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Migranti e rifugiati: ecco le favole per bambini che diventeranno grandi

Una terra di permanenti addii. I miei bellissimi uccelli. Refugee, rifugiato. Questi sono solo alcuni dei titoli in arrivo oltreoceano per gli adulti del futuro, presentati recentemente dal New York Times. Mentre la politica fallisce, la letteratura avanza, e si impegna a raccontare a bambini e bambine il dramma della guerra. Nell’immaginario collettivo, il conflitto in Siria è la faccia del piccolo Alan riversa nella sabbia di una costa turca, il volto insanguinato di un bambino di Aleppo tra la polvere delle bombe in un’ambulanza.

Anche per questo motivo, la guerra che uccide minori in Medio oriente va spiegata ad altri minori, che abitano dove il conflitto non si vede, se non in tv e sui giornali. Un conflitto che gli adulti sanno spiegare sempre meno. «E’ importante che i bambini vedano il mondo per quel che è, un posto molto complicato» ha detto Salaam Reads, editor della casa editrice Simon e Schuster. Una sfida per gli autori di libri per bambini, che devono narrare la differenza tra sciiti e sunniti, la nascita dello Stato islamico, la fuga dall’orrore del conflitto che si è portato via casa, amici, famiglia e parenti di chi fugge. La follia delle bombe che distruggono case, ospedali, vite, destini.

«Quando ho cominciato a scrivere questo libro, non avevo idea di quando sarebbe stato pubblicato» ha spiegato Alan Gratz, che ora va in giro per scuole e librerie dell’America di Trump a spiegare che cosa voglia dire per un bambino la mortale parola “guerra”. Gratz, l’autore di Refugee, “il rifugiato”, voleva trasformare «statistiche e dati in nomi e facce a cui relazionarli». «Sicuramente alcune persone diranno che l’ho fatto per portare avanti un approccio politico». Gratz, sin nelle note di prefazione, esplicita il suo punto di vista, parlando direttamente del Trump’s travel ban e ribadendo che gli Stati uniti hanno accettato meno dell’1% dei cinque milioni di rifugiati siriani, mentre il Canada ne ha accolti ben 33mila nel 2016. Dopodiché, lascia il palcoscenico ai suoi personaggi. Mahmoud Bishara esiste solo nella penna di Gratz, ma la sua vita è quella di migliaia: è un bambino di Aleppo, scappato con la sua famiglia dalla sua città distrutta dagli ordigni, deve affidarsi ai trafficanti, alle milizie, per raggiungere la costa turca e attraversare il Mediterraneo verso l’Europa. Suo fratello Waleed – che assomiglia a Omran Daqneesh, il ragazzino di 5 anni il cui volto insanguinato ha fatto in poche ore il giro del mondo – non riesce nemmeno più a piangere.

Anche Nadia è una ragazza di Aleppo, e anche lei fugge con la famiglia verso la Turchia, dopo il fallimento delle primavere arabe e l’inizio della guerra. Il libro in cui si parla di lei si chiama proprio così, Fuga da Aleppo e l’autore è N.H. Senzai.

Di un altro bambino che arriva in Canada dalla Siria scrive Carrie Gelson in My Beautiful Birds, i miei bellissimi uccelli. Nour Alahmad Almahmoud, una bambina reale di 12 anni, siriana, ha davvero vissuto fino al 2015 in un campo rifugiati in Giordania: quando ha sentito la storia del bambino protagonista del libro, è scoppiata in lacrime. «Ho pianto perché questo libro mi fa ricordare tutto, ho sentito che la famiglia del libro era la mia famiglia».

A chiudere la piccola rassegna, Stepping stones, calpestando pietre, scritto sia in arabo che in inglese. Una storia di bambini per bambini, che parla di una famiglia araba, che scappa da un paese mai nominato, illustrata dai disegni dell’artista Nizar Ali Badr.

Il “liceo breve”? Così lo vuole il mercato. Ovvio

Il ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, durante l'evento di ritrasmissione del lancio della ''Missione VITA'' dell'ASI dell'astronauta ESA Paolo Nespoli, Roma, 28 luglio 2017. ANSA/GIORGIO ONORATI

Capiamoci: dopo la laurea breve partorire l’idea di un “liceo breve” (soprattutto con le motivazioni addotte) è poco di più di una scoreggia estiva. Per due motivi: uno strettamente legato ai numeri e uno di quadro più generale e culturale.

I numeri, innanzitutto, ci dicono che già la laurea breve è stato un fallimento. Come ha scritto bene Marzio Bartoloni (qui) “la missione di quella riforma finora è fallita: le nuove matricole all’università non sono decollate come si sperava, anzi a conti fatti ne abbiamo perse 10mila per strada. E così restiamo fanalino di coda in Europa (peggio di noi solo la Romania) per numero di laureati. Anche l’obiettivo di aumentare le chance di trovare subito un posto di lavoro non è stato raggiunto: è vero che non si possono accostare percorsi universitari così differenti, ma se con il vecchio diploma di laurea trovavano lavoro, a un anno dalla tesi, circa 7 neo dottori su 10 i laureati triennali e magistrali di oggi possono vantare numeri praticamente sovrapponibili”. Rifarsi a un esperimento fallito per lanciare un’iniziative di governo ha lo stesso fascino del gridare al mondo di avere inventato una nuova abitazione a cui manca “solo” il tetto.

C’è poi la questione della pregiatissima “innovazione” che questo liceo porterebbe: “didattica innovativa”, “basta lezioni frontali” e l’insegnamento di alcune materie in lingua straniera. Perché tutto questo non si possa applicare agli attuali licei quinquennali rimane un mistero.

C’è poi la questione culturale e sociale: un’istruzione così fighissimamente smart rientra perfettamente nei canoni della superficialità culturale che fa il paio con il fastidio per i “professoroni” e la cultura in generale. L’idea che per raggiungere i propri obbiettivi conti più la furbizia o la velocità di esecuzione piuttosto della densità di pensiero è ormai un dogma di questo decennio e applicare questo (brutto) trend alla scuola non è proprio una grande idea. No.

E poi c’è la questione fondamentale: un mercato del lavoro che vuole lavoratori sottopagati (e sottoculturati), pronti per essere valutati “al chilo” come semplice costo, trova nel “liceo breve” la giusta rappresentazione. Un anno di scuola in meno significa avere prima carne da lavoro. E, se ci pensate bene, significa avere meno costi per l’istruzione. Sembra banale, in effetti, ma ci guadagnerebbero tutti. Tutti gli altri. Ovvio.

Buon mercoledì.

Come ti riduco la scuola: l’ultimo decreto sui licei brevi

Gli studenti impegnati nella prova di Italiano per gli esami di maturità presso il Liceo Massimo D'Azeglio di Torino, 21 giugno 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Nel cuore delle vacanze scolastiche ecco la notizia-bomba: il diploma delle scuole superiori in 4 anni. Quello che aveva tentato di fare senza successo il ministro Berlinguer (che però era riuscito a ridurre l’Università nel 3+2) e la ministra Moratti adesso viene portato avanti dalla ministra Valeria Fedeli che l’altro ieri ha firmato il decreto per il Piano nazionale di sperimentazione. Ma non è una novità. Il liceo “breve” era già stato introdotto dalla ministra Maria Chiara Carrozza nel 2013 e anche dalla ministra Stefania Giannini. La differenza è che adesso riguarderà 100 classi (anziché le 60 del precedente decreto) e circa 2500 studenti.Le scuole statali e paritarie potranno partecipare al bando del Miur dal 1 al 30 settembre e si potrà attivare una sola classe per scuola partecipante.

Non sarà una scuola facile quella “ridotta”. Si parla di “elevato livello di innovazione” nel rimodulare i piani di studio, di un aumento di ore, dell’insegnamento Clil cioè una materia in lingua straniera e nell’alternanza scuola lavoro (400 ore nel triennio dei tenici e 200 dei licei) da svolgersi d’estate e non in orario scolastico. Ci sarà una Commissione tecnica che valuterà le domande pervenute e un Comitato scientifico farà il punto sul Piano di innovazione. L’esame di Stato sarà identico e anche il programma delle varie discipline rimarrà invariato, sarà quindi necessario rimodulare il calendario scolastico. Undici istituti superiori, 6 pubblici e 5 paritari, tra cui il Visconti di Roma, il San Carlo di Milano e l’Esedra di Lucca hanno già portato a termine un primo percorso quadriennale sperimentale iniziato nell’anno scolastico 2012/2013 e stanno effettuando una valutazione del percorso.

La volontà, sostiene il Ministero, è quella di mettersi al passo con l’Europa, dove generalmente i ragazzi finiscono la scuola un anno prima rispetto agli studenti italiani. In realtà però non tutti i Paese europei hanno adottato questo sistema scolastico e il quadro dell’istruzione europea è variegato: ci sono Paesi, tra cui quelli del Nord, in cui gli studenti finiscono a 19 anni e altri in cui la scuola media si prolunga fino ai 15/16 anni e i ragazzi terminano a 18 anni (sul modello anglosassone). Viene da chiedersi se abbia senso anticipare di un anno l’ingresso nel mondo del lavoro in un mercato del lavoro che penalizza, più di tutti gli altri, i giovani tra i 15 e i 24 anni e in cui il tasso di disoccupazione giovanile tocca soglie sempre più alte. Con il decreto della ministra Fedeli inoltre si dovrebbe comprimere in 4 anni il programma che si svolge in 5: in questo modo lo studente dovrà dedicare sempre più ore al proprio percorso scolastico e potrebbe essere costretto ad abbandonare qualsiasi interesse non in linea con il proprio percorso di studi.

Cresce anche la preoccupazione sui tagli a posti di lavoro: diminuendo di un anno il percorso di studi si ridurrebbe infatti anche il corpo docenti. La riduzione di un anno della scuola avvantaggerebbe poi gli studenti che provengono da famiglie abbienti con genitori laureati che sono in grado di garantire ai figli esperienze, cultura e conoscenze e che garantirebbero ai figli la possibilità di potersi dedicare completamente al proprio percorso scolastico, senza nemmeno avere la possibilità di poter svolgere un lavoro estivo retribuito (dato che con il “liceo breve” l’alternanza scuola lavoro si dovrebbe svolgere d’estate). Come sostiene l’Usb, la didattica sarebbe poi improntata a garantire una maggiore professionalizzazione, con l’aumento delle ore di laboratorio e dell’alternanza scuola-lavoro, creando giovani cittadini specializzati, magari più pronti ad affrontare il mercato del lavoro, ma sempre meno capaci di avere un pensiero critico.

Il Kenya al voto, tra timore di brogli e fake news

epaselect epa06131266 A Kenyan voter casts her vote at a polling station in the Kibera slum, in Nairobi, Kenya, 08 August 2017. Kenyans are voting to elect their leaders in the country's general elections, where leader of the ruling Jubilee coalition and incumbent President Uhuru Kenyatta is challenged by opposition leader Raila Odinga, who leads The National Super Alliance (NASA). Many fear the possibility of post-election violence. EPA/DANIEL IRUNGU

Ci sarà a breve un nuovo presidente, un nuovo Parlamento, un nuovo Kenya: 19 milioni di votanti si stanno recando in quasi 41mila urne in tutto il Paese in queste ore. Spesso, l’elezione di un nuovo capo di governo vuol dire sangue prima, timore del caos dopo: 1300 persone hanno perso la vita e 600mila sono scappate dalle loro case in seguito alle violenze per le elezioni del 2007, dove gli sfidanti avevano accusato il candidato Mwai Kibaki di aver truccato le schede.

Adesso la sfida è tra l’attuale presidente Uhuru Kenyatta, 55 anni, e il suo avversario Raila Odinga, un veterano della politica africana, 72 anni, a capo di una coalizione che tenta di vincere la tornata elettorale presidenziale per la quarta volta. Ma Kenyatta lo ha già battuto cinque anni fa. Se nessuno dei candidati dovesse raggiungere la maggioranza – ovvero oltre il 50% dei voti più uno – si andrebbe al ballottaggio, per la prima volta nella storia del Kenya.

Le promesse di Kenyatta per il futuro del Paese: più di un milione di posti di lavoro, riduzione del costo della vita, soprattutto per quel 47% dei 48 milioni di abitanti che vive in povertà assoluta. Quelle di Odinga, invece, hanno in primo piano la lotta alla corruzione: il Kenya è al 145° posto nella lista dei 176 paesi più corrotti del mondo, secondo Trasparency International. Odinga sta già accusando l’avversario di manipolare le elezioni, è questo «l’unico modo che ha per vincere», ha dichiarato.

Raid armati, uccisioni, proteste sanguinose, fake news: questo, da sempre, ha seguito e preceduto le elezioni a Nairobi e in Kenya non si vince o perde solo in Kenya: la giovane democrazia può influenzare l’economia di tutta la regione adiacente d’Africa. Ma «c’è un ecosistema di fake news, in questa elezione i keniani non sanno quale sia la verità» ha detto Alphonce Shiundu, editor dell’organizzazione Africa Check, che si occupa di falsità giornalistiche nel continente.

Solo pochi giorni fa, Chris Msando, direttore della commissione dell’informazione e comunicazione che vagliava su eventuali brogli, è stato torturato ed ucciso. Il suo corpo mutilato è stato trovato in una foresta. Msando tentava di capire perché c’erano un milione e duecento schede in più rispetto ai votanti registrati. In un’intervista, prima di morire, aveva detto: «la politica tossica che ha portato all’uccisione di luminari della politica come Tom Mboya, JM Kariuki, Pio Gama Pinto e Robert Ouko, come le violenze durante le elezioni nel 1988, 1992, 1997, 2007 e 2013, è ancora tra noi».

Fine vita: il Parlamento tace ma Accabadora riempie le sale

L’Accabadora non parla. E i suoi occhi raccontano la tristezza di chi, seguendo una tradizione arcaica tramandata di madre in figlia, porta la buona morte. Annetta, bella e tenebrosa, interpretata da Donatella Finocchiaro è la protagonista di Accabadora, “colei che finisce”, il nuovo film di Enrico Pau. (Il titolo inevitabilmente rimanda all’omonimo romanzo pubblicato nel 2009 da Michela Murgia, ma a tal proposito il regista sostiene che la sceneggiatura del film abbia altre radici). Dopo l’esordio a Cagliari il 20 aprile è in proiezione itinerante in tutti i centri dell’isola ed il cult dell’estate. L’apprezzamento per il film è certificato dal tutto esaurito che si registra per ogni proiezione. Dentro c’è il passato ma anche la modernità. La sofferenza e la ricerca dell’amore, il dolore e la speranza. E un dibattito ancora aperto e acceso sul fine vita. Tutto nasce e si sviluppa in un viaggio che parte dalla Sardegna arcaica e rurale per approdare nella Cagliari bombardata e distrutta. Annetta, solo dopo tempo e una sofferenza quasi inenarrabile, riesce a squarciare l’isolamento in cui è sprofondata a causa di quella condizione che le ha negato anche la più piccola briciola d’amore. Sarà proprio l’affetto per la nipote Tecla (partita da tempo con un carretto verso il capoluogo) a portarla via dal paese per raggiungere Cagliari. “Non sappiamo se la figura della accabadora sia esistita veramente, perché gli antropologi di Cagliari dicono si tratti di una leggenda o invenzione ma a me piace il fatto di affrontare un caso e si parla delle persone – spiega il regista .- La storia della Accabadora mi era rimasta impressa sin dal 2004, quando ho lavorato nel laboratorio del cinema a Santu Lussurgiu, la scuola dove studiò Gramsci”. Certo è, chiarisce, “se l’accabadora è esistita realmente possiamo dire che cent’anni fa erano molto più avanti e moderni di noi”. Enrico Pau, che definisce il film “antico e moderno al tempo stesso”, (nel cast accanto a Donatella Finocchiaro, Barry Ward, Carolina Crescentini, Sara Serraiocco, Anita Kravos, Camilla Soru, Federico Noli, insieme con Caterina Medici, Maria Grazia Sughi, Emilia Agnesa, Roberta Locci, Carla Orrù, Mario Faticoni, Piero Marcialis, Giuseppe Boy, Nunzio Caponio, e con Saverio Abis e i giovanissimi Riccardo Cau, Enia Carboni e Matilde Soro -produzione Film Kairos (Italia) / Mammoth Films Irlanda), non ha la pretesa di fare una ricostruzione storica ma vuole “raccontare una storia e sviluppare una discussione”. “E’ molto interessante riflettere su una cosa: l’idea che in un villaggio piccolo ci fosse una figura, una donna che aveva questo ruolo e aiutava le persone che stavano per morire a liberarsi delle sofferenze – aggiunge ancora il regista che è anche autore della sceneggiatura originale insieme ad Antonia Iaccarino –. Un argomento che oggi, seppure in maniera differente e in mezzo alla discussione sul fine vita e quindi la possibilità di sospendere le cure, non si riesce ad affrontare lasciando questo paese in una sorta di limbo”. Eppoi quel filo rosso che unisce tutti i suoi film: raccontare le persone, quelle che devono fare i conti con una certa difficoltà. Come Annetta. Bella ma triste e sola. Confinata in un isolamento e quasi ripudiata. “La sua vita è un casino, non ha mai avuto un pezzetto d’amore cui aggrapparsi, è sempre stata delegata a questo ruolo terribile in mezzo al nulla – spiega Enrico Pau-. L’irrompere della nipote in una famiglia che l’ha quasi rinnegata e che chiede amore, la mette in una crisi profonda che la costringe a lasciare il suo mondo e senza chiedersi perché lo facesse. Perché in questi riti c’è la tradizione e c’è un meccanismo arcaico consolidato”. Se qualcuno pensa di trovare immagini macabre si sbaglia. Accabadora (le scenografie sono disegnate da Marco Dentici, i costumi di Stefania Grilli – il mantello disegnato dallo stilista Antonio Marras – colonna sonora firmata da Stephen Rennicks, con i canti dell’ensemble corso A Filetta), racconta anche la drammaticità del trapasso con delicatezza e rispetto per il dolore. E tra le righe regala la speranza di donna che, alla fine, riesce a cambiare vita. Una speranza, come una fiamma debole, che prova a resistere.

E ora Accabadora diventa anche spettacolo, il 10 agosto Accabadora il romanzo di Michela Murgia debutta in forma di lettura scenica a Roma all’interno della rassegna “I solisti del teatro” nei Giardini della Filarmonica. Lo spettacolo sarà in anteprima nazionale a novembre 2017  al Teatro Biblioteca Quarticciolo per proseguire la tournée in diverse città italiane, La  drammaturgia è di Carlotta Corradila regia  di Veronica Cruciani,  protagonista Monica Piseddu.  A sua volta la scrittrice Michela Murgia debutta in uno spettacolo dedicato a Grazia Deledda nell’ambito dell’ “Ogliastra Teatro – Festival dei Tacchi”.

F-35: dovevano essere super-caccia e invece sono solo polli

An F35 performs during a flying display at the Farnborough International Airshow in Farnborough, Britain, 12 July 2016. The Farnborough International Air Show runs from11-17 July. ANSA/HANNAH MCKAY

Vi ricordate i famosi F-35? Bene, il programma “è oggi in ritardo di almeno 5 anni” per le “molteplici problematiche tecniche” che hanno fatto anche si che i costi del super-caccia siano “praticamente raddoppiati“; anche le prospettive occupazionali per l’Italia “non si sono ancora concretizzate nella misura sperata”. Tuttavia, “l’esposizione fin qui realizzata in termini di risorse finanziarie, strumentali ed umane è fondamentalmente legata alla continuazione del progetto” ed uscirne ora produrrebbe importanti perdite economiche. Lo scrive la Corte dei conti ed è un ottimo manifesto dell’incapacità di governo.

Avrebbero dovuto portare 10.000 posti di lavoro e invece non arriveranno nemmeno a 4.000 (se tutto va bene, in un progetto in cui tra l’altro tutto sta andando male); avrebbero dovuto essere un alto esercizio di ingegneria e invece continuano ad avere dei seri problemi di sviluppo; ci avevano promesso di dedicarsi alla pace e invece continuano a sperperare in pessimi progetti di guerra.

Ma è curioso soprattutto che proprio sugli F-35 l’ex Presidente della repubblica Giorgio Napolitano abbia speso immani energie come se i caccia bombardieri fossero l’emergenza sociale più importante.

E viene da chiedersi come potremmo fare la pace. Per fortuna almeno non siamo nemmeno capaci di armarci per la guerra.

Bravi. Avanti così.

Buon martedì.

«Trump e Putin soffiano sulla rabbia dei popoli. L’antidoto è la lotta alle ingiustizie»

FILE - In this July 7, 2017, file photo, President Donald Trump meets with Russian President Vladimir Putin at the G-20 Summit in Hamburg. Trump signed on Aug. 2, what he called a "seriously flawed" bill imposing new sanctions on Russia, pressured by his Republican Party not to move on his own toward a warmer relationship with Moscow in light of Russian actions. (ANSA/AP Photo/Evan Vucci, File) [CopyrightNotice: Copyright 2017 The Associated Press. All rights reserved.]

Il crollo dell’edificio Grenfell a Londra non è stato ancora dimenticato dalla popolazione britannica e ha aperto un dibattito nella società inglese che non si è ancora chiuso. Un dibattito che parla, in fondo, dello scontro di classe. Di precariato, di diritto alla casa, al lavoro. Di geopolitica globale. Come quello dell’edificio, anche questo è un incendio ormai difficile da spegnere.

«La rabbia sta esplodendo ovunque nel mondo e Trump e Putin stanno soffiando sulle fiamme». Lo scrive il giornalista e professore universitario Paul Mason sul The Guardian, analizzando la situazione da un capo all’altro del mondo. Per la classe politica inglese, «nervosa sia per le manifestazioni, che per il marxismo, dalla tragedia dell’edificio Grenfell, la vista di Amburgo in fiamme non è stata rassicurante». Amburgo è stata solo l’ultima manifestazione d’Europa che ci ha ricordato che «la rabbia sta esplodendo in tutte le società occidentali e sta diventando sistemica».

La povertà della classe media. La povertà dei nuovi poveri. La crisi della migrazione. La Brexit e Donald Trump. Gli attacchi terroristici in Germania, Gran Bretagna, Francia. L’ascesa del Front National e lo tsunami di Emmanuel Macron. La débacle di Theresa May: «La storia si sta allontanando dalla stabilità. In un anno, la risposta dei politici e dei banchieri che prendono decisioni sono cambiate: le banche centrali hanno dato inizio a un ciclo di restrizioni, abbassando tassi d’interesse e stampando soldi, quello che ormai tiene il mondo a galla dal 2009». Era stato promesso di trovare un nuovo modello economico per il mondo, «ma non si vede niente all’orizzonte».

«Con l’elezione di Trump, il consenso sulla globalizzazione ha cominciato a disintegrarsi. Questo conduce al secondo grande cambiamento: quello sul commercio. Sin dagli albori, quando si sono incontrati nel 2008, i leader dei G20 dovevano evitare il protezionismo come risposta alla crisi finanziaria. L’esperto commerciale e professore Simon Wevenett ha detto che questo accordo, dall’ultimo summit, è stato violato appena 13 ore dopo è stato concordato, visto che il governo ha favorito 5886 restrizioni commerciali».

La retorica è sempre più forte delle azioni, scrive Mason. Per Trump e Vladimir Putin «c’è un chiaro calcolo: più diventano arrabbiati i loro popoli con Paesi stranieri, con prodotti ed esseri umani di quei Paesi, meno saranno propensi a ribellarsi in patria. Siamo in un punto della politica globale in cui la rabbia può essere guidata solo in due direzioni: verso l’alto, verso le élite, o ai lati, contro le minoranze, nazioni rivali e istituzioni che vogliono difendere la legge».

Quando l’obiettivo è rivolto alla politica interna inglese, con uno sguardo tacito su Corbyn, l’editorialista scrive che «i laburisti hanno paura dei loro stessi membri, i tories dei deputati di secondo piano, i giornalisti del tono malevolo che ha assunto il dibattito su Grenfell. Ho già espresso la mia idea, è importante riconoscere da dove viene la rabbia». Del popolo. Cosa la produce. «Per le persone senza potere economico, la vita di ogni giorno è un lungo atto di coercizione contro di loro. La fila per i benefits, per gli ospedali, le attese per un’operazione chirurgica. Per i lavoratori precari c’è un sistema di multe e demeriti, sovraccarico di lavoro obbligatorio, ai loro datori di lavoro è concesso comportarsi come dei mini Putin, Trump o Orban. Questo è quello che rende meno prevedibile cosa faranno le persone, quando perdono la calma. L’antidoto più forte a questa rabbia è un sistema politico che reagisce velocemente alle ingiustizie». Ci si può lamentare delle Audi bruciate per la furia delle strade durante le proteste del popolo arrabbiato da Amburgo a Parigi, ma bisogna ricordare che «cinque dei più grossi troublemaker del pianeta erano nella foto del G20: Narendra Modi, Putin, Trump, Erdogan, Xi Jinping. Il re saudita mancava, era troppo occupato a tentare di invadere un Paese vicino».

L’ex guerrigliero Paul Kagame torna al potere in Rwanda

epa06124412 A handout photo made available by Rwandan Presidential Office shows President of Rwanda Paul Kagame (R) as he casts his ballot in the Presidential and general elections at a polling station in Kigali, Rwanda, 04 August 2017. Rwandans go to the polls for general and presidential elections on 04 August. EPA/RWANDAN PRESIDENTIAL OFFICE HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

È stato appena rieletto con il 99 per cento dei voti, riconfermato dopo 17 anni al potere. Nel piccolo Stato africano del Rwanda – l’indipendenza dal Burundi ottenuta nel 1962, 12 milioni di persone in tutto – , Paul Kagame non è solo un presidente, è un uomo onnipotente.

Nessuno ha sgranato gli occhi per la sorpresa, dentro e fuori il Rwanda: la vittoria alle elezioni del presidente era notizia scontata. Non lo era il suo ultimo plebiscito, che ha sfiorato il 100 per cento. Nel 2010 aveva ottenuto il 95 per cento dei voti, nel 2003 il 93. Nel 2017 queste elezioni sono arrivate dopo un emendamento costituzionale approvato dal 98 per cento dei votanti, che ha messo fine al limite di soli due mandati concessi al presidente, che ora può rimanere al potere fino al 2024 e oltre.

Nel Paese dove nel 1994 sono state uccise 800mila persone durante il genocidio, l’ex guerrigliero di 59 anni, tacciato di autoritarismo e di aver creato uno Stato dal partito unico, continua a tenere strette le redini del potere. Allora, come oggi. Kagame il controverso despota, Kagame eroe del popolo, Kagame il presidente incombente e assolutista, Kagame il leader più popolare, dalla capitale Kingali, fino ai confini di uno Stato con l’economia tra le più veloci e più avanzate di tutta l’Africa. Ma non solo il Rwanda in questa calda estate di tornate elettorali, elezioni si terranno presto anche in Angola e in Kenya.

Sostegno all’economia e stabilità economica è quello che Kagame ha ripetuto più spesso negli ultimi mesi. Sotto il suo governo, povertà e morte infantile sono diminuite anche per il programma di investimenti attuato. Le promesse con cui ha battuto i suoi due avversari erano semplici: più sviluppo, più cliniche, più scuole, più strade. Phillippe Mpayimana, il candidato indipendente, ha ottenuto lo 0,72 per cento dei voti. L’unico oppositore di Kagame, Frank Habineza, un ex giornalista, a capo del Partito Verde democratico, ha ottenuto lo 0,45 per cento e ha dichiarato: «Siamo ancora spaventati come fossimo dei nemici, ma fino ad ora nessuno del nostro partito è stato minacciato, ucciso, picchiato o imprigionato, e questo vuol dire almeno che qualche progresso è stato fatto».

Per acclamare la vittoria del nuovo, vecchio presidente la maggioranza della popolazione è scesa in strada sventolando la bandiera a tre colori – rosso, bianco, blu- con le tre lettere stampate sopra: Far, Fronte patriottico del Rwanda. Era il nome della milizia del giovane Paul, durante la guerra tra Hutu e Tutsi, ed ora è il suo partito politico. L’uomo che oggi vuole «assicurare lo sviluppo al popolo» dal palco elettorale, nel 1994 era a capo delle forze ribelli Tutsi. Aveva 36 anni quando condusse la sua milizia armata nella capitale, guidandola in battaglia contro i suprematisti Hutu.

Kagame diventò in seguito, facendo leva sui suoi trascorsi militari, prima ministro della Difesa e poi vicepresidente, assicurandosi nel 2000 la più alta carica del potere. Da allora non l’ha abbandonata un solo giorno e, come molti presidenti d’Africa prima di lui, è probabile che non lo farà mai più.

La Sardegna del governatore Pigliaru, l’importante è costruire

Cala Mariolu

Cala Mariolu e Bidde Rosa, nel golfo di Orosei, in provincia di Nuoro. Cala Coticcio nel sassarese e poi la Pelosa lungo la Nurra, in provincia di Alghero, così come Maria Pia. Spiagge d’incanto. La Sardegna regala certezze, ogni anno. Il mare é il protagonista con i suoi fondali, le sue acque cristalline. Le coste sono un richiamo irresistibile. La natura è lì a portata di mano, spesso ancora incontaminata. Nonostante ci sia da sempre chi voglia farne altro, stravolgendone i caratteri distintivi. Aggiungendo ancora costruzioni, di ogni tipo, di impatto differente, ma in ogni caso devastante. Resort, hotel a cinque stelle, strutture ricettive. La chiamano «saper rispondere alle esigenze del turismo», «capacità di offerta diversificata». Se si trattasse soltanto di questo non ci sarebbe poi da stupirsi. Il mare é bello, la natura anche, ma poi in pochi pernotterebbero all’aria aperta. Naturale che sia così. Nella realtà sembra qualcosa di molto differente. Si tratta del tentativo, neppure tanto celato, di puntare sul turismo nella maniera più scriteriata e autolesionistica possibile. Incrementando oltre misura i servizi ricettivi. Ma così facendo, sostanzialmente minando alle fondamenta quel che spinge la gran parte dei villeggianti a scegliere la Sardegna, il suo mare, le sue coste, la sua cultura.

In questo senso il disegno di legge urbanistica, approvato a marzo dalla giunta di centrosinistra guidata da Francesco Pigliaru, è molto chiaro. Ci sono, eccome, le deroghe per intervenire nella fascia dei 300 metri dal mare, (tutelata dal piano Paesaggistico Soru) attraverso il miglioramento e l’ampliamento delle strutture ricettive con un incremento volumetrico massimo del 25%. «Nella nostra proposta nella fascia dei 300 metri si possono fare poche cose di buon senso. Nessun nuovo albergo, per esempio. Solo ed esclusivamente la possibilità per gli alberghi che già esistono di adeguare le proprie strutture al fine di affrontare meglio un mercato turistico che in questi anni è cambiato enormemente. E per aiutarci a portare i turisti nelle stagioni di spalla, non solo a luglio e ad agosto. Nient’altro. Il tutto con controlli severi per garantire la serietà dei progetti che verranno presentati», ha scritto Pigliaru su facebook. Giustificazioni che non cambiano la sostanza per le associazioni ambientaliste, ma anche per colleghi di partito come Simone Campus, assessore al Bilancio del Comune di Sassari e Matteo Lecis Cocco Ortu, consigliere comunale di Cagliari. Un pericolo per chiunque abbia a cuore la salvaguardia paesaggistica dell’isola. Per chiunque coniughi tutela e valorizzazione dei luoghi con presunto sviluppo. Ma si sa il partito dei disinvolti cementificatori conta su un esercito. Al quale appartiene di diritto Flavio Briatore.

«Posti straordinari, ma i sardi vogliono fare i pastori non turismo», ha detto il marito di Elisabetta Gregoraci lo scorso settembre, parlando, a (s)proposito, di come l’isola non perseguisse adeguate politiche di sviluppo. Già, perché accade spesso e non solo in Sardegna. L’idea che il turismo vada inseguito «a prescindere», anche se comporta sfregi reiterati al paesaggio, ha molti sostenitori. Sono proprio questi che vorrebbero vedere delegittimate le salvaguardie assicurate dal piano paesaggistico regionale del 2006, insomma la cosiddetta Legge Salvacoste, voluta dall’allora Governatore Soru. Gli stessi, capeggiati da non pochi amministratori locali, che si adoperarono perché il consiglio dei ministri impugnasse la Legge regionale n. 8 del novembre 2004 riguardante le «Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale». In quella occasione a puntare i piedi contro una misura che «blocca lo sviluppo» e assesta «un colpo mortale al turismo dell’Isola», tra gli altri, i sindaci di Olbia, Settimo Nizzi, e di Cagliari, Emilio Floris, entrambi di Fi. Non riuscivano proprio ad farsene una ragione del «divieto di realizzare nuove opere soggette a concessione ed autorizzazione edilizia, nonché quello di approvare, sottoscrivere e rinnovare convenzioni di lottizzazione» nei «territori costieri compresi nella fascia entro i 2.000 metri dalla linea di battigia marina, anche per i terreni elevati sul mare», nei «territori costieri compresi nella fascia entro i 500 metri dalla linea di battigia marina, anche per i terreni elevati sul mare, per le isole minori» e nei «compendi sabbiosi e dunali». Nell’ottobre 2013 la giunta di centro destra guidata da Ugo Cappellacci era riuscita nell’impresa a lungo inseguita, abrogare il piano di tutela del paesaggio approvato da Soru. «Dimenticatevi Villasimius, le spiagge di Bosa, non ci saranno più Tuerredda, le Bombarde, Costa Paradiso, Cala Giunco perché costruiranno ovunque, come volevano fare prima del piano paesaggistico», aveva detto nell’ottobre 2009 l’ex governatore. Ad applaudirlo anche Dario Franceschini, allora segretario nazionale del Pd. Lo stesso che nel 2014 da Ministro per i beni culturali, pubblicizzava nuovi impianti da golf per il Sud, Sardegna compresa. Impianti che «riusciranno ad attrarre il turismo straniero, che oggi non si riesce ad attirare», affermava Franceschini.

A distanza di undici anni dalla Legge salvacoste Soru la Sardegna rischia di diventare terreno per nuove urbanizzazioni. E questa volta il “nemico” non é la destra guidata da Cappellacci, ma proprio il Pd. Quello del Governatore Pigliaru. Nella confusione «Abbiamo aperto, con cautela, anche le porte allo sviluppo non solo sulle coste, ma anche nelle zone interne», ha spiegato Cristiano Erriu, l’assessore all’urbanistica che ha presentato il ddl. Eccola l’ulteriore novità, quindi. Via libera a nuovi scempi anche nelle aree lontane dalle coste. I “soliti” gruppi immobiliari, quelli che saranno in grado di accaparrarsi gli appalti più importanti, sono in attesa, ma intanto ringraziano dell’occasione. Ma i vantaggi per l’economia e lo sviluppo dell’isola, dei quali parlano Pigliaru, Erriu e altri sono tutti da dimostrare. In compenso appaiono certi i disastri non solo sull’arco costiero. Ne vale davvero la pena?

Bambine obbligate a fare le baby modelle. Il caso arriva in Parlamento

Bambini sfruttati come fotomodelli, costretti a stare in posa,  come vogliono gli adulti, costretti a rinunciare ai giochi per soddisfare le smanie di celebrità delle mamme. Due interrogazioni parlamentari hanno sollevato il caso chiedendo al ministro  del lavoro e alla presidenza del Consiglio una maggiore vigilanza sul fenomeno, Ad avanzarle sono state i parlamentari Riccardo Nuti e Fabiola Anitori che ha chiesto di “tutelare i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, attraverso misure e provvedimenti che proteggano queste due delicate fasi della vita dalle forme di sfruttamento a cui la società oggi espone”.   Al centro del suo intervento non solo sulle condizioni in cui i bambini lavorano (sottopagati e spesso con situazioni spiacevoli,  come ha raccontato  Flavia Piccinni documentando una sfilata durante la quale ai bambini non era stata data acqua per evitare che andassero in bagno e bagnassero gli abiti), ma anche “sull’adultizzazione precoce” di cui sono vittime. Left ha approfondito il tema con la giornalista e scrittrice Piccinni autrice dell’inchiesta chiedendo allo psichiatra Paolo Fiori Nastro e ad altri un approfondimento.

Bambini al trucco, che posano o sfilano per ore e ore. Bambini perennemente a dieta, pazienti, professionali. Che parlano e si muovono secondo stereotipi dettati dagli adulti e dallo show biz. Sembra di essere precipitati nelle pagine di Chronic City ( 2010) il romanzo di Jonathan Lethem che ha come protagonista un ex enfant prodige di una sit com americana. O, peggio ancora, di assistere al rapporto genitori figli da horror raccontato da Bret Easton Ellis in Lunar Park ( 2005). Ma siamo invece in Italia, nel backstage di sfilate di moda e casting per bambini, dove a imperversare sono soprattutto le madri. Ne ha raccolto le voci nel radio-documentario Bellissime la scrittrice Flavia Piccinni realizzando un’inchiesta sul campo che si può riascoltare e scaricare in podcast dal sito di Radio3 ,che l’ha trasmessa a gennaio nell’ambito del programma Tre Soldi (un’inchiesta che ora Piccinni ha trasformato in un omonimo libro).

Il titolo evoca l’immagine di Anna Magnani nel film di Visconti, ma fra i vecchi provini di un tempo e i casting “industriali” di oggi sembrano passati anni luce. “Esattamente come un tempo potevano essere il sapere o la ricchezza i valori socialmente più ambiti, oggi lo è la la bellezza” racconta l’autrice. E dietro all’ossessivo chiedere “sono bella?” di queste bambine, si scoprono madri che “che non riconoscono nel proprio figlio un essere altro, ma lo vedono come una parte di sé. Come nei concorsi di bellezza statunitensi – dice Flavia Piccinni – queste madri parlano al plurale per dire di essere un tutt’uno con il figlio: noi abbiamo sfilato, noi abbiamo fatto il servizio fotografico, noi abbiamo conosciuto.. e avanti così, almeno fino a quando il piccolo non supererà il metro e quaranta uscendo dalle misure richieste per i defilé”. In qualche modo, sottolinea la scrittrice, “i figli diventano uno strumento per farsi accettare, e riconoscere, dalla società, per queste famiglie perlopiù di estrazione sociale medio-bassa. Tanto che padri e madri sono terrorizzati che i loro pargoli possano smettere di fare i modelli, di andare alle selezioni, di fare pubblicità. I compensi vanno dai 100 ai mille euro per ogni singola prestazione. Così i bimbi imparano a diventare adulti e maliziosi rapidamente. L’innocenza non c’è in questi concorsi anche quando viene sbandierata”.

Se poi si guarda alla moda kids internazionale il giro d’affari registra cifre notevoli. Solo quello di Pitti Bimbo a Firenze è di oltre due miliardi di euro.

E anche dalle parole raccolte per la radio fra i giovanissimi protagonisti dell’ultima edizione di Pitti il mese scorso sembra quasi che gli abiti e gli accessori diventano per loro una seconda pelle. Per essere al centro dell’attenzione, per essere amati, per essere ammirati, ma anche “ per provare un’emozione”, come dice con voce impostata una baby modella.

Ma quanto pesano davvero su di loro le aspirazioni dei genitori e gli interessi chi li usa per fare business? Moltissimo secondo Tim Edwars, autore del saggio La moda (Einaudi, 2013) in cui analizza i processi di mercificazione attuati da questo tipo di industria che mira alla massimizzazione del profitto, alimentando il consumismo attraverso il culto della celebrità amplificato dai mass media. Un fenomeno che sembra toccare l’acme sulle passerelle e negli studi fotografici. Qui le piccole aspiranti top model non vogliono più soltanto i vestiti e gli accessori di Kate Moss o di Victoria Beckham ma vogliono essere Kate o Victoria, assumendo quella figurina piatta, stereotipata, svuotata di personalità, come modello assoluto a cui uniformarsi. “Naturalmente non capita a tutti, ma chi deve ancora crescere e non ha ancora un solido senso di sé, è più esposto. A livello accademico e di opinione pubblica – rimarca il sociologo dell’Università di Leicester – non si è ancora riflettuto abbastanza sulle questioni ampie e invasive legate al consumo della moda. Che è consumo di corpi, immagini e soggettività anziché di vestiti”.

Così abbiamo chiesto al professor Paolo Fiori Nastro, psichiatra e docente all’Università La Sapienza di Roma di aiutarci ad approfondire. “Ascoltando le testimonianze di Bellissime ho avuto la sensazione che questi bambini vengano costretti in una realtà che è a loro estranea. Sfilate e concorsi diventano un lavoro per loro. Un adulto ha bisogno di guadagnare per poter essere libero e, nei casi migliori, lavorando trova una propria realizzazione. A 9 o 10 anni, invece, si va a scuola, si cercano la conoscenza, i giochi, gli affetti. Fare di tutto questo in lavoro è una mistificazione compiuta dagli adulti che danneggia un sereno e armonico sviluppo infantile. Alla luce della teorizzazione di Massimo Fagioli su bisogni ed esigenze, noto che i bisogni e le esigenze di questi bambini non vengono minimamente prese in considerazione dagli adulti. Alcuni genitori usano i figli come strumento di riscatto sociale e chi fa casting, foto, sfilate, talent ci guadagna un sacco di soldi”. Ma sfogliando le riviste di moda e alcuni book fotografici di queste piccole modelle capita anche di notare bambine costrette in pose ammiccanti. Come la baby top model più richiesta del momento, la russa Kristina Pimenova (nella foto Ansa), capelli biondi e immensi occhi blu, che ha appena 9 anni.

“Questo è un altro aspetto che si avverte come stonato – commenta Fiori Nastro -. Le bambine sono solite vestirsi e truccarsi per gioco. E’ un travestimento, una maschera, una possibilità di divertirsi “facendo finta di”. Ma quando questa cosa diventa realtà non va più bene. Parlare di sessualità infantile è una cosa aberrante, assolutamente fuori dalla realtà. La sessualità nei bambini non c’è. Hanno bisogno di crescere, di maturare un’identità e soprattutto di svilupparsi fisicamente secondo la fisiologia. Fondere la realtà mentale con quella fisica è un processo che richiede una maturazione. Alla pubertà si arriva per gradi, lentamente”.

Crescendo, per gioco, le ragazzine si mettono in posa e oggi si fotografano e postano i selfie su instagram e su facebook. Qualcuna, come la protagonista del corrosivo romanzo di Daniele Autieri, Professione Lolita (Chiarelettere, 2015), vorrebbe farsi fare un book e tentare di entrare nel mondo più fashion. Le compagne di scuola, gli amici, tutti sanno di quel fotografo di moda che incontrano spesso in discoteca; si dice che abbia gli agganci giusti. Qualche scambio di battute in rete e lui che abbozza: “ci dovresti provare”. Comincia così la storia di una quindicenne poi finita nel giro di prostituzione al quartiere Parioli. Un sistema di sfruttamento, malaffare e corruzione politica che il giornalista d’inchiesta di Repubblica contribuì a scoperchiare. Ma la cronaca dei fatti non bastava per raccontare il vuoto culturale e umano che c’è dietro a questa brutta storia accaduta in un quartiere bene, cominciata con un adescamento via web e che, secondo Autieri, non rappresenterebbe un fatto casuale e isolato.

“Un aspetto grave – commenta lo psichiatra Fiori Nastro – è il modo anaffettivo con cui le ragazzine trattano la loro socialità. Oggi i social network consentono una comunicazione assolutamente asettica. Certamente la mancanza di un’identità definita e l’incapacità di discriminare fra ciò che è consono o meno allo sviluppo della propria realtà umana, in qualche modo, facilitano una deriva triste e violenta da parte di questi adulti che approfittano del vuoto di affetti di adolescenti che, pur di avere un vestito, un telefonino o qualche altro oggetto che viene avvertito come uno status symbol, se ne fregano di tutto. Il film Giovane e bella di François Ozon lo racconta: la protagonista è una bella adolescente che va con adulti per avere una scarica adrenalinica. C’è un vuoto totale di prospettiva, dovuta all’anaffettività, un’assenza di ricerca di rapporti veri, di socialità, Prevale il cosiddetto sensation seeking, la ricerca di sensazioni attraverso una serie di trasgressioni distruttive che rivelano solo un vuoto di affetti”.