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La Libia vuole l’aviazione contro i migranti, l’Italia stringe sulle Ong

A handout provided on 30 August 2016 and released by the Italian Navy showing migrants on a boat during rescue operations in the Mediterranean Sea, off the Lybian coast. Italian Navy ships Fasan, Sfinge, Cigala Fulgosi, rescued on 29 August almost 2500 migrants. Over 6000 migrants, mostly from Eritrea and Somolia, were rescued off the coast of Lybia in the Mediterranian Sea. The joint operation involved several Italian and International agencies. ANSA/ US MARINA MILITARE - ITALIAN NAVY PRESS OFFICE +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

 

Nel giorno del vertice Gentiloni-Merkel-Macron a Trieste, in cui i tre leader hanno parlato principalmente di migranti senza – pare – grossi passi in avanti, il premier libico del “governo di unità nazionale”, Fayez Al Serraj, passa dalle parole ai fatti, chiedendo alle sue forze armate di «usare l’aviazione» contro «l’emigrazione illegale». È quanto risulta da una comunicazione interna tra Comando supremo dell’esercito e capo di Stato maggiore delle forze aeree, riportata questo pomeriggio dall’Ansa. Nel documento si legge: «Siete pregati di prendere immediatamente e urgentemente le vostre misure di partecipazione alla lotta contro l’emigrazione illegale e il traffico di carburanti e suoi derivati attraverso l’uso dell’Aviazione e servendovi della forza in caso di necessità per impedire, in collaborazione con il Comando delle forze marittime, questo crimine».

Una dichiarazione forte, dalla quale trasparirebbe un inasprimento delle prassi con cui le forze libiche tentano di ostacolare la traversata di chi sfida il Mediterraneo. Prassi già piuttosto violente, che consistono spesso nell’aprire il fuoco verso le imbarcazioni cariche di esseri umani. Numerosi sono i resoconti di chi riesce ad approdare in Italia, per non parlare delle raffiche di mitra della Guardia costiera libica rivolte alla motovedetta Cp 288 dei colleghi italiani lo scorso maggio. Le scuse, arrivate a stretto giro dalla Libia, sono piuttosto eloquenti: i militari “avrebbero scambiato l’unità italiana per un barcone di immigrati».

Ma sul banco d’accusa del governo italiano non c’è la Libia bensì le Organizzazioni non governative (Ong). Proprio questo pomeriggio, secondo un’altra indiscrezione dell’Ansa, l’Italia avrebbe messo a punto un “Codice di condotta” per le Ong che salvano vite nel Mediterraneo: 11 regole tra le quali il divieto di telefonare «per facilitare la partenza di barconi che trasportano migranti», l’obbligo permettere la presenza a bordo delle forze di polizia giudiziaria e quello di possedere una certificazione tecnica per le attività di soccorso in mare.

«L’Italia ha fatto e continuerà a fare la sua parte sul tema del soccorso e dell’accoglienza ma contemporaneamente si batte perché la politica migratoria non sia affidata soltanto ad alcuni paesi ma sia condivisa da tutta la Ue» afferma Gentiloni a margine del vertice trilaterale di Trieste. La volontà è quella – più volte dichiarata – di ridiscutere con l’Ue il regolamento dell’operazione di Frontex “Triton”. Ma per il momento, all’orizzonte, si intravedono soltanto più ostacoli per chi rischia la vita nelle acque del Mediterraneo.

Hanif Kureishi: L’ideologia è morta. Viva il socialismo

Hanif Kureishi

«Mi piace Corbyn, mi piace il suo manifesto, è molto forte, è quello che serve a questo Paese. I giovani l’hanno votato perché rappresenta la libertà, difende il multiculturalismo, il dialogo, crede nello Stato, nell’education» ha dichiarato Hanif Kureishi, all’indomani del voto in Gran Bretagna. Anche se Theresa May è ancora in sella «è stato comunque un risultato sorprendente. Per questo – rilancia lo scrittore anglo pakistano – il Primo ministro dovrebbe dimettersi».
Autore della sceneggiatura di film dirompenti come My beautiful Laundrette, ed Intimacy, di romanzi come il Budda delle periferie che, nel 1990, celebrava la creatività del melting pot londinese rendendo protagonisti, per la prima volta, immigrati di seconda generazione, Hanif Kureishi ha da poco pubblicato con Bompiani Uno Zero (The Nothing): romanzo dal forte impianto teatrale che evoca Pinter nel tratteggiare la dinamica del rapporto a tre fra un regista ottantenne, sua moglie di vent’anni più giovane e un critico e documentarista compiacente che diventa l’amante di lei. Il non detto, il latente dei rapporti, il coraggio di raccontare la frastagliata geografia del desiderio in età avanzata fanno di questo breve romanzo un piccolo capolavoro di scavo psicologico, aperto alla conoscenza, senza infingimenti. Parte da qui la nostra conversazione. Flemma inglese e sguardo vivo, Kureishi ci accoglie comodamente seduto su un divano di un albergo torinese. Ha un’aria seria, senza vezzi, salvo le due teste di gatto che luccicano alle sue dita, rivelandone l’anima rock.
Come in altri suoi romanzi anche Uno zero affronta un tema inconsueto, regalandoci una figura di donna, Zee che, a più di sessanta anni, scopre di essere attraente per gli uomini. Perché ha scelto questo tema?
Mi interessa da sempre, forse perché sono cresciuto negli anni 60. In quel periodo ci si occupava solo dei giovani. Allora io ho cominciato a chiedermi cosa facessero le persone più anziane. In questo romanzo ho raccontato la storia di un uomo ottantenne, in carrozzina, che se ne sta andando a poco a poco, ma può ancora sentire gli odori, cogliere elementi dal mondo fuori, è ancora vivo, ha ancora vigore e desiderio.
Waldo è un regista famoso, è stato un sessantottino, ma ora ammette che rompere le regole può essere un modo per riconfermarle.
L’ho pensato anche io. Prendi Donald Trump, per esempio, lui è estremamente distruttivo e “anarchico”. Dice cose non convenzionali. Però rompere le regole non fa di lui un rivoluzionario. Non basta. Ma per certa opinione pubblica, in confronto, persone come me e te sono viste come molto conservatrici oggi, perché vogliamo preservare le conquiste degli anni Sessanta e Settanta che riguardano i diritti delle donne e delle minoranze, i servizi sociali, il welfare. Paradossalmente noi passiamo per conservatori e questa è la peggiore posizione che ci potesse capitare, è scioccante.
«Noi pensavamo che tutti volessero diritti e libertà, invece eravamo solo degli snob», constata Waldo amaramente. Lei che ne pensa?
Credevamo che quei valori e ideali fossero condivisi da tutti. Ma oggi viviamo in anni reazionari e questo è spaesante per chi cerca di trasformare se stesso e rendere il mondo migliore.
Il sesso libero come mezzo di liberazione è stata un’altra chimera di quegli anni?
Innamorarsi, fare sesso, realizzarsi nelle relazioni private è quanto mai importante, ma non porta necessariamente benifici alla collettività (ride). Noi di sinistra dobbiamo pensare seriamente a quale futuro possiamo costruire e a come rendere egemoni le nostre idee. Non è facile. In Gran Bretagna i media sono quasi tutti di destra. Abbiamo tantissimi mezzi di comunicazione ma sono pro Brexit, pro Le Pen, pro Trump. È sbalorditivo.
Quanto al Guardian?
Non ci resta che The Guardian, un solo giornale.
E l’Independent?
Ha chiuso. Ora è solo online. Ed è letto ormai da poche persone. Ci troviamo schiacciati all’opposizione. Ma dobbiamo trovare il modo di diventare mainstream.
I giovani che hanno votato per Corbyn e sono contro la Brexit indicano una strada possibile?
I giovani sono sempre molto importanti. Ma in Italia ci sono altissimi livelli di disoccupazione giovanile, come in Spagna. In Inghilterra va leggermente meglio. Ma non troppo. Io ho tre figli, sono preoccupato per il loro futuro, come potranno mantenersi o trovare un appartamento? Finita l’università uno dei miei ragazzi ha cominciato a fare consegne a domicilio in bicicletta, lo stipendio era molto basso, non aveva assicurazione sul lavoro. Il turbo capitalismo ha distrutto ogni sicurezza. Dobbiamo cercare di rendere la sinistra capace di attrarre le persone.
È una bella sfida.
Il problema è che la nostra visione sembra fuori moda, datata. Le ideologie sono crollate, ma dal 1989 non siamo ancora riusciti a rilanciare il socialismo in modo nuovo, facendo cadere i pregiudizi di chi ci affibbia l’immagine di quelli che vogliono tornare alla Germania dell’Est o agli anni Settanta.
Come possiamo fare?
Beh, ripeto, dobbiamo pensare molto, rielaborare le nostre idee, trovarne di nuove. È una grande opportunità per noi. Non abbiamo più un’ideologia ma dobbiamo avere un pensiero nuovo e forte perché il capitalismo si auto-rigenera continuamente. Le persone credono al capitalismo perché pensano di poter diventare ricchi. Si illudono, credono a queste falsità. È un problema anche per noi.
In Italia abbiamo anche un altro guaio: i politici che si dicono di sinistra e rincorrono il centro. Renzi pensa che il neo liberismo offra una prospettiva.
Il neo liberismo ha fallito. Il capitalismo ha fallito. Sta in piedi solo perché sinistra ne ha regimato gli eccessi, impedendogli di esplicare al massimo la sua distruttività. Cinquant’anni fa l’ha temperato con welfare, i servizi sociali, la scuola e la sanità pubblica pubblica. Se distruggi la sinistra, se distruggi le minoranze e i lavoratori, il capitalismo implode. Noi lo sappiamo, il problema è che la gente ancora non lo capisce.
La letteratura può essere anche un modo più coinvolgente per far arrivare questo “messaggio”?
Dobbiamo pensare, parlare e contribuire al dibattito. Detto questo dobbiamo anche prendere atto che negli Usa ci sono buoni media, giornalisti molto bravi, artisti e scrittori di valore ma non sono riusciti a fermare Trump. In Italia le élite culturali detestano Berlusconi ma la gente lo vota. Abbiamo una grossa questione da risolvere.
Gli scrittori e gli intellettuali dovrebbero prendere di più la parola?
È importante parlare, è rapporto con le persone. Per me è sempre stato difficile parlare, forse anche per questo sono diventato uno scrittore. Quando ero ragazzo vivevo nei sobborghi di Londra. La realtà era molto dura, violenta. Non mi sentivo compreso e accettato, pesavano i pregiudizi razzisti. Cominciai a scrivere perché non potevo parlare. E ora mi imbarazza quel me stesso di allora che non riusciva a parlare. Ero inibito. Forse anche per questo oggi mi viene da sottolineare con forza l’importanza della parola perché ti mette in connessione diretta con gli altri, perché ti costringe a venire fuori, altrimenti sono solo congetture.
«L’immaginazione è il mio mestiere ma può essere un posto pericoloso» constata il protagonista di Uno zero. Ma l’immaginazione serve per costruire un mondo diverso. Qual è il suo pensiero?
Io credo che l’immaginazione preceda il cambiamento, occorre immaginare, sognare, come noi possiamo essere diversi, avere un diverso sentire, come possiamo comunicare diversamente con le altre persone. L’immaginazione può essere pericolosa perché, se sei fortunato, può distruggere lo status quo. L’immaginazione è l’inizio del cambiamento.

Carla Nespolo (Anpi): Basta fascismo, scenderemo in piazza

Participants at the far right movement CasaPound demonstration against the "Ius Soli" in the centre of Rome, Italy, 24 June 2017. The controversial bill grants 'ius soli' ('law of the soil' in Latin) citizenship rights to children born on Italian soil from immigrant parents. ANSA/ANGELO CARCONI

«Una grande manifestazione nazionale antifascista. Ecco che cosa stiamo pensando di fare, anche perché ce lo chiedono i comitati provinciali di tutta Italia». In questo modo l’Anpi, Associazione nazionale partigiani italiani, intende rispondere agli episodi sempre più frequenti di matrice fascista e xenofoba che vengono quotidianamente riportati dalle cronache.

Lo racconta a Left la vicepresidente Anpi, Carla Nespolo, commentando anche la proposta di legge in discussione alla Camera dei deputati. Il ddl presentato da Emanuele Fiano, del Partito democratico, vuole istituire il reato di apologia e propaganda del fascismo e del nazismo e vuole punire chi inneggia o diffonde immagini o contenuti sul web.

Qual è il suo parere e cosa ne pensa l’Anpi delle reazioni del Movimento 5 Stelle, che definisce «liberticida» la legge, e di Salvini secondo cui la norma arriverebbe a punire le idee?

«Questa proposta di legge è sicuramente un fatto positivo. Noi come Anpi guardiamo con grande favore al fatto che venga approvata perché in questo modo si dà continuità alla Costituzione, combattendo l’apologia del fascismo. Perché la Costituzione italiana, bisogna sempre sottolinearlo, è antifascista».

Ecco, quindi, un richiamo alla memoria storica: Nespolo rievoca il dibattito tra Moro e Togliatti negli atti della Costituente per ricordare come l’Italia non sia un Paese a-fascista, ma antifascista, proprio a partire dalla sua Costituzione.

«Perché dopo oltre vent’anni di dittatura, guerra, sterminio, razzismo, deportazioni e alleanza col nazismo, l’Italia rinasce di nuovo grazie a quei combattenti, i partigiani, allora ragazzi e ragazze, alcuni dei quali per fortuna ci sono ancora – tra cui il Presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia – che hanno avuto il coraggio di rompere il regime dittatoriale, violento e razzista, che opprimeva il nostro Paese dopo una guerra sanguinosa. Bisogna sottolineare che questa non è una storia lontana, è un fatto che è avvenuto poco più di 70 anni fa ed è alla base della nostra identità nazionale. Sarebbe bene che anche la scuola si impegnasse a mantenere viva la memoria tra i giovani, perché quello che noi come Anpi notiamo con preoccupazione vivissima è l’affievolirsi della memoria».

Il suo parere sugli ultimi episodi di cronaca?

«Non è tollerabile vedere i saluti romani, non è una buffonata la spiaggia di Chioggia… Più di 500 pagine su oltre 3500 di Facebook che inneggiano al fascismo sono inaccettabili. Io trovo sinceramente che questa norma che intensifica le pene per chi fa propaganda ideologica del nazismo attraverso i nuovi linguaggi e strumenti, sul web, sia assolutamente giusta. Poi, naturalmente, sappiamo bene che non bastano le leggi e non bastano le pene, che bisogna conquistare una coscienza civile e democratica nel nostro Paese che rischia ogni giorno di essere appiattito sulla quotidianità. Ci sono tanti giovani, tante donne, tante persone sinceramente antifasciste. Non devono essere ogni volta avvilite, mortificate da questo sciocco ritorno di simboli fascisti. Ogni tanto qualcuno dice che è una barzelletta Chioggia. No, non è una barzelletta, è un atto presuntuoso, arrogante, oltre che ignorante, che non si può più tollerare. Ecco, da questo punto di vista sono contenta di una legge che comunque sarebbe un passo avanti».

L’obiettivo della proposta di Fiano apparentata alla legge Scelba (645 del 1992), che sanziona l’apologia di fascismo e alla legge Mancino (2015 del 1993), contro le manifestazioni razziste, non rischia di creare confusione? 

«No, qui si sta parlando di apologia del fascismo, poi bisogna vedere come la legge uscirà perché è importante che non si sovrappongano. Adesso è il primo giorno che è arrivato in aula, dopo un lungo lavoro di commissione… Io non apprezzo neanche che quotidianamente a Predappio si diffondano i gadget dei fascisti. Basta! Bisogna finirla, perché non è né una carnevalata, né uno spettacolo, è una storia di lacrime, sangue e valori, che riguarda sia i partigiani e sia chi li ha aiutati».

Si dice favorevole alla proposta di Fiano anche la presidente della Camera Laura Boldrini, che difende il reato di apologia, che già abbiamo e che va fatto rispettare: «Ci sono i partigiani che si sentono offesi dai monumenti fascisti. Hanno dedicato la loro giovinezza a liberare il loro Paese e che si sentono poco a loro agio quando passano sotto certi monumenti». Cosa ne pensa?

«Io non ne conosco tanti di monumenti fascisti, saltuariamente c’è stato qualche episodio, ma noi siamo sempre stati vigili su questo punto. Sacrosanta la pietà per i morti, tutti, ma non mischiamo vittime e carnefici, altrimenti non ci capiamo più. Il fascismo è stato un regime reazionario di massa, e di germi fascisti ce ne sono in giro per il mondo…»

Mi chiamo Luke, sono morto in battaglia contro l’organizzazione fascista dell’Isis

Alla fine dell’addestramento, dopo un mese, gli è stato chiesto, come ad ogni volontario: «Sei pronto a combattere?», e lui ha risposto «yes», dicendo che voleva battersi «contro l’organizzazione fascista dell’Isis». Era il primo marzo 2017. Con il nome di guerra Soro Zinar è andato in battaglia.

Si chiamava Luke, aveva 22 anni, era inglese ed è morto a Raqqa. Luke era di Birkenhead e combatteva nello YPG, le unità popolari di difesa curde. Il suo comandante ne ha riportato il decesso durante un agguato ad una roccaforte dell’ISIS: è ormai “martire”, lui che «partecipava attivamente alla vita collettiva, promossa dallo YPG».

A Raqqa sono morti anche due americani, Robert Grodt e Nicholas Warden. Robert, un attivista di Santa Cruz, California, aveva partecipato ad Occupy Wall Street. Nicholas, 29 anni, di Buffalo, dopo un attacco, è morto in seguito per le ferite riportate. Anche di lui riferisce lo YPG, come per Luke. È stato un attivista curdo ad informare la madre del britannico, che non sapeva si trovasse in Siria. Dopo le granate dell’ISIS, il corpo di Luke è stato portato ad al Hasakah per l’autopsia. Sarà seppellito in Siria o rimpatriato.

http://www.youtube.com/watch?v=fiC5Ak9ZrNs

Nel video dello YPG press office ci sono ormai quelle che sono diventate le sue ultime parole. Il ragazzo dai capelli rossi in divisa dice: «Il mio vero nome è Luke Rutter, il mio nome di battaglia Soro Zinar. Sono inglese e sono nato a Liverpool. Mi sono unito allo YPG per le ragioni per cui ognuno lo fa. Penso che lo YPG sia la migliore opportunità per la pace che questa regione possa avere. Ho mentito alle persone che amo per venire qui. Ho detto loro che sarei andato da un’altra parte e non l’ho fatto. Mi scuso enormemente per questo. Non rimpiango la mia decisione. Spero che voi la rispettiate».

La normalizzazione dello sterco

È un’operazione che richiede tutta una sua scienza la normalizzazione dello sterco. Rendere potabile ciò che prima era solo una rivoltante deiezione ha bisogno di un fortunoso contesto, di un perfetto incastro di eventi che diventano scivolo per digerire l’inammissibile, di una schiera di avvoltoi pronti a tutto per garantire l’autopreservazione, di un’opposizione culturale blanda e sfibrata, della giusta dose di paura (quanto basta per sdoganare la legittimità di un “egoismo solo per legittima difesa”) e di un’informazione prona ai desiderata degli agitatori nei posti di potere.

La normalizzazione non segue i percorsi consueti delle riforme. No. La normalizzazione (che non ha nulla a che vedere con il riformismo o la naturale evoluzione) entra di soppiatto dalla porta del retro per incendiare la folla senza prendersi la responsabilità di informarla e istruirla per poi poter dire “andava fatto così” o “ce lo chiedevano tutti”: oggi, luglio 2017, lo “Ius Soli” (che tra l’altro non lo è nemmeno, se non di nome, tanto che hanno dovuto aggiungerci “temperato” per farci intendere che si tratta di una concessione, una leccata fugace ad un diritto) si blocca in Parlamento perché serve una pausa di riflessione, come ci dicono loro, e perché “molto dipenderà dal clima dell’opinione pubblica” (come mi ha detto ieri un alto dirigente di questo vergognoso centrocentrocentrocentrosinistra che sta al governo).

E se serve recuperare voti a sinistra (perché questi i voti li “recuperano”, come si dice di un cliente scontento da lisciare offrendo il limoncello) allora ci si ingegna in una legge sull’apologia di fascismo (brutta e pasticciata) per dare un colpetto al cerchio e uno alla botte. Una legge che ancora una volta serve più a non perdere fette di mercato piuttosto che avere l’aspirazione di essere una matrice culturale: una legge che vuole punire “istigazione ed apologia dei delitti contro la vita e l’incolumità della persona” nel caso fosse compiuto tramite “telefono, Internet e social network” e non importa che siamo il Paese in cui la xenofobia di antica memoria fascista possa tranquillamente rientrare nei resoconti stenografici del Parlamento come se fossero noccioline.

È un gioco di normalizzazione lenta allo sterco con qua e là qualche contentino, con tutti concentrati ad ammaestrare un popolo bue curando i dettagli della distrazione. Perché poi, giova ricordarlo, alla fine stiamo parlando degli stessi che vorrebbero aiutare i migranti “a casa loro” dimenticando l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra (“Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere – in nessun modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche”). Sono gli stessi che colonizzano l’Africa per aprire i rubinetti all’Eni e poi si propongono per instaurare ricchezza e democrazia. Sono gli stessi che armano le guerre in giro per il mondo e si propongono per risolverle.

Il problema non è solamente quello di avere (e avere avuto) un governo di centrosinistra che ha sdoganato le politiche della destra. Qui siamo oltre: qui abbiamo un governo che ha deciso di allinearsi al fango per terrore degli elettori, rotolandosi negli inferi di quegli stessi istinti che vorrebbero cancellare da Facebook illudendosi di combatterli così.

Perché la mancata approvazione dello “ius soli” (come il ventiquattrenne morto di appendice e razzismo a Napoli, come l’urlare di “non avere l’obbligo morale di salvare tutti” o come la barzelletta della minaccia di “chiudere i porti” o la scenetta di indignarsi per gli accordi firmati con l’Europa) ha un odore (e un riscontro) ben più putrido di un busto di Mussolini (che putrido rimane). Ma è tutto così realisticamente normale. Invece.

Buon mercoledì.

Donald Trump non fa paura ai migranti. Entro l’estate migliaia di nuovi cittadini Usa

© EPA/MICHAEL REYNOLDS

 

Negli Stati Uniti che fanno quotidianamente i conti con le politiche xenofobe del presidente Trump si contano almeno cinquemila nuovi americani al mese. Entro la fine dell’estate almeno 15.000 immigrati saranno protagonisti del giuramento sulla bandiera a stelle e strisce in decine di “celebrazioni di naturalizzazione”, dal Monte Vernon in Virginia, al Museo della Seconda Guerra Mondiale a New Orleans fino alla California.

«È un ottimo momento per ricordare che siamo una patria di migranti da 241 anni», ha scritto Alan Gomez su Usa Today il 4 luglio, giorno dell’Indipendenza,«quello che è cambiato drammaticamente sono i motivi per cui le persone migrano, che ruolo giocano nella società, come ci relazioniamo a loro, come sono trattati dai nativi, in che dibattito sono coinvolti».

Il 13,5% della popolazione statunitense, circa 43 milioni di persone, è costituita da immigrati. La percentuale  attuale è più bassa rispetto a quella del 1800, ma più alta subito dopo quella della Seconda Guerra Mondiale. Mentre il presidente Trump vara Muslim ban e parla di wall e barriers per arenare i migranti economici dal Messico, propagandando queste scelte come una tattica antiterroristica governativa, altre centinaia ogni giorno da Africa, Asia, America Latina si mettono in viaggio, entrano in USA da visitors e diventano undocumented migrants.

Una ricerca della National Academy of Sciences, Engineering and Medicine ha calcolato che i migranti di prima generazione costano ai contribuenti americani oltre 57 miliardi di dollari all’anno, «una cifra che il presidente Trump ha citato al Congresso a febbraio, per giustificare il tema chiave della sua campagna elettorale nel 2016. Ma ha omesso la seconda parte della ricerca: la seconda e terza generazione di migranti crea un beneficio economico netto di 223,8 miliardi di dollari. L’ultima frase del report dice che i migranti sono un big plus per gli Stati Uniti nel tempo».

Mentre l’Europa combatte contro se stessa per le quote di rifugiati, in America il dibattito procede al pari nella società civile nel mese dell’anniversario della battaglia per l’indipendenza: «La battaglia sul ruolo della migrazione in America non finirà presto. Una sola cosa rimane certa: mentre celebriamo la nascita della nostra nazione, centinaia di persone alzeranno la mano, faranno il loro giuramento e diventeranno cittadini degli Stati Uniti d’America».

Staccano la testa a Falcone perché il suo cuore funziona ancora

La statua di Giovanni Falcone che sta di fronte all’istituto comprensivo Giovanni Falcone a Palermo, nel quartiere dello Zen. Qualcuno ha pensato bene di staccargli la testa e usare un pezzo del busto per martellare una delle pareti della scuola. Cinque anni fa, quella stessa statua, era stata vittima di un altro atto vandalico che aveva colpito la memoria del giudice ucciso dalla mafia. Il fatto che tutto questo accada in uno dei quartieri più poveri (e mafiosi) della città di Palermo, aggiunge ovviamente un valore simbolico.

Sulla vigliaccheria di un gesto simile (e sulla preoccupazione per altri episodi simili che ieri sono stati raccontati) ieri hanno scritto tutte massime autorità dello Stato, oltre alle associazioni, i comitati e migliaia di cittadini.

Eppure sono convinto che Flacone ne avrebbe anche sorriso. Dopo la rabbia, la delusione, e tutto il resto. Avrebbe sorriso. In un Paese che lascia marcire le statue ingoiate dall’edera e che stampa targhette in bronzo per salvare i cognomi dall’oblio Giovanni Falcone, che sia di gesso, bronzo o di carta, incarna ancora quei valori che vengono visti che universalmente riconosciuti. E quindi ambiti anche per i vandali e per infami gesti dimostrativi.

Insomma Falcone è ancora Falcone. La sua storia nonostante tutto pulsa. Staccano la testa a Falcone perché il suo cuore funziona ancora. Questa è la buona notizia. Questa è l’eredità.

Emigriamo come negli anni Quaranta: ogni anno 250.000 persone lasciano l’Italia

La nave Vullcania parte con gli emigranti dal poerto di Napoli in una delle immagini dell' Archivio fotografico Carbone per il quale, parte un crowdfunding per recuperare e preservare gli oltre mezzo milione di negativi che lo compongono, 9 novembre 2016.A ANSA / ARCHIVIO FOTOGRAFICO CARBONE NAPOLI

Sembra essere tornati nell’immediato secondo dopoguerra con oltre 250.000 persone che lasciano l’Italia ogni anno. E’ questa in estrema sintesi la fotografia che ci restituiscono le anticipazioni del Dossier Statistico Immigrazione 2017 di Idos e Confronti. Il rapporto, che uscirà in autunno, mette in luce numeri importanti ma anche un aspetto qualitativo degli italiani che emigrano all’estero, in quanto il numero di diplomati e laureati che abbandonano lo stivale è sempre in aumento.

«L’emigrazione degli italiani all’estero, dopo gli intensi movimenti degli anni ’50 e ’60 – si legge nella nota diramata da Confronti – è andato ridimensionandosi negli anni ’70 e fortemente riducendosi nei tre decenni successivi, fino a collocarsi al di sotto delle 40.000 unità annue. Invece, a partire dalla crisi del 2008 e specialmente nell’ultimo triennio, le partenze hanno ripreso vigore e, secondo stime, hanno raggiunto gli elevati livelli postbellici, quando erano poco meno di 300.000 l’anno gli italiani in uscita».

Sotto l’impatto dell’ultima crisi economica, che l’Italia fa ancora fatica a superare, i trasferimenti all’estero, rilevano i ricercatori Idos-Confronti, hanno raggiunto le 102.000 unità nel 2015 e le 114.000 unità nel 2016, mentre i rientri si attestano sui 30.000 casi l’anno.

«A emigrare sono sempre più persone giovani con un livello di istruzione superiore. Tra gli italiani con più di 25 anni, registrati nel 2002 in uscita per l’estero, il 51% aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e l’11,9% la laurea ma già nel 2013 l’Istat ha riscontrato una modifica radicale dei livelli di istruzione tra le persone in uscita:  il 34,6% con la licenza media, il 34,8% con il diploma e il 30,0% con la laurea, per cui si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati. Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna;  quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera (in Europa dove si indirizzano circa i tre quarti delle uscite) mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela».

Questi dati, notano gli autori della ricerca, «meritano già di per sé un’attenta considerazione anche perché ogni italiano che emigra rappresenta un investimento per il Paese (oltre che per la famiglia): 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca, come risulta da una ricerca congiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse».

In realtà, prosegue l’analisi, «i flussi effettivi sono ben più elevati rispetto a quelli registrati dalle anagrafi comunali, come risulta dagli archivi statistici dei paesi di destinazione, specialmente della Germania e della Gran Bretagna (un passaggio obbligato per chi voglia inserirsi in loco e provvedere alla registrazioni di un contratto, alla copertura previdenziale, all’acquisizione della residenza e così via). Come emerso in alcuni studi, rispetto ai dati dello Statistiches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di  2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento. Peraltro, non va dimenticato che nella stessa Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero il numero dei nuovi registrati nel 2016 (225.663) è più alto rispetto ai dati Istat. Naturalmente, andrebbe effettuata una maggiorazione anche del numero degli espatriati ufficialmente nel 2008-2016, senz’altro superiore ai casi registrati (624.000)».

«I flussi degli italiani verso l’estero – così si conclude nel rapporto – meritano maggiore attenzione. Innanzi tutto sotto l’aspetto quantitativo, avendo raggiunto, se non superato, i livelli conosciuti dall’Italia quando si concepiva ancora come un paese di emigrazione. Ma va preso in considerazione anche l’aspetto qualitativo, perché è elevato  il numero di diplomati e laureati coinvolti. Seppure in un contesto globalizzato la mobilità rappresenti una prospettiva normale, è necessario attuare una politica occupazionale più incisiva e occuparsi con maggiore concretezza dell’assistenza a quanti si sentono costretti a emigrare, assicurando loro in pieno il diritto di essere cittadini italiani, incluso il voto».

Il fascismo ai tempi di CasaPound: nel mirino, venditori ambulanti e bagni chimici

Un frame tratto da un video mostra un momento del blitz anti ambulanti immigrati sulla spiaggia di Ostia da parte di una quindicina di militanti di Casapound con tanto di fratini rossi, Roma, 10 Luglio 2017. ANSA/ WEB/ CASAPOUND

Una spedizione punitiva in stile Ventennio sul litorale romano: quindici contro uno. Siamo a Ostia, anno 2017 inoltrato. Ma per chi fa parte di CasaPound il tempo non sembra passare mai (nonostante l’uso dei social e dei video come strumento di propaganda; del resto, Isis docet). Le vittime prescelte dal manipolo di energumeni sono stati degli inermi venditori di oggetti da spiaggia. L'”eroico gesto” è stato ripreso con uno smartphone e pubblicato dagli stessi autori. Nel video si vedono una quindicina di militanti di CasaPound, con tanto di pettorine rosse, in servizio di ronda che intimano di allontanarsi dall’arenile ai venditori che di volta in volta incontravano. In bella mostra, fiero, c’è Luca Marsella, responsabile di CasaPound Italia. Racconta di essere stato contattato da numerosi bagnanti e commercianti della zona infastiditi da questa economia abusiva. Nel video viene denunciata da CasaPound anche l’annosa questione dei bagni chimici la cui «presenza nasconde il panorama delle spiagge ai passanti, senza contare che tra qualche giorno puzzeranno».

Il blitz arriva dopo una serie di azioni a sfondo razzista avvenute nella Capitale. Una decina di giorni fa a Tor Bella Monaca un cittadino italiano di origini bengalesi che aveva ottenuto l’alloggio nelle case popolari è stato aggredito da quattro persone. Howlader Dulal, 52 anni, impiegato in un ristorante di Prati, dopo una lunga attesa in graduatoria, aveva ottenuto una casa avendone tutti i requisiti: in Italia da 26 anni, un figlio disabile e lui cardiopatico. Dulal si trovava nel suo nuovo quartiere e ha chiesto indicazioni a quattro ragazzi italiani per raggiungere il suo appartamento. Per tutta risposta è stato picchiato, gli è stato intimato di non farsi vedere più, di «tornare al suo Paese», di «lasciare le case agli italiani» perché «noi qui i neri non li vogliamo». Anche questo è un ever green. E CasaPound ha voluto fornire il suo interessante commento alla vicenda: «Se queste cose accadono è perché gli italiani sono esasperati, le graduatorie a cui ha attinto, così come altri stranieri, partono da leggi che sono antinazionali, leggi che risalgono a 10 anni fa e che mettono in pole position i cittadini non italiani». Ma si tratta di un’affermazione falsa poiché come abbiamo detto Dulal è un cittadino italiano. Duro da digerire per chi ragiona (si fa per dire) in termini di colore della pelle.

Dulal non è il primo a subire violenze per il solo fatto di aver ricevuto un alloggio nelle case popolari. Nel dicembre scorso a San Basilio gli abitanti si sono rivoltati contro l’assegnazione di una famiglia marocchina, costretta a cambiare quartiere. Mentre a gennaio in via Montecucco una famiglia egiziana è stata cacciata dalle case popolari, dove un picchetto di CasaPound e Forza Nuova ha bloccato l’ingresso alla famiglia egiziana che aveva regolarmente ottenuto l’appartamento.

Sempre CasaPound si è resa protagonista delle manifestazioni contro la legge sullo Ius soli, il diritto alla cittadinanza per i figli nati in Italia, degli immigrati. Il 15 giugno nelle strade di Roma hanno sfilato in 200. Nello stesso giorno (in realtà di notte), a Milano, i loro “colleghi di Forza Nuova hanno pensato bene di attaccare al muro della sede Anpi un manifesto a suo modo esilarante, in cui hanno voluto ribadire la loro contrarietà all’approvazione di questa legge: «Italiani si nasce, non si diventa». Che poi è proprio l’essenza della norma in discussione al Senato. Ma forse, poiché è il punto cardine di una legge di civiltà, per costoro si tratta di un concetto troppo complicato.

Istat, casalinghe con 50 ore di lavoro a settimana. E sono pure a rischio povertà

© Felix Hoerhager

Secondo il rapporto Istat su donne e lavoro, nel 2016 le casalinghe in Italia sono in calo rispetto a 10 anni prima. Infatti, nel 2016 “solo” 7.338.000 di donne si dichiarano casalinghe, ben 518.000 in meno in confronto al 2006.

Il report dell’Istat intitolato Le casalinghe in Italia rivela che l’età media delle donne che si dedicano esclusivamente alle faccende domestiche è di 60 anni, dove le over 65 rappresentano il 40,9% del totale e le più giovani ( fino a 34 anni) sono l’8,5%. Le statistiche elaborate dall’Istat sulle attività produttive familiari utilizzano i dati dell’Indagine Uso del tempo 2013-2014, ma sono in fase di individuazione metodologie appropriate ad assegnare in modo indiretto un valore economico alle ore lavorate per la produzione familiare.

Per quanto riguarda i dati socio-demografici il 63,8% delle casalinghe vive nel Centro-Sud e lavora in media 2.539 ore l’anno, sette ore al giorno, comprese domeniche e festivi (molto di più dei lavoratori occupati). Oltre la metà delle casalinghe non ha mai avuto un lavoro retribuito (fuori casa) e di esse, il 10,8% delle donne tra i 15 e i 64 anni (pari a 600.000 donne) pur avendo cercato lavoro al di fuori delle mura domestiche non l’ha ancora mai trovato. Inutile dire che queste donne si dichiarano scoraggiate circa la possibilità di trovare un impiego.

Ma non è solo la mole di lavoro a pesare sulle spalle delle casalinghe. Anche la crisi gioca un ruolo importante.  Nel 2015 sono più di 700.000 le casalinghe in povertà assoluta. Per quanto riguarda la situazione economica, le casalinghe vivono maggiormente in famiglie monoreddito e soprattutto nel Sud sono le più esposte al rischio di povertà. Infatti, per il 47,4% di loro le risorse economiche familiari sono insufficienti, valore che tra le donne occupate scende al 30,8%. Per quanto riguarda l’uso di bancomat o di una carta di credito, ne è in possesso solo il 37,7% delle casalinghe, il 75% delle casalinghe laureate, e già va meglio per chi risiede al Nord (52,3%) e per le più giovani, da 45 a 54 anni (46,5%).

Le casalinghe disoccupate investono poco nella formazione  e nella fruizione culturale: nel 2012 solo l’8,8% delle casalinghe totali ha frequentato corsi di formazione, quelle tra le giovani di 18-34 anni sono il 12,9%. Anche la fruizione di Internet è bassa: ne usufruisce solo il 17,8%. Si collegano a Internet soprattutto le più giovani e soprattutto al Nord Italia. Nonostante questi dati, non proprio incoraggianti, oltre un terzo delle casalinghe rappresentate nel rapporto, dichiara un valore alto di soddisfazione della propria vita (percentuale che aumenta tra le donne occupate). Ben 560.000 casalinghe in Italia sono straniere (il 7,6% del totale), soprattutto cittadine marocchine e albanesi, residenti in particolar modo nel Centro-Nord Italia.

Le casalinghe sono molto esposte al rischio di incidenti domestici. Oltre un terzo di tutti gli infortuni per le donne sono incidenti domestici: nel primo trimestre del 2014, il 2% ha subito un incidente in casa, per un totale di 169.000 incidenti, soprattutto tra le donne di 65 anni e oltre. In particolare, nel 65% dei casi la caduta è stata l’incidente più frequente, seguita delle ustioni (18,5%) e le ferite (14%), soprattutto in cucina.

Le ore di lavoro non retribuito per attività domestiche riguardano non solo le faccende di casa ma anche la cura di bambini, adulti e anziani. Nel 2014 in Italia sono state svolte 353 milioni di ore di lavoro non retribuito da donne e uomini. In dettaglio, diminuisce il tempo che le madri casalinghe dedicano al lavoro familiare (-47 minuti al giorno tra il 1989 e il 2014, di cui 24 minuti in meno negli ultimi 5 anni), mentre è in leggerissimo aumento il contributo dei padri (+35 minuti di cui +16 negli ultimi 5 anni). Analizzando tutte le attività domestiche, le madri casalinghe hanno aumentato il lavoro di cura dei figli (+39 minuti dal 1989 al 2014) a discapito del lavoro domestico (-1h23’ dal 1989 al 2014). I padri invece contribuiscono quasi solo nella cura dei figli (+28 minuti dall’1989 al 2014).