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Marco Revelli: «Populismo, il disagio della democrazia»

SILVIO BERLUSCONI NEL MONITOR MATTEO RENZI

Marco Revelli spiega le origini del populismo e analizza i tre populismi italiani (Berlusconi, Grillo e Renzi) 

Marine Le Pen e Emanuel Macron, i due sfidanti alla presidenza della Repubblica francese sono populisti, in forma diversa, ma populisti. E mentre i due volano verso il ballottaggio del 7 maggio, i partiti tradizionali si sfaldano e la sinistra non ce la fa a proporre ai cittadini delusi una propria visione del mondo. Le notizie dalla Francia confermano le tesi sostenute da Marco Revelli nel suo ultimo libro, Populismo 2.0 (Einaudi), una analisi che permette di «tracciare confini concettuali e cronologici» di un fenomeno mai stato così esteso. Di questio Revelli  parla il 7 settembre al festival Con-Vivere a Carrara
Intanto, Marco Revelli, per fare chiarezza, quali sono gli elementi che caratterizzano il populismo?
Credo che possano essere tre gli indicatori, direbbero i chimici, del populismo. In primo luogo, l’orizzontalità del taglio che crea la discriminazione. Cioè il populismo è sempre un basso contro l’alto, che taglia trasversalmente il cosmo politico senza differenze culturali o ideologiche e che tende a rappresentare un popolo contro una élite o una oligarchia o un piccolo gruppo di usurpatori. Questo è il primo elemento che ha come corollario il “né di destra né di sinistra”. Il secondo aspetto è un atteggiamento “morale”: questa distinzione trasversale corrisponde in termini un po’ manichei a un bene contro il male. Da una parte sta il bene: l’onestà, il patriottismo, per certi versi, una comunità che si riconosce nella propria identità mentre dall’altra parte c’è il male: i traditori, gli stranieri, gli usurpatori. Il terzo elemento è la personalizzazione. I populismi devono costruirsi una figura nella quale identificarsi per transfert, un capo più o meno carismatico.
Usi il termine al plurale, perché?
Il termine populismo dice tutto e dice niente. È un gravissimo errore trattare il populismo come se fosse una forma politica tradizionale, un ismo come erano gli ismi novecenteschi, il comunismo, il socialismo, il fascismo e così via, cioè una forma politica strutturata in movimento o partito con una identità di cultura politica stabile. Non è questo. È uno stile, un atteggiamento, un mood, rispetto al quale pensare di confrontarsi da partito a partito o da soggetto politico a soggetto politico, non fa altro che portare acqua al populismo. La polemica che sia i partiti che i media mainstream fanno contro il populismo, senza accorgersene, sono tutti spot a favore. La sintesi di questo errore è averlo definito antipolitica. Questo termine mostra tutta la coda di paglia di chi l’ha usato, perché in realtà è una forma della politica, anzi oserei dire, è la forma che la politica assume oggi.
Allora esaminiamo la portata del fenomeno. Vediamo oggi un Trump che affonda le sue origini nel People’s Party di fine Ottocento, poi la Brexit, Le Pen, Orban e il gruppo di Visegrad… Si può dire che il populismo non era mai stato un fenomeno così esteso come nell’ultimo secolo?
Sì, nel senso che questo stile politico, questo mood, dilaga in tutto l’Occidente delle democrazie mature. È un sintomo, come la febbre lo è di una infezione, di una malattia grave della democrazia matura. Il populismo esprime un disagio della democrazia. Prima, come malattia infantile, quando la democrazia non rappresentava tutto il popolo e quindi il populismo rappresentava il desiderio degli esclusi di partecipare. Oggi invece è una malattia senile della rappresentanza, perché quelli che erano inclusi e spesso che erano anche il baricentro dei sistemi democratici e ne garantivano il fattore di stabilità – il ceto medio e un pezzo del mondo del lavoro – ora si sentono messi al margine perché le decisioni vengono prese fuori dai meccanismi delle istituzioni democratiche, cioè dalle tecnocrazie, dai mercati, ecc. Gli esclusi avvertono che il loro voto non conta più niente, per cui si esprimono con il rifiuto e con l’astensione – che i politologi chiamano exit – oppure, se continuano a star dentro, votano per far male a quelli che a loro parere li hanno traditi. Il voto populista è un voto di vendetta, il voto anti estabilishment.
Nel tuo libro con le mappe dimostri che c’è una perfetta sovrapposizione tra coloro che hanno votato per Trump e per il Leave della Brexit e quei cittadini che si sono sentiti deprivati dalla politica e dalla sinistra, in particolare. Che cosa ha determinato l’abbandono da parte della sinistra: l’incapacità, l’obbedienza alle regole del mercato, perdendo la sua capacità trasformativa per abbracciare una posizione conservativa?
È il punto centrale del libro. La sinistra è il vero convitato di pietra di tutto questo discorso. Il fenomeno è trasversale in tutto l’Occidente, passa come uno tsunami dalla West Coast americana verso Oriente, dall’Inghilterra della Brexit alla Francia e all’Italia arrivando fino all’Ungheria e anche alla Turchia. Questa grande “livella” che sta attraversando l’Occidente e che sconvolge gli schieramenti politici, passa come una lama di un aratro dentro i partiti consolidati e rinvia a un grande vuoto lasciato nella politica, quello a sinistra. Quella forza, in forme molto diverse dagli Stati Uniti all’Europa, rappresentava la tutela del mondo del lavoro e degli strati più deboli della società promuovendo diritti, reddito, politiche economiche di redistribuzione, sistemi sanitari nazionali ma anche cultura, identità dignità, organizzazione del lavoro. Tutto questo è scomparso lasciando un gigantesco vuoto e in politica come in natura non può esistere il vuoto, c’è subito qualcuno che lo riempie. Il populismo è la forma informe che assume il vuoto lasciato dalla sinistra.
Ma perché è accaduto?
Perché le élite, le sue rappresentanze, le sue forme organizzate sono passate dall’altra parte, cioè da chi stava in alto, non da chi stava in basso. Questo lo si è visto a cominciare dall’apologia della globalizzazione di cui è stato presentato solo un volto illusorio e ottimistico, facendola passare come redistribuzione globale della ricchezza. Invece era concentrazione in alto su ogni scala nazionale, della ricchezza di pochi privilegiati e al tempo stesso lo scivolamento verso il basso, di buona parte della società, del ceto medio e del mondo del lavoro che è rimasto ai margini. Trump non è stato votato dai poveri – anche perché i poveri in America non vanno a votare – ma dagli impoveriti della upper class fino ad arrivare alla old working class, alla vecchia classe operaia, i minatori del Kentuky, i lavoratori del West Virginia che la globalizzazione e la delocalizzazione ha impoverito, che odiano la green economy sposata dai “fighetti” del partito democratico della East Coast di Boston. Sono quelli che avevano sempre votato democratico, facendo eleggere Bill Clinton e Obama e adesso hanno votato Trump, il peggiore dei miliardari, figlio di un immobiliarista corruttore che ha vissuto di rendita. È uno degli uomini più ricchi d’America, in cui però si sono identificati per la rozzezza stessa del linguaggio e perché era inviso ai salotti buoni e alla stampa di Washington. L’hanno votato con un voto di vendetta, sapendo, come ha detto uno in una intervista che “Trump è uno stronzo” ma che gliele canterà ai fighetti, alla palude di Washington. La stessa cosa è successa con la Brexit, la mappe del voto lo dicono. Hanno votato il Remain gli appartenenti agli strati fast, quelli dei settori finanziari, comunicativi, mentre hanno votato Leave quelli slow, delle aree a lenta velocità, dei distretti industriali manifatturieri e agricoli..
Il populismo che nasce dentro il neoliberismo poi però lo affossa se si rinchiude in politiche protezionistiche?
Sì, perché questo non è un voto di rappresentanza. È un voto di rappresentazione e di vendetta. Per punire qualcuno, non per realizzare un progetto organico di alternativa. Questo fa sì che poi a gestire politicamente questi voti sono le Terese May, gli iperconservatori, i miliardari immobiliaristi, i demagoghi alla Orban, i fascistoidi. In qualche caso utilizzeranno una apologia della Nazione senza lo Stato che redistribuisce la sua ricchezza perché non sono in grado di fermare i flussi globali. Si limitano solo a una rappresentazione demagogica.
I tre populismi italiani di cui parli nel libro, quello televisivo di Berlusconi, quello della rete di Grillo e quello della rottamazione di Renzi, hanno contribuito a distruggere i partiti o sono i partiti che si sono suicidati e hanno permesso la formazione di questi populismi?
L’Italia in questa luce, è una precorritrice dei tempi. Noi abbiamo avuto non un solo populismo – nel senso di populismo 2.0 come abbiamo detto – ma ben tre. L’inventore precoce è Berlusconi. Il suo è un perfetto stile neopopulista, con il suo linguaggio politico in cui metteva la sua intimità, la famiglia, una comunicazione da bar sport. Un populismo da tempi ancora del benessere, da edonismo reganiano, con il suo baricentro nell’uso della televisione, allora mezzo potentissimo. Poi è venuto il grillismo, prima ancora dei 5 stelle, un cyberpopulismo per l’uso della rete. Ma Grillo, come ha fatto notare Carlo Freccero, sa ricombinare tutti i media, anche la televisione. E poi usa benissimo la piazza e il corpo, pensiamo solo alla nuotata nello stretto di Messina. L’ultimo è il populismo più subdolo, e assai antipatico, di Renzi. Subdolo perché si esprime in alto, è un populismo di governo che mima lo stile di chi rivendica le ragioni del basso. Ed è quello della rottamazione, in questo simile a Salvini con le immagini delle ruspe, il nuovo insomma, che seppellisce il vecchio. È un populismo – come le bugie – un po’ dalle gambe corte perché fingersi rappresentanti del basso stando in alto, manovrando le banche, i meccanismi del sottogoverno e del governo mettendo gli amici nei posti che contano, costituendo nuovi cerchi o gigli magici, è un discorso che rischia di bruciarsi in fretta, come è avvenuto con il referendum sulla riforma costituzionale, la madre di tutte le battaglie politiche. Allora lui ha tentato di mettere in campo uno stile populista con il ribattere sui costi della rappresentanza, in realtà il taglio delle poltrone, un argomento che cavalcava l’onda di rabbia populista. Ma è stato travolto nel modo clamoroso. Anche in questo caso le mappe del voto aiutano a comprendere. La mappa del risultato elettorale fa combaciare il voto con la distribuzione territoriale e sociale del disagio: nel rapporto Nord Sud, sul piano generazionale – i giovani plebiscitariamente per il no – nel divario sul reddito. Nelle mappe urbane solo i centri borghesi, i Parioli a Roma e la Crocetta a Torino superano di poco il 50 per cento.
Sulla Francia al voto e i candidati cosa ci puoi dire?
I quattro candidati accreditati dai sondaggi sul filo di lana fino alla vigilia, sono in fondo tutti e quattro portatori di uno stile populista. Sicuramente quello di Le Pen è dichiaratamente di destra, in cui l’antieuropeismo si intreccia con il neonazionalismo, dall’altra parte Mélenchon ha uno stile di populismo, di sinistra, certo, ma anche questo diretto a costruire un “noi” accogliente, pacifico ma nazionale. Macron è un portatore di stile populista anche se filoeuropeo, né di destra né di sinistra, si pone per il superamento dell’intermediazione dei partiti e per la loro dissoluzione e perfino Fillon che è pure un pezzo di estabilishment di lunga durata, rappresenta una sfida alla topografia tradizionale.
Un’ultima domanda sul mood, sullo stato d’animo del populista. Nel libro tu scrivi che «se la paura muove tutto allora significa che qualcosa si è rotto nel profondo».
Sì, una sorta di patologia del sociale e della politica.
Allora vorrei proporti una riflessione. Nel libro di Elisabetta Amalfitano, Le gambe della sinistra, lo psichiatra Massimo Fagioli, da uomo di sinistra, sosteneva la necessità da parte della sinistra di “una ricerca su una nuova realtà umana”. Cioè i bisogni sono fondamentali, ma forse occorrerebbe un approfondimento sulle esigenze, cosa di cui la sinistra non si è mai occupata. Per evitare quindi il vuoto populista la sinistra dovrebbe aprire di più gli occhi su ciò che le persone vorrebbero a livello umano?
Non ho nessun dubbio sul fatto che la radice principale della malattia delle nostre democrazie, è sicuramente psicoantropologica. Nasce da un profondissimo disagio dell’essere delle persone e del loro sistema di relazioni che è andato in sofferenza. Stiamo male nella vita quotidiana, ripetiamo che dobbiamo pensare positivo, dobbiamo dire che ci divertiamo da matti, che siamo felici e che ci vogliamo bene. E invece no, è tutto il contrario. Basta vedere l’immaginario occidentale che emerge dalla letteratura e dal cinema, o le statistiche dell’uso dei farmaci per avere la dimensione di questo malessere. Pensiamo che le persone possano stare male e la politica possa stare bene oppure pensiamo che la politica possa curare il malessere delle persone? Non è così, ovviamente. L’idea che occorrerebbe reinventare una “pianta uomo”, cioè un essere umano capace di vivere la propria umanità in modi diversi, questo è il primo punto. Come quell’idea dell’uomo nuovo che c’era in quei momenti creativi di stato nascente dei movimenti nel ’68. Non c’è dubbio che questo è importante, sapendo però che tutta la cultura economica e sociale va nella direzione opposta, con la creazione di esseri umani pensati come atomi competitivi. Da qui deriva quella incertezza che il neoliberismo considera il motore dello sviluppo e che invece è la radice del disagio.
E quindi cosa dovrà fare la sinistra?
La sinistra da questo punto di vista è malata di pigrizia. Orribilmente pigra.

Un tipo sinistro

Pope Francis asperses incense as he celebrates a mass after opening the Holy door of the St. Mary Major's Basilica in Rome, Friday, Jan. 1, 2016. (AP Photo/Gregorio Borgia)

Nel 2000 Jorge Mario Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, si unì al coro dei gerarchi della Chiesa che fecero pubblica penitenza per il sostegno garantito tra il 1976 e il 1983 dalla Conferenza episcopale argentina alla giunta civico-militare responsabile di almeno 30mila sparizioni forzate e di migliaia di altri crimini contro l’umanità. Omicidi, rapimenti, torture e furti di neonati compresi. Il gesto, forse un po’ tardivo, fu un’autoassoluzione dell’istituzione che chiedeva perdono per i preti che avevano “peccato” dando appoggio logistico e materiale oltre che spirituale ai carnefici della generazione scomparsa? Oppure fu un’ammissione di colpa? Sta di fatto che mai durante il regime l’allora capo dei gesuiti argentini, come del resto gran parte dei suoi colleghi di culto, aveva preso pubblicamente posizione contro le violenze di Stato perpetrate nei confronti di chiunque fosse anche solo stato sospettato di essere un “sovversivo”. Cosa che invece nel vicino Cile, per esempio, fece il cardinale di Santiago, Raúl Silva Henríquez, il quale dall’11 settembre 1973 in poi non smise mai di puntare il dito contro le politiche repressive del dittatore fascista Augusto Pinochet e dei suoi guardaspalle. Palesemente diverso rispetto al silenzio mantenuto durante la dittatura è stato l’atteggiamento di Bergoglio nei confronti delle istituzioni democratiche. Nel 2010 quando era capo della Conferenza episcopale argentina si scagliò senza esitare contro il Parlamento reo di aver introdotto nell’ordinamento il matrimonio gay. Definendo la legge frutto della «invidia del demonio» che «vuole distruggere il piano di Dio».

Con la stessa veemenza, fresco di nomina a capo della Chiesa argentina, si era schierato nel 2005 contro il ministro della Sanità del governo Kirchner, Ginés González García, perché aveva proposto la depenalizzazione dell’aborto. La negazione del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza per Bergoglio è un chiodo fisso. La libertà di scelta, l’autodeterminazione, la sessualità della donna nel suo pensiero non sono contemplate. In totale continuità con la misoginia dei suoi predecessori anche da pontefice egli relega la donna entro un recinto predefinito, annullandone l’identità. La donna è tale solo se vergine o madre. «Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, la mamma di famiglia, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, quella che aiuta a crescere la Chiesa» dice da pontefice sull’aereo di ritorno dal viaggio pastorale in Brasile il 28 luglio 2013. «Dio ha creato la donna perché tutti noi avessimo una madre» ribadisce a Santa Marta il 9 febbraio 2017. «Sentir dire che tre figli già sono troppi mi mette tristezza, perché tre figli per coppia sono il minimo necessario a mantenere stabile la popolazione» aveva detto sul volo di ritorno dalle Filippine il 19 gennaio 2015. Madri sì ma con moderazione, per non turbarlo. Tuttavia non si era affatto intristito quando, dieci anni prima, il capo dei cappellani militari argentini, monsignor Antonio Baseotto, affermò che González García, il ministro pro-aborto, avrebbe meritato che gli fosse messa una pietra al collo e fosse buttato in mare. La scelta di questa immagine presa in prestito dal Vangelo di Luca (17, 1-2), che richiama alla memoria i voli della morte e la tragedia che ha segnato il destino di migliaia di suoi connazionali e la vita dei loro familiari, deve aver profondamente colpito Jorge Mario Bergoglio. In positivo. Incurante dell’incidente diplomatico provocato da Baseotto con il governo argentino, e di tutto ciò che a livello emotivo può evocare una frase del genere nei confronti dei familiari di desaparecidos, il pontefice l’ha fatta sua otto anni dopo, l’11 novembre 2013. Durante un’omelia in Vaticano ha auspicato la macina al collo e la fine in mare per «i cristiani e i preti corrotti» dalle tangenti. L’attacco agli evasori suscitò la profonda ammirazione in Italia dell’intero arco costituzionale e della stampa tutta. E poco importa se tra le vittime dei famigerati voli della morte ci sono anche migliaia di nostri connazionali.

Aborto, donne, diritti umani. Già quanto detto fin qui basterebbe per non vedere mai accostate nella stessa frase “papa Francesco” e le parole “Sinistra” o “Rivoluzione”. Tanto più in un momento storico culturale come quello attuale in cui la donna è al centro di un’offensiva violenta senza tregua. Gli omicidi, le percosse, lo stalking, innumerevoli stupri sono all’ordine del giorno. La negazione e l’annullamento dell’identità femminile spesso porta a un tentativo di coercizione e di annientamento fisico che si oppongono sia al processo di emancipazione cioè al riconoscimento di una uguaglianza giuridica sia alla liberazione, vale a dire alla accettazione di una diversa soggettività della donna. Emancipazione e liberazione della donna sono delicatissimi processi ancora in atto. Affinché siano portati a compimento occorrono fondamentali cambiamenti sul piano culturale e sociale di cui solo la Sinistra in quanto tale se ne può fare carico. Rifiutando in primis i fautori della mentalità patriarcale e religiosa che vogliono la donna inchiodata al ruolo di moglie e madre. Tra questi papa Bergoglio è la punta di diamante. Per essere certi di non lasciare adito a dubbi ricordiamo un altro paio di episodi. Il capo della Chiesa che il 2 febbraio 2014 dal balcone di piazza San Pietro ammoniva la platea affermando: «La vita va difesa dal grembo materno fino alla sua fine», è lo stesso sacerdote che ha militato nella Guardia de Hierro, il settore giovanile del peronismo di destra. La Guardia de Hierro nel 1976, il più cruento dei sette anni di dittatura, propose una laurea honoris causa all’ammiraglio Massera. Il titolo fu poi conferito al genocida della caserma Esma di Buenos Aires, il 25 novembre 1977, dall’Università del Salvador (Usal), della cui amministrazione faceva parte il futuro pontefice. E ancora, a proposito di cappellani militari giova ricordare la vicenda di monsignor Christian Federico von Wernich, l’ex cappellano della polizia di Buenos Aires soprannominato “il prete del diavolo”. Costui sconta l’ergastolo dall’ottobre del 2007 perché il tribunale federale di La Plata lo ha riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità per aver partecipato a 6 omicidi, 31 casi di tortura e 42 sequestri. Di fronte ai familiari delle vittime, dei sopravvissuti e ai giudici, il monsignore si è sempre dichiarato innocente, privo di colpe. Nel senso che lui non aveva mai fatto nulla di male. Commentando la sentenza, nel sottolineare «il dolore che ci provoca la partecipazione di un sacerdote in delitti gravissimi», il cardinale Bergoglio si limitò a sottolineare la necessità di una «riconciliazione», rilevando inoltre che l’Argentina doveva allontanarsi «sia dall’impunità sia dall’odio e dal rancore».

 

Per approfondire

Come dire, “scordiamoci il passato”. Una indulgenza che vale per un sadico torturatore omicida, e vale ancora oggi poiché von Wernich non risulta né pentito né dimesso dallo stato clericale, ma non per una donna che se decide di interrompere una gravidanza esercita un diritto, tutela la propria salute psicofisica e non uccide nessuno (perché il feto è un feto e chi non è nato non può morire). «Assoluzione dal peccato di aborto solo se c’è pentimento» ha ribadito papa Francesco a novembre 2016 in vista del Giubileo straordinario. Con questo interessante curriculum in tasca, niente affatto ignoto e davvero difficile da annoverare a “sinistra” e nel pantheon della laicità, il 13 marzo 2013 Jorge Mario Bergoglio appena nominato papa si è affacciato al famoso balconcino e ha detto «buonasera» urbi et orbi. Suscitando immediatamente entusiasmi e ottenendo un’apertura di credito incondizionata. L’elenco di genuflessioni parlamentari ed extraparlamentari a sinistra è lunghissimo. Basti in questa sede pensare al recente discorso davanti ai sindacalisti della Cisl durante il quale papa Francesco ha lanciato i suoi anatemi contro «le pensioni d’oro» perché sono «un’offesa al lavoro». Siamo tutti d’accordo che certi assegni mensili siano indecenti ma non un sopracciglio si è alzato per far notare a Bergoglio che lo Stato italiano elargisce queste pensioni sulla base di leggi italiane. Lui che c’entra? Tanto meno – da destra a sinistra, passando per i sindacati – c’è stato qualcuno che abbia avuto l’ardire di ricordare che sempre lo Stato italiano paga profumate pensioni, per dirne una, ai cappellani militari che rispondono agli ordini dei gerarchi vaticani. Anzi.

A fronte di un (imbarazzante) silenzio tombale sull’ingerenza di un capo di Stato straniero negli affari italiani è via via montata una (altrettanto imbarazzante) marea di osanna dei media e degli opinionisti per la “sensibilità” del pontefice verso i lavoratori sotto pagati. È questa la reazione da quando il gesuita argentino ha pronunciato il fatidico «buonasera» di quattro anni fa. Una reazione che non tiene mai conto dell’inapplicabilità di una visione laica – che parta cioè dal rispetto dei diritti inalienabili della persona e dal pensiero che siamo tutti esseri umani dalla nascita – a un’organizzazione come quella della Chiesa cattolica che per sua natura e cultura si oppone a questi stessi princìpi. Davvero occorre ricordare ai fan progressisti di papa Francesco che costui oltre a essere il capo di una religione monoteista che crede nel peccato originale e nell’esistenza del diavolo, è un monarca assoluto a cui tutti i suoi sudditi devono obbedienza e che detiene i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sulla base di una elezione decisa da una casta di circa 200 persone, tutti uomini? Cosa c’è di sinistra in questo? E di laico? C’è per caso qualcosa di laico e di sinistra cui ispirarsi, nella consueta linea politica di marca gesuita, che consiste nel rimproverare gli sfruttatori e al tempo stesso predicare mansuetudine presso gli sfruttati, egregiamente sintetizzata da papa Francesco nel discorso pronunciato il 4 febbraio 2017 durante un incontro con il movimento dei Focolari? Nel mondo ideale di papa Francesco i ricchi rimangono ricchi e i poveri rimangono poveri. “I poveri vanno accompagnati”. Nulla viene detto o fatto per toglierli dalla condizione di povertà. È questa la nuova idea di uguaglianza a sinistra? Bergoglio lo ha detto chiaramente, basta leggere questa frase. «Il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione». Quell’“economia che include i poveri” sta lì a dire che la realtà sociale di queste persone è per il papa immodificabile. Siamo ben lontani da un’economia che produce reddito e redistribuisce equamente ricchezza rimuovendo «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Così c’è scritto nel secondo comma dell’articolo 3 della nostra laica Costituzione. Per ridare slancio alla sinistra queste parole non sono assai più utili di quelle del gesuita papa Francesco? Domanda pleonastica.

Per approfondire

Torniamo infine alla stretta attualità e al modo in cui il papa sta conducendo la sua presunta battaglia contro la pedofilia nel clero. Cosa c’è di laico e di umano nel considerare un delitto contro la morale, cioè un’offesa a Dio, lo stupro di un bimbo di tre anni da parte di un adulto cinquantenne? E sempre a proposito di superamento delle disuguaglianze, è forse laica e di sinistra la frase pronunciata da papa Bergoglio l’8 gennaio 2014? «Un bambino battezzato non è lo stesso che un bambino non battezzato» disse nell’udienza generale a Santa Marta. Queste parole possono essere declinate in diversi modi, basti citarne uno per tutti: un bambino battezzato non è lo stesso che un bambino ebreo. Di fondo c’è l’idea non proprio laica e di sinistra secondo cui l’identità umana è data dal battesimo. Se il battesimo non c’è, non ci sono nemmeno l’identità e l’uguaglianza tra esseri umani. La pretesa che i vari Bertinotti, Pisapia, Renzi, Fassina e tanti altri, hanno di indicarlo come guida morale della nostra società si scontra con questa visione della natura umana che distingue le persone cattoliche da quelle che non lo sono. È una visione figlia di una cultura che attraversa fino a oggi la storia millenaria poco edificante dell’istituzione che papa Francesco rappresenta, segnata da intolleranze verso le altre religioni monoteiste, da inaudite violenze contro le donne e gli eretici e dagli abusi psicologici e fisici su minori affidati alla sua cura.

A proposito della pedofilia, si diceva, senza dover andare troppo lontano nel tempo ecco uno dei passaggi più significativi del durissimo atto di accusa delle Nazioni Unite contro la Santa Sede per la sua ambiguità nella gestione della pedofilia clericale, elaborato nel 2014 in virtù della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia: «La Commissione è fortemente preoccupata perché la Santa Sede non ha riconosciuto la portata dei crimini commessi, né ha preso le misure necessarie per affrontare i casi di abuso sessuale e per proteggere i bambini, e perché ha adottato politiche e normative che hanno favorito la prosecuzione degli abusi e l’impunità dei responsabili».

La Convenzione cui la Santa Sede aderisce, prevede come clausola ineludibile per i firmatari l’obbligo di adottare ogni misura possibile per tutelare i diritti fondamentali dei minori e per proteggere la loro crescita da qualsiasi situazione a rischio. Secondo il Comitato Onu sui diritti dell’infanzia, l’essenza della Convenzione è stata ripetutamente e palesemente violata dal Vaticano, come si evince dal rapporto pubblicato il 5 febbraio 2014 al termine di una capillare inchiesta avviata a luglio del 2013. Pur senza citarli, l’Onu ha puntato quindi il dito contro gli ultimi tre capi della Chiesa: Francesco I, Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. Il riferimento alle carenze normative non è casuale ed è tuttora valido. Già perché l’acclamatissimo inasprimento delle norme penali attuato da Francesco a cosa può davvero servire se per i “peccatori” la pena consiste nel dover recitare più avemmarie in un convento? Finché in Vaticano si continuerà a considerare le violenze sui bambini un peccato e non un reato, cioè un crimine contro la persona, la “tolleranza zero” contro la pedofilia ecclesiastica che tante volte abbiamo sentito invocare prima da Benedetto XVI e poi da Bergoglio sarà un annuncio fine a sé stesso. Buono solo per convincere parte dell’opinione pubblica che qualcosa effettivamente stia cambiando dopo decenni di complicità con migliaia di pedofili e impegni in serie non mantenuti. È questa la chiave per comprendere come mai papa Francesco abbia prima deciso di affidare a monsignor George Pell la guida del superministero dell’Economia, rimanendo sordo agli avvertimenti ricevuti ovunque, e poi lo abbia lasciato andare quando ormai era diventato indifendibile agli occhi dell’opinione pubblica. In cima ai pensieri di un papa c’è sempre la tutela dell’istituzione. L’obiettivo primario è quello di sostenerne l’immagine e il buon nome. Sempre. Le persone non contano. “Vatican first”, possiamo dire parafrasando Trump. Prima c’è la Chiesa, poi, se c’è tempo e spazio ci si può occupare delle persone (se sono battezzate). Ma anche qui c’è una gerarchia. In cima ai pensieri del papa non ci sono le vittime dei preti pedofili che da 40 anni in Australia attendono giustizia, ma il monsignore chiacchierato cui ha concesso l’aspettativa per andarsi a difendere di persona in Patria. Affinché tenga l’ormai ingombrante ombra lontana dalla Santa Sede. E se ancora siete perplessi, badate bene che lo ha rifatto. Consegnando le chiavi della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf), l’organismo della Santa Sede presso cui sono accentrati i processi più gravi per pedofilia, all’arcivescovo gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer. E cosa c’è nel palmares di questo monsignore? Nel 2012 quando era segretario della Cdf mise la sua firma insieme all’allora prefetto Llevada sulla sentenza di condanna di un prete pedofilo nella quale si intimava di non rendere pubblica la notizia. E che fine fece questo signore? Scontata la penitenza, con il suo bell’abito talare decise di diventare allenatore di una squadra di calcio giovanile. All’insaputa della condanna, tante famiglie gli affidarono i loro bambini. Nel 2015 è stato arrestato, questa volta dalla polizia italiana. Stando alle accuse ne ha violentati almeno dieci. E però Jorge Mario Bergoglio è un rivoluzionario, lava i piedi ai carcerati e ha detto «buonasera» a tutti.

 

 

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L’articolo è stato pubblicato su Left del 19 agosto 2017


SOMMARIO ACQUISTA

«Solo qualità e approfondimento salvano i giornali». Parla Mark Thompson, il giornalista che ha rilanciato il New York Times

New York Times building EPA/JUSTIN LANE

Quando è arrivato al New York Times nel 2012, dopo aver a lungo guidato la BBC, il quotidiano era in profonda crisi. Lo scorso novembre ha toccato il record di 20 milioni di copie. La ricetta? Forse non c’è, forse quello del NYT è un caso irripetibile, legato alla conquista del mercato internazionale favoriti dalla lingua inglese, ma di certo Thompson ha chiari alcuni principi. Non usuali in un amministratore delegato di un’azienda editoriale: puntare sulla qualità, sull’approfondimento, dare il tempo ai giornalisti per indagare e approfondire. Tutto il contrario di quel che accade oggi in Italia con i giornalisti della carta che inseguono i ritmi del web.

Nel suo ultimo libro, La fine della democrazia (Feltrinelli), Mark Thompson  indaga i cambiamenti radicali avvenuti nel mondo del media dopo la guerra fredda e dopo la caduta del muro di Berlino, puntando il dito contro una demagogia politica che ha fatto proprio il linguaggio dei venditori ( «Non è un caso – dice- che Berlusconi e Trump siano imprenditori abituati a promuovere le proprie aziende». Nel libro sviluppa un’indagine acuta di questa deriva del linguaggio politico, sempre più lontano dalla vita delle persone, che i giornalisti troppo spesso finiscono per imitare . «Noi non dovremmo fare comunella, non dobbiamo far parte di un club, ma stare dalla parte dei lettori», dice con passione. «Dobbiamo avere una grande apertura mentale per cercare di capire se i cittadini hanno delle paure, quali, perché»
Nessuna collusione con i poteri forti. Basta per risollevare i giornali in crisi?
Dobbiamo credere che esista una domanda di informazione corretta, una richiesta di giornalismo serio. Questo è l’altro punto dirimente. Se pensi che i lettori cerchino intrattenimento invece che approfondimento ed inchieste serie, sei finito. Se perdi fiducia nei lettori, cadi in una trappola, è un suicidio. C’è talmente tanta competizione che, se ti metti a inseguire il gossip, la spettacolarizzazione delle notizie, non riesci nemmeno a fare un buon business, ti limiti a riciclare spazzatura e non ci guadagni nemmeno.
Da questo assunto siete partiti per il piano di rilancio del New York Times?

Puntiamo ad investire solo su un giornalismo serio, dobbiamo difendere un profilo alto del mestiere, fare in modo che i giornalisti abbiano tempo per pensare, per approfondire le notizie, piuttosto che rincorrerle affannosamente tutto il tempo. Diversamente dai giornali in lingua italiana o francese abbiamo un bacino molto ampio di lettori, possiamo cercare di guadagnare un pubblico internazionale. Siamo assolutamente convinti che sia necessario investire in ottimo giornalismo. Ma ha un costo. Se produci scarpe e vedi che c’è un mercato per le tue scarpe, non per questo le dai via per niente. Noi pensiamo che ci siano persone disposte a pagare per avere un servizio di buon giornalismo, perciò puntiamo sugli abbonamenti e chiediamo ai lettori un giudizio, un feedback, sulla qualità di ciò che hanno acquistato. È stato un errore pensare che, grazie alla pubblicità online, il buon giornalismo potesse essere gratis. Non ha funzionato. Penso sia sano pagare per ottenere un buon servizio. Ma la tragedia è che molte aziende editoriali in America e in Europa pensano solo a tagliare posti di lavoro, a ridurre il numero dei giornalisti. Indubbiamente occorre tenere d’occhio i costi, ma non si può continuare a tagliare altrimenti molti servizi non vengono più coperti e questo, oltre ad essere terribile, produce un effetto negativo, rende il prodotto scadente.

Dopo un lungo periodo di crisi, come siete riusciti a invertire la tendenza arrivando a 20 milioni di lettori a novembre 2016?

Le cose hanno cominciato a funzionare nel 2012, quando sono arrivato al New York Times. In tanti si sono domandati e ci domandano come sia potuto accadere. La cosa particolare è che ci avevamo provato due o tre volte prima, ma non ci eravamo riusciti. È accaduto solo nel 2012 quando dovevano riuscirci a tutti i costi. Il sistema doveva funzionare era una questione di vita o di morte. Mi sentirei di dire che molti providers in Europa ne parlano molto, hanno fatto degli esperimenti, ma non ci hanno mai provato fino in fondo, come se ne andasse della propria vita. Quello che so è che noi abbiamo provato e abbiamo fallito, ci abbiamo riprovato e abbiamo fallito, è accaduto molte volte prima di arrivare a questa riuscita. Mentre lo fai, mentre ci provi impari, migliori ogni volta un pochino e il sistema migliora, devi avere fiducia che possa funzionare e che i tuoi lettori rispondano.

Internet fornisce un flusso continuo di informazioni è questo ha fatto pensare che non ci sia più bisogno della mediazione giornalistica, ma è davvero così dal momento che in rete circolano molte bufale, fake news, notizie non verificate?

Al contrario io penso che il mondo in cui viviamo abbia bisogno di giornalismo investigativo, oggi più che mai. Per esempio: sappiamo che ci sono rapporti fra il governo russo e quello americano, ma anche fra M5s e Mosca, fra Marine Le Pen e Mosca. Ma non riuscirai mai a capire cosa sta succedendo davvero navigando in rete. Servono giornalisti che indaghino per giorni, settimane, mesi e magari anche anni per capire a fondo. Sì, l’Fbi fa proprie indagini, ma non basta, sono assolutamente convinto che ci voglia uno specifico lavoro giornalistico per fare una ricostruzione e dare una lettura dei fatti che non resti in superficie. Sul web è difficile verificare le fonti, sapere chi ha pubblicato una certa notizia, quale account c’è dietro eccetera. Insomma, io penso che l’immane quantità di bufale che circolano su internet di fatto rendano il giornalismo più forte e necessario. La rete semmai rende inutile il giornalismo leggero, d’intrattenimento. La rete, al più, soddisfa un pubblico molto ideologico, focalizzato solo su un interesse di parte, che cerca conferme della propria fede, apparenti riprove di ciò che già credono vero.

Non è la gran parte del pubblico?

La gran parte delle persone preferisce pensare, invece che credere. Vuole essere informato in modo approriato, avere avere strumenti per poter decidere liberamente. Per questo dico che c’è una domanda diffusa di giornalismo verificato che vada al centro delle questioni. Io sono portato a credere che fuori da questa stanza ci siano persone, molte persone, che vogliono sapere davvero cosa sta succedendo. È importante per prendere buone decisioni in democrazia. Penso che i media e i giornalisti debbano avere più fiducia nelle capacità critiche dei lettori. Se fai informazione in modo serio e approfondito inneschi una sorta di circolo virtuoso. Più sanno, più cercheranno buona informazione. In un certo senso il giornalismo più “idealista”, quello che punta molto in alto, è il miglior investimento. Io penso davvero che il cinismo porti solo al fallimento, perché dà a quel tipo di lettori ciò che vogliono. Ne ho la prova. Il giornalismo cinico negli ultimi venti anni non ha prodotto nessun modello di business efficace. Basta guardare a quali sono stati alla lunga i modelli vincenti: quello del New Yorker, quello del New York Times ma anche quello del Washington Post, che ora ci sta facendo concorrenza. Nonostante questo mi pare una buonissima notizia che il Washington Post sia molto più forte rispetto a cinque anni fa. Capisco però che per noi sia più facile. In Italia non avete le stesse opportunità internazionali, avete una grande tradizione di giornalismo, ma la transizione all’Europa non è stata facile.

In Italia purtroppo, non solo in rete, viene dato molto spazio alla pseudo scienza, a ciarlatani che promettono cure che non sono tali, a religiosi che intervengono su questioni mediche sulle quali non hanno competenza. Tutto questo produce un danno alla credibilità…

Sì, dilagano fake news e notizie inventate che nascondono una frode. Ci sono persone che si approfittano della disperazione delle persone malate gravemente per fare soldi. Altre volte è la stupidità a fare danno. C’è una massiccia manipolazione sui social media, fomenta questa circolazione di notizie false per ottenere un tornaconto politico. In questo modo si sono diffuse pericolose leggende che, senza alcun fondamento scientifico, mettono in cattiva luce la sicurezza dei vaccini. Ed è terribile. Perché così si cerca di spingere i genitori a non vaccinare i figli. Su questo in Italia come negli Usa bisogna fare una fortissima battaglia perché emerga la verità, perché queste pericolose falsità siano smascherate. Non riguarda solo la scienza e la medicina. Un tentativo di soffiare sul fuoco diffondendo falsità lo abbiamo visto in azione anche in Inghilterra durante il dibattito sulla Brexit. Le destre hanno diffuso false notizie su un fantasmagorico numero di rifugiati che, a loro dire, sarebbe arrivati in Gran Bretagna. C’è stata una pesantissima propaganda. Ma pensiamo ancor più a quel che accade negli Usa dove il presidente Trump dice falsità a raffica via twitter. È accaduto due o tre volte anche questa settimana. Noi lo abbiamo sbugiardato pubblicamente, ma lui non smette di farlo. Ed è tanto più “curioso”, perché è il presidente degli Stati Uniti a farlo. Ci rendiamo conto? Il presidente degli Stati Uniti continua a ripetere all’infinito cose che non sono vere. Che fare? Come giornalista devi continuare a dimostrare che dice il falso, anche se lui non smette. È importante questo controllo continuo, altrimenti la verità sparirebbe dall’orizzonte, altrimenti rischieremmo di diventare una società sottoposta a censura come in Cina. Anche se non produce un cambiamento dobbiamo continuare a provarci, la gente ha diritto di sapere cosa accade.

Negli Stati Uniti la libertà di stampa è tutelata dalla Costituzione, ma Trump potrebbe cercare di manometterla?

Dopo la sua elezione è venuto a pranzo con la redazione, è rimasto a lungo con noi e io gli ho chiesto se avrebbe sostenuto il primo emendamento della Costituzione. Lui ha risposto in modo alquanto bizzarro per un presidente, del tipo “state tranquilli”, you will be ok. Questa settimana ha twittato una frase che induce a non stare affatto tranquilli, alludendo alla possibilità di una legge che prevede punizioni se scriviamo un articolo che lui non condivide. Nei fatti penso sia impossibile che lui riesca nel suo intento. La tradizione della libertà di stampa è forte negli Usa ed è sostenuta anche dalla Suprema Corte. È una faccenda che sta a cuore ai liberali quanto ai conservatori. Dunque penso che non accadrà. Ma il solo fatto che il presidente degli Stati Uniti l’abbia annunciato è sbalorditivo.

Franco Lorenzoni: «Come fare della scuola un pronto soccorso culturale»

FRANCO LORENZONI

Una intervista a Franco Lorenzoni, maestro ed educatore di Giove (Terni). È un’analisi approfondita della scuola italiana nel momento in cui si attendevano i decreti attuativi della legge 107.

«La verità è che in Italia, dall’introduzione della Media unica 55 anni fa, non si è mai investito in modo adeguato e coerente perché la scuola divenisse un reale volano di ascensione e rimescolamento sociale». È questa la sentenza di Franco Lorenzoni, maestro di Giove, vicino Terni, e educatore molto seguito, che ha fondato nel 1980 ad Amelia, in Umbria, la casa laboratorio Cenci, un centro di ricerca didattica che accoglie studenti e insegnanti da tutta Italia e li fa lavorare su temi scientifici, ecologici, e di inclusione. Ha scritto, Lorenzoni, testi come I bambini pensano grande, pubblicato da Sellerio nel 2014.
Franco Lorenzoni, quale idea di scuola emerge dopo quasi due anni di legge 107? Tenendo presente anche le deleghe in arrivo che ne attueranno alcune parti fondamentali?
La legge 107 è una legge che non ha mai avuto niente di organico. È un’accozzaglia di provvedimenti slegati tra loro, di cui alcuni molto criticabili, come l’introduzione di una presunta gerarchia di merito tra gli insegnanti, che non aiuta il miglioramento della scuola. Ci sono anche provvedimenti interessanti, come l’obbligatorietà della formazione in servizio – già introdotta dalla ministra Carrozza – e il rapporto scuola-lavoro, sulla cui attuazione ci sono però molti problemi da superare. Una legge, in sintesi, al cui interno si muovono spinte contraddittorie, che ha suscitato una forte opposizione per molte scelte sbagliate, che stanno ulteriormente peggiorando ora che si stanno definendo i decreti attuativi. L’assegnazione alle scuole di docenti di potenziamento, ad esempio, potrebbe facilitare una gestione più flessibile e autonoma di noi insegnanti. Ma sono necessarie due condizioni: che ci siano dirigenti scolastici capaci di una visione innovativa della didattica e che si vieti il loro utilizzo come supplenti o tappabuchi. Altrimenti, come in molte scuole accade, si sta creando un personale di seconda categoria, insoddisfatto perché male utilizzato.
Lo stesso problema lo si avverte anche con le deleghe che a fine mese il governo varerà dopo l’esame del Parlamento?
Nessuna delle deleghe è stata redatta da un comitato di esperti che se ne sia assunto la responsabilità. Per mesi c’è stato un ping pong tra il ministero e la Presidenza del Consiglio, con gruppi informali che si scioglievano e si ricomponevano secondo logiche imperscrutabili, dentro un ministero diretto dalla Giannini, che si è rivelata particolarmente incapace. Tutto questo ha prodotto testi di legge confusi, spesso cambiati in fretta e furia, come quello sulla valutazione, riscritto malamente nel corso dell’ultima notte.
Come?
C’era stata la proposta di abolire la bocciatura anche alla scuola media e di sostituire i voti decimali con le 5 lettere, accompagnando questo provvedimento con una revisione profonda dei criteri di valutazione. Una proposta in sintonia con la “spinta” europea che preme per un’educazione alle competenze e auspica cambiamenti significativi della didattica in direzione di una maggiore apertura alla realtà, che a mio avviso sarebbero giusto discutere nel merito e sperimentare. Ma, al solito, nel nostro Paese si parla sempre di riforme ma raramente si ha il coraggio di farle. Così, sia prima che dopo il referendum costituzionale, il governo ha avuto paura degli insegnanti, dell’opinione pubblica, di alcuni editorialisti di giornali che scrivono assurdità profondamente reazionarie e, all’improvviso, la ministra Fedeli ha deciso di fare marcia indietro, imponendo il fatto che i voti non si debbano toccare così come la possibilità di bocciare nella scuola di base, con una totale mancanza di visione e di coraggio. Tra l’altro c’è un’evidente contraddizione tra le diverse leggi esistenti. Le Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia, elementare e media, divenute legge nel 2012 grazie a Marco Rossi Doria, allora sottosegretario, sono un documento importante, con premesse serie e impegnative. Ma per attuare ciò che lì c’è scritto, per costruire una scuola davvero inclusiva e fare in modo che tutti possano raggiungere obiettivi minimi fondamentali di conoscenza, l’intera gestione della scuola, a livello centrale e periferico, si dovrebbe fare carico dei grandi problemi esistenti e dovrebbe essere capace di prendere decisioni coraggiose e innovative.
Quindi oggi non si realizza una scuola inclusiva?
Siamo di fronte a un paradosso. L’Italia ha ricevuto dall’Onu lo scorso anno un riconoscimento come Paese che dispone le leggi più avanzate in tema di inclusione. Ma poi molte scelte politiche, invece di creare le condizioni perché queste buone leggi siano applicate, spesso rendono tutto più difficile. Va detto anche però, per onestà, che nelle attuali condizioni si osservano realtà molto diverse. Ci sono scuole in cui l’impegno individuale e collettivo a costruire con fatica buoni livelli di inclusione dà i suoi risultati e scuole in cui il forte attrito burocratico, le pigrizie mentali e la scarsa preparazione nel merito di troppi insegnanti danno luogo, nei fatti, a una scuola che emargina ed esclude chi ha più difficoltà. La scuola realmente inclusiva vive solo quando le leggi giuste e avanzate che ci sono vengono incarnate da insegnanti dotati di forte etica individuale e stimolate e messe a sistema da dirigenti capaci di andare oltre alla gestione del quotidiano e delle continue emergenze. Non sono poche queste realtà, ma restano tuttavia una minoranza. La politica scriteriata che porta a classi sempre più numerose insieme ai troppi accorpamenti tra scuole, sommata alla mancanza di un concorso per dirigenti continuamente rinviato con il conseguente uso massiccio di dirigenti reggenti, ha creato situazioni insostenibili. Oggi un dirigente scolastico deve svolgere un’enorme quantità di funzioni. Con l’introduzione degli “ambiti” decentrati, che assumono funzioni di coordinamento e gestione che erano state prima dei Provveditorati provinciali e poi degli Uffici Scolastici Regionali, il carico che grava sui dirigenti più attivi è abnorme. E invece le scuole hanno bisogno di dirigenti e gruppi capaci di orientare e promuovere la ricerca e l’innovazione didattica, senza la quale la scuola muore. Ma per guidare la crescita umana e professionale di noi insegnanti bisogna essere dotati di uno spessore culturale, una capacità di visione e del coraggio di sapere andare controcorrente che a molti manca. Così i maggiori investimenti in formazione in servizio, utili e necessari, rischiano ancora una volta di non valorizzare le risorse umane e culturali presenti nelle scuole, ma spesso sottovalutate. È soprattutto di un’autoriforma dal basso che la scuola ha bisogno. Ma chi è in grado di promuoverla oggi?
Cosa pensa delle accuse mosse alla scuola da alcuni opinionisti e nello specifico alla scuola primaria dalla famosa lettera dei 600 accademici?
Quella lettera è una vera porcheria. Partendo da problemi reali si prospettano soluzioni risibili. Come si fa a sostenere che la scuola diventerebbe più seria se chi insegna alle elementari venisse controllato dai docenti delle medie, che a loro volta dovrebbero essere controllati dai professori delle superiori? Poi naturalmente, poiché l’appello era rivolto a rettori ed accademici, si sono guardati bene dal mettere in discussione l’Università che, perlomeno riguardo alla formazione iniziale dei docenti, è forse il settore dell’istruzione che funziona di meno. Il tutto condito da nostalgie reazionarie davvero insopportabili. Come si fa a sostenere che Lorenzo Milani e Tullio De Mauro siano tra i responsabili del degrado della scuola di massa, quando sono stati tra i pochi grandi intellettuali del nostro Paese che si sono sporcati le mani in una relazione costante e appassionata con il mondo della scuola? La verità è che in Italia, dall’introduzione della Media unica 55 anni fa, non si è mai investito in modo adeguato e coerente perché la scuola divenisse un reale volano di ascensione e rimescolamento sociale.
Il problema fondamentale è la formazione?
Certo, il problema della formazione è cruciale, ma ancor più quello della responsabilità e dell’etica individuale, perché il buon funzionamento di un’istituzione si dà solo quando si intrecciano leggi adeguate e buone pratiche, che non possono non venire dal basso. Qui sta il nodo culturale che blocca l’Italia, perché molti si lamentano, anche a ragione, ma troppo pochi si assumono la responsabilità di testimoniare con persuasione che si può fare di buono a scuola, dando voce e dignità a bambini e ragazzi. Senza paura di esagerare penso che il modo in cui sono concepite e organizzate la maggioranza delle facoltà di Scienza della formazione è fortemente diseducativo. Andrebbero radicalmente ripensate, ma sul serio. Nei decreti attuativi che riguardano lo 0-6 si propone la laurea obbligatoria anche per le educatrici ed educatori dei nidi. Benissimo, ma sai cosa accadrà? Ci sarà un corri corri per accaparrarsi queste nuove cattedre, senza alcuna riflessione organica su che cosa significhi inventare una facoltà capace di formare un’educatrice dei nidi. L’Università in Italia sembra incapace di autoriflessione e si muove sempre per compartimenti stagni. Ciascuno pensa al suo: non c’è mai la capacità politica – nel senso più alto del termine – di affrontare le questioni culturali prendendole di petto dal punto di vista giusto. Si parla tanto di corruzione, ma l’Università è uno dei luoghi più corrotti, sia per il modo con cui vengono scelte e create le cattedre che per il modo, criticabilissimo, in cui si è scelto di organizzare la valutazione dei professori. Tutti ne paghiamo e ne pagheremo le conseguenze.
Ha scritto che la scuola primaria è un luogo delicatissimo, una sorta di “pronto soccorso culturale”. Da cosa dipende?
Ci sono due elementi da considerare. Da una parte il disagio crescente dei bambini, che dipende da una grande crisi della famiglia, accentuata in alcuni casi anche da condizioni di indigenza. La crisi però è anche psicologica: moltissimi adulti vivono male da molti punti di vista e questo si riflette nei disagi crescenti dei bambini. Lo dimostra la crescita esponenziale di bambine e bambini catalogati come di Bes (cioè con bisogni educativi speciali). E allora bisogna riflettere seriamente sul fatto che, se c’è un disagio forte nella società, l’infanzia è la prima vittima. Dall’altra parte c’è la grande questione dei figli degli immigrati. Bisogna distinguere se sono di prima o di seconda generazione, ma comunque per lavorare in classi con livelli di comprensione della lingua italiana molto diversi e saper valorizzare e dare dignità e ascolto a diverse idee e concezioni del mondo, ci vuole una grande preparazione e disponibilità umana. In generale va detto che sia la scuola dell’infanzia che la scuola primaria, complessivamente hanno reagito bene. Sono stati certamente i luoghi pubblici più accoglienti nei confronti degli immigrati, nonostante siano state le più penalizzate dal mostruoso taglio di oltre 8 miliardi fatto da Tremonti, quando faceva il ministro dell’Istruzione mascherato da Maria Stella Gelmini.
La scuola che insegna o la scuola che accoglie? Si possono fare entrambe le cose?
Non c’è da una parte una scuola accogliente, che cura le relazioni, e dall’altra una scuola seria e rigorosa che istruisce. Questa contrapposizione la creano ad arte opinionisti come Ernesto Galli della Loggia. La scuola diventa capace di costruire e diffondere cultura tanto più riesce ad essere accogliente, tanto più è in grado di curare le relazioni reciproche. Un buon rapporto con la letteratura, la scienza, la matematica o l’arte ce l’hai se abiti un luogo dove stai bene e dove giorno per giorno c’è chi costruisce e ci si prende cura di una composita comunità. Questo è il punto chiave. La scuola funziona quando ci sono insegnanti capaci di trasformare le classi in piccole comunità in cui ci si ascolta e ci si rispetta. In cui si lavora attivamente perché le differenze non si trasformino in forme palesi o velate di discriminazione. Conoscere il mondo, conoscere gli altri e incontrare se stessi sono processi che si alimentano vicendevolmente. Nella mia classe da due mesi stiamo ricercando intorno alla luna intrecciando scienza, disegno, poesia e introspezione personale. Mentre proviamo a studiare forme e movimenti del nostro astro, ci conosciamo di più tra noi. Bisogna farla finita con la vulgata interessata per cui l’abbassamento del livello culturale della società ha le sue radici nel ’68 e nei suoi figli. Sono oltre trent’anni che si insulta la cultura, che si impoveriscono i già scarsi luoghi di fruizione e promozione culturale nei nostri paesi, città e periferie. Rendiamo la vita impossibile alle biblioteche, ai teatri, non siamo in grado ci creare luoghi pubblici capaci di alimentare i nuovi linguaggi e la creatività delle giovani generazioni: di cosa stiamo parlando? Si è proposto, giustamente, di aprire le scuole al pomeriggio per ospitare attività di associazioni e realtà vive dei territori, ma poi non ci sono soldi per chi apre, per chi pulisce. La cura di una socialità non conflittuale dovrebbe essere la prima emergenza culturale a cui far fronte, ma poi, all’atto pratico, in ben pochi luoghi si agisce in questo senso con coerenza. La scuola è un organo dentro a un corpo sociale, non ce lo dimentichiamo mai.
A che cosa serve la scuola quindi?
A essere più liberi nel pensiero, ad avere più strumenti conoscitivi, ad aprirci e a imparare ad imparare dagli altri. Chi ci crede prova a lavorare perché la scuola di base sia il luogo privilegiato in cui ragazze e ragazzi acquistino fiducia nelle propria capacità di pensare in autonomia. Per noi insegnanti questo è un compito davvero impegnativo, perché bisogna andare controcorrente e batterci contro la semplificazione imperante. Eppure è proprio questo quello a cui penso quando parlo di una scuola che è un pronto soccorso culturale; mi riferisco a questo bisogno di democrazia da praticare, al diritto di articolare parole pensate, ragionate, che si arricchiscano «sfregando e limando i nostri cervelli contro quelli degli altri» come auspicava Montaigne, affrancandoci dai troppi monologhi che ammorbano il web. Piero Calamandrei sosteneva che la scuola deve essere un’incubatrice di vocazioni. Ma per esserlo dovremmo riuscire a dare a ciascuno lo spazio e la possibilità di scoprire quali contorni abbia il proprio carattere. In fondo a cosa servono le discipline? A scoprire le nostre inclinazioni più vitali e a capire qual è la strada migliore che possiamo imboccare per esplorare e scoprire il mondo. Viviamo in tempo particolarmente difficile e i bambini, fin da piccoli, sentono in vari modi il peso della grande crisi, del non lavoro. Questo orizzonte così chiuso non favorisce il desiderio e la fiducia nell’imparare. Per questo noi insegnanti siamo chiamati a contrastare con forza la generale de-alfabetizzazione, consapevoli che si tratta di remare contro corrente.
Voi insegnanti dovete dare certezza della conoscenza…
Il clima generale è contro chi ragiona e pensa in autonomia. Forse non ci sono dei complotti per tenere il popolo in stato di ignoranza, ma di fatto è questo che accade. Si restringono le opportunità di formazione personale di bambini e ragazzi e questo è un grave danno per tutti.

(da Left n.11 del 18 marzo)

«Sono i miei personaggi a decidere quando tornare in scena». Carlo Lucarelli presenta Intrigo italiano

Carlo Lucarelli, durante il photocall della fiction RAI La Porta Rossa, Roma, 15 febbraio 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

 Scrittori si raccontano al microfono di Radiolibri. Parlano dei loro lavori e dei loro sogni. Delle loro inquietudini e delle loro letture. Interviste molto off e non paludate. Una missione sotto copertura, nell’Italia del 1953. È il tema dell’opera di Carlo Lucarelli, che segna il ritorno in scena del commissario De Luca. Ospitiamo qui l’intervista che ha rilasciato alla web radio RadioLibri (qui nella versione audio)

Intrigo italiano segna il ritorno in libreria dopo quasi vent’anni del commissario Achille De Luca, l’artefice di questo ritorno è ovviamente il suo papà, il suo creatore, Carlo Lucarelli, al quale do il benvenuto al microfono di RadioLibri.

Allora, 20 anni di silenzio non sono pochi. Avevamo lasciato “il nostro” in via delle Oche nel 1996. Che cosa ti ha portato a farlo tornare tra noi?
Non è che l’abbia mai abbandonato eh, perché i personaggi hanno una vita che non è quella dei loro autori. Sono vent’anni, ma in realtà non sono passati vent’anni per De Luca. Sono passati tre anni, tre o quattro anni. Dal ‘48 dove l’ho lasciato al ‘53 dove lo ritroviamo, insomma. Il punto è che ho trovato un’altra storia che lui mi poteva raccontare e quando si sono formate – da una serie di coincidenze – una trama che mi sarebbe piaciuto raccontare, un pezzo d’Italia che mi sarebbe piaciuto vedere e una persona che me la poteva raccontare – che era lui – ecco che lui è arrivato, e me l’ha raccontata.
Hai parlato della trama. Velocissimamente: essendo un noir, non diciamo troppo. Però per gli ascoltatori diamo una breve indicazione. De Luca è a Bologna ovviamente, tra gli anni ‘53 e ‘54, e indaga sull’omicidio di una donna trovata senza vita nel “trappolone”, la garçonnière diciamo del marito, dove l’uomo si comportava da scapolo, sennonché lo stesso marito aveva perso la vita 2 mesi prima. Giusto? Non diciamo altro. Anzi aggiungiamo una cosa: che lui indaga sotto falsa identità con la collaborazione – o su mandato – dei servizi. Ho detto troppo?
No. Questo è il cuore di tutta la vicenda. De Luca che indaga come al solito senza avere il potere di farlo come vorrebbe lui.
Cosa ti ha portato in quegli anni, tra il ‘53 e il ‘54. Sono passati 3-4 da dove avevamo lasciato il protagonista.
Beh sono anni importanti, anni in cui l’Italia sta cercando di darsi un’identità e sono anni di d’identità molto forti. C’è la guerra fredda, quindi “o di qua o di là”, e sono anni confusi in cui ci sono le radici di tante cose che siamo diventati dopo, che siamo anche adesso. E poi sono anni molto molto belli da raccontare. Bologna soprattutto in quegli anni lì era una curiosissima città piena di navigli per esempio, navigabile. Con le lavanderie che lavano i panni in mezzo alla città, una cosa adesso impensabile. Un sacco di neve durante l’inverno, la musica che sentiva canticchiare dappertutto, marce di mondine alla festà dell’Unità. Insomma era una città talmente strana, bella. E quegli anni lì sono anni così, anni che sembrano di fioritura, ma che sotto sotto nascondono tantissimi intrighi.
Infatti, è una Bologna molto musicale, quella che alterna il liscio al Jazz. Che tipo di ricerca c’è proprio dietro a questo libro. Insomma gli anni ‘53 – ‘54 non li hai vissuti tu.
No infatti, sono di un pochino dopo. Ho fatto una ricerca, soprattutto attraverso i settimanali. Ho usato questo sistema. Sono andato a cercarmi tutti i settimanali, giorno per giorno, settimana per settimana, di quello che volevo raccontare. E poi ho cominciato a sfogliarli e da lì ho visto… mi sono documentato meglio sulle notizie che allora la gente riteneva più importanti, che non sono quelle che magari noi col senno di poi, con la storia, abbiamo considerato veramente importanti.
Poi ci sono tantissimi dettagli meravigliosi: le pubblicità, quello che si ascoltava alla radio, il dove si attraversava la strada, con le strisce pedonali naturalmente non c’erano, fino al ‘59 non esistono, quindi la gente saltellava – come vediamo nei film – da un capo all’altro della strada con lo scampanellio dei tram che a momenti li investivano. Ecco, ho cercato di fare questo tipo di ricerca, che è una ricerca soprattutto di gesti quotidiani. Ecco De Luca toglie una mano dalla tasca e prende qualcosa. Cosa? Cosa c’era in un settimanale del 1953 quel giorno lì a Bologna?
Di certo non prende un cellulare, chiaro.
No certo, spero di non aver fatto questi errori.
No assolutamente l’“uomo del mistero” indaga questa volta nel mistero di quello che fu la nostra Italia. Che italia era quella di quegli anni, non soltanto Bologna?
È una Italia che sta cercando di capire, una Italia ancora in guerra, perché è appena iniziata la guerra fredda naturalmente. E una curiosa Italia che si vuole ricostruire, che vuole pensare ad altro, vuole dimenticarsi della guerra, è l’Italia che aspetta il boom economico che in certi posti – come Bologna per esempio – già è quasi arrivato. Però allo stesso tempo è una Italia curiosa, un’Italia che a molti non piace. Vorrebbero cambiarla e siccome non la possono cambiare con mezzi democratici, vorrebbero cambiarla con mezzi sotterranei. Infatti le radici dei cosiddetti misteri italiani – che poi in realtà sono segreti italiani, che a me è capitato di raccontare tante volte – stanno in quegli anni lì, nell’attività di sottogoverno di tanti personaggi che tramano nell’ombra, come succede negli intrighi italiani.
Carlo, il commissario De Luca non è il tuo unico personaggio seriale, ne hai creati diversi: l’ispettore Coliandro, l’ispettore Grazia Negro. Perché così tanti e non soltanto uno. Ognuno di loro rappresenta una parte di te forse?
Questo non lo so, io non la vado a cercare, perché mi interessa poco di raccontare a me stesso. Ognuno di loro è in grado di raccontarmi una storia che altri non potrebbero raccontare. Io ho cominciato con il commissario De Luca, ho scritto i primi due romanzi con lui che viveva nell’Italia dell’immediato dopoguerra, della guerra, eccetera, e poi, quando mi è venuta in mente una storia che potesse raccontare la Bologna della Uno bianca – per esempio -, quella che stavo vivendo negli anni 90, non me la poteva raccontare lui. E allora ecco che è arrivato Coliandro. Poi Bologna ha cominciato a diventare quella più inquieta, strana, di Almost Blue – che è un altro dei miei romanzi – e Coliandro non era in grado di raccontarla, e De Luca era troppo vecchio. Perciò è arrivata Grazia Negri. E così via. Ho raccontato l’Italia coloniale ed è arrivato il capitano Colaprico con il suo assistente Ogba, e così via. Tutte le volte che mi viene in mente un’idea io mi chiedo: chi me la racconta questa? Ecco, poi si rimane più affezionati ovviamente ad alcuni personaggi rispetto ad altri. Alcuni personaggi hanno una vita, Coliandro è diventato un personaggio televisivo – lo dico senza senza rimpianto – nel senso che vive lì soprattutto. De Luca invece è ancora quello lì, che mi racconta quell’Italia lì, un po’ vecchia, che però è sempre quella di oggi.
Quindi non ti senti un infedele.
No, non mi sono ancora sposato con nessuno dei miei personaggi (ride). Sono persone che incontrò. Come quando prendi il treno e tutte le mattine incontri un tizio che ti racconta una cosa. Poi magari la sera sei da un’altra parte e parli con altre persone.
Infatti tu in diverse interviste – anche recentemente – hai detto che i tuoi personaggi vivono in qualche modo di una vita propria, prendono loro sopravvento quando cominci a scrivere
Sì, questo lo dicono in molti scrittori ed è vero, perché magari cominci con un’idea… avevo un’idea per questo romanzo, pensavo che De Luca avrebbe fatto alcune cose, poi mi sono accorto che se ne chiedeva di altre. Si è innamorato – per dire – che è una cosa che non mi sarei mai aspettato quando ho cominciato a scrivere il romanzo, ed è diventato un pezzo importante dello svolgimento della storia, che ovviamente non dico, però è stata una sorpresa ad un certo punto vedere che ansimava e aveva i rossori da adolescente quel personaggio lì. Mi ha molto colpito.
Quindi non posso dire di chi si innamora.
No. Oddio, o forse si.
No vabbè ormai mi ha detto di no, quindi non vado oltre. Il titolo Intrigo italiano richiama un po’ “intrigo internazionale”. È un richiamo voluto?
Sì, perché all’inizio lo avevo pensato come “Intrigo internazionale”, poi mi sono accorto che non è vero, molte delle cose che succedono in Italia succedono per motivi molto italiani. E questo è un intrigo veramente tutto italiano. I soggetti sono anche i servizi segreti, sono tutti lì con degli interessi che sono interessi nazionali.
Per gli ascoltatori che ancora non l’hanno letto, il libro, De Luca indaga – l’abbiamo detto poco fa – sull’omicidio di una donna il cui marito è morto da pochi mesi e lo fa sotto falsa identità insieme ai servizi. Ci deve essere sempre il mistero in qualche modo nei tuoi libri, vero?
Certo si, è la cosa che mi piace di più raccontare.
C’è un mistero nella storia internazionale di cronaca – ovviamente – che vorresti indagare e soprattutto comprendere e portare alla luce, alla verità
Internazionale non so, nazionale ce ne sono tanti, ne abbiamo raccontato tanti, di misteri. Mi hanno insegnato a parlare di segreti e non di misteri, anche se a me piace di più la parola mistero. Però sono segreti, nel senso che la verità c’è da qualche parte, sta in un cassetto e molte volte lo sappiamo già anche noi. Solo che non si può dire proprio fino in fondo, perché ci mancano le carte giudiziarie. E a livello nazionale io ho sempre scelto Bologna (come caso che vorrei portare alla luce nda), la strage di Bologna. Vorrei sapere chi sono i mandanti, e perché c’è stato il depistaggio. E perché è stata fatta quella strage lì. Siamo negli anni 80, il 2 agosto 1980. È una scelta perché anche gli altri misteri sono altrettanto importanti. A livello internazionale vorrei sapere se veramente – come è girato su internet e come abbiamo raccontato scherzando anche noi una volta – se veramente Elvis Presley uccise Kennedy. È una teoria che gira. Ovviamente è una cosa pazzesca. Però voglio dire, il mistero di Kennedy… sapere esattamente cosa è successo scioglierebbe molti dei misteri anche successivi. Perchè l’importante dei misteri è capire i meccanismi, non tanto “chi è stato”. Quando capisci il meccanismo capisci che può essere riprodotto.
Perché come dici tu, spesso si intuiscono le cose, ma non si hanno le carte giudiziarie per provarlo.
Questo è il problema. Ho raccontato tanti misteri in televisione e non sai quanta roba c’è che avrei voluto dire e che non ho potuto dire.

Intanto però, è un dato di fatto, si può leggere, se ne può parlare, si può dire: Intrigo italiano, edito da Einaudi, è il nuovo romanzo di Carlo Lucarelli con protagonista il commissario De Luca.

 

 

Francesco Troccoli: «Da Gozzano a Calvino maestri di fantascienza umanista»

Italo Cavino

In Italia la fantascienza ha avuto grandi scrittori, per esempio Primo Levi, ma la sua narrativa in questo ambito è stata considerata minore. Come leggere oggi questa miopia della critica? «Levi, chimico, definì la separazione fra cultura scientifica e umanistica “schisi innaturale”. Agli albori della fantascienza moderna si parlava di “romanzo scientifico” e l’espressione science fiction ha mantenuto la connotazione», racconta Francesco Troccoli, appassionato lettore di Levi e a sua volta autore di romanzi di fantascienza, come la saga dell’Universo insonne, trilogia composta da Ferro Sette e Falsi dèi usciti per Armando Curcio e Mondi senza tempo pubblicato con Delos.
«Da un lato, gli argomenti della scienza interessano meno di quelli della storia, dell’attualità, della cronaca sociale; dall’altro, la fantascienza si rivolge a lettori in grado di “accettarla”: la sospensione dell’incredulità è un esercizio impegnativo – sottolinea Troccoli -. Forse fu per questo che Storie naturali di Levi fu pubblicato sotto pseudonimo. Come poteva l’autore di Se questo è un uomo scherzare con le leggi di natura? Alla base del progresso scientifico ci sono sempre state intuizioni geniali, frutto della fantasia dell’osservatore più che della razionalità catalogatrice. A volte queste intuizioni diventano scoperte, a volte racconti. Sfatiamo il mito che la fantascienza sia evasione dalla realtà: in effetti ne è interpretazione, trasformazione e arricchimento. Non a caso Levi la riteneva tutt’altro che scissa dalla sua terribile storia. Rispetto allo scienziato-scrittore di FS più fortuna ha avuto il letterato-scrittore di FS: la fantascienza di Italo Calvino è ben più nota. Eppure, le storie di Levi non sono meno umaniste di quelle di Calvino.
Guido Gozzano è stato un grande scrittore di fantascienza ma pochi lo sanno, perché è considerato quasi soltanto uno scrittore crepuscolare?
A cavallo fra ’800 e ’900 l’esplorazione del fantastico era connaturata all’esercizio della narrazione. Capuana, Verga, Svevo, Tozzi, Gozzano e tanti altri, non hanno disdegnato l’appartenenza a un filone che ha poco da invidiare a Kafka, Poe, Hoffmann. È una “scienza” diversa da quella del positivismo di matrice illuministica, una maniera originale di esplorare l’inconscio, con le difficoltà, ma anche le straordinarie intuizioni, di una simile ricerca. Fra l’ Unità d’Italia e Prima guerra mondiale questi temi erano trasversali e “normali” per chi scriveva. Forse oggi questa tensione, quest’attitudine alla ricerca interiore, si è un po’ persa. Raccontare di fantasmi, maledizioni o arzigogolati marchingegni era normale, era un modo per tentare di capire l’umano, perché se una storia non è “strana” (weird), irrazionale, se non apre prospettive diverse, a volte inquietanti, che storia è? Questa è la potenza di quel che oggi ci ostiniamo a chiamare “genere” con un accanimento che è soltanto editoriale. Applicando i criteri di genere, dovremmo includere la Divina Commedia nell’horror, l’Odissea nel fantasy e l’Orlando Furioso nella fantascienza. E che altro sono Il visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente se non romanzi fantastici?
La tradizione anglosassone ha conosciuto numerosi capolavori. Autori come Huxley oggi vengono riscoperti anche in Italia, per via indiretta, attraverso i libri illustrati degli anni trenta o le canzoni di David Bowie. Che ne pensi?
La fantascienza deve rivolgersi a tutti. Esplora la realtà dell’essere umano in un modo che non ha eguali. Quella moderna inizia con J. Verne e H. G. Wells, che ha inaugurato quel filone sociologico, che fa della fantascienza uno strumento elettivo di analisi dei drammi del ’900, con la letteratura della distopia, da Huxley a Orwell. Oggi questa valenza sociologica, umanistica, si è affievolita e, per ritrovarla, bisogna guardare al passato. All’indomani dell’elezione di Trump, chi non ha pensato a 1984? Nella fase finale della “Golden age”, la fantascienza guardava alla conquista dello spazio e, nonostante il terrore nucleare, nutriva grande fiducia nell’essere mano. Un racconto di Clarke diventava un caposaldo del cinema come 2001: odissea nello spazio, nel quale, pur nella visione razionalista dell’origine dell’umanità, c’è l’apertura a una ricerca interiore. Nell’esplorazione del Cosmo sembravano aleggiare gli echi della filosofia di Giordano Bruno. Basti pensare a Isaac Asimov. Con il ’68 sono arrivate le donne, Ursula K. Le Guin fra tutte, e la valenza umanista della narrazione di genere ha trovato nuova linfa. Sono gli anni in cui il genere ha iniziato a definirsi in quanto tale, ma forse anche a chiudersi, diventando una nicchia inizialmente ampia, oggi drammaticamente ridotta. Nelle arti visive, nel cinema, la fantascienza, spesso sotto mentite spoglie, riesce ancora a parlare a tutti. Ma bisogna essere David Bowie o i Muse; Stanley Kubrick o Cristopher Nolan.
L’incontro fra scienza e romanzo conosce oggi un filone che va da Solar di McEwan a Bruno Arpaia in Italia, una fantascienza piuttosto catastrofista. Qual è la radice? Dietro a una sincera preoccupazione per l’ambiente si nasconde una visione apocalittica?
Fino alla caduta del Muro di Berlino, il catastrofismo ruotava intorno all’olocausto nucleare. Poi siamo passati all’apocalisse ecologica. Non si può negare che ambientazioni simili abbiano effetto ammonitore, e il romanzo di Arpaia fa riflettere sui flussi migratori di oggi. Raccontare drammi è facile, difficile è inventare storie che non sfocino nel fallimento, individuale o collettivo. E che il fallimento sistematico sia vocazione di una cultura plurimillenaria di matrice religiosa è indubbio. Ma il positivismo non è da meno: secondo la Psicologia delle folle, quando cadono la legge e la morale (per una guerra nucleare o uno tsunami climatico) la collettività regredirebbe a uno stato bestiale, lasciando emergere il fatidico homo homini lupus. Ne La strada di Cormac McCarthy gli esseri umani, distrutta la società organizzata, “tornano” alla loro natura di feroci bestie antropofaghe. È questa visione freudiana che nega l’umanità, la sanità della nascita, e offre la sponda all’alienazione religiosa, che secondo me una vera fantascienza “umanista” deve rifiutare. La nostra visione dell’essere umano influenza il nostro futuro di esseri umani. Il genere fantascientifico ha responsabilità culturali enormi.
Come è l’idea di misurarsi con una saga?
Era il 2009. Nella multinazionale per cui avevo lavorato fino ad allora ero un ingranaggio di un sistema spersonalizzante, nel quale l’identità di una persona è definita da numeri: fatturato, quota di mercato, salario, ore di produttività. Poiché il nostro pianeta è un sistema chiuso e il nostro modello economico ormai unico non può rinunciare all’espansione, da appassionato di fantascienza mi chiesi dove, in futuro, si sarebbero potute reperire le risorse per un’ulteriore “crescita”. La risposta era ovvia: all’interno del sistema stesso. Ogni individuo ha una riserva ancora integra, che ammonta in media a otto ore per notte. Applicando gli opportuni fattori di conversione, è una ricchezza consistente. Bisogna solo farne una cosa “utile” che produca un “utile”.
Nel mondo di Ferro sette, le persone lavorano senza sosta al punto che hanno dimenticato cosa sia il sonno, e dunque sognare. Ti rubo una domanda che tu stesso provocatoriamente poni: ti sembra fantascienza?
Proprio su Left, nel 2015 lessi di 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, di Jonathan Crary. Vi si legge: “Aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, è il mantra del capitalismo contemporaneo, l’ideale perverso di una vita senza pause (…) in una sorta di veglia globale”. Nei miei romanzi il sonno inizia a essere ridotto per ragioni economiche e militari, poi viene combattuto alla stregua di una malattia e infine sparisce dalla nostra stessa evoluzione. La prima fase si sta verificando già oggi, con esperimenti militari di deprivazione del sonno. Nel mio Universo Insonne la perdita di questa funzione biologica allude allo smarrimento del lato irrazionale, inconscio, creativo, degli esseri umani. Nel mio mondo immaginario arte, letteratura, sogno, fantasia, sono parole estinte oppure orfane del loro significato d’origine; i rapporti umani sono gerarchici e di sfruttamento. A tutto questo un uomo, che conosce la storia umana, si ribella. In molti, spontaneamente, lo seguono. Quest’uomo parla dell’importanza delle cose “inutili”, delle azioni e dei pensieri che non obbediscano alla logica della razionalità e della soddisfazione dei bisogni materiali. Quest’uomo ha scoperto la verità della natura umana. Anche questo a me sembra tutt’altro che fantascienza…
La Repubblica dei sogni a suo modo è un libro “sovversivo…
La Repubblica dei sogni è il coronamento ideale di questa ribellione. Un’utopia fantascientifica a misura d’uomo. E di donna. Un’enclave di ribelli ormai vittoriosi, che hanno fatto propria l’identità di quell’uomo, personalizzandola, trasformandola nella propria, uguale ma diversa. Il contrario de La Maschera della morte rossa di Poe. Una storia di realizzazione, una storia che non sfocia nel fallimento.

Darwin e la religione cattolica, ritratto di un eretico cortese

Charles Darwin era credente? Il padre della Teoria dell’evoluzione era ateo, agnostico o forse teista? «Io mi ritengo agnostico ma in fondo sono agnostico anche nei confronti del mio stesso agnosticismo», rispondeva l’autore de L’Origine delle specie agli interlocutori di fede cattolica che lo incalzavano sull’argomento tentando di evidenziare qualche sua contraddizione anche quando ormai si trovava nel pieno della sua maturità di ricercatore naturalista, avendo pubblicato almeno il libro che ha cambiato il corso della storia delle scienze naturali e assestato un duro colpo alla teoria creazionista.

Si era nella seconda metà dell’Ottocento, nell’Inghilterra vittoriana. Ma l’ipotesi di un Darwin credente o addirittura convertito in punto di morte è fonte di dibattito ancora oggi. «L’argomento – spiega a Cronache Laiche, l’epistemologo Telmo Pievani, docente di filosofia della biologia all’Università di Padova – suscita da sempre grande attenzione, come se dalla risposta a queste domande dipendesse la compatibilità tra la visione evoluzionistica e le prospettive di fede». Per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio ma pure per impedire le consuete strumentalizzazioni da parte dei fautori del Disegno intelligente che vorrebbero inserire la Teoria dell’evoluzione, appunto, in un “progetto” più ampio per sminuirne la portata, Pievani ha selezionato 32 documenti autografi che Einaudi ha ora pubblicato in un prezioso volumetto dal titolo “Charles Darwin. Lettere sulla religione”. Spaziando dalle conversazioni con gli amici Asa Gray (botanico americano) e Joseph Hooker (all’epoca vice direttore dei Kew gardens) a quelle con il vecchio parroco di Down, le trentadue lettere raccolte da Pievani, in larga misura inedite, svelano le riflessioni più intime del naturalista inglese, che, con il piglio sincero e intimo di una confessione, racconta quali furono i suoi pensieri su teismo e agnosticismo. Pensieri che da tormentati quali erano nei primi anni Cinquanta, divennero sempre più improntati al rifiuto della religione man mano che Darwin approfondiva la propria ricerca scientifica. «Mi duole dovervi informare che non credo nella Bibbia come rivelazione divina, e pertanto nemmeno in Gesù Cristo come figlio di Dio» scrive il 24 novembre 1880, due anni prima di morire (all’età di 73 anni), all’uomo di legge Frederick McDermott.

coverdarw«Tutti hanno sempre citato due o tre lettere, sulle migliaia che lui ha scritto, per insinuare che fosse un credente – prosegue Pievani -. Ora quasi tutta la sua corrispondenza è online, messa a disposizione dalla Cambridge University library. Da qui ho selezionato le lettere più famose in cui Darwin parla di questi argomenti, dotandole di un apparato critico che tratteggi bene tutti i personaggi coinvolti nel carteggio». Si tratta in pratica della prima traduzione italiana – curata da Isabella Blum, autrice anche delle note – seria e rigorosa. Non manca quindi anche il famosissimo passaggio in cui il padre della teoria evoluzionista parla di “designed laws” (leggi progettate). «In America – osserva Pievani – questa frase è stata spesso strumentalizzata dai fan dell’Intelligent design. Andando a vedere bene di cosa si tratta, emerge come Asa Gray cerchi di spingerlo verso una ipotesi teistica. Provando a convincere Darwin che in fondo gli scienziati studiano le leggi secondarie ma la causa prima che ha prodotto tutto non è attingibile alla scienza, come già diceva Galileo. E allora, insinua Gray, perché non accettare l’idea che quelle leggi prime siano state progettate da qualcuno?».

E qual è stata la reazione di Darwin? «All’inizio, siamo a fine anni Cinquanta, prende tempo, tergiversa. Addirittura sembra dare un po’ di credito all’ipotesi dell’amico Gray. Ma poi la sua conclusione è che tali questioni metafisiche siano inattingibili a una seria indagine scientifica. E si definisce agnostico. Lui è soprattutto impressionato dal tema del male, dall’insensatezza dell’evoluzione, della selezione naturale, dalla sua violenza, dalla mancanza di qualsiasi misericordia. E questo argomento forte, quello del “cappellano del diavolo” come lo chiama lui, lo porta a un agnosticismo più integrale. E dice no: applicando la razionalità scientifica alle indagini empiriche non riesce in alcun modo darsi una risposta degna di questo nome al tema dell’esistenza di un’entità sovrannaturale. Quello di Dio in sostanza è un problema che non si pone. Non lo nega per via scientifica, non arriva mai a una posizione ateistica, ma rimane fino alla fine dei suoi giorni su una posizione agnostica integrale».

Nonostante i tentativi di tirarlo per la giacchetta da parte degli amici credenti, Darwin è stato sempre scettico nei confronti del pensiero religioso. «Lui si mette in continua discussione. Secondo me è una versione ante litteram di quello che oggi si chiama naturalismo metodologico. Lo scienziato indaga la natura attraverso gli strumenti della ragione, dell’empiria, dell’esperimento. Questi strumenti non permettono di dare alcun tipo di risposta su problemi le cui domande sono impostate in maniera del tutto trascendente a questo tipo di indagine. Per cui sull’esistenza di Dio non si esprime». Nelle sei edizioni de L’origine delle specie non mancano però le citazioni del “creatore”. «Queste citazioni sono in gran parte negative. Darwin le utilizza perché fa riferimento alla dottrina delle creazioni speciali che lui vuole confutare. È pur vero che ce ne sono 5-6 in cui lui inserisce una sorta di premessa di circostanza di tipo teistico, che gli serve per poter dire: “Ammesso che Dio abbia dato inizio a tutto il processo dell’evoluzione, le leggi che io sto indagando sono queste….”. Ce ne è traccia anche nelle lettere con Grey il quale gli suggerisce di lasciare aperta una porta di possibile compatibilità della teoria dell’evoluzione con la fede religiosa. Lui vive tutto questo tormento che emerge dal carteggio e poi approda in una dimensione di scetticismo radicale, di scetticismo scientifico. Infatti alcune di queste citazioni nell’ultima edizione de L’origine non ci sono più». Sono gli anni finali della vita di Darwin, quelli in cui appare sempre più nitida la convinzione che fede e scienza non possano dialogare. «Darwin rimarca più volte la distinzione tra pensiero religioso e metodo scientifico. In una lettera afferma che l’Origine delle specie è un trattato che non ha nulla da dire sulla teologia. In realtà non è del tutto vero, perché l’Origine distrugge la teologia naturale che era un punto fondamentale della riflessione teologica in quegli anni».

Per comprendere a fondo il percorso interiore di Darwin non si può infine ignorare il contesto familiare in cui è nato, cresciuto e vissuto. «Guardando a ciò che scrive si vede benissimo che ha ereditato il suo scetticismo in particolare dal padre, profondamente laico, e dal nonno libertino e anticlericale. C’è poi la famiglia materna che aveva una religiosità unitariana molto aperta, molto progressista e interessata agli sviluppi tecnologici. A mio avviso – aggiunge Pievani – in questo senso è lui stesso un progressista poiché non cade mai in atteggiamenti ateistici militanti o anticlericali. Molti dicono per via dell’influenza della moglie, che era credente. Secondo me la risposta non sta solo nel rapporto con Emma. Lei non corrisponde affatto allo stereotipo della donna bigotta. È al contrario molto intelligente e colta, indipendente».

Questo è il punto di partenza. Poi c’è il suo travaglio personale. «Lui per esempio dice di avere rinunciato a qualsiasi religione rivelata nel periodo compreso tra la morte del padre e quella tragica della figlia Annie. Sono gli eventi che segnano questa traiettoria: da quel momento in poi si definisce non credente». Però continua a partecipare alla vita parrocchiale. «Darwin riteneva che la vita religiosa fosse un modo per sostenere le comunità sociali. Oggi diremmo per garantire un welfare locale. Lui finanzia, aiuta, tiene i conti della parrocchia, per alcuni anni fa il giudice di pace. Smette di andare alle funzioni religiose ma continua a partecipare alla vita della comunità che lo circonda».

Valelapena ascoltare il nuovo Roy Paci

In Salento, dove ha scelto di vivere, Roy Paci coltiva un orto di 5mila metri quadri, alternando il lavoro della terra allo studio dello strumento, che “coltiva” da 35 anni: la tromba. Chiacchieriamo del Sud, del suo essere spesso in viaggio per il mondo, della gente che incontra e di quella di cui si innamora. Mentre ci offre qualche anticipazione del prossimo album, Valelapena, che uscirà il 29 settembre, il settimo con il variegato gruppo con cui suona da 20 anni, gli Aretuska, quelli della trascinante “Toda Joia Toda Beleza”. «L’idea nacque, ammetto, un po’ per gioco, per suonare nella mia Sicilia. Adesso non ci sono solo i miei amici “conterronei”, ma musicisti non solo italiani. Non è cambiata la voglia di suonare, sperimentare e divertirci. Il progetto Aretuska lo immagino come il lievito madre: se uno lo sa tenere fresco, lo può far durare anche 50 anni». L’album è anticipato dal singolo “Tira”, scritto dall’amico Daniele Silvestri, con un video dal taglio cinematografico, diretto da Cosimo Alemà, ambientato nello spazio dell’ex Mira Lanza, il complesso industriale romano che chiuse alla fine degli anni Cinquanta. Oggi è un museo a cielo aperto dove ora campeggiano opere dell’artista francese Seth. Paci, Alemà e Antonelli hanno scritto un testo per presentare il nuovo lavoro, che nasce da un miscuglio di persone, idee, stimoli e colori così come è la musica di Paci & Aretuska, che non si lascia imbrigliare in un unico genere. Tra i pomodori da raccogliere, la terra da annaffiare e una tromba che attende di essere suonata, intanto Paci & Co. girano l’Italia (il 16 agosto, in particolare sarà a Trepuzzi, nel leccese, per Bande al Sud): «Per gli afecionados e per chi non lo è, per dare segnali di vita dopo questi anni passati in tour, frammentati dalle registrazioni in studio, fuori dal circuito», racconta Rosario, in arte Roy.
Hai presentato il nuovo brano parlando dell’importanza della collettività, come somma di menti e talenti diversi. Così le idee diventano sempre più chiare e prendono forma. Un incontro che diventa ricchezza nella vita e nella musica?
Il senso di condivisione caratterizza la mia vita sul palco e non. Fin dall’inizio, l’ho considerato come casa mia, senza pareti che dividono, come uno spazio da condividere. Immagino di invitare gente, di far entrare le persone, chiunque siano: conosciuti o meno. Amo confrontarmi col pubblico.
Il regista del video, che ha scelto l’ex Mira Lanza come set, racconta che era il luogo ideale per la tua musica, frutto di un’urgenza, di un percorso, dell’alchimia di passioni di molte persone. Nel video ci sono due persone antagoniste, che provano a cercare un confronto, che poi è un po’ il senso di quello spazio riadattato.
Non lo conoscevo e sono rimasto colpito da quello che ho trovato lì, da come è stata ideato: una fondazione di folli (ride), un’originalità assoluta. Una realtà sorprendente, realizzata da italiani in collaborazione con i rom: sono nuclei di persone con la voglia di uscire fuori dall’occhio di bue. Il singolo “Tira” è stato scritto da Silvestri. Avrai altre collaborazioni?
Sì, collaborazioni con persone non necessariamente conosciute, che incontro nel mondo, che trovo per qualche motivo geniali. Mi innamoro del talento del musicista, ma anche della parte umana perché condividiamo non solo il palco, ma il dopo concerto, il cibo insieme.
Un’anticipazione?
Restando in tema, sarà un menù vario, con tutti gli ingredienti ricercati nel tempo. Dall’ultimo album ne è passato assai, ho avuto la possibilità di far sì che i musicisti andassero alla ricerca, ciascuno per la propria strada, di qualcosa che li sorprendesse per poi portarlo in studio. Ho fatto lo chef, spero con saggezza. Questa bella ricetta è stata cucinata da un produttore come Dani Castelar. A lui ho chiesto che questo disco non suonasse come in passato; volevo, cercavo un produttore che non si occupasse del mio genere, che poi io neanche so che genere faccio, anzi mi dà fastidio quando mi etichettano. Quella degli Aretuska è una mistura.
Tu parli di condivisione, Alemà incita a non arrendersi mai, Antonelli mostra con lo spazio ex Mira Lanza che dalle rovine, si può ripartire. In questo momento, invece, in Italia c’è molta chiusura, si parla di impedire l’accesso agli immigrati. Dove stiamo andando?
Ho una visione completamente diversa da quello che è in questo momento esprime la politica del nostro Paese. Le frontiere che abbiamo sono effimere. Sento di appartenere al mio territorio, alla Sicilia, alle tradizioni, ma non ho mai pensato che l’Italia avesse dei confini: è un pensiero che mi fa ribrezzo. La mia compagna lavora per una Ong e a me è capitato, a Lampedusa, in Sicilia, di vedere da vicino gli sbarchi. Invece di portare i bambini a Disneyland, dovrebbero portarli agli sbarchi per fargli incontrare ragazzini come loro, dovremmo vedere cosa provano. Capiremmo che siamo tutti esseri umani.

François Jullien racconta la Cina: «Una cultura libera dalla metafisica»

Riesce a farci vedere l’invisibile, il latente del pensiero occidentale mettendolo a confronto con quello orientale. Con libri, come Essere o vivere (Feltrinelli) François Jullien ci mostra lo scarto, la distanza, la radicale differenza che c’è fra la visione cinese (taoista e confuciana) e quella occidentale fondata sul Logos greco e sul cristianesimo. A cominciare dall’ateismo che connota la cultura cinese. Dopo aver mostrato quanto sia graniticamente astratta l’idea di bello ideale di matrice greca e perdente una cultura come quella Occidentale basata sull’idea di conquista e di possesso, mettendola a confronto con la silenziosa e duttile onda dell’invasione cinese in Europa, il filosofo e sinologo francese ora torna a esplorare la dimensione dell’intimità e della relazione uomo donna con un nuovo saggio Accanto a lei (Près d’elle) edito da Mimesis di cui il professore ha parlato a Tempo di libri, a Milano. Un passo del Principe splendente (Genji monogatari), il romanzo scritto da Murasaki Shikibu, dama di corte nel XI secolo ci offre uno spunto per addentrarci in questo tema.
«Attraverso una breccia della recinzione si percepiscono i riflessi dello stagno. Il viaggiatore si siede in mezzo ai crisantemi dai colori ravvivati dalla brina ed estrae un flauto dal dorso della manica. Da qualche parte, in casa, una cetra inizia ad accompagnare il flauto, rivelando il gioco delicato di una mano femminile che proviene da dietro la cortina, sotto lo scintillare della luna», scrive Jullien in Accanto a lei.
Il Genji monogatari ci parla di una intima risonanza fra uomo e donna, da un altrove. Cosa vi legge?
Il Giappone, con le sue architetture, le penombre negli interni delle case, ha raffinato quest’arte di una presenza discreta, filtrata, per evitare che la presenza si opacizzi, si banalizzi, si isterilisca. Bambù, tendine, paraventi, di seta o di carta, porte scorrevoli, tramezzi mobili o cortine abbassate o le maniche levate davanti alla bocca che lasciano appena intravvedere il volto, filtrano la presenza, la disciolgono in un’atmosfera, invece di individuarla in modo netto. La cultura letteraria giapponese ha saputo descrivere molto bene la possibilità di un accesso obliquo che preserva dalla brutalità, dall’aggressività di un faccia a faccia troppo smaccato. L’esteriorità che la Cina e il Giappone offrono all’Europa, al suo pensiero, permette di costituire un vis-à-vis: l’altrove non è l’utopia che rassicura, che si vagheggia, bensì un’eterotopia – un “luogo altro” – che al tempo stesso inquieta e permette di sondare il proprio intimo. La presenza che si sente giungere attraverso un fruscio di seta, nelle parole che ci si scambia anche nella lontananza, viene riattivata, ravvivata. Alla forza, spesso violenta, della presenza piena, totalmente dispiegata, preferisco una presenza furtiva, colta di nascosto, o di sfuggita.
Nel suo nuovo libro lei parla di «tra» (entre), «scarto» (écart), «intimo» (intime). Nel Tao lo yin e lo yang sono complementari, la relazione con il femminile si definisce in relazione al maschile e viceversa. Vi si può leggere una visione diversa da quella occidentale dove la supremazia maschile si è affermata negando o addirittura annullando la donna?
In questo piccolo testo ho cercato di portare avanti l’indagine sull’alterità personale, quella legata all’intimo del soggetto, e che fa da pendant alle mie ricerche sull’alterità culturale. In questo senso si può attivare la saggezza cinese che lega in un movimento costante lo yin e lo yang, senza supremazia dell’uno sull’altro, o dell’uno sull’altra. Nella misura in cui penso all’Altra, mi distacco da me, tuttavia resto sempre in me stesso; il pensiero dell’Altra, il pensiero rivolto all’Altra, evolve in accordo con me – e viceversa, ciò vale anche al contrario, in modo complementare. Quando invece ci guardiamo, quando i suoi occhi iniziano a posarsi su di me e i miei su di lei, accade qualcosa di radicalmente nuovo, ogni volta inedito, che richiede un’inventiva – lì nulla è già giocato, quel che sembrava già scritto o previsto deve allora essere improvvisato. Accade un vacillamento tale per cui io non appartengo più a me stesso; quel vacillamento avviene in modo non cosciente, nell’«intimo». Finché questa tensione è attiva, la presenza è effettiva e non si isterilisce. Non appena la tensione non scorre più tra l’uno e l’altra e ciascuno si isola, si suppone autonomo nella sua individualità, allora la presenza affonda e diviene «opaca». La presenza si attiva perché vi è un «tra» che si è aperto tra di noi: «c’è un tra fra di noi», direi per celebrare un legame intimo – che si tratti di «amore» o di «amicizia».
La razionalità occidentale è monocratica. Ulisse si vanta astuzia, “metis”. Ma questo approccio competitivo si dimostra alla fine miope, inefficace?
Forse Ulisse è proprio il primo filosofo, l’Ulisse dell’Odissea che andando alla deriva erra da un luogo all’altro, prima di rientrare in patria. Se ci si sa mantenere vitali, strategicamente, si riesce a coltivare l’efficacia senza consumarsi, come insegna il macellaio Ding descritto nel libro taoista Zhuangzi, il quale taglia le carni da anni senza mai dover affilare il coltello – perché non rompe le ossa e non “forza” alcunché. La logica della competizione, anche se appare eroica e ostenta successi, alla lunga invece si consuma, e consuma cui la segue.
Come legge oggi “la trasformazione silenziosa” dell’Europa compiuta da immigrati cinesi sette anni dopo il suo omonimo libro?
Ogni volta che scendo per strada, a Parigi, penso che all’inizio nessuno si accorgeva dell’arrivo dei migranti cinesi; poi, d’un tratto, ci si è resi conto del fatto che le strade era piene di insegne cinesi. È stata una vera e propria “trasformazione silenziosa”. Ora mi diverto a leggere i nomi dei ristoranti cinesi del mio quartiere: alla lettera, dicono «In piena fioritura» (Xincheng); oppure «Espansione-sviluppo-profitto» (Xinfali); o riprendono le prime parole dell’Yijing, il Classico dei mutamenti: «Capacità iniziatrice – sviluppo» (Qianheng). Ma poi le stesse insegne, in francese, dicono: «Delizie asiatiche», «Delizie Express», o «Chez Tonny»… Non si fa nessuno sforzo per tradurre; le rubriche cinese ed europea restano parallele, senza comunicare. Sovrapposte l’una all’altra, le due si ignorano. Facendo finta di assumere la lingua dell’altro, si finisce per ripiegare la coerenza su se stessa e la si richiude. Viene fissata in un fondo ineffabile, invece di dischiuderla. Il pericolo è che si faccia così a livello globale: che non si traduca mai davvero. Si sovrappongono codici diversi, occultandoli. Ciò significa che sotto uno strato occidentalizzato si ricostituisce uno strato identitario, autoctono, che si indurisce molto più di quanto si lasci penetrare dall’altro e si isola. Al riparo di quelle affissioni esteriori che fanno credere a un comune nato dall’integrazione, quel “dentro” che non lascia accedere a una comprensione effettiva riemerge d’un colpo all’insegna dei cosiddetti «valori asiatici»; e questi, come oggi lo si può constatare in Cina, pretendono di essere (o finiscono per credere di essere) assolutamente specifici, astorici, qualcosa a cui gli stranieri non possono accedere.
Diversamente dalla nostra, la cultura cinese non è basata su una trascendenza?
Il pensiero cinese – definisco così il pensiero che si dà attraverso la lingua cinese, pur essendo consapevolezza della pluralità che la Cina ha conosciuto nella sua storia – non ha sviluppato un interesse verso ciò che noi chiamiamo metafisica; non ha avuto bisogno né di porre Dio come «causa» del mondo, né di porre la Libertà come «causa» della volontà del soggetto. Entrare in contatto con il pensiero cinese significa apprendere a pensare in termini di “propensione” e non più di causalità. Significa cioè rovesciare la chiarezza data da una «scomposizione» in elementi di base, abbandonare la chiarezza dell’essere e della sua costruzione, per sposare invece una logica della immanenza e della correlazione, una logica del processo. Bisogna comprendere che il “processuale” va distinto radicalmente da ciò che abbiamo in genere concepito sotto la figura del divenire. La propensione allude a un dispiegamento che non è messo a rischio da alcuna perdita né è segnato da alcuna vocazione finalistica, teleologica: è un dispiegarsi che è orientato dal modo in cui la situazione pende, che ne segue l’inclinazione, e in tal modo produce il rinnovamento continuo di quel regime di immanenza dei processi naturali, senza postulare un al di là metafisico.
Pensando al suo Vivere di paesaggio in uscita a maggio per Mimesis, perché il pensiero del paesaggio, a differenza di quello del giardino, è stato ignorato nella Bibbia, in India così come nell’Islam?
Spiegare perché nella Bibbia, in India o nella tradizione islamica è stato ignorato il pensiero del paesaggio richiederebbe la scrittura di altrettanti libri, e le competenze di un biblista, di un indologo e di un islamologo. Ciò che si può dire, a partire dall’esame della cultura cinese e di quella rinascimentale europea, è che in quelle culture non appare un’attenzione analoga a tale soggetto. In Europa la coscienza del paesaggio è apparsa nella pittura del Rinascimento, e dopo alterne vicende riappare oggi, nella preoccupazione dell’ambiente e dell’ecologia. In Cina il pensiero del paesaggio è nato più di mille anni prima e si è sviluppato senza interruzione nella cultura dei letterati. La lingua cinese, per dire ciò che noi europei intendiamo con “paesaggio”, dice «montagna-acqua», shanshui 山水; o «montagna-fiume», shanchuan 山川. Il termine è antico ma vale anche oggi, nel cinese moderno: i cinesi non si sono interrogati più di noi sul termine «paesaggio». Ma lì il paesaggio non è pensato come una porzione di Paese offerta alla vista di un osservatore, bensì come una correlazione tra opposti, le «montagne» e le «acque», il verticale e l’orizzontale, che al tempo stesso si oppongono e si rispondono. Invece di «paesaggio», come termine unitario, la Cina dice un gioco di interazioni tra fattori contrari che si correlano. All’opposto del monopolio della vista, la cultura cinese esprime la polarità secondo la quale il mondo si dispiega.
La pittura di paesaggio in Cina ha una tradizione millenaria, molto variata ed evocativa. Possiamo leggervi una diversa concezione dello spazio rispetto a quella Occidentale che lo ingabbia nella prospettiva rinascimentale?
In Cina la pittura dei letterati, ad inchiostro, è essenzialmente un’esperienza esplorativa, non soltanto visiva, che coinvolge la totalità dei sensi. È un’esperienza di ambientamento, nel senso che il pittore si fa tutt’uno con il paesaggio, con il mondo che lo circonda e vi si trova a suo agio; si riconosce in esso, attraverso di esso. Il paesaggio non resta esteriore, estraneo al pittore, ma l’uno e l’altro si compenetrano, si completano. La logica sottesa è una logica respiratoria, non geometrizzante. La prospettiva rinascimentale ha permesso di “inquadrare” il mondo, letteralmente, organizzando la logica di conoscenza che ipotizza un “raggio” ottico, da soggetto ad oggetto, secondo cui il secondo viene (com)preso dal primo; quella logica ha poi portato alla rivoluzione scientifica nell’Europa del Seicento. Diversamente, la logica sottesa alla pittura cinese è una logica di connivenza, secondo cui si tratta di entrare in comunione con l’energia vitale, con il soffio rigenerante del paesaggio: questo non è quindi un “oggetto” della pittura, non è tanto qualcosa da rappresentare – di riportare alla presenza, o da obiettivare – ma una modalità relazionale con cui il pittore si sintonizza attraverso il suo stesso gesto.
(Traduzione di Marcello Ghilard)

 Tra Oriente e Occidente

dal suo primo libro tradotto in italiano,  Processo o creazione. Introduzione al pensiero dei letterati cinesi, (Pratiche, 1991), il sinologo e filosofo François Jullien ha sempre offerto approfondimenti sulla Cina e l’Oriente che invitano l’Occidente ad aprire gli occhi sulla violenza del monoteismo, ma anche della razionalità strumentale, incapace di entrare in relazione profonda con l’altro. La dea ragione alla fine si rivela del tutto miope, incapace di leggere il latente nelle relazioni umane e ciò che muove i processi sociali. Questo filo di ricerca innerva suoi libri come Pensare con la Cina, a cura di Marcello Ghilardi, Mimesis, (2007), Logos e Tao (Laterza, 2008), Le trasformazioni silenziose (Raffaello Cortina, 2010). E più di recente “Essere e vivere” (Feltrinelli) e Accanto a lei (Mimesis).

Il piano di Stefania Tallini nell’incanto della “Seresta”

Per incontrare Stefania Tallini, pianista, compositrice e arrangiatrice tra le più originali e raffinate del panorama jazz italiano e internazionale, devi obbligatoriamente stare al suo passo. La sua vita infatti è un fiume in piena che corre frenetico tra lo studio, il Conservatorio di Benevento, i concerti e i nuovi progetti. Intimidade (AlfaMusic) è la sua ultima fatica “intonata” con Guinga, chitarrista e compositore brasiliano nonché straordinario cantore di quelle mirabilia della musica popolare brasiliana che ci portano nel mondo sospeso tra sogno, emozioni, amore, nostalgia e speranza della Seresta. Ovvero serenata, ma la traduzione italiana non rende la dimensione di passione intima, profonda e vitale che, da quei brani, ti trascina nel fiume calmo, largo che attraversa le foreste pluviali e che ti cattura dalla copertina del cd. Il 26 agosto Stefania Tallini e Guinga suoneranno a Berkley, al California Jazz Conservatory, mentre il 3 settembre Stefania Tallini Trio sarà a L’Aquila per la grande manifestazione Il jazz italiano per L’Aquila.
Intimidade ha un passo in più rispetto a Viceversa, dove i brani erano ispirati alla musica brasiliana e interamente autografi.
Sono sempre assetata di cose nuove per cui sono andata ancora più a fondo nella musica brasiliana che amo moltissimo. Scoprire l’affascinante Seresta, mi ha spinto a realizzare un progetto dedicato a questo mondo così particolare e in Italia sconosciuto. E quale migliore voce poteva dare suono a tutto questo se non Guinga, che è cresciuto cantando Seresta, in quei meravigliosi incontri serali con amici, famiglia, musicisti, per fare musica bella insieme, per ore, instancabilmente. Il disco non contiene solo brani antichi di Seresta, ma anche più moderni (di Jobim, di Vinicius e dello stesso Guinga) che abbiamo voluto inserire perché in qualche modo ricreano quell’atmosfera struggente che permea tutte le serenate brasiliane. In questo disco, tra l’altro, Guinga è anche arrangiatore e io ho riadattato al pianoforte ciò che lui aveva creato sulla chitarra.
C’è un brano che ti sta particolarmente a cuore?
Beh, “Ligia”, perché credo sia una vera opera d’arte della Mpb (Música popular brasileira ndr). Jobim è il più incredibile e profondo compositore brasiliano di tutti i tempi. Mi commuove sempre, per i dettagli, per i movimenti delle sue melodie, per le sorprendenti soluzioni armoniche, per il suo modo essenziale di suonare il pianoforte. Un’altra perla del disco è “Serenata Do Adeus”, di Vinicius De Moraes: credo sia una delle canzoni che meglio esprimono il senso della Saudade, della separazione, della solitudine profonda che senti quando perdi qualcuno che ami. Guinga la canta in un modo veramente toccante, rendendo esattamente il senso del bellissimo testo.
Cosa condividi con la tradizione musicale brasiliana?
Cerco di “rubare” in primis l’amore per il senso della forma. Tutti i musicisti hanno – ognuno a modo suo – un senso estetico della forma musicale che mi ha sempre affascinato e che è tipico della Mpb. Soprattutto Tom Jobim che considero un genio, direi lo Chopin della musica brasiliana. E poi la cosa che mi ha sempre colpito di questi musicisti geniali è l’incredibile espressività ed emozione che trasmettono con la loro musica suonata o composta. Sono dei grandi fari per me e qui non c’entra nulla il genere.
Progetti futuri? Ancora Brasile?
Il Brasile non mi lascia e non lo lascerò mai, così com’è per il jazz o la musica classica, che fanno sempre parte di me e che in qualche modo finiscono nella musica che scrivo. Amo molto potermi esprimere in contesti così differenti e apparentemente lontani tra loro, che poi confluiscono in un’unica direzione, quella del mio modo di comporre e del mio modo di suonare. In questo momento ho molta voglia di suonare le mie composizioni e dedicarmi al mio nuovo trio, formato insieme a due meravigliosi giovani musicisti: Matteo Bortone al contrabbasso, considerato tra i primi 15 jazzisti più importanti del momento, in Europa, e Bernardo Guerra alla batteria, che vanta già esperienze con tantissimi grandi nomi del Jazz.
Non mancano altri progetti nuovi e stimolanti. Sono appena tornata da un concerto organizzato dal Conservatorio Nicola Sala di Benevento, presso il quale insegno Pianoforte Jazz: “Pino Daniele in jazz”, in omaggio a Pino Daniele. Insieme ad altri miei colleghi, siamo i solisti dell’Orchestra ritmo-sinfonica del Conservatorio, diretta dal M. Gianluca Podio, che con Pino ha lavorato sin dal ’97.
Hai parlato di jazz, cos’altro hai in cantiere?
Sempre con il Conservatorio, suonerò in un progetto dedicato a Miles Davis, “Miles Davis songbook” nella prima edizione del Sannio Jazz Festival, organizzato sempre dal Conservatorio. È un progetto ideato e realizzato da Roberto Spadoni e Aldo Bassi, miei colleghi a Benevento, con il Nicola Sala Bress Machine. Un sestetto jazz, con Max Ionata al sax e Aldo Bassi alla tromba, che si fonde con il classico quintetto di ottoni nel repertorio di Miles Davis, che adoro. Poi mi hanno chiesto di realizzare un progetto a mio nome dedicato alla musica brasiliana, “Stefania Tallini Brazilian project”, e naturalmente ho accettato subito. E ancora la versione jazz di Pierino e il lupo di Prokofief, arrangiato e diretto da Roberto Spadoni e che avrà come voce recitante Beppe Barra. E poi vedremo…
Trascinata dalla piena Tallini, mi rendo conto che l’alchimia di suoni diversi e apparentemente dissonanti dell’artista ci regala tutto il suo mondo interiore, la sua sensibilità e la sua passione straordinariamente “fisica”. Tutto è musica per Tallini, è la sua vita. Ma con lei scopri che potrebbe essere anche la tua. Anche solo ascoltando.