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Venezia 74, spazio al cinema d’autore e all’impegno per i diritti umani

Human flow, buy Ai Weiwei

Ultimi preparativi  per la 74esima Mostra Internazionale del cinema di Venezia, che dal 30 agosto al 9 settembre presenta un programma molto centrato sul cinema italiano ma anche con interessanti proposte internazionali, alcune delle quali toccano brucianti questioni che riguardano i diritti umani. Come Human Flow il film che  l’artista cinese dissidente Ai Weiwei ha girato per due anni in varie parti del mondo, tra migranti e profughi.  È un «percorso personale, un tentativo di comprendere le condizioni dell’umanità ai nostri giorni», ha dichiarato presentando il film: un’opera dedicata a 65 milioni di migranti e rifugiati costretti a lasciare la propria terra. Un’opera realizzata con un preciso obiettivo, affermare il valori umani universali, innegabili, eppure oggi disconosciuti da governi che si dicono democratici, come quelli di un’Europa che ad oggi è priva di corridoi umanitari.

«In questo momento di incertezza – ha sottolineato l’artista che fu picchiato quasi a morte dalla polizia cinese – più che mai abbiamo bisogno  fiducia per l’altro diventando consapevoli del fatto che tutti siamo uno». Il film di Ai Weiwei sarà presentato a Venezia il primo settembre, sperando possa gettare un sasso di riflessione nella laguna accesa di riflettori internazionali.

Ecco un’anticipazione dell’opera:

Restando nel mondo dell’arte, a Venezia, il 2 settembre sarà presentato, in concorso nella sezione dei Venice Days – Giornate degli Autori  anche il film  Looking For Oum Kulthum, dell’artista visiva e regista iraniana Shirin Neshat,  dedicato alla leggendaria cantante e ad anni cruciali della storia dell’Egitto. Da sempre attenta all’universo femminile  Shirin Neshat è conosciuta per il raffinato lavoro artistico e fotografico, le difficili condizioni sociali delle donne all’interno del mondo islamico. Il mondo femminile, con i suoi drammi, le sue battaglie e la sua innegabile e drammatica bellezza ritorna al centro della sua ricerca attraverso la figura e il canto di  Oum KulthumPer parlare di questo importante ritorno al festival del cinema dell’artista iraniana dopo il film Man without women  l’abbiamo incontrata per  una ampia intervista sul numerodi Left  in edicola.

 

Ma addentriamoci ora nel  programma, segnalando brevemente alcuni film che sulla carta potrebbero essere interessanti: a Venezia ci sarà Hirokazu Koreeda ( il regista di Ritratto di famiglia con tempesta) con The Third Murder , ci sarà anche la star George Clooney con Suburbicon,  con cui realizza un progetto portato avanti per quasi dieci anni: un film tratto da una sceneggiatura originale di Joel e Ethan Coen, con un plot completamente folle com’è nello stile dei due fratelli: al centro c’è la storia kafkiana di una famiglia che abita nei sobborghi di una cittadina ( che si trova a dover affrontare di tutto dopo  un’effrazione). Tra gli interpreti Julianne Moore, Josh Brolin e Oscar Isaac e Matt Damon, che ritroviamo anche in Downsizing, l’atteso film di Alexander Payne, che apre la Mostra. 

Un altro divo e icona di un certo cinema “liberal”  che sarà a Venezia è il messicano Guillermo Del Toro con The shape of water un fantasy con moltie imprevisti  risvolti politici.

Ampia la partecipazione dei film francesi al festival di Venezia 2017 dove saranno presentati L’insulte di Ziad Doueiri, La villa di Robert Gueèdiguian, Mektoub, my Love:Canto uno di Abdellatif Kechiche ( il regista de La vita di Adele), Jusq’à la garde di Xavier Legrand.

E ancora guardando al programma generale dei film  in corsa per il Leone d’oro,  Lean on Pete di Andrew Haigh, M.Foxtrot di Samuel Maoz, Three billboards outside Ebbing, Missouri di Martin McDonagh, Jia nian hua (Angels wear white) di Vivian Qu,, Sweet country di Warwick Thornton, Ex libris – The New York public library di Frederick Wiseman, First Reformed del decano del cinema Paul Schrader.

Quest’anno è foltissima la presenza a Venezia di film italiani, con interpreti internazionali. In concorso ci sono The leisure seeker di Paolo Virzì con Helen Mirren e Donald Sutherland, Una famiglia di Sebastiano Riso con Micaela Ramazzotti,  sceneggiato dallo scrittore Andrea Cedrola. Hannah di Andrea Pallaoro con Charlotte Rampling  e Ammore e Malavita dei Manetti Bros . Altrettanti in gara a Orizzonti: Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, Brutti e cattivi di Claudio Gomez con Claudio Santamaria, il film di animazione La gatta cenerentola di Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone, infine, La vita in comune di Edoardo Winspeare). Fuori concorso ci sarà Il colore nascosto delle cose di Silvio Soldini e Stefano Solima porterà due puntate della sua serie per Netflix Suburra. E, ancora, tra gli eventi speciali è stato annunciato Casa d’altri, il corto che Gianni Amelio ha girato a Amatrice.

 

L’ultima trovata del leader ceceno Kadyrov contro la libertà delle donne

epa05117923 Chechen men hold a poster reading 'Kadyrov - Russian patriot' during a rally in support of Chechen Head Ramzan Kadyrov and the policies of Russian President Vladimir Putin in Grozny, Chechen Republic, Russia, 22 January 2016. According to mass media reports, about one million people took part in the rally. EPA/KAZBEK VAKHAYEV

Ceceni, non divorziate, state insieme per i figli, altrimenti diventeranno terroristi. Le autorità lo stanno chiedendo sul serio e in maniera grottesca nella Repubblica caucasica della Federazione russa: se avete divorziato, tornate insieme, perché questo, cittadini, ci aiuterà a battere il terrorismo.

La tv della regione continua a mandare in onda reportage sulle vite delle coppie separate che si riuniscono nella stessa casa dopo tanto tempo e vivono sotto gli occhi di una commissione governativa religiosa. Spesso anche sotto gli obiettivi delle telecamere di quello che sembra un reality surreale della Grozny tv. La commissione si chiama “Consiglio dell’armonia matrimoniale e relazioni familiari” e negli ultimi due mesi ha fatto “riunire” 948 famiglie, dopo anni di separazione.

Le coppie vengono riunite per un programma voluto dal leader regionale, Ramzan Kadyrov, il controverso -nonché accusato di crimini – presidente che ha soggiogato una regione con i suoi miliziani giurando fedeltà al Cremlino e dal Cremlino, per questa ragione, viene tollerato. Figlio di un imam sufi che ha cambiato barricata durante la guerra, passando dalla controparte russa, Ramzan ha la libertà di fare quello che vuole nel territorio. Per esempio, imporre il velo alle donne all’università. O inventare questo tipo di programmi di ricongiungimento matrimoniale islamico.

Un islamismo violento risorge proprio nella regione dove due guerre sono state combattute dopo il crollo dell’Urss e quindi Kadyrov lo ha motivato cosi: «Non conoscete la religione. I figli di genitori separati hanno più probabilità di diventare islamisti militanti, terroristi, specialmente se a crescerli sono le madri. Se i genitori vivono insieme e hanno 3, 4, 5 figli perché mai poi devono separarsi? Se andava tutto bene prima dei figli, perché non deve andare bene dopo? Dobbiamo lavorare tutti per questo scopo: clero, polizia, capi villaggio, capi quartiere. Dobbiamo risolvere il problema, riportare le donne che se ne sono andate dai mariti».

Kadyrov continua alla tv: «Di un centinaio di queste famiglie separate, solo cinque o sei sono normali». Il Consiglio per l’armonia familiare in Cecenia fa questo. Mentre l’uomo e la donna sono seduti a tavola, i leader religiosi li osservano, chiedendo le ragioni della loro separazione. Poi le autorità dichiarano che no, non c’è davvero motivo per cui i due non debbano riunirsi. Questo programma è una farsa dai toni tragici: chi non torna a casa dal coniuge, ne paga le conseguenze severe, perché va “contro il volere del leader». Conseguenze molto peggiori del tornare a vivere con un o una ex da cui ti eri separato.

Tutto va in onda su Grozny tv, che riferisce che il numero di riunioni continua ad aumentare ogni giorno: «Adesso guardano i loro programmi preferiti insieme alla tv, mangiano allo stesso tavolo». Gli uomini, che spesso trovano altre mogli, tornano sui loro passi, come dicono in tv, «per obbedire al capo della repubblica».

Il leghista che augura lo stupro alla Boldrini (e alle “donne del PD”)

Forse la notizia l’avete già letta ma conviene rinfrescare l’accaduto: il 26 agosto Saverio Siorini, segretario cittadino di San Giovanni Rotondo (Foggia) di Noi con Salvini, ha condiviso sulla propria bacheca Facebook (che per alcuni ha ormai sostituito lo sfogatoio di un po’ di solitudine nel proprio cesso) la notizia dello stupro avvenuto a Rimini ai danni di una coppia di turisti. Come commento alla notizia ha aggiunto: «Ma alla Boldrini e alle donne del Pd, quando dovrà succedere?». Qui l’immagine. Perché poi questi sono anche vigliacchetti che corrono a cancellare, beccati in fallo.

Fermi. Siamo solo all’inizio. Svegliati da cotanto tanfo alcuni utenti su Fb cominciano giustamente a sottolineare il lerciume di un’uscita del genere. E che fa Saverio Siorini (che a San Giovanni Rotondo tutti conoscono come un recente salviniano ma un protofascista destrorso già da lunga data)? Corregge il suo post. Normale, direte voi: si è accorto di avere fatto una cazzata e interviene. Già. Siorini lo corregge così:

In pratica non cancella, no. Aggiunge una tortuosa spiegazione in cui enuncia i motivi per cui alla Boldrini (e alle donne del PD) dovrebbe capitare un bello stupro. Riesce addirittura a fare perdere la pazienza al coordinamento regionale del suo partito: viene espulso. Essere espulsi da “Noi con Salvini” equivale più o meno al riuscire a istigare una rissa tra monaci tibetani, per dire. Finito? No. Siorini scrive ancora:

«Capisco che il mio post sia stato frainteso e anche strumentalizzato a favore di qualcuno, ma è tanta la rabbia per questa giovane donna stuprata, e il silenzio di Boldrini e di tutte le femministe (che hanno preferito accanirsi su di me), che non ci ho visto più. Ovvio che non era mia intenzione augurare il male a nessuno, con questo non cambio idea: auguro una castrazione chimica a tutti gli stupratori e la rabbia del popolo a tutti i complici del Pd»

Avere letto bene: è stato frainteso.

Ora il partito di Salvini l’ha espulso e si è messo “a posto così” ma ciò che è sfuggito a molti commentatori sono i commenti che Siorini aveva ricevuto (ora sono stati cancellati): Michele Giagnorio scrive “spero presto”; “Glielo auguro” scrive Emma Impagliatelli, e poi ancora Michele dice “Saverio la gente normale la pensa come noi, tira dritto”. Addirittura epico un certo Jovanni Joe che scrive: “Amici di Noi con Salvini ribaltiamo questa vile sentenza su Siorini ed incitiamo Salvini a promuovere Siorini al coordinamento regionale. Facciamolo tutti, senza paura, con decisione. Cambiamo la tendenza dell’ipocrisia che regna sovrana in politica, Tutti insieme chiediamo la promozione di Siorini coordinatore regionale».

Ecco, la domanda è questa: ma Salvini oltre a espellere Siorini rifiuta anche i voti di questa gente? Ce lo dice chiaramente? Questo è il punto.

Buon martedì.

(ps. so che vi rovina l’appetito ma a Rimini, quella sera e probabilmente dalle stesse persone, è stata stuprata anche una trans. Fate uno sforzo, colleghi, scrivetelo.)

Che fine ha fatto Santiago Maldonado? Desaparecido nell’Argentina di Macri

Scomparire nel nulla dopo essere stato arrestato. Siamo in Argentina ma non si tratta di una storia di desaparicion forzata risalente agli anni della dittatura civico-militare. È il primo agosto 2017 e questa è la sorte toccata a Santiago Maldonato, un giovane artigiano di 28 anni, che durante una manifestazione in difesa dei diritti del popolo mapuche è stato fermato dalla gendarmerìa nacional «e non si è più visto». L’ultima denuncia in ordine di tempo è dell’organizzazione di giornalisti “Comunicadores de la Argentina” che tramite una nota diffusa in queste ore ha chiesto collaborazione alle associazioni internazionali affinché mantengano alto il livello di attenzione mediatica su questo caso. «Chiediamo il vostro aiuto perché diate notizia della sparizione forzosa di Santiago Maldonado, come tale è stata definita dalla procura che si occupa del caso a dagli organismi per i Diritti umani. Vi sollecitiamo a chiedere del detenuto-desaparecido in ogni occasione che vi si presenti, davanti ai rappresentanti diplomatici, ai funzionari del governo argentino che visitano i vostri paesi e anche agli artisti, sportivi ed accademici».

In Italia, la campagna è stata immediatamente rilanciata dall’associazione per i diritti umani 24marzo onlus che ha messo la storia di Maldonado in relazione alla vicenda di violazione dei diritti umani nei confronti di Milagro Sala (nella foto a destra), la deputata al parlamento del Mercosur e fondatrice del movimento Tupac Amaru di Jujuy, arrestata durante un picchetto in sostengo dei contadini senza terra e detenuta senza processo dal 16 gennaio 2016. Dieci giorni fa le autorità argentine, solo in seguito a una risoluzione delle Nazioni Unite che hanno dichiarato arbitraria la sua detenzione, hanno deciso di concedere alla deputata almeno gli arresti domiciliari. Ma, come scrive l’agenzia Pressenza, si tratta di una casa di proprietà della deputata che è stata saccheggiata da ignoti durante la sua prigionia, è senza luce, acqua, servizi igienici ed elettricità.

La scorsa settimana, la Commissione per i diritti umani dell’Organizzazione degli Stati americani ha chiesto al governo argentino di «prendere le misure necessarie» per ritrovare il giovane Santiago Maldonado e «indagare sui fatti relativi alla sua scomparsa». «Nulla si sa sul suo destino», ha precisato la commissione. L’ultima volta che il giovane è stato visto si trovava nella comunità mapuche di Chubut, durante una protesta per chiedere il rilascio del leader della collettività, Jones Huala. Testimoni hanno riferito che alcuni dei manifestanti sono fuggiti all’arrivo della gendarmeria sul posto: il giovane, hanno precisato, è stato arrestato e subito portato via su una camionetta. Da quel momento non si è più saputo nulla. Secondo quanto riporta l’Ansa, il ministro per i Diritti umani, Claudio Avruj, ha escluso «ogni indizio» su una presunta «sparizione forzata» del giovane, cioè per mano dello Stato come avveniva durante la dittatura civico-militare degli anni 70. «Tutte le possibilità sono aperte», ha precisato dicendo che il governo sta facendo tutto il possibile per chiarire il caso. Staremo a vedere.

I bambini come bombe umane e la doppia violenza di Boko Haram

epa05149785 Nigerian women gather their belongings to depart the village of Mairi in the Konduga local government area of Borno State, North-East Nigeria following Boko Haram attacks over the weekend, Nigeria 08 February 2016. Three women and one man were killed during the attack which led to the destruction of the village. Nigerian military have been carrying out operations against Boko Haram following the recent Boko Haram attacks. Boko Haram insurgents have been waging a terror campaign in Northeast Nigeria for over 5 years. EPA/STRINGER

Il numero quest’anno è 83, lo dice l’Unicef. Dall’inizio dell’anno in Nigeria i miliziani neri di Boko Haram hanno usato decine e decine di bambini come bombe umane. Questa metodologia, che sta diventando la più usata del gruppo che terrorizza il Paese, è crudele e calcolata. La differenza rispetto agli anni scorsi è che ora ad essere scelte come ordigni umani dai terroristi sono anche le bambine.

Al nord est della Nigeria, nei territori di nessuno, dove disperazione e povertà stringono gli abitanti in una morsa letale, l’aumento dei child bombers nel 2017 è stato del 400 per cento rispetto all’anno scorso: 127 bambini sono stati usati come armi mortali dal gennaio 2014, 19 di loro avevano meno di dieci anni. Secondo gli esperti, questa tattica estrema è segno dell’incapacità dei militanti di compiere e portare a termine attacchi militari complessi, di cui prima erano capaci.

«Solo pochi anni fa, il target erano le caserme, i quartieri generali militari delle forze armate nella capitale, ma non hanno più quella capacità tattica. Stanno usando bambini e donne per terrorizzare la società» ha detto Carl LeVan, professore di storia americana a Washington. «Boko Haram ha raggiunto un punto in cui gli obiettivi sono più oscuri, più ambigui. Altri gruppi del terrore, come al Quaeda, avevano obiettivi chiari, questo gruppo sta perdendo lucidità e deve affrontare il dissenso interno a se stesso».

«L’uso dei bambini è un’atrocità, i bambini sono vittime, non esecutori» ha detto Done Porter, rappresentante Unicef. Atrocità che riguarda ormai 8mila bambini scomparsi dal 2009, rapiti dall’organizzazione di sangue e terrore islamista, il cui nome letteralmente vuol dire: “l’istruzione occidentale è proibita”.

L’Unicef ora punta i riflettori su un altro problema. Quando alcuni dei bambini riescono a sottrarsi al destino di child bombers, o quando vengono liberati dalle mani crudeli dei loro sequestratori, nel clima di sospetto e paura del paese, vengono comunque rifiutati dalla loro comunità originaria, dalla società impaurita nigeriana che non riesce più a reintegrarli. Non sono più minori prigionieri, ma dopo il rapimento affrontano l’esilio.

Tra i quasi due milioni di sfollati nigeriani – sono un milione e 700 gli abitanti in fuga a causa dei disordini del paese – ci sono altri 450mila bambini e loro rischiano la morte per malnutrizione, perché la fame, la povertà uccidono ancor più del terrore.

A scuola di caporalato. A scuola

Un aula vuota del Liceo Tasso prima dell'inizio degli esami di maturità a Roma, 18 giugno 2014. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

C’è questa intervista da brividi, sul Corriere della Sera, in cui un professore delle scuole superiori racconta di avere guadagnato «quattro euro all’ora, anzi due perché ho avuto la sfortuna di ammalarmi». Sergio Mantovani ha 46 anni, insegna geografia, ha supplenze alle spalle, ed è «in ruolo» con contratto a tempo indeterminato un anno fa. «L’anno scorso ho lavorato con quattordici classi e trecento studenti, con passione e soddisfazione – racconta al Corriere -. Quello che è successo però è kafkiano. Ci sono regole punitive se un insegnante decide di lavorare qualche ora in più, rispetto alle diciotto canoniche per cui siamo pagati mediamente 1.500 euro netti al mese. Quest’anno ho avuto la pessima idea di accettare “spezzoni di cattedra” per tre ore settimanali. Mai più», dice. «Fra ore extra e la decurtazione scattata per la malattia si raggiungono cifre offensive».

Il professore s’è messo a fare i calcoli: «Confronto la busta paga calcolata sulle 21 ore con quella dell’anno prima, sulle 18. C’è una differenza di 67 euro netti, che divisi per quelle 12 ore mensili fa 5,58 euro. Occorre però considerare anche l’impegno extra aula, diciamo quattro ore al mese ed è sottostimato perché le ore aggiuntive erano in tre classi diverse quindi con rispettive verifiche da preparare e da correggere e riunioni fra docenti. Quindi ricalcolo la cifra, 67 diviso 16 ore e si arriva a 4,18 euro. Vedo che c’è la “decurtazione Brunetta”» per la malattia «che scatta nonostante la visita fiscale e anche se finisci all’ospedale con il morbillo e complicazioni, polmonite compresa, come è successo a me. Perché ammalarsi non è ammesso, come se noi statali fossimo tutti furbetti del cartellino». Non solo. In più la cifra è decurtata «per la colpa di aver lavorato tre ore in più», dice l’insegnante. «Con cinque giorni di malattia a causa della maggiore decurtazione legata alle ore extra la riduzione risulta di 43 euro, se li scalo ai 67 ne restano 24 per quelle dodici ore mensili che la scuola mi ha proposto di fare e che alla fine valgono due euro».

La “notizia” fa il paio con le migliaia di studenti (anche di liceo) che secondo gli “illuminati” del ministero dovrebbero fare “esperienza formativa” lavorando nei McDonald’s in giro per il Paese, oppure con una certa cultura generale secondo la quale lavorare gratis (per iniziare, pur di iniziare a lavorare) sarebbe un passo scontato per un’intera generazione. La “fast school”, sullo stile “fast food” in cui c’è da sbrigarsi, tutto e subito, per diventare in fretta carne fresca (poco specializzata) perfetta per essere sottopagata nel mondo del lavoro.

E mentre parlano di tutti di “fake news” si fa finta, ancora, che non sia la cultura l’unico antivirus. E mentre si parla di “integrazione”, dappertutto, si fa finta che la cultura ne sia solo un aspetto marginale.

Avanti così.

Buon lunedì.

Le menzogne su Regeni e una verità “inconfessabile”

Claudio e Paola Regeni mostrano la foto di un murale fatto da writers egiziani su un muro di Berlino che raffigura il volto di Giulio Regeni con un gatto stilizzato durante la conferenza stampa all'interno della sala Nassiria a Palazzo Madama 4 aprile 2017 a Roma ANSA/MASSIMO PERCOSSI

La campagna “Rimandiamo l’ambasciatore al Cairo” ha vinto. Progettata e portata avanti per sostenere la decisione presa dal governo italiano già mesi fa, è stata alimentata da decine di editoriali, articoli, interviste e interventi di importanti parlamentari. Una “potenza di fuoco” impressionante.

Ciò che inizialmente mi ha sorpreso, ma che adesso trovo il normale proseguimento di quella campagna, è l’accanimento contro Giulio Regeni e la sua famiglia, il fango che trasuda dalla nuova serie di articoli pubblicati dopo che il ministro degli Esteri Alfano, nella calura di un pomeriggio pre-ferragostano, aveva annunciato il ritorno dell’ambasciatore.
Nel suo primo sviluppo, la campagna “Rimandiamo l’ambasciatore al Cairo” aveva persino un ché di signorile: si portava avanti l’argomento dell’interesse nazionale, includendo in esso anche la ricerca della verità per Giulio Regeni che sarebbe stata favorita dall’arrivo al Cairo dell’ambasciatore Cantini. Un’ipotesi che, peraltro, continuo a ritenere irrealistica: basti osservare le reazioni compiaciute ed entusiastiche del Cairo, il senso di vittoria per il ritorno a relazioni normali.

Negli ultimi giorni, invece, sono stati raggiunti incredibili picchi di becerume. Occorre continuare a giustificare, ora a posteriori, la decisione del 14 agosto. Solo che, ecco la novità, Giulio Regeni non fa più parte dell’interesse nazionale. Gli è nemico, come gli era nemico in vita e come oggi gli è nemica la sua famiglia. Articoli e commenti pieni di livore, cinismo e menzogne scritte sapendo che di esse si tratta (ma magari a ripeterle ossessivamente qualcuno si convincerà che si tratta della verità) ripropongono la narrazione del Giulio spia usato da un’università infiltrata dai servizi britannici e manipolato da una docente fondamentalista islamica, contro gli interessi italiani.

Se è grave scrivere senza informarsi, trovo persino più grave rinunciare a quello che dovrebbe essere un naturale e istintivo senso di compassione, di immedesimazione nel dolore altrui.
Questo Paese, o almeno parte di esso, è in preda a un profondo mutamento culturale e morale: la storia di Giulio Regeni – così come quella delle Ong, a fine aprile passate il 48 ore da “angeli del mare” ad “angeli del male” – ci parlano dell’incapacità di riconoscere il bene e il bello delle azioni. Della facilità con cui si possono infangare, sporcare, diffamare.
Della decisione del 14 agosto resta poco da dire.

Occorre entrare in buoni rapporti col generale Khalifa Haftar. Dopo Serraj e le tribù della frontiera sud, è la “terza Libia” che ancora ci sfugge per poter portare avanti senza intoppi né ritardi la collaborazione con quel paese al fine d’impedire le partenze di migranti e richiedenti asilo verso l’Italia.

Sarebbe onesto se il governo Gentiloni, quando riferirà in parlamento, dicesse che l’ambasciata del Cairo torna a ranghi completi per ragioni d’interesse nazionale (la Libia, appunto; e poi il petrolio, il terrorismo, il turismo, eccetera). E se ammettesse quello che come abbiamo visto scrivono in tanti: che la difesa dei diritti umani non rientra in quell’interesse nazionale, neanche quando si tratta di quelli di un cittadino italiano ucciso in modo barbaro.
Per non parlare dei tanti egiziani che ogni anno fanno la stessa fine.

L’articolo del portavoce di Amnesty international Italia, Riccardo Noury, è tratto dal numero di Left in edicola


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Le stragi dimenticate alla periferia dell’Impero

A picture taken on August 15, 2017 shows broken windows and damage at the Aziz Istanbul Turkish restaurant in Ouagadougou, the site of a terrorist attack, during a visit by Mali's and Burkina Faso's Presidents. Eighteen people, including at least eight foreigners were shot dead in a Turkish restaurant in Burkina Faso, according to a provisional toll on August 14, in the latest attack in West Africa to target a spot popular with expatriates. / AFP PHOTO / SIA KAMBOU (Photo credit should read SIA KAMBOU/AFP/Getty Images)

Nairobi, 21 agosto 2017. Si rimane sbigottiti a sfogliare i quotidiani e a vedere le news in televisione in questi giorni. Sul vile attentato di Barcellona abbiamo potuto leggere e ascoltare di tutto. Paginate di carta e ore di filmati in cui si cerca di raccontare la cronaca e i retroscena, le analisi e gli scenari che si possono a questo punto verificare. Spesso opinioni contrastanti, e questo potrebbe essere non solo normale, ma anche logico e auspicabile, ma anche ricostruzioni divergenti delle quali una sola può essere azzeccata, le altre invece frutto di fantasia. Probabilmente l’obiettivo non è quello di informare il lettore, ma piuttosto di impressionarlo con una mole enorme di notizie; e poco importa se, il giorno dopo, le informazioni non saranno più inerenti alla realtà.

Ma quello che a un osservatore di cose africane più dispiace non sono certo i fiumi di parole che vengono spesi in questi casi, ma piuttosto i fiumi di parole che non vengono spesi per raccontare attentati che accadono sì in altri continenti, ma hanno anche un forte impatto sulle cose che accadono a casa nostra e più genericamente in Occidente. La vigilia di Ferragosto a Ouagadougou hanno piazzato una bomba in un ristorante frequentato da avventori stranieri. I morti sono stati 18. Secondo il ministero degli Esteri del Burkina Faso (di cui Ouagadougou è la capitale) si tratta di 7 burkinabè, un canadese, 2 kuwaitiani, un francese, un senegalese, un nigeriano, un libanese e un turco. Il giorno dopo l’attacco tre vittime non erano state ancora identificate. Ma poiché l’esplosione ha fatto anche alcuni feriti gravi, probabilmente il bilancio è più pesante. Non ci sono comunque italiani, così i giornali di casa nostra hanno potuto evitare di parlare di questo grave fatto di sangue.

Qualche giorno prima c’è stato un altro attacco in un ristorante di Mogadiscio e ancora prima è stata devastata una stazione turistica in Mali. È difficile continuare e fare un elenco preciso perché in Africa (ma non solo, anche in Asia) è uno stillicidio di attentati, bombe, omicidi mirati. Fatti quasi quotidiani che i media italiani, grazie a una certa colpevole superficialità, non registrano. Si, è vero, non sempre gli autori sono seguaci di Allah e altre volte la religione viene usata anche per regolare conti personali con avversari e antagonisti, possibili ora, più di prima, grazie alla violenza generalizzata che è sempre in agguato. Ma ciò non può e non deve giustificare il completo disinteresse su queste vicende.
I lunghi servizi che in questi giorni sono stati diffusi dalle televisioni sui blocchi di cemento piazzati a difesa delle strade delle città italiane, confermano quello che accade ormai da anni in tutta l’Africa e di cui pochi si sono occupati. In Kenya per esempio, ma non solo, per entrare in un centro commerciale si deve sottostare a una perquisizione che prima, fino a qualche anno fa, era fisica e ora, da molte parti, è affidata a macchine sempre più sofisticate.

Per entrare all’aeroporto Jomo Kenyatta International di Nairobi le automobili devono passare su una pedana/scanner che radiografa tutto quello che c’è sul veicolo. Un chilometro prima di arrivare allo scalo, è stato costruito un piazzale apposito, con 16 corsie canalizzate, dove si fanno tutti gli imponenti controlli. Si evita così che l’ingresso vero e proprio, più avanti, non venga intasato da lunghe file. Questi accorgimenti sono stati inaugurati nell’aprile 2015, cioè un anno prima del feroce attentato all’aeroporto di Bruxelles. Nella capitale keniota, date le misure di sicurezza un attacco così sarebbe stato difficile da realizzare.

Comunque certi tipi di attentati si possono impedire, ma la fertile mente dei terroristi può senza grande difficoltà escogitarne altri. Prima dell’attacco dell’anno scorso a Nizza, durante le celebrazioni per la festa della presa della Bastiglia, nessuno pensava si potesse noleggiare un camion da “sparare” in un’affollata strada di un centro cittadino.

L’obiettivo del terrorismo, lo dice la parola stessa, è terrorizzare le popolazioni. Al di là delle dichiarazioni di principio, molto ipocrite, («Non ci faremo spaventare. Mai» o quella, francamente risibile di Gentiloni all’indomani dei fatti di Barcellona «Non permetteremo che venga limitata la nostra libertà») resta il fatto che la gente è impaurita e intimidita e rinuncia spontaneamente alla propria libertà, pur di limitare i rischi di perdere la vita.

Devo rientrare in Italia e ho scelto un volo che parte l’11 settembre. Quando, per prendere un impegno o un appuntamento, comunico a qualcuno la data, osservo una reazione sconcertata, dove la meraviglia si mescola al timore: «Ma come? L’11 settembre non si vola». La paura dunque c’è e molti autolimitano la propria libertà. E se non si argina il terrorismo, non solo con i muscoli, ma anche e soprattutto con l’intelligenza, si rischia di vedere fortemente limitata la propria libertà e quella degli altri. Il terrorismo è pericoloso non solo per la violenza che esercita, ma anche perché costringe ad assumere comportamenti non in sintonia con i valori della nostra organizzazione sociale. A Nairobi dopo l’attentato al moderno centro commerciale Westgate, nei locali e nelle aree di shopping la folla è diminuita sensibilmente. Si entra, si compra e si esce. Un mesetto fa è stato inaugurato un mastodontico complesso che non ha nulla da invidiare a quelli enormi alle porte delle nostre metropoli. Attrazione principale un gigantesco Carrefour con banchi stracolmi di merce. I prezzi sono competitivi e, così, i primi giorni era strapieno di consumatori che volevano soddisfare la loro legittima curiosità.

I controlli alle auto per accedere ai parcheggi – sotterranei e no – e poi quelli personali con scanner corporali per entrare nei palazzi dove ci sono i negozi, hanno mostrato quanto fosse tangibile il pericolo. Intanto gli shebab – i terroristi legati ad Al Qaeda – dalla Somalia hanno annunciato che stanno per colpire il Kenya, reo di avere invaso l’ex colonia italiana per combattere gli estremisti islamici. Quindi la folla è scemata e la paura di un nuovo Westgate è serpeggiata.

Era il settembre 2013 quando un commando di terroristi prese il controllo del centro commerciale Westgate, il più moderno, elegante e prestigioso di Nairobi. Furono 4 giorni di inferno, la cui storia precisa e completa è ancora oggi circondata da misteri. Ufficialmente i morti furono 64, ma ai giornalisti risultano almeno 150. E poi incertezze sul numero di terroristi. Solo quattro, sempre secondo le autorità; ma dalle interviste fatte a caldo, quando il complesso era ancora controllato dagli uomini del terrore, noi giornalisti rilevammo che all’interno c’erano almeno sei gruppetti di due persone l’uno, sistemati nei quattro piani del grande palazzo.

I giornali italiani non si interessarono granché della vicenda. Quello che succede alla periferia dell’impero non importa per nulla. E invece proprio in questa periferia nascono i fermenti che portano al terrorismo esportato in Europa e in America. L’Africa con le sue guerre continue non è altro che la palestra dove ci si allena per poi giocare su altri campi, i nostri. Non solo, ma si è trovato che molte delle armi leggere usate negli attentati in Occidente arrivano dall’Africa dove erano state portate un po’ di tempo fa dagli occidentali per combattere altre guerre. E allora nell’indifferenza generale il cerchio si chiude. Forse qualcuno si meraviglierà il giorno in cui (speriamo proprio di no) si scoprirà che l’esplosivo contenuto nelle bombe fabbricate in Sardegna, vendute all’Arabia Saudita e da qui finite in Yemen e poi nelle mani di Al Qaeda ritornerà in Europa nell’ordigno di qualche attentatore.

Raccontiamo pure quello che accade a Barcellona ma vogliamo andare a vedere e (soprattutto) capire anche quello che succede a Ouagadougou, a Bamako, a Nairobi, a Mogadiscio? Trattare con sufficienza le storie che accadono quaggiù come se si trattasse di un altro mondo lontano, in un’altra galassia, è concettualmente sbagliato.

L’articolo di Massimo Alberizzi è tratto da Left n. 34 


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L’arte è sovversiva

L’artista iraniana, Leone d’argento, Shirin Neshat torna al Festival del cinema di Venezia con un film sulla leggendaria voce di Oum Kulthum. Left l’ha incontrata per parlare di questa sua nuova opera e della sua ricerca che fonde scrittura e immagine.

Aida di Verdi mancava da quarant’anni dal festival di Salisburgo. Con Riccardo Muti sul podio, la regista e artista visiva Shirin Neshat ne ha fatto un potente racconto per immagini, contro ogni guerra. Ora il suo “viaggio” in Egitto prosegue con Looking for Oum Kulthum che sarà presentato il 2 settembre alla 74° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Da un lato il melodramma occidentale, dall’altro la musica monodica araba e una voce leggendaria. Due tradizioni forti e quanto mai differenti?
Per un caso fortuito, devo dire, mi sono trovata a lavorare simultaneamente su due progetti “egiziani”, un’opera e un film, ma il confronto è stato stimolante. Nell’Aida c’è l’antico Egitto, nel film c’è quello moderno con la storia della più grande cantante araba. Non essendo araba ma iraniana è stata una grossa sfida. Ma è stato emozionante mettere in discussione il mio modo di leggere e interpretare, provare a cimentare la mia visione in questi due progetti, che, per quanto molto diversi fra loro, riguardano entrambi la musica.
Come è stato per lei lavorare su quest’opera verdiana?
Il fatto più insolito per me è stato trovarmi a lavorare con un libretto preesistente e dalla storia piuttosto controversa. Ma ad affascinarmi è stata l’atmosfera assolutamente senza tempo (tanto più evocativa oggi) che Verdi è riuscito a conferire alla sua musica nel 1870. Una partitura avvincente, direi, anche se mi ci è voluto un po’ per apprezzarne il gusto.

Anche lei ha fatto qualcosa di analogo, raccontando al cinema la cantante egiziana Oum Kulthum?

Non volevo fare un film biografico in senso tradizionale, volevo raccontare una storia personale, interrogando le mie “fissazioni” e curiosità riguardo a questa leggendaria figura di donna e artista. Dopo tutto, Oum Kulthum è stata un vero fenomeno: una donna che è emersa dal contado in una società religiosa dominata dagli uomini, riuscendo a diventare la più grande artista del XX secolo nel mondo arabo. Ancora oggi, a 40 anni dalla sua morte, rimane la cantante più celebrata e popolare non solo in Egitto, ma in tutto il Medio Oriente. La sua voce ha toccato i cuori di milioni di persone, indipendentemente da sesso, razza, religione, estrazione sociale. Ho cercato di ripercorrerne la storia e l’eredità, ma con lo sguardo di una donna iraniana che ha affrontato le proprie sfide come artista contemporanea e donna mediorientale.

La voce di Oum fu una sorta di collante della lotta per l’indipendenza e un veicolo di panarabismo. L’arte ha questo potere straordinario?…. ( l’intervista prosegue su Left in edicola).

L’intervista a Shirin Neshat prosegue sul numero di Left in edicola


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Elena Cattaneo, una scienziata (scomoda) in Senato

«Le novità possono mettere a repentaglio le Repubbliche e gli Stati, e allora chi ha il potere, che è ignorante, diventa giudice e piega gli intelligenti». Questa nota vergata da Galileo Galilei sulla copia del suo Dialogo da cui non si separava mai, ci ricorda che la vita dello scienziato in Italia non è mai stata facile. Rivela inoltre quanto lui fosse consapevole dei rischi cui andava incontro sposando la nuova cultura scientifica rinascimentale. Quella nata tra il ‘500 e il ‘600 all’esterno delle università e fondata sull’idea del confronto, della «disputa attorno a qualsiasi cosa». Sia essa su matematica, fisica o ingegneria. Era una cultura pubblica, democratica quella che affascinò Galileo. Ed è nel suo tempo che iniziava a diffondersi il metodo secondo cui chi sostiene una teoria viene invitato a esporre pubblicamente le ragioni per cui pensa che ciò che sta dicendo è vero. Un metodo di pensiero e di confronto talmente attuale e “scomodo” che 400 anni dopo il “processo Galileo” c’è chi – pur senza minacciare più roghi – continua a gettare sabbia dentro il motore della creatività per tentare di piegare la ricerca e la cultura della ricerca a ideologie o logiche di guadagno che con la scienza non hanno nulla a che fare. Pensiamo al caso Stamina, che Left ha seguito sin dalla prima denuncia nel 2009. Nonostante gli appelli e le dettagliate informazioni prodotte dalla comunità scientifica mondiale, un ministro della Repubblica firmò un decreto per consentire la sperimentazione dell’intruglio sponsorizzato da un esperto di marketing (poi condannato per truffa) su dei bambini malati terminali in un ospedale pubblico. In un sol colpo il ministro della Salute Balduzzi ha gettato discredito sulla scienza “ufficiale”, negando 400 anni di storia del metodo scientifico. È in situazioni come questa che trovano ulteriore campo aperto ciarlatani, fattucchiere e sedicenti guaritori. Facendo leva sulla “crisi” del pensiero critico e cavalcando la credulità popolare, particolarmente diffusa in Italia. Venendo all’oggi, per esempio, come ci si può difendere dagli anti vaccinisti e dalle loro “teorie” antiscientifiche? Qual è l’antidoto giusto? Senza dimenticare che nel nostro Paese il rapporto tra opinione pubblica e mondo della ricerca rimane vivo – lo testimoniano i numerosi e affollatissimi festival scientifici di levatura internazionale lungo tutta la penisola -, nelle pagine che seguono, per contribuire a fare chiarezza sull’importanza e sul ruolo sociale della scienza, abbiamo rivolto queste domande a degli esperti che hanno dedicato la vita alla ricerca e alla divulgazione “per amor di verità”: la scienziata e senatrice a vita Elena Cattaneo, la neonatologa e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti, lo storico della medicina Andrea Grigolio, il gastroenterologo e saggista Giorgio Dobrilla e i divulgatori Piero Angela e Sam Kean.  (ft)

Senatrice Cattaneo, durante la discussione del ddl sulle vaccinazioni lei ha detto che questa «è una delle più importanti leggi di sanità pubblica della legislatura, quella che più di tante altre migliorerà le prospettive di salute dei cittadini italiani». Eppure la norma è stata approvata non senza “reazioni avverse”. A tal proposito Piero Angela dice in queste pagine che forse più della scienza è sotto attacco il metodo scientifico, la linearità del pensiero che innerva il metodo scientifico. Lei cosa ne pensa? 

Sono d’accordo con Piero Angela ed è grosso modo quello che anch’io sostengo da quando ho iniziato a interessarmi ai rapporti fra scienza e politica. Il metodo scientifico rimane lo strumento conoscitivo più portentoso che l’umanità abbia a disposizione, da alcuni secoli, per controllare i fatti e riconoscere il vero dal falso, procedendo attraverso la progressiva riduzione degli spazi di incertezza e tenendo a bada i nostri pregiudizi e le errate percezioni. È il primo strumento di difesa a presidio della razionalità delle scelte e decisioni. E ci porta delle prove. Non credo sia un caso che esso sia quotidianamente svilito e frainteso. Ad esempio, in decine di anni e studi sperimentali sui vaccini sono state raggiunte evidenze oggettive circa la loro efficacia. Considerarli pericolosi non è quindi un’opinione come un’altra. È solo una falsa credenza, una convinzione soggettiva e ideologica, che viene alimentata per raggiungere obiettivi diversi da quelli dichiarati. È questa la “post-verità” tanto in voga, cui almeno linguisticamente ci siamo arresi, e che non è altro che la difesa fanatica del “falso”, del “non empiricamente controllato”, promosso a “verità alternativa”. 

Le reazioni “avverse” sono avvenute sia fuori che dentro l’aula.

Incredibilmente durante il dibattito sui vaccini da una (piccola) parte del Parlamento abbiamo ascoltato strampalati interventi nei quali, ad esempio, l’innocuo (etil)mercurio è stato confuso con il mercurio, il vaccino della pertosse dato per non protettivo verso la trasmissibilità del patogeno (è esattamente il contrario), erano citate inesistenti morti da vaccino e non ricordate le morti (vere) causate dai patogeni. Tutte cose false ma che costituiscono una verità di comodo perché congeniale agli interessi di chi la narra (e alle aspettative di chi la ascolta).

Come è possibile che nel 2017 in un Paese evoluto e laico ci siano ancora addirittura uomini delle istituzioni ostili nei confronti della cultura (e della storia) della scienza? 

Ritengo che lo spieghi bene Andrea Grignolio, storico della medicina, nel suo libro Chi ha paura dei vaccini (ne parliamo a pag. 46, ndr): il cervello di Homo sapiens non compie scelte razionali, in altre parole spesso sbagliamo di fronte a decisioni in cui compaiono il rischio, la probabilità e le previsioni a lungo termine. Il nostro cervello ha avuto una lunga storia evolutiva durante la quale le scelte da compiere erano relative al presente (e con una aspettativa di vita intorno a 30 anni) e limitate al singolo individuo. L’uomo non si è selezionato per affrontare i temi di cui stiamo parlando, emersi solo recentemente. Diamo quindi maggior peso a informazioni che suggeriscono alti rischi anche se irrilevanti statisticamente, mentre sottostimiamo i benefici e le informazioni a basso rischio, sebbene siano forniti da istituzioni scientifiche e sanitarie. La scoperta e soprattutto la conoscenza di questi processi mentali, sono comunque utili non solo quando si intende fare una buona divulgazione scientifica ma anche per chiunque si trovi a dover mediare tra il mondo della scienza e quello della società, della politica e delle istituzioni. Possono essere tra gli elementi di conoscenza e consapevolezza necessari per capire perché ci sia questa resistenza a inserire nel contesto legislativo le competenze tecnico-scientifiche, ma anche per comprendere come, per fare un esempio recente, il Parlamento abbia potuto considerare attendibile, e materia su cui legiferare (salvo poi correggersi), il cosiddetto “metodo Stamina”.

In una intervista il medico e divulgatore Salvo Di Grazia ci ha detto: «L’ignorante di cento anni fa, era ignorante perché non aveva nessuna informazione, gli mancavano del tutto le notizie. Quello di oggi è ignorante perché ha troppe informazioni e gli mancano i mezzi per selezionarle». Qui sono chiamate in causa indirettamente le politiche scolastiche che non mettono (più) in grado i futuri cittadini di sviluppare il senso critico e quella sensibilità necessaria per distinguere ciò che è coerente con la realtà da ciò che non lo è. Cosa può fare lo Stato per contrastare questa sorta di ignoranza 2.0?

L’“ignoranza 2.0”, nasce dall’“ignoranza classica”, quella che vede il Paese con percentuali di analfabetismo di ritorno impressionanti, cui è difficile porre rimedio se non con programmi di incentivo alla formazione permanente, così come da performance scolastiche che non smettono di descrivere – con le dovute eccezioni – un Paese a più velocità nord/sud. Per altro verso, la rivoluzione digitale in corso, impone anche un ripensamento degli obiettivi propri della formazione, che dovrebbe mirare, non più e non solo al possesso delle nozioni, quanto al senso critico con cui riconoscere e gestire ogni informazione. Nel campo scientifico ad esempio, ancor prima della scoperta, è fondamentale far conoscere il procedimento e le modalità con cui si è arrivata a validare quella scoperta, senza tacere gli innumerevoli fallimenti che accompagnano ogni sfida alla conoscenza. Si tratta proprio di insegnare il metodo scientifico nelle sue fondamenta. Inoltre, in campo scientifico si sperimenta l’ignoranza anche della popolazione più acculturata cui spesso sfuggono alcune nozioni elementari, quali ad esempio la mera conoscenza del processo che da una molecola porta ad un farmaco, le fasi di sperimentazione etc. Si tratta di buchi conoscitivi propri di una classe dirigente che finiscono col lasciare aperte autostrade a chi su questa ignoranza voglia fare leva per interessi particolari. 

Il diritto alla conoscenza, a essere informati, è un diritto costituzionale. È garanzia di democrazia. Questo basterebbe a spiegare perché è importante fare corretta/equilibrata informazione e divulgazione scientifica. Pensando anche alle sue ricerche sulla Corea di Huntington, perché questo concetto fa fatica a passare?

L’Huntington è una malattia ereditaria e neurodegenerativa. Il gene mutato può essere trasmesso di generazione in generazione e quando presente la malattia purtroppo accadrà. Vi sono intere discendenze colpite, con più casi per famiglia. Molti anni fa, in assenza di scienza e conoscenza, la malattia veniva ritenuta segno della presenza del “demonio” per i sintomi cognitivi e motori, caratterizzati da  movimenti a scatti, bruschi, incontrollabili, del corpo, delle braccia e delle gambe, che alteravano anche la gestualità espressiva e la mimica facciale. Ai tempi dei nazisti l’Huntington era una malattia da eliminare, i malati e familiari venivano sottoposti a sterilizzazione obbligatoria e poi alle camere a gas. Ancora oggi c’è uno stigma da combattere, perché si tende a discriminare ciò che non si conosce, lo si ritiene diverso, posizionandolo in una scala inferiore. Le scoperte scientifiche su questa malattia, come su altre, ne hanno spiegato la biologia, dato riconoscibilità e visibilità al problema medico, fornito alcuni farmaci per combattere i sintomi, una forma di assistenza (anche se mai sufficiente), un test genetico e quindi la possibilità di operare in modo autonomo scelte di vita. La scienza può quindi insegnare a essere cittadini migliori rispettosi delle evidenze e insofferenti di fronte agli abusi. La democrazia è quella che riconosce e offre opportunità a tutti sulla base delle prove che si rendono disponibili.

Di recente un bimbo di 7 anni è morto per un’otite curata con l’omeopatia. Nel 2015, la rivista Nature ha inserito l’omeopatia in una speciale classifica dei nove falsi miti “medici” duri a morire. Lei cosa ne pensa?

In sistemi sanitari pubblici universalistici come il nostro, per cui le terapie di ciascuno sono sostenute dalle tasse di tutti, nessun atto medico o cura che non sia “evidence based”, fondato sulle prove, dovrebbe farvi ingresso. A ciascuno – adulto e capace di intendere e volere – la libertà di curarsi (o non curarsi) come preferisce, senza però pensare che questa libertà sia esercitata a spese di altri. Sul merito del tema omeopatia non posso che fare mio il documento del Comitato nazionale di bioetica (Cnb) dello scorso 20 aprile, predisposto da Cinzia Caporale, in cui si giudica criticamente che i preparati omeopatici in commercio in Italia non rechino specifiche indicazioni sull’etichetta, che invece dovrebbero comparire per trasparenza. Andrebbe cambiata la denominazione da: “Medicinale omeopatico senza indicazioni terapeutiche approvate” con “Preparato omeopatico di efficacia non convalidata scientificamente e senza indicazioni terapeutiche approvate”. Se la libertà di scegliere se e come curarsi resta indiscussa rimane il dovere di aiutare i cittadini a fare chiarezza e di eliminare ogni ambiguità tra ciò che ha un senso scientifico e ciò che non è mai stato dimostrato averne. A tal proposito è da rilevare una deprecabile timidezza sul tema dell’omeopatia da parte dell’Ordine dei medici. In occasione del voto sul documento del Cnb il rappresentante dell’Ordine si assentò. Né si possono dimenticare dichiarazioni cerchiobottiste in occasione della tragica morte di quel bambino.  

Pensiamo al caso Stamina. Se un esperto di marketing laureato in scienza della comunicazione arriva a testare un intruglio su dei bambini malati terminali in un ospedale pubblico grazie a un decreto ministeriale, è chiaro che c’è una responsabilità da spartire tra diversi soggetti.

Sul caso Stamina si è assistito ad un colossale deragliamento dalla ragionevolezza mediatica, parlamentare e giudiziaria. Di tutta questa terribile vicenda resta il danno fatto alle persone, ai malati ingannati, ai cittadini abusati nella loro credulità su argomenti che masticano a fatica. Resta anche il danno culturale dovuto al dileggio della medicina, della cultura, delle competenze, dei giovani che nelle aule universitarie si ribellavano all’idea che la propria preparazione potesse essere messa, dalle massime istituzioni nazionali, sullo stesso piano delle chiacchiere di un ciarlatano.

Come può un normale cittadino difendersi da questi ciarlatani e da chi li sostiene?

É sulle spalle di tutti l’onere di informarci per difenderci da chi semplifica e banalizza i temi politici, ma è altrettanto vero che studiare per associarci e dialogare con gli eletti è una buona pratica. Solo se saremo informati e consapevoli dei fatti potremo capire se essere insoddisfatti di chi ci rappresenta, consentendoci di concorrere direttamente all’attività politica, partecipando a costruire la democrazia e, nel caso, determinarci nel «premere o addirittura sostituirci» a chi eventualmente riteniamo essere mediocre.   

A cosa serve la scienza?

Ad ancorare un Paese alla realtà delle prove accertabili, a rafforzare le premesse di una democrazia matura, a migliorare la vita di sempre più persone, ad affrontare il futuro e gli eventi avversi della natura con capacità, realismo e conoscenza, ad allontanarci dai riti magici, dalle superstizioni e dai ciarlatani di cui il mondo continua ad essere popolato. A volte faccio un esperimento con i miei interlocutori, presentandomi come ricercatrice o come scienziata. Le reazioni sono completamente diverse. Alla parola “scienziato” seguono spesso sorrisi e parole divertite, che richiamano l’immaginazione del pazzo studioso da sottoscala tra alambicchi e provette fumanti, sempre pronto a far saltar per aria un bancone di laboratorio. In Germania, Gran Bretagna o Stati Uniti alla parola scienziato si associano spesso frasi di riconoscimento sociale, di ammirazione, di consapevolezza degli anni di studio, di colui che indaga per tutti. Il secondo errore a livello di opinione pubblica è l’abbaglio che la ricerca scientifica serva a generare “prodotti” da vendere. E che quindi sia degna di considerazione solo quella che “cura domani”. 

E qui torniamo al ruolo sociale svolto da chi fa divulgazione.

La ricerca, in tutti gli ambiti del sapere, anche ovviamente quello umanistico, serve a renderci capaci di interrogare tutto ciò che ci circonda, a prepararci moralmente e intellettualmente alle risposte magari diverse da quelle attese, a spingere i nostri pensieri oltre ciò che a prima vista “ci sembra” (basti pensare a come era “trattato” l’Huntington solo un secolo fa), sviluppando un metodo di indagine condivisibile e controllabile, cioè che riproduca lo stesso risultato una volta date le stesse condizioni sperimentali, e su questa oggettività affinare la nostra capacità di convivenza sociale, nel frattempo sviluppando metodi sempre più efficaci per studiare ambiti inimmaginabili, e raggiungere obiettivi imprevedibili. I “prodotti” della scienza sono persino meno importanti e certamente meno duraturi della scienza, perché ogni giorno si aggiornano. Quello che resta per sempre è l’acquisizione di un metodo, l’allenamento al pensiero critico, al fallimento, la consapevolezza della conquista per tutti. Sono acquisizioni che diventano modo di vivere, e dei quali, una volta provati, non ne puoi più fare a meno. Ben poco di questo è di dominio pubblico. Non bisogna raccontare la sublimità delle scoperte e la loro “inavvicinabilità”, diceva il premio Nobel Ramon Cajal. Bisogna parlare degli uomini che le hanno condotte, della loro fatica, dei loro fallimenti, delle tante strade sbagliate. Si scoprirebbe così – scriveva – «che i grandi intellettuali, i grandi studiosi per quanto geniali possano essere, alla fine sono esseri umani, come tutti gli altri». Questo è per me lo scienziato. Credo che si debba raccontare questa scienza.

L’intervista alla senatrice a vita Elena Cattaneo prosegue su Left in edicola


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