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Generazione identitaria in avaria. La nave anti-migranti soccorsa da una Ong

The ship C-Star of far-right wing organisation Defend Europe is anchored in Famagusta Port, Northern Cyprus, 27 July 2017. The C-Star is a ship hired by a European far-right movement aiming to disrupt migrant rescues in the Mediterranean. According to reports, the crew of the ship has been evacuated and its Captain and Deputy Captain were arrested in Cyprus for allegedly forging false documents and human trafficking. ANSA/STR

L’operazione Defend Europe dell’organizzazione di estrema destra Generazione identitaria continua a non essere un grande successo, per usare un eufemismo. Dopo lo stop forzato a Suez per una verifica dei documenti e l’accusa delle autorità turco-cipriote di Famagosta di complicità in un traffico clandestino di migranti, adesso l’imbarcazione – noleggiata per «rendere difficile il lavoro delle Ong» – si troverebbe in avaria nel Mediterraneo. Fortunatamente però la Sea Eye – nave dell’Ong tedesca che nel 2016 ha salvato 5568 migranti – starebbe per intervenire in soccorso, in seguito alla segnalazione del Maritime rescue coordination center.

Prontissima la risposta – tradotta in 4 lingue – dell’equipaggio della C-star, che ancora una volta tenta di ribaltare mediaticamente la situazione piuttosto paradossale (e imbarazzante) che sta vivendo. La comunicazione del problema tecnico alle navi che stazionano in prossimità viene definito un semplice atto dovuto, «conformemente al regolamento». E il guasto viene minimizzato: «Il problema sta per essere risolto».

https://www.facebook.com/DefendEuropeID/posts/167931293755465

La piattaforma di monitoraggio del traffico navale Marine Traffic segnalava la barca della Sea Eye al largo delle coste libiche, secondo l’ultima rilevazione di circa due ore fa.

Subito sui social è esplosa l’ironia:

Nei giorni scorsi, un collettivo antirazzista tunisino si era mosso per impedire alla nave anti-migranti di attraccare a Zarzis. Successivamente, la C-star aveva rinunciato a fare tappa nella città nordafricana.

Nel frattempo, stamattina l’Ong italo-franco-tedesca Sos Mediteraneé che opera con la nave Aquarius ha sottoscritto al Viminale il Codice di condotta, fortemente voluto dal ministro Minniti. Perciò le organizzazione che vi aderiscono salgono a 5: Save the Children, Moas, Sea Eye, Proactiva e Sos Mediterranee. Mentre – per il momento – 3 fra loro non hanno firmato, ossia: Medici senza frontiere, Sea Watch e Jugend Rettet.

 

«L’ostilità dello Stato contro le organizzazioni umanitarie è pericolosa per la democrazia»

epa05790628 A handout photo made available by the World Press Photo (WPP) organization on 13 February 2017 shows a picture by British photographer Mathieu Willcocks that won the Spot News - Third Prize, Stories award of the 60th annual World Press Photo Contest, it was announced by the WPP Foundation in Amsterdam, The Netherlands on 13 February 2017. Spot News - Third Prize, Stories © Mathieu Willcocks Title: Mediterranean Migration Photo caption: Libyan fishermen throw a life jacket at a rubber boat full of migrants. Migrants are very often not given any life jackets or means of communication by their smugglers. More often than not they only have some water, food and not enough fuel to make it to Italy. Story: The central Mediterranean migration route, between the coasts of Libya and Italy, remains busy. According to reports by the UNHCR, 5,000 people died while attempting to cross the Mediterranean in 2016. NGOs and charities such as Migrant Offshore Aid Station (MOAS) continue their efforts to patrol the patch of sea north of the Libyan coast, in the hope of rescuing refugees before the potential of drowning. The rescue team on board the MOAS' Responder are there to mitigate loss of life at sea. Operating like a sea-born ambulance, they rush to assist and rescue refugee vessels in distress, provide medical assistance, and bring the refugees safely to Italy. EPA/Mathieu Willcocks/WORLD PRESS PHOTO HANDOUT ATTENTION EDITORS : EDITORIAL USE ONLY / NO SALES / NO ARCHIVE / NO CROPPING / NO MANIPULATING / USE ONLY FOR SINGLE PUBLICATION IN CONNECTION WITH THE WORLD PRESS PHOTO AND ITS ACTIVITIES HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES/NO ARCHIVES HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES/NO ARCHIVES

«Caro direttore, le Ong sono presenti nel nostro Paese da decenni, hanno vinto premi Nobel e godono del supporto attivo di milioni di persone in Italia e nel mondo», comincia così la lettera aperta che Marco De Ponte (ActionAid), Gianni Ruffini (Amnesty International), Alessandro Bertani (Emergency), Gabriele Eminente (Medici Senza Frontiere) e Roberto Barbieri (Oxfam Italia) hanno inviato al Corriere della sera, in cui denunciano «l’irresponsabile campagna di ostilità verso le Ong che le istituzioni non fermano» e anzi «irresponsabilmente avallano».

Secondo le organizzazioni firmatarie del documento «dovrebbe essere lo Stato a garantire i diritti fondamentali delle persone, la sicurezza, il welfare, l’informazione libera e trasparente», dovrebbe inoltre essere compito di ogni Paese democratico sostenere le Ong, esserne fieri e valorizzarle. «Le organizzazioni umanitarie – prosegue la lettera – operano in base a rigorose norme concordate sul piano globale (in particolare, il Codice della Federazione internazionale della Croce Rossa) che sono state avallate dagli Stati sottoscrivendo convenzioni internazionali vincolanti in materia di diritti umani e diritto umanitario, riconosciute in sede di Nazioni Unite, riprese dall’Unione Europea e nelle leggi nazionali. Questi reciproci impegni sono la garanzia di un aiuto umanitario efficace e imparziale, e per questo utile non solo ad alleviare le sofferenze di tante donne e uomini, ma anche a limitare i danni delle crisi umanitarie».

Con il codice di condotta proposto dal governo invece si chiede alle Ong di disattendere alle norme sottoscritte a livello internazionale compromettendo la credibilità delle organizzazioni stesse. I firmatari della lettera affermano: «Crediamo sia doveroso chiedere allo Stato di rispettare le regole internazionali che ha sottoscritto nell’interesse di tutti». Le Ong che vengono criminalizzate da una«irresponsabile campagna di ostilità, opportunisticamente alimentata da tanti esponenti politici e opinionisti, dovrebbe trovare nelle istituzioni una ferma opposizione, non un inaccettabile avallo». La lettera si conclude con la speranza che l’Italia si possa distaccare da una cultura prevalente in decine di Paesi in cui non si accetta nel cosiddetto “terzo settore”, «quei soggetti civici che vanno oltre la mera sostituzione dello Stato nella fornitura di servizi al welfare difendendo la propria indipendenza sempre e comunque», perché «è una tendenza pericolosa per la qualità della democrazia».

Per approfondire, ecco il nuovo numero di Left in edicola da sabato 12 (oppure online già da oggi)


SOMMARIO ACQUISTA

Io preferirei di no

An handout image of migrants disembarking in Sicily, provided by Oxfam on 15 September 2016. Close to four million refugees and asylum seekers have fled from one conflict zone to another, Oxfam said today ahead of two summits on migration in New York next week. Oxfam analysis shows that these millions of vulnerable women, men and children were registered in 15 countries - having fled their own - where conflict had caused a total of 161,250 deaths. That's almost 16 per cent of all people who have fled violence, persecution or war at home as they have ended up in another country that is itself in conflict or in a state of insecurity. ANSA / OXFAM PRESS OFFICE +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

(Un appello che, insieme a molti amici, abbiamo lanciato cordialmente. È una parola bellissima “cordialmente”, ovvero “fatto tenendo conto del cuore”. Lo potete firmare qui)

È in corso un nuovo sterminio di massa.

Donne, bambini, uomini, intere famiglie costrette a fuggire dalla guerra e dalla fame. Costretti a farlo indebitandosi, subendo violenze e torture nelle carceri libiche, rischiando di annegare, di morire di sete e di ustioni da carburante su barconi fatiscenti.

Costretti a questo calvario dai governi dell’Europa che ha prima saccheggiato le risorse dell’Africa e armato i conflitti che la dilaniano e poi ha chiuso le porte ai profughi di quelle guerre, obbligandoli alla fuga per l’unica via accessibile, la più pericolosa: il Mediterraneo, dove muoiono il 75 per cento dei migranti che in tutto il mondo, a migliaia, perdono la vita durante la loro fuga.
Il nostro Governo non è indifferente a questa carneficina ma complice: invia navi militari per impedire ai migranti di lasciare le coste dell’Africa; si accorda con i dittatori dei paesi che perseguitano i profughi per bloccare ai confini chi tenta la fuga; perseguita le Ong che – senza alcun fine di lucro – salvano i migranti in mare; impone loro condizioni che rendono impossibile o vano l’intervento, come il divieto di trasbordare i profughi su imbarcazioni più grandi o l’obbligo della presenza sulle navi di ufficiali militari armati, inaccettabile per le associazioni umanitarie che operano in terre di conflitto solo grazie alla loro neutralità.
Il governo italiano si accanisce poi contro chi approda. Lo respinge in Libia e lo riconsegna agli aguzzini che lo hanno torturato, perché i segni di stupri e torture sono vecchi e non vengono refertati, rendendo spesso vana la richiesta di asilo e protezione. Ai richiedenti asilo viene comunque richiesto di svolgere lavori socialmente utili: di lavorare gratis, per noi.
Alcuni sindaci minacciano di ritorsioni le famiglie che accolgono i migranti, vogliono che paghino più tasse. Altri si rifiutano di destinare all’accoglienza dei profghi strutture abbandonate. Altri intimano lo sgombero dei presidi dove volontari distribuiscono gratuitamente pasti e vestiti e dispensano cure mediche. Il servizio pubblico diffonde la falsa informazione che l’Italia sia sotto assedio, che sia in corso un’invasione di profughi, che l’accoglienza non sia sostenibile, quando il nostro paese non figura nella lista di quelli che ospitano più rifugiati e non è nemmeno tra le destinazioni più ambite in Europa: ogni cento richiedenti asilo, solo 7 fanno domanda in Italia.
Noi preferiremmo che non fosse così. Ci adoperiamo ogni giorno perché non sia così. Siamo qui a sfidare il Governo che criminalizza chi salva vite umane, a disobbedire ai sindaci che intimano di non accogliere i profughi, a denunciare la loro complicità con questo deliberato sterminio.
«Preferirei di no», risposero i professori universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Furono solo 12 su 1200. Stavolta sappiamo di essere di più, e desideriamo creare un luogo dove chi pensa che la fuga dalla guerra e dalla fame sia un diritto e l’accoglienza un dovere possa ritrovarsi, mobilitarsi, esprimere la propria solidarietà nei confronti di chi rischia la vita e di chi la salva. Non staremo in silenzio, non staremo a guardare.

Brexit, brexiters e Maybot: il nuovo dizionario urbano britannico ai tempi di Theresa May

epa06117967 British Prime Minister Theresa May arrives at the Last Post ceremony as part of the Centenary of Passchendaele The Third Battle of Ypres commemorations at the Commonwealth War Grave Commissions (CWGC) Menin Gate Memorial, in Ieper, Belgium, 30 July 2017. The Battle of Passchendaele or the Third Battle of Ypres, a campaign of the First World War, took place from July to November 1917. During the Battle of Passchendaele, an estimated 245,000 allied and 215,000 German casualties (dead, wounded or missing) fell after approximately 100 days of heavy fightings. EPA/STEPHANIE LECOCQ

La chiamano Maybot su internet. Ai comizi. Per strada, mentre protestano e agitano cartelli dove c’è scritto “tories out”, fuori i conservatori e “never trust a tory”, non fidarti mai di un conservatore. Oppure “Let summer end May”, lascia che l’estate si porti via maggio, il cognome della premier, May. Eppure sono rimasti in pochi a chiamarla ancora così in Gran Bretagna. È ormai per molti la Maybot.

L’ultimo termine del lessico urbano inglese – ma già annoverato tra le parole esistenti nell’ufficiale dizionario Collins – è nato da due parole che i britannici stanno associando spesso: Theresa May e robot. La parola l’ha coniata l’autore inglese John Crace dopo che la premier ha concesso un’intervista a un reporter di Sky news. Il giornalista le chiede: «Ha dei piani per l’accordo commerciale della Brexit?». La May ripete come sempre qualcosa sull’articolo 50, sul referendum, sul people, popolo. «Gli ultimi cocci di Theresa May stavano combattendo per uscire fuori dall’automa. Poi il malaware ha preso di nuovo il sopravvento», scrive Crane, stanco, come tutti i suoi connazionali, degli slogan vuoti della sua premier.

«Lei non faceva parte della campagna del Leave, non era primo ministro durante il referendum e lei non ha un mandato», dice il giornalista. Sono determinata, dice la May. Determinata a fare cosa, chiede il giornalista? La premier balbetta altre frasi fatte e poi tace.

Per molti mesi, scrive lo scrittore, la May se l’è cavata ripetendo questa frase: Brexit means Brexit, Brexit vuol dire Brexit. Oppure «nessun accordo è meglio di un cattivo accordo», ogni volta che le veniva chiesto di più delle conseguenze e del processo di divorzio dall’Europa. «Se qualcuno si azzardava a richiedere altri dettagli, diceva di non poterli rivelare. Chi era desideroso di crederle, lo faceva». Gli altri, incluso Crane, avevano paura che si trattasse solo di parole e concetti vuoti e «l’intervista di Sky lo confermava».

«Lontanissima dall’essere una leader forte, di mediocrità intrinseca, è debole e confusa. Mentre la destra la descrive come una forte negoziatrice, la May è diventata premier di default», scrive Crane, perché tutti, da Boris Johnson ad Andrea Leadsom, erano fuori dei giochi prima di iniziare.

Brexit, brexiters e Maybot. È imperativo che Brexit non avvenga. L’ha detto più volte Tony Blair, l’ex primo ministro inglese: il damage, il danno economico e politico sarebbe troppo forte da sopportare. L’ha detto l’ultima volta in tv a Sophy Ridge on Sunday, mentre il team per le negoziazioni della Brexit arrivava a Bruxelles per la prima settimana di incontri per gestire l’uscita dall’Unione Europea. Che la leader, al momento, non sa come affrontare.

La May ha sfidato la corte suprema sulla possibilità di non voto del Parlamento sull’articolo 50 e ha perso. «Una leader forte non dovrebbe avere paura del suo Parlamento. Dopo tutto, per i Brexiters il voto voleva dire un ritorno alla sovranità del Parlamento stesso. La Maybot sembrava non tenere ad alcunché se non alla sua sopravvivenza», scrive Crane.

«Il suo successo è dovuto al suo mutismo, al suo silenzio. È sembrata la più credibile che c’era in giro. Se i conservatori non potevano avere un’altra Maggie – la Thatcher-, un pasticcio di seconda classe era la cosa migliore. Al suo primo discorso a Downing Street, esattamente un anno fa, in questo periodo, ha detto che avrebbe governato nell’interesse di chi era stato lasciato indietro dal processo politico. Da allora in poi, una sola cosa ha dominato la sua agenda: la Brexit», scrive Crane, che l’ha battezzata Maybot e molta parte della Gran Bretagna l’ha ascoltato.

Tre milioni di cittadini vivono in Gran Bretagna e un milione di inglesi vivono in Europa. Quasi tre bambini su dieci, in Inghilterra e Galles, sono nati l’ultimo anno da madri straniere. Le statistiche mostrano che il 28,2% dei neonati -196mila, per la precisione- sono venuti alla luce in un paese che non ha dato i natali alle loro madri. Nel 1990 erano solo l’11,6%, nel 2006 erano il 21,9%, nel 2011 erano il 25,5% e da allora le proporzioni sono in crescita. I genitori arrivano specialmente da Polonia, India e Pakistan.

Quali saranno i diritti di europei e non europei adesso? E quanto dovrà pagare la Gran Bretagna per il divorzio? Questo exit è l’issue di ogni cittadino inglese. Nigel Sheinwald, ex ambasciatore inglese all’Unione Europea, dice che le chance che falliscano i negoziati sono uno su tre, a meno che il Regno Unito non acquisisca un approccio più realista sul “divorce bill”. La Brexit ha diviso l’Europa, ma adesso sta dividendo anche la politica inglese.

Al Riot village, il campeggio dove i giovani fanno vivere la sinistra

Per il 13 ottobre abbiamo lanciato il primo sciopero delle studentesse e degli studenti in alternanza scuola-lavoro, da quest’anno a regime, come rivolta contro lo sfruttamento che viene dall’anello debole della catena, per reagire di nuovo tutte e tutti insieme alle disuguaglianze di questa “economia della promessa” che insegna fin dai banchi di scuola a dover accettare come opportunità un’esperienza formativa che di formativo ha poco e niente. Magari nell’industria che devasta il territorio e fa ammalare intere famiglie, magari in una azienda che ha i lavoratori in cassa integrazione, magari in una azienda collusa con la mafia.

Lo abbiamo fatto al termine di due intensissime settimane, durante l’XI edizione del “Riot Village, il tradizionale campeggio studentesco estivo che questo anno ha visto la partecipazione di oltre 2000 studenti, provenienti delle scuole e delle università da tutta Italia. All’interno del campeggio, oltre al mare ed all’irriverenza, si è espressa soprattutto la necessità di ritrovare punti di riferimento nel mondo che cambia.

Dalla sperduta provincia di Foggia – terra di caporalato e dequalificazione territoriale – si è discusso di tante cose: antimafia, quarta rivoluzione industriale, questione ecologica, trans-femminismo, antifascismo, disobbedienza civile al Decreto Minniti-Orlando, politiche migratorie, nuovi modelli di scuola ed università, nuova didattica, contrasto ai processi valutativi attuali, diritto allo studio, disuguaglianze, reddito, lavoro. Si è sperimentata l’autocoscienza maschile, si sono organizzati i corsi di educazione sessuale autogestita nelle scuole contro la retorica dell’ideologia gender, si sono rilanciate sperimentazioni mutualistiche e collettivi lgbtqia.

Tra le mille assemblee però è emersa con forza la necessità di riappropriarsi di un presente tutto da scrivere.

Tra post-verità, discussioni infinite su migranti e sicurezza, repressione, disuguaglianze in aumento, disoccupazione giovanile alle stelle, noi generazione nata e cresciuta con la crisi, cerchiamo chiavi di volta per interpretare il nostro ruolo storico attraverso l’azione collettiva. Nessuna strada è tracciata, nulla è più come prima.

Nell’interregno tra il vecchio che muore ed il nuovo che stenta a nascere, sentiamo addosso la responsabilità di uno sforzo di fantasia e ribellione agli schemi già scritti e falliti. Vediamo intorno a noi la politica e il sociale sgretolarsi, anno dopo anno, davanti ai nostri occhi. Lo spostamento a destra del senso comune e del dibattito pubblico, l’incapacità di incidere di un centro-sinistra che è sempre più privo di identità, l’incapacità della retorica dell’unità a sinistra che viene dai salotti di far breccia nel Paese: tutto ciò ci fa riflettere sul ruolo che deve perseguire ogni forma di agire collettivo.

Quello che cresce, nel frattempo, viene da molti definito “barbarie”, “odio sull’odio”, ri-assemblamento – sotto mentite spoglie – dello stesso potere che ha portato Trump al governo degli Stati uniti d’America. Ma a noi non va di assecondare la retorica dei “civili contro i barbari”, della grande alleanza contro i populismi, non ci va perché non vogliamo stare né con chi ha gestito il potere sulle nostre teste negli ultimi anni – ed è responsabile della crisi, del jobs act, delle riforme della scuola – né vogliamo stare dalla parte di chi orienta il dibattito pubblico sulla pelle della povera gente – e produce guerra tra poveri come strategia politica, interclassismo utile a mantenere lo status quo.

Noi stiamo con i barbari, ma contro la barbarie. Siamo noi stessi parte di quella povera gente che ha voglia di tornare finalmente a decidere e contare qualcosa, forse non “intellighenzia”, forse non intellettuale, ma figlia delle contraddizioni del nostro tempo. Per questo riteniamo ci sia ben poco da unire dall’alto, ma tanto da costruire nella società, per riarticolare le modalità con cui si organizza il potere dentro e fuori da istituzioni oramai svuotate del loro significato.

Ancora una volta c’è chi sfrutta e chi è sfruttato. Chi sfrutta, nello stesso modo con cui lo ha fatto nell’ultimo secolo, e chi invece indirizza la stanchezza verso gli sfruttatori, articolando il conflitto dall’alto verso il basso. La nostra parte, però, è sempre la stessa: quella degli sfruttati, di chi non decide, di chi ha poco mentre la ricchezza è sempre più polarizzata. Che questa parte si chiami o meno sinistra, non è il nodo importante. La cosa importante è riuscire a rispondere a questa” controrivoluzione passiva” con la vitalità della rabbia latente che c’è, con la potenza di ciò che si sta producendo anno dopo anno sui territori, con la costruzione di esperienze mutualistiche che prendano il meglio dal novecento e sappiano far tornare “pop” la solidarietà attiva, con la risposta collettiva che dal basso sfida le macerie e prova a costruire giorno dopo giorno attraverso il buono dell’innovazione sociale, della cooperazione, dell’attivismo.

Ancora eccheggia nelle nostre menti quel risultato del 4 dicembre, che ha visto l’80% dei giovani votare No. È stato un No contro un modello di organizzazione del potere che ci ha sempre escluso, è stato un No delle periferie, un No dei precari, un No degli studenti.

Per questo proponiamo delle sfide vere e radicali per rispondere a questi anni. Mentre nei talk show si scatena il dibattito sulle liceità o meno di salvare vite umane in mare, emerge invece il definitivo fallimento di Garanzia giovani, il più finanziato programma di politiche attive per il lavoro. Pochissima occupazione, ma aumento spropositato di tirocini, spesso usati come strumento di sostituzione semestrale di lavoratori veri e propri. Uno solo tra i mille esempi che potremmo fare delle modalità con cui per tutte e tutti noi lo sfruttamento è divenuta norma.

Ecco quindi che sfidare la politica e sporcarsi le mani noi stessi, per una generazione a cui non è stato concesso di poter credere in nulla, diventa una necessità, ben più importante del discutere di alleanze.

Dal nostro campeggio emergono con forza alcuni terreni di sfida. L’istruzione gratuita e di qualità, che garantisca a tutte e tutti il diritto allo studio, con l’abolizione delle tasse universitarie e dei cosiddetti “costi nascosti”, una proposta che descrive una idea di Paese, di impatto dei saperi sui territori, di capacità di costruire collettivamente la sfida della transizione tecnologica, ecologica e produttiva. Una proposta che si inserisce nella necessità di rivedere completamente l’organizzazione di scuole ed università, ritrovando il loro ruolo sociale per la ricerca e l’innovazione.

Oggi studiare non elimina affatto le disuguaglianze, sia per i problemi legati all’accesso a scuole ed università, sempre più escludenti, ma anche per le modalità con cui l’uscita dai luoghi della formazione determina l’accesso ad un lavoro solo povero e dequalificato.

Per questo è imprescindibile ribellarci all’idea della gerarchizzazione sociale sulla base delle competenze, nuova modalità con cui si articola l’idea dell’economia della conoscenza nella transizione economica. Un destino di precarietà espansiva amplificato dalla robotizzazione, apparentemente senza via d’uscita. Eppure anche queste contraddizioni nascondono opportunità di liberazione possibili con scelte politiche radicali sul piano del lavoro e del reddito di base.

Per questo lo sciopero del 13 ottobre: una protesta che parla di istruzione gratuita, di Mezzogiorno, parla di modello produttivo, parla di condizioni di lavoro, parla di chi ha di più e può sognare e di chi ha di meno e deve accettare a testa bassa. Una protesta che ambisce a coinvolgere l’opinione pubblica, i genitori, gli insegnanti, ma anche chi subisce lo sfruttamento a sua volta, seppur in forme diverse. Discutiamo e riflettiamo di tutto ciò, con la speranza che sia solo una miccia, che ci sia spazio per poter indirizzare questo dibattito elettorale prima che ci inghiotta e ci faccia morire di passioni tristi, con la speranza che i bisogni, i desideri e le aspettative collettive erodano spazio ai soliti temi di speculazione da talk show.

A molti le macerie fanno paura; anche a noi, non lo neghiamo. Ma queste macerie non sono le nostre. Siamo convinti che dalle vostre macerie si possa costruire qualcos’altro, che sia utile e necessario all’irruzione nella storia del suo soggetto protagonista per eccellenza, ma che solo ciò che è strumentale a questo scopo merita di continuare ad esistere. La verità, ed è bene ricordarcelo, è che gli anti establishment siamo noi, almeno dal 1917. Per questo affrontiamo questa fase di transizione con gli occhi al futuro, iniziando a pensare al “pre-”, piuttosto che al “post-” (post-fordismo, post-democrazia ecc.) di cui tanto abbiamo discusso in questi anni. Alzare la testa è quindi d’obbligo, armati di fantasia.

Martina Carpani è la coordinatrice nazionale di Rete della conoscenza

Il sindaco anti illegalità: «Sfiduciato da mestieranti della politica». E chiama in causa Alfano

Il sindaco di Licata (Ag) Angelo Cambiano è stato sfiduciato con 21 voti favorevoli e 8 contrari. La sua colpa? Aver fatto rispettare le sentenze del tribunale di Agrigento per demolire le numerosissime case abusive presenti sulle coste di Licata. Angelo Cambiano, 36 anni, sindaco da meno di due anni, a causa della sua fermezza nel far abbattere le orribili palazzine costruite a ridosso del mare vive sotto scorta, ha subito minacce di morte e varie intimidazioni, fra cui l’incendio doloso di due case di famiglia. La mozione di sfiducia è stata presentata da 16 consiglieri comunali che lo accusano di aver fatto diminuire le risorse nelle casse comunali a causa delle sue scelte politiche. «Ha vinto la classe politica che ha preso in giro i cittadini per 30 anni – ha dichiarato Cambiano ai microfoni di Radio3 -. Di sicuro non ha vinto la buona politica. Sono amareggiato. Ho pagato un prezzo altissimo per essere sindaco di questa città: vivo sotto scorta, sono stato minacciato di morte e ho due immobili incendiati».

Cambiano, che in questi due anni è diventato un simbolo della lotta contro l’abusivismo, ha annunciato che impugnerà l’atto di sfiducia nei suoi confronti perché «le motivazioni che sono state riportate sono solo bugie. Questo atto, votato il 9 agosto, affossa la città di Licata».
Numerosissime ed immediate le reazioni di incredulità e le manifestazioni di solidarietà al sindaco, fra cui spicca quella del presidente di Legambiente Sicilia Gianfranco Zanna: «La mozione di sfiducia al sindaco di Licata è una delle pagine più tristi e brutte della democrazie italiana. La politica siciliana ha scritto un’altra pagina di vergogna, perché non ha saputo difendere un uomo delle istituzioni che ha fatto solo il suo dovere».

Cambiano si è detto amareggiato di fronte ad una politica che l’ha abbandonato: «Credo che la politica debba veramente mettersi una mano sulla coscienza per l’isolamento che ha generato intorno a me – ha dichiarato a Radio3 – il ministro Alfano in primis. È venuto a Licata, ci ha messo la faccia dicendo che il momento della politica che coccola gli abusivi è finito e invece poi i suoi consiglieri comunali di Alternativa popolare hanno votato per sfiduciarmi».
«Sono certo che dietro a questa falsa mozione di sfiducia ci siano ben altre motivazioni, legate all’abusivismo edilizio. Ho interpretato questo mio ruolo di sindaco come un ruolo di servizio per la comunità. Faccio l’insegnante di matematica e tornerò a fare quello, alla mia vita normale. Rimarranno a fare politica i mestieranti della politica, quelli che per 30 anni hanno devastato il territorio di questa città».

Messico, ritorna la scia di sangue

Forensic personnel recover charred bodies following a confrontation in the rural village of Huehuetlan el Grande, Puebla on July 03, 2017. / AFP PHOTO / Jose CASTANARES (Photo credit should read JOSE CASTANARES/AFP/Getty Images)

Macelleria messicana. Una carneficina. Peggiore di quella della guerra della droga che raggiunse il suo picco di morti nel 2011. Una scia di sangue che è anche la prova che la narrativa del presidente Enrique Pena Nieto scricchiola – quella secondo cui il Messico migliora, nonostante la violenza. In effetti, dopo i 43 studenti scomparsi nel 2014, il turismo era aumentato e il tasso di omicidi era calato. Ma la pace non è durata a lungo e il marketing presidenziale non ha fermato il crimine. Nieto voleva ripulire l’immagine del Messico, come aveva promesso in campagna elettorale, ma adesso la violenza ha raggiunto anche le oasi del Paese che fino ad ora erano rimaste irraggiungibili, come Baja California Sur.

Con una polizia locale e nazionale debolissima, con la divisione dei grossi cartelli criminali dopo l’arresto dei loro capi storici, e con l’aumento della domanda di droga dagli Stati Uniti, il flusso di denaro e armi che dalle coste statunitensi vanno avanti e indietro dal Messico è in crescita. L’immagine del nuovo Messico che Nieto voleva dare al mondo sta per infrangersi di nuovo. Tutto sta solo peggiorando.

Con una frequenza allarmante e infausta i cartelli della droga fanno sanguinare paesi in ogni regione, anche in quei posti che finora sembravano sicuri. Il cambio del sistema legale, iniziato nel 2008, con l’aiuto di 300 milioni di dollari americani, – un passo importante per il Paese, ma anche per tutto il continente latino -, doveva chiudere finalmente le falle di un sistema giudiziario gruviera. Eppure adesso è proprio il nuovo sistema ad essere additato dagli agenti delle forze dell’ordine come la causa dei nuovi fallimenti negli arresti, per l’impunità dilagante. Una parola e un luogo che spiegano bene quello che sta succedendo in Messico è Tecoman.

Nel 1997 Tecoman era un paese con un paio di omicidi l’anno. Negli ultimi mesi ce ne sono stati più che negli ultimi due decenni. Maggio e giugno appena trascorsi, come in tutto il resto del paese, sono stati più rossi del sangue. Tecoman è diventato il luogo più mortale del Messico e nel suo anno più pericoloso. Era una località tranquilla e silenziosa, per lo più di fattorie, nella regione di Colima. Dall’anno scorso ha il record di omicidi delMessico, con un tasso di uccisioni simile a quello di uno stato di guerra. Le statistiche di quest’anno evidenziano che gli assassinii commessi sono raddoppiati. Tecoman è il simbolo di un Messico che nessuno riesce a salvare, al punto massimo della sua pericolosità: centomila morti, trentamila scomparsi e miliardi di dollari che continuano ad entrare ed uscire dalle casse dei criminali.

Quello che era uno dei posti più sicuri del Messico, dove le persone arrivavano da zone pericolose per nascondersi, lontano dalle lotte delle gang della droga, ne è diventato l’icona negativa. Il sindaco di Tecoman, Jose Guadalupe Garcia Negrete, nato in una famiglia di coltivatori di lime, parla del crimine con le metafore che gli suggerisce una vita passata tra la natura: «Bisogna andare alla radice, questo problema non si risolve potando i rami». Il crimine, dice il sindaco, incapace di contrastare la piaga che marina, militari e polizia militare hanno fallito ad arginare con operazioni speciali dall’inizio del 2017, «è come un cancro. Ma quello che succede qui sta succedendo nell’intero Stato».

Dacci oggi il nostro fascismo quotidiano

Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini davanti all'entrata della moschea abusiva di via Cavalcanti durante un presidio per chiederne la chiusura, Milano, 3 agosto 2017. ANSA/ DANIEL DAL ZENNARO

Questo è il manifesto affisso a firma “Noi con Salvini” a Giffoni Valle Piana.

“Ha reso grande l’Italia e faceva lavorare tutti, perché nella patria non dovevano esistere parassiti”, dice.

Si chiude con un chiaro post scriptum: “L’onorevole Fiano è avvisato: accettiamo querele per l’apologia del fascismo, Guido Carpinelli già consigliere provinciale con An”.

Dice (è una notizia che ciclicamente si rimette a circolare) che il fascismo ci “ha dato le pensioni”. Ma è falso: la pensione sociale, tuttavia, è istituita solo nel 1969—ossia a 24 anni dalla morte di Mussolini e la creazione della Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai è del 1898.

Dice che “LUI” ha fatto una legge per gli invalidi omettendo il numero degli invalidi (e morti) che Mussolini e i suoi amichetti (soprattutto il tedesco con i baffi) ha provocato.

Insomma: al solito infila una serie di castronerie. Solo che questa volta le appendono al muro, con una chiara e deliberata modalità promozionale e elettorale.

E Salvini, intanto, promette querela a chi lo definisce canaglia razzista. In effetti che sia una canaglia, solo una canaglia, ne possiamo parlare.

Buon giovedì.

Tommaso Cingolani: «Con il Làbas hanno voluto sgomberare un’idea»

Un momento dei tafferugli durante lo sgombero da parte delle forze di polizia dell'ex caserma Masini occupata abusivamente da fine 2012 dal collettivo Labas in centro a Bologna, 8 agosto 2017. Gli agenti hanno affrontato i ragazzi del centro sociale in assetto antisommossa e con blindati, chiudendo la strada di accesso. Gli scontri sono durati una decina di minuti poi la Polizia è riuscita a entrare nell'edificio. ANSA/ GIORGIO BENVENUTI

Il 13 novembre 2012 un gruppo di attivisti occupa un immobile abbandonato, l’ex caserma Masini. Nel corso degli anni l’abbandono diventa collettività, le stanze vuote si riempiono e gli abitanti del quartiere si stringono attorno al nuovo spazio occupato. Questa è la storia del centro sociale Làbas di Bologna, che ieri mattina è stato sgomberato. «Da ieri il centro sociale Làbas non ha più casa – ha detto a Left l’esponente del collettivo Tommaso Cingolani – certamente è avvenuto lo sgombero di uno spazio fisico, ma soprattutto di un’idea: di un immaginario politico, sociale e culturale che in 5 anni aveva preso corpo e vita a Làbas». Alle 7 di mattina è cominciata l’operazione di sgombero del centro sociale di via Orfeo, 50 attivisti si sono seduti di fronte all’ingresso del Làbas per bloccare lo sgombero e sono cominciati gli scontri con la polizia. Gli agenti, in tenuta antisommossa, hanno dapprima cominciato a trascinare via di peso gli attivisti seduti a terra e poi a caricare gli esponenti del collettivo. Sono intervenuti anche i vigili del fuoco per spegnere le fiamme di alcune balle di fieno che si trovavano all’interno dell’immobile e a cui gli esponenti del collettivo avevano dato fuoco nel corso dello sgombero. Durante gli scontri ci sono stati una decina di attivisti feriti, come denuncia il Làbas e la Questura di Bologna ha fatto sapere che 5 poliziotti sono stati trasportati all’ospedale per farsi refertare. L’ex caserma Masini è di proprietà di Cassa depositi e prestiti e nei giorni scorsi il pubblico ministero Antonello Gustapane ha emesso un decreto di sequestro per l’immobile. Nella mattinata di ieri è stato sgomberato un altro centro sociale: il laboratorio Crash in via della Cooperazione, nella periferia bolognese. Al momento dello sgombero non erano presenti gli esponenti del collettivo e sono stati posti i sigilli all’immobile.

Dal 2012 gli attivisti di Làbas hanno riqualificato l’ex caserma, in stato di abbandono da lungo tempo, trasformando il centro in un punto di riferimento della realtà cittadina bolognese. All’interno del centro sociale si trovava un dormitorio sociale autogestito “Accoglienza degna” con 15 posti letto destinati a migranti e a senza tetto, una scuola di italiano per stranieri, un laboratorio di birra artigianale, una pizzeria biologica, una sala prova, una stanza polivalente e il mercato settimanale “Campi aperti” con prodotti biologici a chilometro zero. «La matrice di tutti i progetti di Làbas è una: promuovere serivizi accessibili e fruibili in prima persona da chiunque abbia la volontà di cedere parte della propria individualità a favore di una ricchezza e di un bene collettivo» spiega Tommaso «la maggioranza dei residenti del quartiere ha reagito manifestando rabbia e tristezza: sono diventati virali i video dei residenti che piangono e protestano durante lo sgombero del centro. Ma né i residenti, né noi attivisti abbiamo intenzione di arrenderci: il 30 agosto ci sarà una grande assemblea pubblica in vista della manifestazione che stiamo organizzando per il 9 settembre, a cui speriamo si uniscano migliaia di cittadini e con cui ci riprenderemo Làbas. Làbas non è finito, so che può sembrare pura retorica, ma invece questa volta è quanto mai reale: questi centri sono importanti, sono presidi che difendono il presente, esprimendo un futuro accessibile fatto di cittadinanza attiva e sussidiarietà orizzontale».

 

Aggiornamento del 10 agosto ore 15:05Apprendiamo da un post pubblicato sulla sua pagina Facebook dal sindaco di Bologna, Virgiano Merola, che la palazzina del Làbas, ex caserma Masini, è destinata a «residenze private e alberghi».

Fringe di Edimburgo, quando il teatro è uno spazio libero

Ci siamo. Anche quest’anno il “gigante scozzese” si è risvegliato per travolgere chiunque abbia voglia di lasciarsi incuriosire: è l’Edimburgh International Festival (fino al 28 agosto), che nel 2017, pensate un po’, festeggia 70 anni di vita, tondi tondi. Eh sì, ci sono festival che sono davvero grandi, per il numero di artisti coinvolti, per la quantità di pubblico che attraggono, per la macchina organizzativa che riescono a mettere in moto. La città Edimburgo, conosciuta ormai come la Festival City, non si può certo dire che dal 1947 a oggi non ce l’abbia messa tutta pur di garantire un programma di alta qualità, sempre inseguendo la ricerca e la sperimentazione in tutti i campi (teatro, danza, musica ecc..) e spalmando le esibizioni nelle tre settimane di festa che regalano ogni volta alla città un’atmosfera meravigliosamente caotica eppure magica. Attorno all’Edinburgh International Festival ruotano, tra l’altro, altre manifestazioni che negli anni hanno contribuito ad arricchire il calendario di eventi: sono l’Edinburgh Festival Fringe, il Royal Edinburgh Military Tattoo e l’Edinburgh International Book Festival.

Soffermiamoci sul Fringe, che nel frattempo è stato copiato un po’ in tutto il mondo (Italia compresa) ed è diventato il più grande festival delle arti. Che cos’è esattamente? E come mai ha tutto questo successo? Ripassiamo velocemente un po’ di storia: è nato nel 1947 come alternativa al Festival internazionale su iniziativa di otto compagnie scartate dalla rassegna ufficiale; nei primi anni non ha avuto una vera e propria organizzazione ed è stato portato avanti a lungo da studenti e volontari, fino al boom negli anni Ottanta e quindi alla nascita di una società (la Fringe Society). Nelle edizioni più recenti sono state registrate circa 2-3mila esibizioni, un numero incredibile! Le compagnie che presentano i propri lavori provengono un po’ da tutto il mondo e vanno in scena in sale di ogni forma e dimensione. Il Fringe, infatti, utilizza qualunque spazio, dai teatri originali a quelli fatti su misura, dai castelli alle aule, dai centri conferenze alle sale universitarie, perfino i bagni pubblici o la parte posteriore di un taxi, e ovviante le case del pubblico! In genere gli spazi più improvvisati sono quelli che ospitano gli spettacoli del Free Fringe, cioè quelli per i quali non è richiesto un biglietto d’ingresso ma semplicemente una libera offerta (un po’ come per Avignone Off).

Quest’anno sono una dozzina le compagnie italiane presenti al Fringe (in verità pochine rispetto agli altri Paesi), da Daniele Fabbri (con A gentle, Shy Anticrist) a Stefano Patti e Marco Quaglia (con Echoes di Lorenzo Liberato), mentre al Festival internazionale ci saranno Emma Dante con il suo Macbeth prodotto dal Teatro Regio di Torino (presente anche con altri spettacoli) e Riccardo Chailly che dirige la Filarmonica della Scala.
Perché partecipare al Fringe? La prima risposta potrebbe essere: per farsi conoscere. Certo, e sperare (cosa complicatissima in realtà) che gli operatori del settore possano accorgersi di te. Quindi? È davvero un’opportunità? In realtà il Fringe può esserlo per chi sa di avere un progetto molto valido e quindi può utilizzare la presenza al Festival sopratutto per avere un proprio feedback, una specie di verifica che li aiuti a capire se quella intrapresa è la strada giusta. Inutile dire che per il pubblico il Fringe è la più grande festa a cui abbia mai preso parte, quindi maggiore è il numero di compagnie, più ampia (e complicata) è la scelta… Anche se, inutile dirlo, la qualità non è una garanzia. Il Fringe è più che altro una fucina delle idee, un’isola di libertà dove chi vuole può mettere la propria arte a disposizione del pubblico.
Con questo spirito sono nati nel corso del tempo tanti altri Fringe, dal Nord America al Sud Africa, dall’Europa all’Italia. Qui, negli ultimi anni, sono spuntati come funghi, concentrati soprattutto nelle grandi città: Roma, Napoli, Torino, Matera, Milano. Chi li frequenta sa bene che gli spettacoli si rincorrono uno dopo l’altro, in spazi diversi pronti ad accogliere compagnie che difficilmente avrete visto nei grandi teatri o in quelli più ufficiali. È anche come strategia di difesa verso questa pessima abitudine degli Stabili italiani di scambiarsi gli spettacoli tra di loro che nascono i Fringe, spazi sempre in movimento dove la creatività non ha confini né strane regole da rispettare e che molto ci dicono su quale direzione sta prendendo il teatro italiano.