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Lorenzo Ciccarese, Ispra: «Noi ricercatori siamo le antenne dell’ambiente»

Aerial view of the Italian wild beach at sunset

Il ruolo dello scienziato,  la protezione dell’ambiente e la ricerca che “fa bene” alla politica, ecco i temi dell’intervista allo scienziato dell’Ispra Lorenzo Ciccarese. Insieme alla protesta dei ricercatori precari dell’ente pubblico che Left ha raccontato nel numero del 3 giugno, abbiamo  spiegato l’importanza dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.

Nella stanza di Lorenzo Ciccarese, all’Ispra, c’è un piccolo quadro appeso al muro in cui si legge il suo nome, quello di Alfred Nobel e una data, il 2007. È l’attestato dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) per il premio Nobel per la pace assegnato, appunto, nel 2007. Ciccarese faceva parte dell’équipe di scienziati dell’organismo internazionale che insieme ad Al Gore ricevette il riconoscimento per gli studi sui cambiamenti climatici. Se oggi si assiste ad un pericoloso stallo nelle politiche ambientali, come ha purtroppo sancito anche il recente vertice di Taormina, dieci anni fa invece il rapporto tra scienza e politica stava dando dei buoni risultati. Almeno era nata una certa sensibilità attorno agli effetti negativi che i cambiamenti climatici avrebbero potuto creare nel pianeta, compresa, per esempio, l’ondata migratoria – a cui si assiste oggi – di migliaia di esseri umani in fuga dalla desertificazione e dalla carestia.
Ambiente, ricerca scientifica e politica sono tre elementi di una relazione particolarmente delicata che riguarda anche l’Italia. E che vede l’Ispra come protagonista principale, soprattutto alla luce della legge 132 del 2016 che gli affida il coordinamento del Sistema nazionale della protezione ambientale (Snpa). Ne parliamo con Lorenzo Ciccarese, già membro del Consiglio scientifico dell’Ispra e adesso a capo dell’area per la difesa delle specie e degli habitat e per la gestione sostenibile dell’agricoltura e della silvicoltura, oltre che esperto riconosciuto a livello internazionale.
Dottor Ciccarese, qual è il ruolo dell’Ispra per la tutela dell’ambiente, ma anche per tutto ciò che è collegato ad esso, dai rapporti economici a quelli sociali?
Il punto di forza di questo istituto è rappresentato dal fatto che proveniamo da anime diverse. Dopo l’integrazione fra i tre istituti Apat, Icram e Istituto nazionale per la fauna selvatica, la legge 132 ha istituito il Sistema nazionale di protezione ambientale e questo provvedimento direi che ha una potenza importante, penso che sia un caso unico in Europa. È importante perché mette insieme le capacità di coordinamento di un organismo nazionale e la territorialità, le informazioni e i dati ambientali di base e locali. Ma mette insieme anche le competenze diverse che derivano dai tre istituti originari. E cioè le capacità di ricerca e anche di laboratorio dell’Icram e dell’Istituto della fauna con le caratteristiche dell’Apat, più legate al modello di agenzia, con la capacità di dialogare, confrontandosi ogni giorno con le istituzioni. Questa rete di competenze diverse ci arricchisce molto e risponde a quella che per me è la necessità del ricercatore contemporaneo.
Che cosa deve fare lo scienziato oggi?
Deve coniugare la ricerca di base e la capacità di approcciarsi a un problema nuovo e allo stesso tempo interfacciarsi con i decisori politici, con i media e la società civile. Non esiste più il ricercatore isolato, chiuso nel suo laboratorio. Per me che vengo dalla ricerca di base, questo fatto di aver spostato gli interessi del ricercatore nel confronto con la politica è stato davvero affascinante. Perché lì si vedono gli impatti e, anche se è difficile misurarli, però capisci che hai spostato di più gli interessi sulla dimensione pubblica. E penso che la politica da questa relazione può solo avere dei benefici perché quando le decisioni sono informate, scientificamente solide, sono più accettate dalla cittadinanza e conducono a scelte di governo appropriate.
Il concetto di “impatto” si ritrova anche nel programma Horizon2020, vero?
Sì, Horizon2020 sostiene che esistono tre criteri perché un progetto possa essere approvato ed essere considerato d’eccellenza. Il primo, è la qualità delle proposte, che devono essere innovative e con un’aderenza alle richieste della società. Il secondo, è la qualità del consorzio, cioè il fatto che le strutture e l’organizzazione abbiano le competenze giuste – e in questo la massa critica dell’Ispra è davvero una forza -. Il terzo criterio infine, è l’impatto, appunto. Si deve cioè avere anche la capacità di determinare crescita economica, aumentare la consapevolezza dei cittadini, informare in maniera pronta ed adeguata i decisori politici.
Come si può far conoscere ai cittadini un processo scientifico e favorire la loro partecipazione?
Lo si può fare in molti modi. Sia organizzando convegni e seminari che coinvolgendo i media, ma anche collaborando con le università e le scuole. Per esempio l’alternanza scuola-lavoro potrebbe essere utile per avvicinare i ragazzi alla pratica e al piacere scientifico. Ma poi si possono avviare dei percorsi di citizen science cioè coinvolgere i cittadini nella costruzione del dato scientifico ambientale. Anche in Italia, tramite i comuni o le associazioni ambientaliste e in generale le associazioni non-governative e non-statali, esistono dei progetti che consistono, per esempio, nel monitorare la presenza di una specie a rischio di estinzione o l’epoca di fioritura di alcune specie, oppure in applicazioni tecniche per misurare le alterazioni del clima o dell’inquinamento atmosferico o del consumo di suolo che si basano su informazioni fornite dai cittadini, che vanno poi convalidate, naturalmente. In questo modo otteniamo dati e le persone si informano e partecipano. Questo tipo di impatto fa aumentare il senso di responsabilità e di indipendenza. E il fatto poi che sia un elemento comune anche agli altri Paesi europei fa aumentare i contatti, i link. Si crea, insomma, oltre a una sinergia, anche un certo senso di appartenenza alla comunità scientifica e anche politica.
Con la legge 132 l’Ispra avrà una maggiore responsabilità di coordinamento e in quali settori?
Attraverso questa legge aumentano le possibilità per le le agenzie regionali (Arpa) e provinciali (Appa) di dialogare senza egemonie o subalternità, avvicinando la dimensione nazionale a quella territoriale. Questo sistema, entro un anno dall’entrata in vigore, dovrà produrre i Lepta, cioè i livelli essenziali di prestazioni tecnico-ambientali. Si va quindi dal monitoraggio, dal controllo dell’inquinamento dell’aria e delle acque superficiali e profonde ai rifiuti e ai fanghi fino alle valutazioni di impatto ambientale oppure anche alla biodiversità, comprese quindi, per esempio, le applicazioni delle direttive comunitarie Uccelli e Habitat, i capisaldi della conservazione della natura in Italia e in Europa. Per quanto riguarda l’agricoltura le responsabilità rimangono ancora al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e agli assessorati regionali, anche se a noi spetta invece il compito di effettuare valutazioni sulla sostenibilità della gestione delle aree agricole e forestali del nostro Paese.
A proposito di impatto, una buona politica ambientale può determinare anche lo sviluppo?
Intanto va detto che negli ultimi programmi quadro di ricerca c’è il coinvolgimento delle imprese private. La Commissione europea, per rendere subito utilizzabili i risultati della ricerca non solo in campo ambientale, ma anche nella medicina, nella chimica e nelle biotecnologie, cerca di integrare il più possibile e direttamente le imprese private. Tramite dei consorzi, individuano quali sono i filoni di ricerca che sono in grado di sviluppare quella determinata idea e tradurla in un brevetto o in una innovazione di prodotto o di processo. I risultati ci sono stati, anche eccellenti, e con un maggior dinamismo all’interno della comunità scientifica.
Cosa fanno in particolare le imprese?
Collaborano con noi. Le piccole e medie imprese che per anni hanno costituito lo scheletro produttivo del Paese hanno vissuto per decenni su intuizioni – e lo abbiamo visto nel tessile, nel legno, nel turismo – e a un certo punto sono diventate un modello per tutto il mondo. Sono i famosi i distretti industriali italiani, modelli copiati da altri Paesi che poi però ci hanno sopravanzato grazie al basso costo della manodopera. Per stare in questo mercato globale ormai bisogna intervenire con l’innovazione e questo avviene se le piccole e medie imprese si servono del supporto delle istituzioni pubbliche di ricerca. Questa partnership publico-privata deve essere sviluppata, ma già fa vedere dei risultati. Uno è il materiale plastico biodegradabile mater-B, prodotto dalla Novamont, un altro esempio è a Reggio Emilia dove, nell’arco di dieci anni, l’impresa Brevini Group è passata da qualche decina di addetti a migliaia costruendo un meccanismo che fa girare le pale eoliche. Sono tutti esempi di green economy e il nostro compito è appunto anche quello di sostenere l’economia verde e l’economia circolare e integrare il valore del capitale naturale nelle decisioni politico-economiche.
Se si parla di green economy bisogna parlare anche di agricoltura biologica di cui si occupa per certi aspetti anche l’Ispra, cosa ci può dire?
Sì, in Italia abbiamo una straordinaria storia di successo che è l’agricoltura biologica. Ci sono, è vero, i controlli da aumentare e qualche problema per via delle frodi avvenute in passato, ma di fatto ci sono 60mila imprese nel biologico che occupano 1,2 milioni di ettari. Quasi il 10% della superficie è gestita secondo i metodi biologici. Al di là degli aspetti ambientali, questi agricoltori hanno rivitalizzato un settore per decenni in costante declino, non solo economico, e infatti molte delle 60mila imprese sono costituite da persone che non hanno alcun legame o tradizione con l’agricoltura. Un esempio? Nella valle d’Itria, in Puglia, decine di agricoltori provenienti da altre regioni hanno preso in gestione centinaia di ettari di vigneti e oliveti e li conducono con metodo biologico. E così alcuni paesi sono letteralmente rinati.
Cosa fa l’Ispra per recuperare un luogo della natura degradato?
Non facciamo interventi progettuali veri e propri, ma il nostro compito è dire come si fa, proponiamo delle linee guida. E poi il nostro compito è anche quello di evidenziare le storie di successo. Nel campo della difesa della natura, ci sono tanti esempi che dimostrano come sia possibile ricostruire – la cosiddetta restoration – ecosistemi degradati. E il restauro spesso è vantaggioso per il turismo. Lo abbiamo visto lungo il litorale laziale, nella zona di Sabaudia. Qui ci sono stati ottimi interventi per limitare l’accesso ai turisti con passerelle in legno fino al recupero vegetazionale delle dune oppure con adeguati sistemi di protezione delle aree umide. Questo alla fine garantisce la sostenibilità per un lungo periodo e incrementa il turismo, perché se questi luoghi non fossero attraenti e ben conservati, la gente non ci andrebbe.
A Lecce, in un’area che si chiama Le Cesine è stato fatto un intervento di recupero nell’ambito dei progetti europei Life. Un’area umida era attraversata da una strada provinciale asfaltata, l’intervento è stato soft, nature-based, proibendo il passaggio delle auto, e poi, dopo minimi interventi attivi, si è lasciato che la natura facesse il suo corso. Ebbene, in poco meno di 10 anni questo ambiente è stato rinaturalizzato e la vegetazione ha preso il sopravvento. Adesso è un luogo turistico attorno al quale sono sorte piccole imprese per il ristoro e l’equitazione.
Molti ricercatori all’Ispra lavorano su progetti finanziati dall’Ue. Quanto incidono sull’attività dell’Istituto?
I finanziamenti da bandi europei e altre fonte esterne contribuiscono per circa il 10% al budget complessivo dell’Ispra. È un po’ un’eredità del passato, legata al fatto che sia l’Icram sia l’Istituto di fauna selvatica sia alcuni pezzi dell’Agenzia avevano una certa abilità e propensione a entrare nei consorzi europei, sia di ricerca sia di implementazione, e accedere ai finanziamenti comunitari o comunque esterni. Il vantaggio di partecipare ai progetti finanziati dai vari programmi dell’Ue, soprattutto della ricerca, è che consente a molti di noi di acquisire know-how e metodi che tornano utili nelle attività di valutazione e controllo, di reporting o di policy support, cioè di sostegno alla politica nella conduzione, per esempio, di negoziati internazionali. Io stesso ho partecipato a negoziati sia sul clima sia sulla biodiversità. Poi ci sono altre convenzioni e accordi internazionali, come quello sulla desertificazione oppure sul Mediterraneo o sullo sviluppo sostenibile, per le quali il Ministero ha bisogno di avere il supporto scientifico della ricerca. Possiamo dire che forniamo un sostanziale contributo al Ministero dell’Ambiente e non solo per la conduzione di questi negoziati perché nel campo ambientale molte delle politiche sono il risultato di processi multilaterali internazionali, dal clima alla biodiversità, fino alla desertificazione alle emissioni di gas-serra al ciclo dell’azoto e del fosforo.
La scienza è sempre più importante nelle scelte politiche realative all’ambiente.
Un altro elemento infatti è la capacità di evidenziare i temi emergenti. È un po’ come avere le antenne, tentar di comprendere quali saranno i problemi del futuro. Il tema delle plastiche in mare, per esempio, lo avevano già sollevato a Bruxelles i nostri ricercatori dell’Icram. Adesso un problema emergente è quello dell’inquinamento delle falde dei fiumi e dei laghi da parte dei cataboliti, ossia i sottoprodotti derivanti dall’interazione tra il corpo e le sostanze assunte, venuti alla ribalta a proposito della presenza di cocaina nel Lambro e nell’Arno a Firenze. In realtà il problema non riguarda solo i cataboliti della cocaina, ma anche quelli degli antibiotici, degli ansiolitici, degli antitumorali, dei prodotti cosmetici, degli antidepressivi, degli antiinfiammatori, delle statine, degli anticoncezionali. Tutte sostanze che, metabolizzate, vengono restituite nei corpi idrici sotto forma di nuove molecole, i cui effetti sulla salute umana o sui pesci non si conoscono né vengono monitorati perché non c’è nessun regolamento o direttiva che lo preveda. Ecco, sui cataboliti, visto che la responsabilità è territoriale, o sugli effetti dei cambiamenti climatici in corso o sul dissesto idrogeologico, o sulla biologia sintetica, altro grande tema emergente, potrà essere utile il nuovo Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente.
Un’ultima domanda sull’Ispra e le risorse. Le attività aumentano e i finanziamenti sono sempre quelli, come è possibile?
L’acquisizione di fondi esterni è importante però non deve essere il core business di un’agenzia come la nostra. Dobbiamo avere, certo, la capacità di stare in competizione nei programmi di ricerca o in quelli di coesione sociale o nei fondi di sviluppo europeo, ma il cuore dei finanziamenti deve essere governativo. Questo perché è giusto che il governo abbia un istituto che sia il suo braccio tecnico-scientifico che sappia dare risposte affidabili, indipendenti e immediate o abbia le capacità di avere le antenne, appunto, o rappresenti infine un organismo storico che sappia seguire l’evoluzione dello stato dell’ambiente in Italia, per dare risposte più efficaci e pronte ai fattori di inquinamento e alle pressioni ambientali. In periodi di crisi come questo è importante che le istituzioni scientifiche prendano consapevolezza delle difficoltà e trovino le strade migliori per aumentare l’efficienza. Noi partiamo da una condizione favorevole, la massa critica che è importante, la territorialità del sistema Snpa, il fatto di avere le competenze in diversi ambiti e verticalità delle attività, dalla ricerca di base a quella di policy support, fino alla comunicazione con i media. Io penso che questa sia la sfida che ci attende. Certo, è meglio avere più risorse, perché da quelle dipendono anche le possibilità di garantire, su tutto il territorio, servizi capaci di rispondere alle esigenze fondamentali del cittadino, salvaguardando cioè i livelli essenziali delle prestazioni nel settore ambientale. Ma bisogna fare analisi e autocritica, non basta dire che in Italia la ricerca è buona e l’amministrazione è cattiva.
Occorre vedere dove ci sono gli sprechi, ha senso per esempio avere istituti con due unità di ricercatori con scarsa capacità innovativa? È vero che c’è bisogno di ricerca territoriale e locale, di risorse in più, ma occorre riorganizzare tutto il tessuto della ricerca che è troppo frammentata, qualche volta ridondante. Insomma, la ricerca è importante, va difesa, ma bisogna essere laici, valutare attentamente senza essere superficiali.

L’ateismo di Joyce nel Finnegans Wake. Così ha smascherato il linguaggio “edificcante” dei preti

A drawing from 1920 of James Joyce by Wyndham Lewis. (Photo by Michael Nicholson/Corbis via Getty Images)

In uno dei libri a più alto potenziale comico e dissacrante del Novecento, l’Ulisse di Joyce, il giovane protagonista, l’intellettuale frustrato e vagamente alcolizzato Stephen Dedalus, dichiara d’essere, proprio come Arlecchino, «il servitore di due padroni… uno inglese, e uno italiano». Quello inglese è «lo stato imperiale britannico», mentre l’italiano è la «Chiesa cattolica e apostolica romana». Alle imposizioni della sua epoca, della famiglia e delle istituzioni che rigetta, il giovane Stephen ha opposto lo stesso Non serviam (il rifiuto di inginocchiarsi) proferito dal Satana di John Milton. Postura ribelle che ha radici remote nella biografia dell’autore: alla fine del 1904, esule volontario da poche settimane, scriveva da Pola al fratello Stannie: «La casa è poco salubre e sto cercando un nuovo alloggio. Nora ha concepito, credo, e voglio che viva nelle condizioni più igieniche possibili. Mio figlio, se l’avrò, non sarà naturalmente battezzato ma sarà registrato sotto il mio nome». E in una missiva seguente: «Sputo sul ritratto del Decimo Pio».
Ancora, da Trieste, nel maggio 1905: «Non posso dirti quanto mi faccia sentire strano a volte il mio tentativo di vivere una vita più civile dei miei contemporanei. Ma perché avrei dovuto condurre Nora di fronte a un prete o un avvocato per farle giurare di darmi la sua vita? E perché dovrei gravare mio figlio con lo scomodissimo fardello di fede con cui mio padre e mia madre hanno gravato me?».
Quando scrive l’Ulisse, Joyce ha già abbandonato il cattolicesimo da molti anni, ma non ha mai smesso di divertirsi a prenderne di mira i capisaldi, spesso in maniera ironica, più di rado rancorosa. Poi con il Finnegans Wake, che dell’Ulisse – libro del giorno – è la prosecuzione per così dire “notturna”, Joyce si vantò d’aver «messo a dormire il linguaggio»….

L’articolo di Fabio Pedone ed Enrico Terrinoni prosegue su Left in edicola


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L’identità kurda nel mirino di Erdogan

A woman sits in her damaged apartment on the explosion site on November 4, 2016 after a strong blast in the southeastern Turkish city of Diyarbakir. At least one person was killed and 30 injured in a blast outside a police building on November 4 in Diyarbakir, the centre of the Kurdish minority, medical sources told AFP. The explosion occurred just hours after police detained the two co-leaders of the country's main pro-Kurdish party and several other MPs in a major escalation of a broader crackdown against leading Kurds. / AFP / ILYAS AKENGIN (Photo credit should read ILYAS AKENGIN/AFP/Getty Images)

l Lamassù non accoglie più visitatori e cittadini che si avvicinavano alla sede del comune di Diyarbakir: la statua assira – tipica dell’epoca dello splendore del loro impero, mentre Roma muoveva i primi passi – è stata rimossa qualche mese fa dalle autorità turche. Testa umana, ali, corpo di leone, veniva posto all’ingresso dei luoghi del potere per scacciare gli spiriti malvagi.

A Diyarbakir non ha funzionato: il Lamassù è una delle tante opere del sud-est a maggioranza kurdo ad essere stato portato via, nel tentativo – niente affatto celato – di annullare o comunque indebolire l’identità kurda. Lo simboleggia, sul piano politico, la nuova presenza alle porte del comune (polizia, fucili, metal detector) che sostituisce i sindaci kurdi, sistematicamente cacciati, e il numero di altri monumenti kurdi rimossi in questi ultimi mesi dal governo centrale. Non solo opere antiche ma anche più recenti, memoriali alle vittime della violenza di Ankara degli ultimi due anni così come quelle a eroi della causa kurda come Sheikh Said, religioso impiccato nel 1925 per aver guidato la ribellione contro l’autorità centrale. Non c’è più, nella piazza che porta il suo nome è rimasto solo Ataturk.

Sono stati cancellati anche i nomi kurdi delle comunità, in un atto palese di memoricidio. Che si accompagna ad un’altra strategia. Gentrificazione politica è il concetto che più di altri si avvicina a quanto è in corso ormai da mesi nel Kurdistan turco, nel Bakur. Dopo due anni di brutale campagna militare da parte dell’esercito turco contro città e villaggi del sud-est del paese – cominciata alla fine di luglio del 2015, dopo il terribile attentato dell’Isis a Suruc, estremo confine sud – il governo di Ankara sta svelando giorno dopo giorno i piani di ricostruzione delle comunità devastate. Piani che hanno un obiettivo politico, prima che economico e sociale…

L’inchiesta di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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Difendiamo le biblioteche pubbliche, l’appello

Italian Culture Minister Dario Franceschini attends the inauguration ceremony of the new integrated museum path between Palazzo Vecchio and the Uffizi Gallery in Florence, Italy, 05 July 2017. ANSA/ MAURIZIO DEGL INNOCENTI

Le biblioteche pubbliche sono tra le istituzioni culturali che affrontano maggiori difficoltà, stante una politica culturale – bipartisan – ispirata alla logica del profitto.
Occorre dunque interrogarsi su come sia possibile tutelare, per di più in una congiuntura economica critica, istituzioni non lucrative.
La debolezza politica delle biblioteche è peraltro da ascriversi anche una serie di ragioni che ne ha mutato in certo modo la destinazione d’uso e ha determinato una flessione dell’utenza: riforme universitarie che non incoraggiano la ricerca; la digitalizzazione; lo scadimento dei servizi  – dalla contrazione degli orari, all’irreperibilità sia di libri recenti che di volumi pubblicati all’estero -; gli ambienti inospitali (non di rado freddi d’inverno e torridi in estate). Sovente l’utenza che frequenta le biblioteche non si avvale dei servizi offerti, ma si limita a usarle come sale di lettura. A ciò si sommi la scarsa attenzione della società civile: l’associazionismo nel campo dei beni ambientali ha una certa consistenza sia a livello locale che nazionale (che non può essere semplicemente derubricata a sindrome “Nimby”) e ha avuto, in passato, espressione politica; purtroppo la stessa cosa non si verifica nell’ambito dei beni culturali. Poche sono le associazioni che presidiano il patrimonio culturale, e ancor meno quelle che si occupano delle biblioteche le quali, di conseguenza, restano regolarmente nel cono d’ombra e perciò vulnerabili.
Chi popola le biblioteche. Il personale assunto a tempo indeterminato coabita con contingenti di volontari e drappelli di precari ingaggiati tramite cooperative (attraverso le esternalizzazioni). Il personale stabilizzato -perlopiù prossimo alla pensione – è in genere piuttosto insoddisfatto e avvilito per le condizioni di lavoro e, purtroppo, spesso deluso dal sindacato. Senza contare che, a seguito di una serie di riforme, ai lavoratori è preclusa ogni dichiarazione pubblica relativa al posto di lavoro: di fatto i pubblici dipendenti sono imbavagliati…..

L’appello prosegue su Left in edicola con inchieste sul tema di Claudio Meloni, Manlio Lilli e altri


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Ginevra Di Marco: «Canto Mercedes Sosa e la sua ricerca di libertà»

Non c’è rimedio migliore in questi tempi tristi di migrazioni e di barriere erette che ascoltare musica senza confini. Ginevra Di Marco, interprete per eccellenza della musica del mondo, con il suo ultimo lavoro La Rubia canta la Negra, ci porta nell’Argentina di Mercedes Sosa, la più grande cantora dell’America Latina, il simbolo della lotta per la libertà del suo popolo negli anni della dittatura, «una personalità grande che insegna ancora oggi il coraggio e la resistenza alle oppressioni». L’arresto, il silenzio, l’esilio, e la sua voce dolorosa simbolo di speranza. Con quel «tesoro che spalanca l’anima» ha deciso di confrontarsi Donna Ginevra nel suo percorso che dai Csi, poi Pgr, l’ha vista approdare, al fianco di Francesco Magnelli e Andrea Salvadori, alla musica popolare, esplorando repertori che hanno attinto in maniera viscerale dalla terra, dai popoli, da musicisti e interpreti che hanno contribuito alla ricchezza della cultura musicale del mondo.
Com’è avvenuto l’incontro artistico tra Ginevra Di Marco e la cantora del pueblo Mercedes Sosa?
Circa vent’anni fa, ero nei Csi. Un amico mi fece ascoltare per la prima volta la sua voce in “Gracias a la vida” e in quell’occasione provai una commozione enorme, profonda, immediata. Quella di Mercedes Sosa è una voce meravigliosa capace di arrivare in maniera profonda all’anima dell’ascoltatore. Mi si è aperto un mondo sconosciuto che, in quello stesso istante, mi sono ripromessa di scoprire. All’epoca mi dissi …

L’intervista di Raffaella Angelino a Ginevra Di Marco prosegue su Left in edicola


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Viaggio nella Campania avvelenata dai roghi tossici

© lorenzo giroffi
Eurocompost di Orta d'Atella, impianto chiuso nel 2009 e divenuta discarica abusiva. Gennaro Piccirillo "Stop biocidio" © lorenzo giroffi

Salire sulle pendici del Vesuvio oggi è come affondare i piedi nella sabbia, con buchi profondi e radici di alberi mozzati. Gli incendi lasciano una distesa di cenere impressionante, come in un paesaggio lunare. In superficie si trovano la vegetazione incenerita e, soprattutto, rifiuti. Dopo il fuoco, per il Vesuvio oggi il pericolo è l’acqua con un rischio idrogeologico “catastrofico”. Tutto è iniziato il 9 luglio quando si moltiplicarono i focolai già iniziati tre giorni prima. Poi il giorno successivo la nube che ricopre il vulcano fa il giro del mondo. Ci sono volute due settimane per spegnere il fuoco e per una settimana si era registrata una totale carenza di uomini e mezzi. Emergeva l’assoluta assenza di un coordinamento. Dai media e dai social network venivano diffuse immagini con carabinieri a fare da pompieri e cittadini con le pale a fermare l’avanzata dei roghi. La Regione guidata da Vincenzo De Luca finisce nella bufera: il protocollo per potenziare i Vigili del fuoco viene firmato solo il 14 luglio, una settimana dopo l’inizio degli incendi. Migliaia di ettari bruciati. Sotto accusa anche alcuni amministratori, come il sindaco di Ercolano, il renziano Ciro Bonaiuto, che per tutto il mese di luglio ha seguito dagli Usa la crisi del suo territorio. Spente le fiamme e i riflettori, però, le paure non sono terminate. Molti cittadini sono scesi in piazza per denunciare il nuovo rischio che riguarda i comuni vesuviani: la tenuta idrogeologica in caso di forti piogge…….

Il reportage di Lorenzo Giroffi e Giuseppe Manzo prosegue su Left in edicola


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Noury (Amnesty Italia): «I centri d’accoglienza in Libia sono in realtà prigioni»

epaselect epa06076439 A migrant rests after he was rescued along dozens by Libyan coastguard in the Mediterranean off the Libyan coast, in Guarabouli, east Tripoli, Libya, 08 July 2017. According to local reports, Libyan coastguards with the help of fishermen have rescued 85 immigrants, including 20 women, who were attempting to reach Europe. A rescued migrant have reported some 20 others went missing in the sea during their failed attempt. EPA/STRINGER

Il codice di condotta per le Ong e la missione navale italiana in supporto alla Guardia costiera libica per arginare l’immigrazione verso il nostro Paese: il governo si affida a questa doppia manovra per fermare gli sbarchi. Dimenticandosi – però – dei diritti umani. A ribadirlo a Left, è il portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury: «Delle due l’una: o la Libia effettuerà respingimenti coadiuvata dall’Italia, perciò l’Italia sarebbe complice di respingimenti illegittimi, oppure l’Italia potrebbe compiere queste operazioni con le sue navi, passando poi ai libici le persone intercettate, e in quel caso l’Italia sarebbe direttamente responsabile di tali respingimenti».

Qualsiasi azione che crei un blocco indiscriminato costituirebbe una grave violazione dei diritti, insomma.
«Esatto, senza considerare poi che i centri d’accoglienza libici dove verrebbero condotti i respinti sono in realtà delle prigioni, alcune delle quali informali, magari vecchi capannoni industriali, o alberghi, o addirittura case private. Chiamarli “centri d’accoglienza” è del tutto sbagliato, sono luoghi di detenzione nei quali non c’è alcuna garanzia per l’incolumità fisica delle persone. Sappiamo che avvengono stupri e torture quotidianamente, ci sono prigionieri detenuti in ostaggio fino a quando i familiari non pagano, prigionieri venduti da una banda criminale all’altra. E, se noi contribuiamo a rafforzare questo sistema illegale, ne siamo pienamente complici.

Perché questa operazione così aggressiva, quando gli sbarchi sono in diminuzione?
Io la vedo così: la missione navale e la campagna di delegittimazione delle Ong sono la parte pubblica di un disegno più ampio. Nella parte pubblica si vuole mostrare al popolo, che fra poco andrà al voto, che si è duri e decisi nei confronti di un “fenomeno ingestibile”, e io immagino che la politica neanche ci creda fino in fondo a questa parte. Poi c’è la parte sostanziale, quella meno visibile e più efficace, a causa della quale le partenze stanno diminuendo, che si svolge a sud della frontiera libica, dove le tribù sono state pagate – non sappiamo quanto perché non c’è trasparenza su questo – per bloccare la frontiera meridionale, e nello stesso tempo la cooperazione sempre più intensa con Niger e Sudan fa sì che il blocco dei migranti venga effettuato quasi nel loro punto di partenza. Tant’è che, per esempio, del milione di rifugiati che ha prodotto il conflitto in Sud Sudan, pochi decine di migliaia sono in Sudan, ma 900.000 e più sono in Uganda, hanno – cioè – preso la direzione opposta. Il punto è che i fondi per la cooperazione spesso sono poco trasparenti; sono fondi destinati in un certo senso allo “sviluppo”, si, ma allo “sviluppo” di regimi dittatoriali.

Quale è la sua opinione sul codice di condotta per le Ong?
Amnesty International non deve cadere nello stesso errore che hanno fatto coloro che hanno promosso la campagna di demonizzazione delle Ong. Le Ong sono tante. Così come le leggi Ong non sono tutte il male, non è detto che siano tutte il bene. Io le mani sul fuoco ce le metto per quelle che conosco, come Medici Senza Frontiere. Dopodiché, si sta discutendo da giorni sulla differenza tra soccorrere una barca in difficoltà, considerato legittimo, e trasbordare persone da una barca momentaneamente fuori pericolo, considerato sbagliato. In realtà, manca la controprova che lasciare persone su una barca fatta arrivare fin lì dai trafficanti, sebbene sia ancora a galla, sarebbe la scelta migliore. Insomma, non c’è bisogno che vada in avaria la barca per definire come “in pericolo” persone che sono sotto ostaggio di trafficanti in una barca guidata da uno scafista.

A volte poi soffermarsi troppo sui cavilli giuridici fa dimenticare la dimensione umana del dramma.
Si. Guardando solo alle leggi, se poi si dimostrasse che la missione italiana del punto di vista di diritto internazionale fosse del tutto legittima, saremmo costretti a dare ragione a chi quella missione l’ha sostenuta. Mentre invece il punto è un altro. Il senatore Esposito l’ha esplicitato per bene, affermando “le Ong ideologicamente pensano solo a salvare le vite umane noi non possiamo permettercelo”. Cioè noi, nel senso “le istituzioni italiane”, “il governo italiano”, non se lo possono permettere. Ecco, questa frase illustra bene il crollo etico della politica che stiamo vivendo.

L’intervista al portavoce di Amnesty international Italia fa parte della cover story di Left in edicola


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Chi sono i migranti che neanche il Pd vuol vedere

A Libyan coast guardsman stands on a boat during the rescue of 147 illegal immigrants attempting to reach Europe off the coastal town of Zawiyah, 45 kilometres west of the capital Tripoli, on June 27, 2017. More than 8,000 migrants have been rescued in waters off Libya during the past 48 hours in difficult weather conditions, Italy's coastguard said on June 27, 2017. / AFP PHOTO / Taha JAWASHI (Photo credit should read TAHA JAWASHI/AFP/Getty Images)

«Si dice che tutti i problemi che l’uomo pone su se stesso siano riconducibili a quest’unica domanda: non ho contribuito, attraverso i miei atti o le mie omissioni, a una svalutazione della realtà umana? Domanda che potrebbe essere così riformulata: ho reclamato, ho preteso, in ogni circostanza, l’uomo che è in me?», così scriveva Franz Fanon ne La sindrome nordafricana, oggi in Scritti politici.

In quel testo del 1952 lo psichiatra e saggista sottolineava che «la teoria dell’inumanità rischia di trovare proprio qui le leggi e i corollari di cui ha bisogno». E aggiungeva: «Tutti questi uomini affamati, che hanno freddo, tutti questi uomini che hanno paura, tutti questi uomini che ci fanno paura che frantumano il prezioso smeraldo dei nostri sogni, che disturbano il fragile contorno dei nostri sorrisi, tutti questi uomini che ci stanno di fronte, che non ci fanno domande ma ai quali noi ne poniamo di ben strane. Chi sono questi uomini? Io me lo chiedo e ve lo chiedo. Chi sono queste creature affamate di umanità che si aggrappano alle frontiere impalpabili (ma che io so per esperienza terribilmente concrete) e di un riconoscimento integrale?». È questa la domanda cruciale. Chi sono e che fine faranno quelle centinaia di persone che stiamo già ricacciando indietro, “grazie” al pugno duro del Codice Minniti, “grazie” a un’avventuristica missione in Libia. Amnesty international e altre organizzazioni per i diritti umani denunciano le condizioni disumane di reclusione in Libia dei migranti. Sono già più di 250mila, di cui almeno 50mila tra donne e bambini.

È di sinistra una politica che gioca sulla contrapposizione fra “casa loro” e “casa nostra”? Sappiamo, dal secolo scorso, quanto sia pericolosa l’esaltazione della Heimat, casa, suolo natio. Assistiamo a un’inquietante mutazione culturale nel Pd che gareggia con le destre quanto a razzismo e xenofobia. Lo abbiamo rilevato quando il governatore Pd del Friuli ha detto: «Lo stupro è più odioso se commesso da un profugo»; lo abbiamo ripetuto quando una esponente della segreteria Pd ha parlato di «razza italiana» da perpetuare, e quando la sindaca Pd di Codigoro ha tassato chi accoglie rifugiati e il sindaco Pd di Ventimiglia ha proibito acqua, riposo e qualsiasi altro aiuto ai migranti sul suo territorio. Potremmo continuare a lungo citando articoli di Repubblica che accusano alcune Ong di «estremismo umanitario» e di giocare a guardie e ladri con la guardia costiera, per una presa di posizione ideologica. È ideologia, come sostiene il senatore Pd Esposito, cercare di impedire che persone anneghino? Intanto l’Italia governata dal Pd in 5 anni ha raddoppiato i costi dei super-caccia F35. E il Belpaese vende armi all’Arabia Saudita che bombarda lo Yemen.

Se nel 2011 fu il governo Berlusconi, sollecitato dall’allora presidente Napolitano, a lanciare la campagna di Libia, ora è il governo Gentiloni, con l’appoggio del Pd e di Mdp. Così l’Italia va alla guerra in Libia sostenendo Fayez al Serraj contro Haftar. Va alla guerra, in barba all’art.11 della Costituzione, avendo come target migranti inermi e le Ong che si rifiutano di accogliere agenti armati a bordo delle loro navi (in nome di principi di indipendenza, imparzialità, neutralità internazionalmente riconosciuti).

Left sta dalla parte dei migranti, sta dalla parte di Medici senza frontiere e delle altre Ong accusate ingiustamente. Stupisce – per usare un eufemismo – che non tutti a sinistra siano d’accordo su questo punto. È inaccettabile lasciar morire delle persone.
Come scriveva Fanon in quel toccante passo del 1952, la nostra identità profonda di esseri umani ci rende immediatamente evidente che non c’è altra scelta da fare. Oggi sono più che mai fondamentali per la sinistra la Teoria della nascita e gli scritti di Massimo Fagioli: «È razzismo, dissi, dire che l’identità umana è la realtà biologica, perché poi viene pensato e detto che la pelle nera o gialla è di un essere umano inferiore destinato ad essere schiavo. La verità è l’uguaglianza della nascita in tutti gli esseri umani». Così scriveva nel 2014 su Left in un articolo dal titolo emblematico Ricreare o creare l’identità a sinistra.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto dal numero di Left in edicola


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“La Sardegna del governatore Pigliaru, l’importante è costruire”. L’assessore Erriu risponde a Lilli (che replica)

Cala Mariolu

Gentile Direttore,

leggo con un certo sconcerto quanto la sua testata, che peraltro seguo spesso con interesse, scrive a riguardo della proposta di Legge urbanistica della Regione Sardegna. La superficialità che contraddistingue tutto il pezzo è evidente fin dalle prime righe, con La Pelosa – la più nota spiaggia di Stintino – data nella mai esistita provincia di Alghero. Se obbligo di chi svolge la professione giornalistica è verificare la notizia, basta questo per capire che non si comincia bene. E si va avanti peggio, inseguendo il sentito dire e facendolo, appunto, “nella maniera più scriteriata e autolesionistica possibile”.

Nel dettaglio: cosa significa “incrementando oltre misura i servizi ricettivi”? La norma prevede limiti espliciti ed è stata già resa pubblica la volontà di migliorare il testo con anche l’introduzione di ulteriori vincoli per limitare eventuali eccessi di cubatura per le strutture più grandi. È un punto messo in chiaro ripetutamente sia dal sottoscritto che dal Presidente Pigliaru, che ben lo spiega nell’intervista pubblicata dal quotidiano L’Unione Sarda il 2 agosto: “il 25% era previsto dalle intese definite già prima di Cappellacci, ma siamo pronti a ragionarci. La mia idea – dice il Presidente – è che non sia troppo per una struttura piccola. Potrebbe esserlo per quelle grandi. Ho già proposto che la Giunta presenti un emendamento per introdurre un tetto massimo all’incremento volumetrico. Si può anche pensare che, oltre una certa dimensione, gli incrementi di cubatura siano pari a zero”. Per ricordare, appena più sotto, che nessun ampliamento sarà ammesso per chi abbia già utilizzato il 25% concesso dal Piano casa della Giunta Cappellacci.

E in base a quali fonti è possibile sostenere che “a distanza di undici anni dalla Legge salvacoste Soru la Sardegna rischia di diventare terreno per nuove urbanizzazioni”? E’ falso. La norma lo vieta esplicitamente e lo ribadisce il Presidente nella stessa intervista. “Sia chiaro che non si potrà costruire nessun nuovo albergo nei 300 metri. Permettiamo di rendere più moderne le strutture già esistenti, per favorire la destagionalizzazione.” Su questo punto il vostro autore cita un post Facebook, ma prendendone solo una parte e tralasciando il seguito, in cui viene illustrato, in mancanza di una normativa adeguata, lo scenario peggiore: “strutture ricettive che invecchiano e che, pur continuando a occupare la fascia dei 300 metri, saranno sempre meno in grado di produrre lavoro e benessere per il territorio.” Tutto qua il nodo. La Sardegna si apre al turismo negli anni ’50 – ’60, con tanto cemento riversato con disinvoltura sulle coste. Il risultato, dopo oltre cinquant’anni, sono strutture vecchie, obsolete, talvolta cadenti, che non solo sono presenti nel paesaggio, ma lo feriscono contribuendo a impoverirlo. Da qui la necessità di riqualificare. Per restare “in provincia di Alghero” (!), è istruttivo leggere l’articolo sul tema pubblicato (l’8 agosto, ndr) dal quotidiano La Nuova Sardegna, che porta esempi concreti e chiarisce dubbi.

E infine, niente e nessuno può cambiare arbitrariamente il Piano Paesaggistico della Sardegna, di cui tutti i princìpi vengono confermati. Se sono necessari una verifica e un adeguamento, come stabilisce il Codice Urbani, li si deve fare secondo le procedure previste dalle stesse norme che hanno istituito il Ppr, e resta l’obbligo della co-pianificazione degli interventi tra Regione e Ministero dei Beni culturali, Ambientali e del Turismo: cose che ne rendono impossibile l’aggiramento.

Insomma, basterebbe approfondire prima di cedere ad una faciloneria che sostituisce alla doverosa, corretta informazione, la disinformazione confusa e strillata che danneggia i lettori, chi ne è vittima e chi la ospita. L’invito per il futuro è a dimostrare sempre la veridicità delle affermazioni fatte, magari leggendo la proposta di legge, e magari, prima ancora, il manuale di geografia. Sono le basi. Quando non si fa, come in questo caso, “appaiono certi i disastri”. Ne vale davvero la pena?

Cristiano Erriu

Assessore degli Enti Locali, Finanze e Urbanistica

Regione Autonoma della Sardegna

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Gent.mo Assessore,

ho seguito con molto interesse i diversi passaggi che hanno portato all’approvazione da parte della giunta regionale guidata da Francesco Pigliaru del ddl Urbanistica. Con non minore interesse ho letto il testo per ora definitivo e il vivace dibattito che ne è seguito. In attesa degli emendamenti da Lei anticipati che, ne sono certo, modificheranno il testo nelle parti più lacunose, mi sono limitato all’esistente, approvato.

Recentemente, parlando del ddl, ha detto che esso contempera «le esigenze della tutela ambientale e della sostenibilità sociale ed economica, tenendo conto delle legittime aspettative delle comunità locali che non possono accontentarsi della contemplazione dei luoghi» (Ansa del 20 luglio 2017). A ben guardare nel testo queste sue affermazioni sembrano contraddette in diverse parti. Che dire dell’art. 43 che permette, nel caso di “progetti di particolare rilevanza economica e sociale”, un accordo tra investitori e governo regionale, in deroga al Piano Paesaggistico? Non crede che quella generica dicitura, “particolare rilevanza economica e sociale”, possa diventare il passepartout per operazioni edilizie nelle quali il vantaggio sarà unicamente del costruttore di turno? Che dire, ancora, dell’art. 31 che consentirebbe agli alberghi esistenti di aumentare i volumi del 25%?

Possibile che sia solo la disinformazione a guidare le preoccupate proteste di Lipu Sardegna, Italia Nostra Sardegna, Fai Sardegna, WWF Sardegna e Forum Nazionale Salviamo il Paesaggio? Possibile che la convocazione del governatore Pigliaru, da parte del Pd, al Senato sia solo colpa di quel che Lei definisce un “attacco sensazionalistico”, “frutto di superficiale disinformazione”? Possibile che anche la denuncia dell’avvocato Stefano Deliperi, presidente del Gruppo d’intervento giuridico (Grig), che per primo ha lanciato l’allarme sugli effetti nefasti del ddl urbanistica, sia scaturita da “superficialità”? Bisogna quindi pensare che gli avvocati del Grig, che hanno già catalogato “ben 495 strutture turistico-ricettive della fascia costiera che potrebbero approfittare dell’articolo 31”, abbiano preso un abbaglio? Qualche dubbio, credo, sia legittimo.

La circostanza che in nome della volontà di rilanciare il turismo si possano sacrificare i caratteri distintivi di tanti luoghi, non mi convice. L’idea che per incrementare i flussi dei turisti sia necessaria una qualità alta e che quindi si possa derogare dal sostanziale rispetto del paesaggio è autolesionistica. Nonostante tutto, aldià di proprietà e limiti, mare, coste e territori sono Beni Comuni. Non si tratta di “accontentarsi della contemplazione dei luoghi”, ma piuttosto della conservazione di quegli elementi che fanno della Sardegna una terra speciale. Una regione da visitare e nella quale vivere. Continuo a sperare che la Sua terra sia ancora la casa di Fortunato Ladu, il pastore di Desulo, se non erro in provincia di Nuoro, che alcuni mesi fa scrisse a Bill Gates per chiedere aiuto. Per chiedere che mister Microsoft salvaguardasse le piccole realtà.

Probabilmente per evitare l’Sos di Ladu e lo sfregio del paesaggio basterebbe una conoscenza diretta dei luoghi. Una conoscenza capillare, ma “complessa”. E’ difficile, faticoso, ma ne vale la pena.

Manlio Lilli

Link all’articolo di Mario Lilli su Left che ha dato origine al confronto:

Il governo non ripudia la guerra

Italian soldiers look out towards the island of Ventotene, off the western coast of Italy, from the Italian aircraft carrier Giuseppe Garibaldi heading to the island on August 22, 2016, where the leaders of Italy, France and Germany meet to discuss the post-Brexit EU. Europe's economic outlook, jihadist attacks, the refugee and migrant drama, the Syrian conflict, and relations with Russia and Turkey were all on the agenda for the talks later Monday on the island of Ventotene, one of the cradles of the European dream. / AFP / VINCENZO PINTO (Photo credit should read VINCENZO PINTO/AFP/Getty Images)

L’Italia è in guerra ma non lo dice. In guerra contro l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, l’ex ufficiale gheddafiano che può contare su un esercito di oltre 35mila uomini. Ed è in guerra con quelle Ong che hanno osato non sottostare al Codice di condotta messo a punto dal ministro degli Interni, ormai anche plenipotenziario agli Esteri, Marco Minniti, non intendendo trasformare le proprie navi di salvataggio in uffici di polizia. L’Italia è in guerra perché non ammette che in Libia ha puntato sul cavallo perdente, quel Fayez al Serraj che non controlla neanche un quartiere di Tripoli e che ora viene sfiduciato anche dai suoi vice. L’Italia è in “guerra” contro le Ong operanti nel Mediterraneo perché così vuole una narrazione imposta a forza da “rivelazioni pilotate” su presunte complicità con i trafficanti di esseri umani; rivelazioni che servono solo per coprire una deriva securista che parla alla parte peggiore dell’elettorato, quella di “aiutiamoli a casa loro”, anche se questa casa è un inferno, come un inferno sono i lager libici nei quali il ministro Minniti rispedisce, con vanto, migliaia di disperati intercettati in mare. L’Italia è sempre più immersa nel “pantano libico”. E lo fa abbozzando un’azione militare senza peraltro trarne, sul piano operativo, le dovute conseguenze. Siamo all’avventurismo politico-militare che copre una strategia diplomatica rivelatasi fallimentare e cerca di nascondere una bancarotta etica….

 

L’articolo di Umberto De Giovannangeli prosegue nella cover story di Left in edicola


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