Home Blog Pagina 865

Marchionne, leader di entrambi

Silvio Berlusconi: «Per il centrodestra punto su Sergio Marchionne. Tra non molto gli scade il contratto negli Stati Uniti (quello con FCA, ndr.), e se ci pensate bene sarebbe l’ideale…».

Che Berlusconi volesse davvero candidare Marchionne alla Presidenza del Consiglio è una notizia a cui non crede nessuno e difatti a stretto giro di posta è arrivato il rifiuto dell’imprenditore feticcio che tra i casini italiani e un tranquillo stipendio all’estero (con un comodo regime fiscale) ha ovviamente deciso di stare dov’è. Intanto però Berlusconi per la milionesima volta con la sua frase s’è preso i titoli dei quotidiani, ha fatto incazzare ancora un po’ Salvini e ha fatto mancare per qualche minuto la terra sotto i piedi ai suoi servili servitori e ai suoi servili alleati.

Ma il punto vero messo a segno da Berlusconi è un altro: con la boutade su Marchionni Berlusconi ha rigirato il coltello sulla svolta di Matteo Renzi senza nemmeno avere bisogno di nominarlo. Marchionne, ricordiamolo, è la scelta che il leader del PD da tempo ha preso sul mondo del lavoro: «Quando in un paese c’è la disoccupazione giovanile al 39 per cento, vuol dire che abbiamo bisogno di creare lavoro. – disse Renzi nell’aprile dell’anno scorso – In questo paese si è detto che c’era un disegno squallido contro i lavoratori, ma io penso che in questo paese abbia fatto più Marchionne, più alcuni imprenditori, che certi sindacalisti. Io sto con Marchionne».

In pratica: Renzi si innamora di un uomo che ha tutti gli stili e i valori del centrodestra, Berlusconi lo candida (per finta premier) e il tilt è compiuto. Ma non è un tilt: è la rappresentazione più fedele di due partiti (PD e Forza Italia) e due leader che fanno i distanti e invece sono sovrapposti sui temi del lavoro, della finanza, dei diritti. Oltre che sull’immigrazione, ovviamente.

Molto bene.

Buon lunedì

 

Turchia, la forza della marcia pacifista contro Erdogan

La coraggiosa “rivolta contro l’ingiustizia” dei turchi si è conclusa domenica a Istanbul. La lunga marcia di protesta di centinaia di migliaia di persone contro il regime teocratico-militare del presidente Erdogan è durata più di tre settimane, 25 giorni, e si è snodata per quasi 500 chilometri. Tutti coloro che si sono uniti al fiume dei manifestanti lo hanno fatto per partecipare alla “Adalet Yuruyusu”, la marcia per la giustizia, iniziata ad Ankara, al parco Guven, il 15 giugno scorso.

«Nessuno deve pensare che questa marcia sia finita: questa marcia sta iniziando. Questa è la nostra rinascita, la rinascita del nostro paese, per i nostri figli. Ci rivolteremo contro l’ingiustizia» ha detto Kemal Kilicdaroglu, 68 anni, leader del partito repubblicano, il CHP, il cui partito è il maggior organizzatore dell’evento.

La marcia si è conclusa a poichi giorni da un anniversario drammatico: quello del colpo di Stato che l’anno scorso ha sconvolto il destino di decine di migliaia di turchi. Il 15 luglio sarà un anno dal giorno in cui morirono 249 persone e dall’inizio delle epurazioni del presidente autocrate. Licenziati in migliaia, arrestati in 50mila, in una vita sospesa altre decine di centinaia: adalet, per tutti loro, la folla urla “adalet”, agita la parola scritta rosso su bianco, colori della bandiera turca, e sono molte a sventolare alla marcia, proprio come alle manifestazioni governative.

Dopo 450 chilometri di strada insieme, i manifestanti – gli organizzatori parlano di un milione di partecipanti- si sono salutati a Maltepe, nella parte asiatica di Istanbul, una tappa finale simbolica, nei pressi del carcere dove è rinchiuso il deputato socialdemocratico Enis Berberoglu, condannato a 25 anni per “rivelazione di segreto di Stato”, colpevole di aver denunciato la vendita di armi dalla Turchia alla Siria con camion dei servizi segreti di Ankara.

«Siamo qui, milioni di noi vogliono un nuovo contratto sociale». Prima di concludere, Kilicdaroglu ha lanciato verso il cielo turco una colomba bianca.

Le mani su Mosul, ricostruirla è un business

L’avanzata è lenta ma incessante. Da ottobre l’esercito governativo di Baghdad è impegnato nella controffensiva per la ripresa della seconda città irachena, il principale centro sunnita e cuore commerciale dell’Iraq, dall’occupazione dello Stato Islamico. Una battaglia dal sapore storico, campale: Mosul è ad un passo dalla liberazione. Mentre andiamo in stampa, si contano ancora 3-400 miliziani islamisti, arroccati in 500 metri dentro la Città Vecchia ma affatto intenzionati ad arrendersi: domenica scorsa l’ennesima strage, 28 civili in fuga uccisi dai cecchini islamisti, mentre una kamikaze si faceva saltare in aria in un campo profughi a 0 km dalla città uccidendo 14 sfollati.

Sono ancora 100mila i civili intrappolati, principali vittime della guerra: nei giorni scorsi i comandanti dell’esercito iracheno hanno parlato di un bilancio indefinito di corpi sotto le macerie delle case bombardate dal cielo o colpite via terra dagli scontri strada per strada.

Una battaglia campale ma non liberatoria come dovrebbe essere. Dopo Mosul, l’Iraq si trova di fronte al baratro. La percezione della devastazione sociale e nazionale (prima che fisica, in termini di vite umane, sfollati, infrastrutture) ci era stata svelata con amara chiarezza nei campi profughi del Kurdistan iracheno, a poca distanza dalla linea del fronte, e dagli sfollati abbandonati in una terra di nessuno tra la provincia di Nineve e Kirkuk. Nei primi sono stati accolti yazidi scampati al genocidio di Sinjar, kurdi, sunniti da Mosul, cristiani da Qaraqosh. Nella terra di nessuno sono finiti centinaia di migliaia di sunniti delle regioni occidentali, a cui i peshmerga di Erbil e le autorità di Baghdad hanno chiuso le porte.

I loro racconti seguivano un unico leitmotif…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Le armi nucleari sono fuorilegge, firmato lo storico Trattato Onu contro la proliferazione. Se 72 anni vi sembran pochi

I negoziati in corso all’Onu dallo scorso marzo si sono conclusi con l’approvazione da parte di due terzi dei 192 Stati membri delle Nazioni Unite di un Trattato dai toni molto netti per la proibizione delle armi nucleari. La società civile a livello internazionale, organizzata da Ican (International Campaign to Abolish Nuelear weapons), è stata l’agente determinante che ha consentito di raggiungere questo obiettivo, ed ha preso parte attivamente ai negoziati. Il testo del Trattato, oggetto di animate discussioni che hanno prodotto varie formulazioni intermedie introducendo importanti anche se contrastati miglioramenti, è stato adottato con il voto a favore di 122 Stati, un voto contrario e un astenuto, e salutato da cinque minuti di applausi e la profonda commozione della presidente della Conferenza, la costaricense Elyane Whyte.

L’ampia partecipazione degli Stati a questi negoziati, e la lunga campagna vi ha dato origine, si basano sulla profonda sfiducia verso il Trattato di Non Proliferazione del 1970 e l’arrogante inadempienza del suo Art. VI che imponeva «trattative in buona fede per concludere quanto prima un disarmo nucleare e generale» Al contrario, da allora il numero di testate negli arsenali nucleari mondiali è più che raddoppiato da 30.000 a 70.000, e il numero di Stati dotati di armi nucleari è passato da 6 a 10 (compreso il Sudafrica che nel frattempo ha smantellato il proprio arsenale).

Questo Trattato non è ancora un accordo per procedere all’effettiva eliminazione delle armi nucleari, dal momento che gli Stati nucleari (Usa, Russia, Francia, Israele, Gran Bretagna, Cina, India, Pakistan e Corea del Nord) e i paesi della Nato, molti dei quali ospitano testate nucleari degli Stati Uniti, non hanno aderito e partecipato ai negoziati. Tuttavia resterà una pietra miliare e condizionerà comunque ogni passo futuro. Fino ad oggi esistevano trattati che stabilivano l’illegalità delle armi biologiche (1972), chimiche (1993), delle mine (1997), delle bombe a grappolo (2008), il cui uso è classificato come un crimine nel diritto internazionale. Pensiamo alle recenti strumentalizzazioni del presunto arsenale chimico di Assad in Siria, con minacce di intervento militare, ma se gli USA sferrassero un ben più devastante attacco nucleare non sarebbe finora stata possibile una denuncia di violazione del diritto internazionale. Da oggi questa denuncia sarà possibile, anche se per ora tutt’altro che automatica.

Tra i paesi Nato ha partecipato ai negoziati solo l’Olanda. E sembra essere stata una quinta colonna dell’Alleanza poiché si è opposta all’approvazione del Trattato per consenso ed ha espresso l’unico voto contrario (l’astenuto è Singapore).

Premessa fondamentale del Trattato è il riconoscimento, importantissimo in uno strumento giuridico internazionale, delle “catastrofiche conseguenze umanitarie” delle armi nucleari, e che la loro completa eliminazione “rimane il solo modo di garantire che esse non siano mai usate in qualsiasi circostanza”. L’Art. 4 suona “Verso la totale eliminazione delle armi nucleari”, e l’Art. 12 impegna gli Stati aderenti a farsi promotori del bando presso gli altri Paesi, in modo che il Trattato raggiunga l’universalità.

Il nucleo del Trattato è l’Art 1 che vieta in termini molto fermi agli Stati che vi aderiranno di: sviluppare, testare, produrre, acquisire qualsiasi dispositivo nucleare esplosivo, qualunque sia la sua potenza; trasferirli o riceverli a/da chicchessia; consentirne lo schieramento (vieta quindi esplicitamente il nuclear sharing, in base al quale l’Italia ospita circa 70 testate termonucleari statunitensi); assistere, incoraggiare o indurre chicchessia in siffatte azioni proibite. Il Trattato vieta non solo l’uso delle armi nucleari, ma anche la minaccia, negando quindi la legittimità della deterrenza che ha consentito la crescita demenziale degli arsenali nucleari durante la Guerra Fredda, e la folle corsa agli armamenti (purtroppo oggi ripresa, lo spreco più scandaloso di risorse, un affronto ai problemi drammatici del mondo.).

Il Trattato inoltre garantisce una specifica assistenza ai colpiti dall’uso o dalla sperimentazione di armi nucleari, e sancisce la necessità di bonifica ambientale (articolo 6).

Usa, Gran Bretagna e Francia hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che “Non firmeremo, ratificheremo e aderiremo mai” al Trattato, affermando che esso “non affronta le preoccupazioni per la sicurezza che continuano a rendere che necessaria la deterrenza nucleare”. Senonché una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta, come dichiarò nel 1984 una fonte insospettabile, il presidente Ronald Reagan, ed hanno ribadito il 27 giugno scorso in una lettera aperta ai presidenti Trump e Putin personaggi di levatura internazionale, Wolfgang Ischinger, Sam Nunn, Igor Ivanov e Desmond Browne.

L’ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley ha affermato: «Qualcuno pensa che la Corea del Nord eliminerebbe le armi nucleari?». Ma quale credibilità hanno gli Usa per sostenere la non proliferazione, quando hanno finanziato un colossale programma trentennale di modernizzazione di queste armi di ben mille miliardi di dollari?. La “resistibile” ascesa nucleare della Corea del Nord ha cause che risalgono al voltafaccia di Bush Jr. rispetto all’Agreed Framework del 1994.

Il nuovo Trattato costituirà in qualsiasi caso una pietra miliare, generalizzerà e rafforzerà la consapevolezza e la pressione dell’opinione pubblica (i media non potranno perpetuare l’ignobile cortina di silenzio che hanno steso sui negoziati, e ora sul Trattato.), eserciterà inevitabilmente un’influenza sui governi ora refrattari e condizionerà la loro azione. I trattati che hanno messo al bando le armi biologiche e chimiche, le mine e le bombe a grappolo hanno dimostrato come armi in precedenza accettate sono ora rifiutate dalla comunità internazionale. Questo Trattato sarà un forte strumento nelle mani degli Stati non nucleari nelle prossime scadenze, come la Conferenza dio Riesame del Tnp del 2020.

Vi sono nel Trattato anche delle ombre, che comunque non possono appannare il valore storico di questo risultato. I contrasti, anche forti, che vi sono stati mostrano che questo Trattato è il risultato migliore che si poteva ottenere nelle condizioni presenti. I maggiori contasti sono stati sull’Art 17, che dà la possibilità ai Paesi aderenti di recedere dal Trattato in caso di «eventi straordinari legati all’oggetto del trattato» che ne abbiano «compromesso gli interessi supremi». La società civile che ha partecipato ai negoziati, sostenuta da molti Stati, si è opposta strenuamente a questa clausola, considerandola giustamente un controsenso, ma un blocco di Stati intransigenti ne ha impedito l’eliminazione: una guerra nucleare non può essere in ogni caso una risposta, non potrebbe essere “vinta” e i suoi effetti sarebbero deleteri per l’umanità intera, per cui gli obblighi del Trattato dovrebbero essere assolutamente vincolanti.

Un limite è anche di continuare ad insistere sul diritto degli Stati di sviluppare le tecnologie nucleari per usi civili, che ormai si sono dimostrate la porta per accedere alle tecnologie militari, poiché il dual-use è la caratteristica intrinseca e ineliminabile di questa tecnologia.

Un ulteriore appunto che mi sento di muovere è che non è stata accettata né considerata la proposta che era stata avanzata da rappresentanti italiani e francesi della società civile di estendere una definizione generale di “dispositivo nucleare esplosivo” a “qualsiasi tipo di arma la cui esplosione sia dovuta a un processo di fissione o fusione nucleare qualsiasi sia la potenza” dell’arma che si ottiene: non era una questione di lana caprina, anche se molto specialistica, perché nei laboratori militari sono in corso ricerche per realizzare micro-esplosioni tramite la fusione nucleare di minime quantità di nuclei leggeri senza la necessità di innescarla con l’esplosione di una bomba a fissione, che necessita della presenza di una massa critica di plutonio. La Convenzione che vieta le armi biologiche è attualmente messa a rischio da progressi delle biotecnologia che erano impensabili nel 1972.

Il Trattato sarà aperto alle firme il 20 settembre, ed entrerà in vigore entro 90 giorni da quando sarà ratificato da 50 Paesi. Esso prevede la prima revisione ufficiale 6 anni dopo l’entrata in vigore, ma emendamenti, secondo l’art. 10, possono essere proposti e fatti circolare in ogni momento. Essi possono essere approvati dalle riunioni degli Stati aderenti e dalle Conferenze di revisione con una maggioranza qualificata di 2/3. Gli emendamenti entrano in vigore dopo che la maggioranza degli Stati aderenti al momento dell’adozione depositano la ratifica.

Il compito più urgente per le reti organizzate in Ican è ora la campagna per le firme e le ratifiche. Il gruppo internazionale di Parlamentari che hanno preso parte ai negoziati ha elaborato un documento programmatico per coordinare le pressioni sugli Stati per la firma e la ratifica del Trattato. Nel Parlamento italiano giacciono in proposito 4 mozioni, di orientamento diverso: la loro discussione era prevista alla fine di giugno, ma poi è stata spostata e non si sa quando verrà calendarizzata.

C’è da augurasi che i principali quotidiani e notiziari nazionali rompano finalmente l’ignobile congiura del silenzio (perché non si promuove un mail bombing sui Direttori delle testate?), e che la consapevolezza e la volontà dell’opinione pubblica crescano, esercitando una pressione crescente sul nostro governo perché aderisca alla campagna che da questo storico momento si impegnerà per eliminare le armi nucleari dalla storia.

*

L’autore: Angelo Baracca è stato professore di Fisica e di Storia della fisica all’Università degli Studi di Firenze. In particolare si è occupato di energia e di disarmo nucleari, come testimoniano i volumi, pubblicati con Jaca Book, A volte ritornano: il Nucleare (2005); L’Italia torna al nucleare (2008) e SCRAM. Ovvero la fine del nucleare (2011). Collabora da oltre 20 anni con la facoltà di Fisica dell’Università dell’Avana, a Cuba, che lo ha portato a una ricostruzione dello sviluppo scientifico straordinariamente avanzato di questo Paese (v. A. Baracca e R. Franconi, Subalternity vs. Hegemony, Cuba’s Outstanding Achievements in Science and Biotechnology, 1959-2014). Sempre per Jaca Book ha appena pubblicato il saggio divulgativo Storia della fisica italiana. Un’introduzione

 

Conto alla rovescia per Tsipras

Il premier greco Alexis Tsipras

Ce la farà Alexis Tsipras a finire il suo mandato fino all’autunno del 2019 oppure sarà costretto a cedere prima le armi e proclamare elezioni anticipate? La questione è dibattuta all’interno del partito della sinistra greca Syriza. È vero che nel settembre 2015 il dolorosissimo compromesso raggiunto dal premier con i creditori fu approvato dagli elettori. Due anni dopo però le cose sono cambiate. Il conto è stato più salato del previsto, grazie alla teutonica determinazione di Berlino di schiacciare senza pietà qualsiasi focolaio di insubordinazione all’interno dell’eurozona. In primavera sono stati approvati nuovi tagli alle pensioni, che entreranno in vigore dal 2019, mentre sono rimasti lettera morta i solenni impegni dei creditori di alleggerire il debito greco. Per Atene alleggerire il peso del debito è questione di vita o di morte. In termini assoluti si tratta di una inezia, circa 330 miliardi, ma rappresenta circa il 180 per cento del povero Pil del Paese. Il semplice annuncio di un deciso taglio o di un prolungamento delle scadenze a tassi favorevoli, aprirebbe la strada all’acquisto di bond greci dalla Banca centrale europea, una pioggia di liquidità sul desertico mercato greco. Ma la destra tedesca si oppone: nessuna concessione agli “scrocconi e sfaticati” del sud Europa. Perché i debiti dei greci sono pochi, ma quelli degli italiani sono molti di più e se si apre la strada… Eppure, dopo cinque anni di precipitosa caduta, con la perdita di quasi il 26 per cento del suo valore, il Pil greco ha cominciato a dare timidissimi segni di vita. L’anno scorso ha registrato un significativo segno più davanti allo zero virgola e lo stesso è avvenuto il primo trimestre di quest’anno.
La stagione turistica è partita alla grande e promette di battere ogni record, con più di 30 milioni di visitatori. Non solo valuta preziosa, visto che oramai il turismo rappresenta il 20 per cento dell’economia, ma anche posti di lavoro estivi (400 euro al mese) e anche entrate fiscali per lo Stato. L’epoca in cui le imposte le versava solo chi non poteva evadere sembra finita. L’apparato di riscossione, quasi del tutto smantellato dai precedenti governi di destra, è stato reso più efficiente e molto meno sensibile alle sistemazioni sotto banco da parte dei potenti. Il 2016 ha segnato un avanzo primario nelle entrate dello Stato del 3,4 per cento, quando le più ottimistiche previsioni della Commissione europea parlavano di meno della metà. Tra qualche mese il Pos per Bancomat e carte di credito diventerà obbligatorio per tutti gli esercizi…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Datemi un’auto elettrica e farò respirare il mondo

Pechino, Cina

ntónio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ne è convinto: «Il treno della sostenibilità ha lasciato la stazione». Ma, sostengono Christiana Figueres, leader di Mission 2020, e un gruppo internazionale di suoi colleghi, quel treno ha solo tre anni per raggiungere la sua destinazione. L’uno e gli altri, Guterres e il gruppo Figueres, si riferiscono ai cambiamenti climatici e, in particolare, all’obiettivo fissato a Parigi nel dicembre 2015: contenere l’aumento della temperatura media del pianeta ben al di sotto dei 2° C, possibilmente entro gli 1,5° C rispetto a quella che il mondo aveva prima dell’epoca industriale.
António Guterres ha ragione, perché i segnali positivi degli ultimi anni sono molti e niente affatto trascurabili. In primo luogo le emissioni di carbonio si stanno disaccoppiando dalla produzione di ricchezza. Da tre anni le emissioni globali di origine antropica, sono stabili, mentre l’economia del mondo è cresciuta al ritmo del 3,1% l’anno. Solo tre altre volte negli ultimi 40 anni – ricorda su Nature la stessa Figueres – le emissioni non erano cresciute prima d’ora: nei primi anni 80, nel 1992 e nel 2009. Ma in tutti questi casi la diminuzione delle emissioni si era verificata in occasione di una caduta dell’economia. È la prima volta che gli sversamenti in atmosfera di gas serra diminuiscono nonostante l’economia cresca. Buon segno, certo. Anche perché vengono proprio dai due colossi dell’inquinamento mondiale: Cina e Usa. Negli Stati Uniti lo scorso anno le emissioni sono diminuite del 3%, mentre il Pil è aumentato dell’1,6%. Anche in Cina le emissioni sono diminuite, di un buon 1%, nonostante l’economia sia cresciuta del 6,7% e la domanda di elettricità sia aumentata del 5,4%. La spiegazione è semplice: la nuova domanda di elettricità è stata soddisfatta per i due terzi da fonti rinnovabili e carbon free. L’Europa non è da meno: il 75% della nuova domanda di energia è stata soddisfatta da fonti pulite, mentre il carbone – la fonte che più di ogni altra produce biossido di carbonio – è diminuito di un secco 10%. Tutto questo dimostra che la green economy sta già funzionando. Produce ricchezza e genera posti di lavoro.
Anche le previsioni per il futuro sembrano rosee. Alla fine del 2015 le fonti rinnovabili e carbon free ci hanno dato il 23,7% dell’energia elettrica prodotta nel mondo. Secondo l’International energy agency (Iea) questa quota potrebbe salire anche al 27% entro il 2020. Secondo un recente rapporto della Carbon Tracker, le sole auto elettriche potrebbero farci risparmiare due milioni di barili di petrolio al giorno entro il 2025 e addirittura 25 milioni di barili entro il 2050. L’Iea calcola che gli sforzi per tentare di bloccare i cambiamenti climatici faranno crescere l’economia mondiale di 19.000 miliardi di dollari. E che anche solo applicando gli accordi di Parigi, il Pil mondiale aumenterà di 13.500 miliardi di dollari da qui al 2050….

L’articolo prosegue sul numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Liste civiche ma con metodo, il caso Padova

PADOVA, ITALY - FEBRUARY 15: A view of 'Piazza delle Erbe' next to the Antonio Ferrari restaurant on February 15, 2017 in Padova, Italy. The restaurant offers a 5% discount off the total food bill if children are well behaved throughout their lunch or dinner. (Photo by Awakening/Getty Images)

Quando ho visto le mie professoresse del liceo con la maglietta arancione in piazza, ho pensato che sì, la cosa poteva davvero funzionare». Arturo Lorenzoni sorride quando ricorda l’entusiasmo delle sue insegnanti ormai in pensione da anni e poco interessate alla politica. Il caso Padova, emerso come felice eccezione (insieme a Lecce) nella disfatta generale del centro sinistra alle amministrative, è dovuto in buona parte a questo cinquantenne professore universitario (insegna Economia dell’Energia), candidato sindaco della Coalizione civica. L’esperienza veneta di rappresentanza politica nata dal basso, citata di sfuggita anche da Giuliano Pisapia nella reunion di Campo progressista dell’1 luglio, ha portato al successo un centrosinistra diverso dalla “formula tradizionale”, come ha fatto notare il filosofo Umberto Curi, anche lui mobilitato contro la Lega e il “sindaco sceriffo” Massimo Bitonci. «Nella città veneta è andata in scena una politica innovativa» scrive ancora Curi, fatta di tre elementi: i soggetti, il metodo e i contenuti. Coalizione civica è arrivata terza al primo turno ma – e qui sta la novità – non si è accontentata e ha fatto un apparentamento con l’altra lista civica del centrosinistra di Sergio Giordani, per cui al ballottaggio la Lega è stata battuta e i “civici” hanno ottenuto così 9 consiglieri, 4 assessori, con Lorenzoni vicesindaco.

L’articolo di Donatella Coccoli prosegue sul numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Foucault, longevità di una impostura

Michel Foucault 1977

 Tra tutti i filosofi francesi sulla cresta dell’onda negli anni Sessanta e Settanta «lui è quello che ha avuto maggiore fortuna critica», nota Jean-Marc Mandosio in Longevità di una impostura: Michel Foucault, puntuale e sferzante saggio che Oltralpe ha fatto molto discutere e che ora esce in Italia  pubblicato da Enrico Damiani. Dopo essere stata il punto di riferimento per il Maggio francese la sua opera «ha conosciuto una seconda giovinezza con l’infatuazione dei docenti americani per la French Theory» e poi  ha ispirato una lunga schiera di epigoni, alcuni – come vedremo – a dir poco imbarazzanti per un pensatore che si dice progressista. Ciò che colpisce lo studioso e polemista Mandosio è anche l’intoccabilità della sua figura diventata nel giro di pochi anni quasi un oggetto di culto.

Un consenso unanime e acritico, denunciaMandosio, circonda Foucault nonostante le sue numerose giravolte politiche, nonostante la dissociazione che mina i suoi scritti e il nihilismo che li abita. «Citazionista disinvolto», «banderuola opportunista», «sofista incoerente e irresponsabile». Così lo definisce il docente della Sorbona in questo suo acuminato pamphlet, argomentando con dati e fatti alla mano. Resta però un mistero: se la costruzione filosofica foucaultiana «è una deliberata invenzione» che sulla scorta di Heidegger arriva a negare l’esistenza di una natura umana universale, se il suo pensiero anti identitario contesta ogni tentativo di ricerca della verità, perché è diventato un santino della sinistra?

«Foucault ha saputo presentarsi come un pensatore che ha “rivoluzionato” tutto, dalla storia della follia alla teoria del potere, dall’epistemologia, alla storia della sessualità, mentre si è sempre mantenuto in sintonia con le mode intellettuali del tempo: fenomenologia negli anni 50, strutturalismo negli anni 60, maoismo dopo il 1968, antitotalitarismo dopo l’arrivo di Solženicyn, per finire con gli “esercizi spirituali” e la scoperta del liberalismo economico negli anni di Thatcher e Reagan. Sicché in Foucault c’è di tutto per tutti», dichiara Mandosio a Left. Sottolineando che «Foucault è la figura più compiuta che ci sia di anti-istituzionalismo istituzionale». Le sue opere sono raccolte nella collana della Pléiade che accoglie solo classici, e le sue carte sono state dichiarate “tesoro nazionale” dallo Stato francese nel 2012. «Perciò rivendicare Foucault – chiosa l’autore di Una lunga impostura – offre un doppio vantaggio: quello del finto radicalismo (i foucaultiani parlano spesso del “rischio” che si corre a pensare con Foucault), temperato dal riconoscimento accademico che fa di Foucault una carta vincente». Il risultato? «Chi critica Foucault è quindi automaticamente messo fuori gioco. Ciò permette di fare come se le critiche, numerosissime sin dagli anni Sessanta sui diversi aspetti dell’opera di Foucault, non esistessero.

L’intervista di Simona Maggiorelli aJean-Marc Mondosio prosegue sul numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Salva-banche, il fallimento del mercato e la bufala del bail-in

Le nuove banconote da 20 euro a margine dell'inaugurazione dell'esposizione 'La Banconota delle idee: creatività, sicurezza e tecnologia', Roma, 25 novembre 2015. ANSA/CLAUDIO ONORATI

La soluzione alla crisi delle due banche venete mostra, ancora una volta, la distanza abissale che separa il disegno culturale e ideologico che sottende l’Unione Europea, e al suo centro l’unione monetaria, dalla realtà dei fatti, che tale disegno quotidianamente smentisce. Il disegno, è noto, assegna al mercato una assoluta centralità e dominio, lungo praticamente ogni dimensione del funzionamento delle nostre società. Si è approvato il “bail-in” per le banche: significa che le crisi bancarie non vanno più risolte con l’intervento dello Stato, cioè con i soldi dei contribuenti, ma vanno fatte pagare a coloro che nella banca hanno investito o alla quale hanno affidato i propri soldi: i sottoscrittori di azioni della banca, oppure di obbligazioni e, oltre un certo limite, anche i titolari di conti correnti. Si è sbandierato che questo è l’unico modo veramente efficace per “disciplinare” i manager delle banche. Azionisti, obbligazionisti e correntisti, sapendo che in caso di crisi saranno chiamati a pagare, si guarderanno bene dal dare i propri soldi a banche con manager inetti o truffaldini, li affideranno solo ai bravi e agli onesti, e in ogni caso controlleranno strettamente il loro operato. Così le banche funzioneranno bene, le crisi bancarie scompariranno e non si spenderanno più soldi pubblici per salvarle. Ma è una bufala. Azionisti, obbligazionisti e correntisti non hanno né le informazioni né gli strumenti istituzionali per controllare i manager e mandarli a casa nel caso sgarrino. Dei manager bancari sono sempre stati preda e, così stando le cose, continueranno a esserlo.
Ecco dunque che, nei fatti….

L’articolo di Ernesto Longobardi prosegue sul numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Scene di guerra in Egitto. Autobomba nel Sinai: 40 morti

Il giorno di guerriglia più sanguinoso dell’anno. Il bilancio è quello tragico di uno Stato in guerra, anche se l’Egitto ufficialmente non lo è: 40 morti tra i miliziani dello Stato Islamico, 23 tra le fila dei soldati dell’esercito regolare di Al Sisi. I militari pattugliavano la zona nord orientale del deserto del Sinai. L’autobomba è esplosa al valico del compound di Al Barth. Si è consumato ieri l’attacco più letale dell’anno contro le divise del Cairo, dove oltre venti soldati hanno perso la vita.

I takfiri, come i soldati neri di al Bagdadi vengono chiamati in Egitto, indossavano divise dell’esercito quando sono arrivati a bordo dei fuoristrada aprendo il fuoco e uccidendo, tra gli altri, membri delle forze speciali e il colonnello del loro battaglione, Ahmed el Mansi. Per questo attentato, rivendicato da un’ala affiliata allo Stato Islamico nel Sinai, l’esercito egiziano ha risposto a poca distanza dal compound, sito nel cuore di una roccaforte dell’IS.

A sud di Rafah i soldati hanno così aperto il fuoco contro i miliziani, almeno 40 hanno perso la vita durante la battaglia. La presenza degli islamisti a ovest e sud di Rafah, intorno alla città di Sheikh Zuweid, è massiva come nell’area del Sinai sita intorno alla città di el Arish. E’ ancora in vigore nella zona desertica dell’Egitto lo stato di emergenza proclamato da Al Sisi nell’ottobre del 2014, mese in cui 30 soldati egiziani persero la vita in un singolo attacco.