccontate questa mattina alla conferenza stampa che si è tenuta davanti al Municipio II. C’è chi ricorda le parole dei poliziotti di ieri: «ci hanno detto che dovevamo essere scacciati come i ratti». Durante le testimonianze vengono mostrate e tenute in alto le fotografie delle cariche di ieri mattina, la rabbia e la frustrazione sono visibili nei volti delle donne e degli uomini presenti.

Sono poi intervenuti anche i vari portavoce delle associazioni umanitarie presenti. «Gli alloggi offerti a Rieti di cui tanto si è parlato erano del tutto inaccettabili, non solo per le stanze, in cui ad esempio non c’era una zona adibita per la cucina e per il numero insufficiente ad accogliere le famiglie intere, senza dividerli, ma anche per l’ubicazione. A Rieti ci sono persone che hanno perso la casa per il terremoto, è una realtà martoriata e  ospitare dei rifugiati avrebbe sicuramente creato malcontento e altro disordine sociale», ha spiegato un portavoce dei sindacati di base intervenuto durante la conferenza. In ogni caso, se davvero venissero trasferiti alcuni rifugiati nelle zone dove è ancora in corso l’assegnazione di appartamenti ai terremotati del 2016, è facile intuire la tensione che si verrebbe a creare. Con il rischio concreto di un’ennesima guerra tra poveri.

E così, mentre la prefetta di Roma Paola Basilone in un’intervista al Corriere della Sera definisce le cariche della polizia di ieri un’ «operazione di cleaning» perfettamente riuscita, l’assessora alle Politiche sociali Laura Baldassarre è all’estero e dichiara in un comunicato che «sugli sgomberi abbiamo fatto la nostra parte a 360 gradi» e la sindaca di Roma non ha fatto sapere nulla e non è intervenuta, anche stanotte si è dormito per strada. Si organizza intanto una manifestazione per sabato 26 agosto che parte alle 16 da piazza Esquilino.

Psichiatri Usa contro Trump: Sta mettendo a rischio la sicurezza nel mondo

epa06158917 US President Donald J. Trump returns to the The White House after a trip with stops in Arizona and Nevada; in Washington, DC, USA, 23 August 2017. EPA/CHRIS KLEPONIS

Non lo dicono più solo i suoi avversari politici, i membri del Partito Democratico statunitense e i ragazzi delle strade nordamericane che manifestano contro la sua politica pro-suprematisti. Il presidente Donald Trump «è un chiaro e reale pericolo per il mondo, e non ci vuole più uno psichiatra per riconoscere gli allarmanti modelli di comportamento impulsivo, sconsiderato e narcisistico che assume».

Questa è una delle frasi chiave di una lettera spedita da un gruppo di medici e psichiatri al Congresso americano, per spiegare, e forse anche per svegliare, i suoi rappresentanti: Donald Trump è alarming, allarmante, reckless, sconsiderato e ha un narcissistic behaviour, un comportamento narcisistico. La lettera è stata spedita ad entrambi i rappresentati dei partiti, sia quello Democratico che quello Repubblicano. Secondo il parere degli psichiatri e dei medici, Donald Trump è instabile, soffre di disturbo narcisistico, non è capace di alcuna empatia. In una sola parola – scrivono gli scienziati – è un «pericolo».

Questo responso via lettera arriva nel momento in cui i titoli d’apertura dei maggiori quotidiani americani riguardano «le preoccupazioni bipartitiche e il dibattito acceso sulla salute mentale del presidente», scrive Usa Today. Ma, specialmente dopo la richiesta dei democratici, che hanno promosso la creazione di una «cross-party Oversight Commission on Presidential Capacity», una commissione bipartitica per la sorveglianza della capacità presidenziale, ovvero un team medico che diventerebbe responsabile della salute mentale e fisica del presidente dello Stato con l’arsenale più letale del mondo.

La prima voce ad alzarsi è stata quella di Jamie Raskin, un membro del Congresso del Maryland, e sono sempre più quelli che lo appoggiano. Raskin ha promosso la creazione del team medico e il giudizio della commissione potrebbe forzare Trump a lasciare la Casa Bianca se “unfit”, inadatto al ruolo. La creazione della commissione medica che determinerà lo stato della capacità fisica e mentale del presidente è prevista dal venticinquesimo emendamento della Costituzione statunitense, ratificata 50 anni fa, ma fino ad ora nessuno vi ha mai fatto ricorso.

Questo dibattito che sta scuotendo la società americana si è intensificato negli ultimi giorni, mentre Trump visitava i suoi elettori in Arizona, a Phoenix. Da quel palco, commentando la proposta del suo Congresso, Trump non ha detto niente di nuovo: è tutta roba fatta dai media disonesti, dai maledetti media disonesti, damned dishonest media.

Sedotti dai bei libri. La città dei lettori, da Firenze a New York

«Vivi la tua serata, chiacchiera con gli amici, bacia il tuo amore ma non dimenticarti di prendere un libro in regalo. La città dei lettori è questo: un progetto che vuole invitare alla lettura, con libri di qualità, regalando un libro proprio dove i libri non sono protagonisti. L’omaggio del libro è un gesto di condivisione della cultura e di responsabilità. Ogni libro regalato porta con se il piacere della lettura e la responsabilità del dono, che in questo caso è fortemente selezionato e deciso dall’Associazione Culturale Wimbledon, organizzazione promotrice dell’iniziativa». Così il giornalista e responsabile eventi della libreria Clichy, Gabriele Ametrano, racconta La città dei lettori, il progetto da lui stesso ideato con l’associazione culturale Wimbledon di cui fa parte insieme a Gianluca Caputo e Martina Lazzerini. Con questa iniziativa, da maggio a oggi,  ha già consegnato nelle mani di potenziali lettori quasi trecento libri, invitandoli a tuffarsi nelle pagine di grandi classici e di novità editoriali. «L’idea è quella di riacquistare lettori – spiega Ametrano – . Negli ultimi anni circa 4 milioni di persone si sono allontanate dalla lettura secondo i dati  dell’ Associazione Italiana Editori (Aie) . Un dato sconfortante, che in qualche modo deve essere combattuto». Da qui, dalla volontà di reagire a questa triste quadro italiano è partita il 4 maggio a Firenze l’iniziativa che nel frattempo ha già contagiato positivamente Volterra, Carrara e  Padova, mentre altre città si stanno attivando per  adottare il progetto. «Fino al 26 settembre sono stati programmati dodici appuntamenti in alcuni luoghi che faranno vivere la cultura nell’estate di Firenze. Lo scorso luglio è stato presentato il calendario dei quattro mesi successivi, da ottobre a gennaio, e – aggiunge Ametrano – ci si guarda a  dicembre quando saranno presentati gli eventi del 2018, da febbraio a maggio. Il traguardo sarà a giugno  del prossimo anno quando la Stazione Leopolda di Firenze diventerà “La città dei lettori” un evento che vuole cambiare la prospettiva degli appuntamenti editoriali nazionali ponendo al centro dell’attenzione il lettore e il libro».

La risposta a questo nuovo progetto è stata da subito di grande interesse. «Nei primi tre appuntamenti sono stati regalati 191 libri trasformando altrettante persone in lettori. L’obiettivo è arrivare nel 2018 a 4.000 volumi regalati, creando una nuova collettività di lettori». Il successo della manifestazione si deve anche all’abbinamento fra i luoghi scelti e i libri. «Chiunque passi la serata in uno dei luoghi scelti verrà omaggiato di un libro, che potrà scegliere tra almeno dieci titoli selezionati di case editrici italiane , una casa editrice per serata, con 100 copie disponibili». Come selezionate le case editrici?». Scegliamo fra quelle culturalmente più attive nel settore, sono tutte libere dall’ombra dell’editoria a pagamento o doppio binario, e le loro pubblicazioni rappresentano l’eccellenza nel mondo del libro», precisa l’ideatore del progetto. Fra i marchi coinvolti troviamo Sellerio, Voland, Edizioni Clichy, Sur, Newton Compton, Franco Cesati, Giulio Perrone e L’Orma. Scendendo più  nel dettaglio della casa editrice Sellerio è stata scelta la collana “Il divano” con, ad esempio, La casa del tesoro di Nathaniel Hawthorne e la traduzione di Eugenio Montale o Del Bello di Nicolò Tommaseo.  Nel carnet de La città dei libri c’è  la collana “Little Sur”, con autori sudamericani come Julio Cortázar o Juan Jose Arreola.  Le Edizioni Clichy sono presenti con la  collana “Sorbonne”, che ripropone figure di scienziati e intellettuali che hanno immaginato prospettive diverse del contemporaneo. Per Voland c’è Vanni Santoni  ma anche una popolare scrittrice come Amelie Nothomb. Con Newton Compton Editori e L’Orma arrivano Rimbaud, Verga, Emilie Bronte. Del lavoro di Giulio Perrone editore è stata selezionata Passaggi di Dogana che invita a viaggiare nella letteratura delle città europee. A questo nucleo iniziale si stanno aggiungendo anche altri esempi virtuosi di editoria. «Le case editrici coinvolte hanno un ricco catalogo a cui attingere e prestare attenzione, per qualità letteraria, scouting, idee e progetti editoriali». Nelle scelte spiccano l’interesse delle narrazioni, la contemporaneità dei testi o le peculiarità dei soggetti trattati, «perché il grande pubblico possa goderne e avvicinarsi alla lettura con interesse».

Se volete unirvi a “La città dei lettori”, l’appuntamento è per domenica 3 settembre al Bistrot Santarosa, sul Lungarno di Santa Rosa, il 13 settembre al Circolo AS Aurora in via Vasco Pratolini, 2 e il 27 settembre da Zenzero biocatering in via del Ponte Sospeso 22, a Firenze. «I libri –  precisano gli organizzatori – saranno distribuiti gratuitamente ai partecipanti, uno a testa, fino ad esaurimento della fornitura della serata, che sarà di cento copie ad appuntamento, con dieci titoli a serata, da Arthur Rimbaud a Julio Cortázar, da Jane Austen a Luigi Pirandello, passando per le nuove narrazioni di Amelie Nothomb e alle passeggiate letterarie insieme a James Joyce o Claudio Magris». Solo per fare degli esempi.  A chi riceverà il libro verrà chiesto di inviare una breve recensione che sarà  pubblicata sul sito www.lacittadeilettori.it e condivisa tramite social network.  Da Firenze, intanto,  il progetto si sta estendendo a  molte altre città, come accennavamo. Gli amici de La città del libro guardano lontano. Un’anticipazione? «Stiamo preparando un progetto per New York – rivela a Left Gabriele Ametrano -. A marzo 2018, porteremo libri di autori italiani nella Grande mela».

 

Il giorno nero. Nero

Italian law enforcement officers use water cannons to disperse about a hundred migrants protesting at Indipendenza square after the evacuation, on 19 August, of an occupied building in Rome, Italy, 24 August 2017. The building was mainly occupied by asylum seekers and refugees from Eritrea and Ethiopia. ANSA/ANGELO CARCONI

Ieri in piazza Indipendenza i poliziotti (che eseguono ordini, i responsabili sono quelli che li danno, gli ordini) hanno sparato in faccia  gli idranti contro i migranti (regolarmente rifugiati politici, per intendersi), prendendo donne, bambini e qualche disabile. Così. Con quell’arroganza e demenza umanitaria di cui di solito si scusano dopo una quindicina d’anni. Protetti da una coltre di ignoranza e disperazione che confondo tutto con le migrazioni e invece è solo una guerra di poveri. Mica una guerra tra poveri. Una guerra ai poveri. Che ha trovato il condono dietro la definizione di “decoro urbano”. Vigliacchi anche nelle parole.

Ieri un funzionario della Polizia a Roma, stazione Termini (non ci serve il numero di matricola, vogliamo conoscerne il nome) ha incitato i suoi uomini dicendogli “devono sparire, se tirano qualcosa spaccategli un braccio”. Rivolto ai rifugiati (sempre loro) che stavano cercando. Ieri, in piazza Indipendenza, sono stati registrati (e quindi chiaramente verificabili) alcuni agenti di polizia che chiamavano i rifugiati “feccia” e altri epiteti di questa solfa. E invitavano i giornalisti a prenderseli “a casa loro”. In pratica ieri i cretini da social network erano in divisa. A nome nostro. Per tutelare il diritto. Pensa te.

Ieri a Breno di Borgonovo Val Tidone, alcuni abitanti hanno innalzato un muro di fieno davanti al cancello della struttura che deve accogliere i richiedenti asilo, tutti minori non accompagnati. Bambini. Ieri degli adulti hanno accatastato fieno spaventati da bambini, senza genitori. Stranieri. Se ci fossero stati il bue e l’asinello sarebbe stato il perfetto presepe di un nugolo di fascisti. E coglioni.

Ieri a Milano. Soffriva di depressione e disturbi psichiatrici. Lo hanno trovato morto nel centro di accoglienza per migranti di via Corelli, a Milano, l’ex Cie. Il 34enne, afghano, si è impiccato in un locale della struttura dove era ospitato. Aveva tentato di uscire dall’Italia, proseguire verso l’Austria, ma i vergognosi accordi di Dublino l’hanno rimandato indietro. Morto.

Ieri a Jesolo una folla armata di telefonini per riprendere la scena ha assistito con applausi, risate e altre sconcerie al tentativo di suicidio di quarantunenne algerino. «Buttati!», gli ha urlato qualcuno.

Ieri quei patetici fascistelli di Forza Nuova in Toscana hanno lanciato l’anatema contro don Biancalani, il parroco crocifisso da Salvini perché si è permesso di portare alcuni bambini (rifugiati) in piscina. “Ormai alcuni preti pensano che fare una foto con immigrati in piscina e lanciare anatemi contro i fascisti sia fare religione – ha dichiarato Leonardo Cabras, il Coordinatore Regionale di Forza Nuova in Toscana – peccato che per noi il motto Dio Patria Famiglia sia oggi più che mai valido e di certo non lasceremo questi principi alla berlina di chi, più che alla dottrina cattolica, si rifà alle perverse idee del lobbista Soros”. Un comunicato che gocciola sterco e nausea. Nera. Dicono i fascistelli che domenica andranno alla messa del parroco per verificare “la sua cattolicità”.

Non serve altro. Per ora. Buon venerdì.