Home Blog Pagina 866

Il genocidio silenzioso. Oltre sei milioni di morti in Congo in 20 anni, nell’indifferenza dei media

© congojustice.org

Nella Repubblica Democratica del Congo è in atto un genocidio da oltre 20 anni, nel silenzio generale dei media: Nel giugno scorso l’Onu ha avviato un’inchiesta internazionale sulle violazioni dei diritti umanidopo che negli ultimi mesi si sono susseguite violenze e attacchi militari contro le milizie anti governative, soprattutto nel Kasai e nelle altre regioni minerarie più interne e poco accessibili.

L’inchiesta internazionale sulle violazioni dei diritti umani nella Repubblica democratica del Congo è stata disposta dall’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zelda Ra’ad Al Hussein, il 6 giugno a Ginevra, dopo i numerosi ritrovamenti di fosse comuni nel Kasai. Il conflitto si è intensificato dopo che che il leader tribale Kamwina Nsapu è stato ucciso dai soldati congolesi nell’agosto del 2016. In meno di un anno per sfuggire agli scontri armati tra le forze dell’ordine e i ribelli gli sfollati hanno raggiunto il milione.

Il quadro della situazione è disumano. Nel Paese è in atto una vera e propria emergenza umanitaria, con almeno 400.000 bambini a rischio di morte per fame. Tra maggio e giugno sono state scoperte 42 fosse comuni per oltre 400 morti. Tra di essi anche due funzionari dell’Onu inviati in Congo e scomparsi il 12 marzo. Solo allora la Farnesina ha diffuso un comunicato sull’aggravarsi della situazione nella Repubblica del Congo.

Il direttore dell’associazione Anpil  (presente in Congo dal 2007)  Massimiliano Salierno, ha raccontato così la situazione ai microfoni di Radio Vaticana: «Il problema attuale del Congo è la successione alla presidenza. Al momento ricopre il ruolo Kabila, figlio dell’ex presidente congolese che ha terminato il suo mandato nel dicembre dello scorso anno, ma non ha alcuna intenzione di lasciare il potere, quindi questo crea una grandissima tensione. Le elezioni  che si dovevano tenere non si sono ancora svolte. C’è anche un tentativo da parte del presidente Kabila di cambiare la Costituzione per consentirgli di avere un ulteriore mandato presidenziale. Da qui nascono gli gli scontri che, purtroppo, stanno insanguinando la regione». La denuncia di Salierno spiega il motivo per cui le violenze si svolgono soprattutto nel Kasai, una regione storicamente in contrasto con il potere della capitale, tenuta sempre sotto controllo e repressa.

Ma già a metà febbraio in rete circolava un video in cui i militari sparano su civili disarmati. Molti volontari italiani in fuga hanno rischiato la vita. Il Fatto Quotidiano ha raccolto testimonianze audio e video dal posto. Don Jeanot Mandefu a giugno ha raccontato: «I soldati sono entrati all’università e hanno rastrellato gli studenti». Cosa che la presidente del COE Scandella interpreta così: «Verrebbe da pensare che il motivo sia quello di far fuori quanti più giovani possibile in una regione scomoda perché si oppone al potere centrale». Le immagini di violente uccisioni, di corpi massacrati e ammassati nelle fosse comuni  hanno incontrato un agghiacciante silenzio mediatico. Pochissimi giornali parlano della situazione drammatica in cui versa il Kasai, ma sul web circolano alcune foto e video del genocidio.

Il Congo è una terra ricchissima di materie prime e quindi la guerriglia non è scatenata solo da problemi di natura politica, ma anche dagli interessi economici che ruotano intorno alle concessioni per sfruttare il sottosuolo, alimentando corruzione non solo dentro il Paese. Molte risorse naturali congolesi sono sfruttate nelle economie occidentali, non solo nel settore automobilistico e aerospaziale, ma anche nell’high-tech. Basti pensare al coltan (columbo-tantalite), un elemento essenziale nella fabbricazione dei componenti elettronici di tv, pc, smartphone.

Il governo congolese utilizza il caos che domina il Paese per rimandare all’infinito le elezioni, con buona pace dell’“accordo di San Silvestro”, con cui maggioranza e opposizione avevano concordato un anno di transizione ed elezioni entro la fine del 2017. «Ma tutte le fasi stabilite dall’accordo non vengono rispettate dal governo. Alcune fonte denunciano gli Stati Uniti di appoggiare le milizie ruandesi e le dittature che crescono nel Congo, che alimentano una sempre maggiore povertà, l’aumento del tasso di Aids (che ha raggiunto il 20% della popolazione nelle province orientali) a causa dei continui stupri, le epidemie e gli spostamenti di massa che derivano da condizioni di vita impossibili. Una guerra che dal 1996 ad oggi ha già fatto 6 milioni di morti, la metà dei quali sono bambini, come racconta il documentario video realizzato da Congo justice.

A Cipro la riunificazione non s’ha da fare. Salta l’accordo tra greci e turchi

© EPA/KATIA CHRISTODOULOU

Nessun accordo raggiunto per Cipro, l’isola divisa a metà da oltre quarant’anni. Chi sperava nella riunificazione, come i residenti, molti turchi e greci, e tutti i membri della delegazione coinvolta, rimarranno delusi.

In Svizzera, dove si teneva il meeting per trovare una soluzione per la riunificazione dell’isola mediterranea, gli accordi sono falliti questa mattina molto presto tra il presidente dei greci ciprioti Nicos Anastasiades e il leader dei turchi ciprioti Mustafa Akinci, proprio come non sono stati trovati negli anni precedenti, a partire dal lontano 1974.

I diplomatici hanno riferito che i turchi erano pronti a concedere troppo poco alla comunità greca che richiedeva il ritiro totale delle truppe di Ankara dall’isola, mentre i greci ciprioti erano disponibili a rispondere alle richieste turche sulla rotazione alla presidenza, altra questione chiave per la riunificazione.

Antonio Guterres, segretario generale ONU, ha dichiarato in conferenza stampa: «Sono molto triste nel comunicarvi che, nonostante il forte impegno e coinvolgimento, con le delegazioni di diversi partiti, la conferenza su Cipro è terminata senza raggiungere alcun risultato». Guterres ora è atteso per un ‘incontro con Trump per il G20 ad Amburgo.

Consigli (non richiesti) per non chiudersi a riccio. A sinistra

Faq per non chiudersi a riccio

Il discrimine è il no al referendum?

Va bene. Sono d’accordo. Allora però hanno votato no, a sinistra, anche D’Alema e Bersani, Speranza e Scotto e tanti altri che riempivano la piazza dei Santi Apostoli, in cui ha parlato Onida, che ha sostenuto e votato no.

Sì, ma io il Pd non l’ho mai votato.

Ricordiamo che in passato sono successe molte cose. In un governo Prodi erano ministri Ferrero e Gentiloni, insieme. Vendola era alleato di Bersani e fece le primarie con Renzi. La lista Ingroia, in cui era candidata Anna Falcone, non raggiunse il quorum.

Parliamo di programma.

Brancaccio e Apostoli hanno parlato di articolo 18, progressività, financo di patrimoniale. Poi, certo, sarebbe interessante capire che tipo di impianto complessivo e quali misure specifiche, ma una settimana fa il discrimine era l’articolo 18. Oggi? Davvero vale la pena cercare il discrimine senza avere ancora ascoltato i programmi? Perché il discrimine sulle intenzioni, quello, anche no.

Intanto c’è anche chi quel programma lo sta scrivendo punto per punto, e non solo scrivendo i titoli ma anche gli svolgimenti. Per questo il lavoro da fare è soprattutto un Manifesto a disposizione di tutti per un confronto nel merito che parli di “cosa” e non di “chi”. Probabilmente sarà più facile ritrovarsi e soprattutto non perdersi.

Buon venerdì.

Stregati dalle Otto montagne di Cognetti

Il nostro critico Filippo La Porta è stato severo con lui, scrivendo che Le otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi) gli aveva suscitato in eguale misura ammirazione e noia. “Ammirazione perché questa storia di neve, rocce e sassi squadrati è nata dalle viscere dell’autore, e perché per essere moderni non occorre parlare di smartphone, computer e ipermercati. Qui l’autore riversa tutto il suo amore per la montagna da quando i genitori decisero di andare a vivere vicino al Monte Rosa ( poi da lì deciderà di visitare quasi in pellegrinaggio le 8 montagne più belle del mondo). Noia perché è un libro che, nella sua indubbia sincerità, trasuda retorica. All’inizio vediamo i genitori del protagonista, Pietro, un ragazzo solitario, in una Milano anni ’70 con scontri di piazza e case popolari sovraffollate. Non ne possono più, della metropoli e del logorio della vita moderna”. E poi rincarando la dose: “Infatti si trasferiscono nel paese di Grana, dove un “mondo artico” incombe sui pascoli estivi. Il padre subisce una metamorfosi: quando torna la sera dalle sue lunghe passeggiate, impolverato e bruciato dal sole, è “stanco e felice”, anche se odia gli sciatori, perché è offensivo scendere per la montagna senza la fatica di salirci. Quando si mette sulle sue ginocchia il figlio lo trova “allegro e loquace, tutto l’opposto del padre di città”. Ed è lì che anche il figlio scopre la sua vocazione per la montagna, che poi lo porterà fino sul Tibet. Lassù in alto infatti non ci sono “Padroni. Eserciti. Preti. Capi reparto…”. Romanzo di formazione, poiché la montagna è un sapere e uno stile di vita. E anche la storia di un’amicizia intensa, tra Pietro e Bruno, che si siedono al tramonto con mezzo litro di vino rosso a rievocare la loro infanzia.Verso la fine entra in scena una camoscia ammazzata da due perfidi cacciatori: scuoiata e decapitata “sembrava molto più piccola adesso”. Va bene, Gide si sbagliava, la letteratura si fa anche con i buoni sentimenti, però lo scheletro di Bambi che penzola dal ramo dell’albero no, vi prego!”.
Per certi versi, difficile non dargli ragione. Ma da lettrice che non ama la letteratura di montagna, che anzi alla contemplazione della natura è del tutto refrattaria, devo ammettere che Cognetti riesce a comunicare qualcosa che va al di là della trama, forse un po’ prevedibile, del romanzo. Ci riesce non per una celebrazione esornativa del paesaggio, ma per come racconta in profondità i rapporti umani e la separazione, come coraggiosa scelta di guardare  l’altro da lontano per cercare di conoscerlo… Così dopo la morte del padre il protagonista, Pietro – che a trent’anni e passa si accorge di aver fatto scelte diversissime da lui – si mette sulle sue orme per ricostruirne le mappe di viaggio in montagna. Come un perfetto sconosciuto, ma con profondo desiderio di sapere. E’così che un padre e un figlio – nella memoria viva di quest’ultimo – smettono di essere tali e diventano compagni di cordata. E’ così che la natura è solo un termine astratto che usano i cittadini mentre per chi abita la montagna essa parla con una lingua viva fatta di ruscelli, pietre, rovi . Il punto è cercare la parola giusta, parole che non sono pietre, che non sono ciottoli vuoti. Per chi vuol sentirle risuonare c’ è questa prosa limpida,  forse naif, ma dotata di una schiettezza irresistibile. Che finalmente fa riscuotere a Cognetti il successo che avrebbe meritato una delle sue opere più vere e vibranti, Sofia si veste sempre di nero.
Ecco il video della presentazione del libro di Paolo Cognetti organizzata dalle Biblioteche di Roma a cui abbiamo partecsipato

Gas e petrolio alle aziende russe che esportano mercenari in Siria

Le aziende russe che forniranno servizi in Siria saranno pagate in gas naturale e petrolio. La Evro Polis, per esempio, riceverà il 25% di petrolio e gas prodotto sul territorio riconquistato allo Stato Islamico.  Uno dei primi a dare la notizia è stato il sito Fontanka.ru.

Due compagnie hanno già beneficiato di questa nuova policy: la Evro Polis, che riceverà profitti da petrolio e gas dispiegando contractors sul territorio e la Stroytransgaz, a cui andrà una miniera di fosfato, in precedenza sotto controllo dei militanti dello Stato Islamico.

Questi accordi, stretti con il governo siriano, «sono incentivi per le compagnie russe affiliate alle agenzie di contractors», che secondo i dati hanno 2500 persone dispiegate sul terreno contro lo Stato Islamico nei dintorni di Palmira.

La Evro Polis, scrive sempre Fontanka, collabora con l’agenzia di contractors Wagner, sotto inchiesta al tempo delle sanzioni contro la Russia per aver spedito mercenari in Ucraina.

«Il Cremlino ha una nuova arma contro lo Stato Islamico in Siria» scrive Andrew Kramer sul New York Times ed «è il profitto». Gli incentivi che verranno dati alle agenzie di contractors che decideranno di lavorare in Medio Oriente contro gli islamisti saranno ora in risorse energetiche naturali.

 

Repressione in Turchia: arrestata la direttrice di Amnesty International

La direttrice di Amnesty International Idil Eser è stata arrestata questa notte in Turchia, nei pressi di Istanbul, insieme ad altre 11 persone.
Con altri attivisti per i diritti umani Idil Eser doveva partecipare ad un meeting sulla sicurezza informatica. Secondo quanto riportano i media internazionali, gli arresti sono avvenuti durante il corso di un’operazione a Buyukada, un’isola vicino Istanbul.
L’organizzazione per i diritti umani ha fortemente condannato l’arresto definendolo «un grottesco abuso di potere». Il segretario generale di Amnesty Inernational, Salil Shetty ha dichiarato che «questo abuso di potere evidenzia la precaria situazione degli attivisti per i diritti umani in Turchia». E ha concluso dicendo che «Idil Eser e gli altri arrestati con lei devono essere rilasciati immediatamente e senza condizioni».
Insieme a Idil Eser sono stati arrestati altri sette attivisti per i diritti umani: İlknur Üstün, Günal Kurşun, Nalan Erkem, Nejat Taştan, Özlem Dalkıran, Şeyhmuz Özbekli, Veli Acu, il proprietario dell’albergo dove si svolgeva il meeting e due formatori stranieri, dalla Germania e dalla Svezia.
Per ora non sono state formalizzate accuse contro il gruppo di attivisti e nessuno di loro ha potuto incontrare i legali.

D’altra parte non è la prima volta che l’organizzazione per i diritti umani finisce nel mirino della polizia turca. L’ultima mossa per colpire l’organizzazione, sempre in prima linea per difendere i diritti umani e la libertà di stampa, risale a meno di un mese fa. Lo scorso 7 giugno è stato Taner Kilic, presidente di Amnesty International Turchia, a finire in carcere. Kilic era stato accusato, insieme ad altri 22 avvocati, di essere legato alla rete del predicatore islamico Fethullah Gulen, considerato da Erdogan l’organizzatore del fallito colpo di stato del luglio 2016.
Gulen è stato a lungo un alleato di Erdogan, ma a partire dal 2007 i i dissapori fra i due leader si sono fatti molto forti, fino ad essere ritenuto il responsabile del golpe contro Erdogan. Gulen, esiliato in Pennsylvania, ha sempre negato di essere l’organizzatore del golpe, ma dal luglio 2016 le persone licenziate in Turchia perché ritenuto vicine al suo movimento sono quasi 150mila.

Mancano pochi giorni all’anniversario dal golpe fallito (15 luglio 2016) e la Turchia continua a essere in stato d’emergenza, come imposto dal presidente Erdogan. A distanza di un anno la repressione di Erdogan non sembra arrestarsi, sembra anzi accentuarsi ogni giorno e fino ad ora ha portato all’arresto di oltre 40mila persone accusate di «avere legami con il terrorismo».
In Turchia il clima di sospetto e repressione sta toccando vette mai viste prima, tanto che da Strasburgo il Parlamento europeo chiede di “sospendere i negoziati di adesione con la Turchia se il pacchetto di riforme costituzionali sarà attuato senza modifiche”. Il Parlamento europeo sembra quindi fare un passo indietro, prendendo atto della repressione attuata del governo turco in risposta al tentato golpe.

Senza immigrati oggi, niente pensioni agli “italiani” tra 20 anni

L’ipotesi di chiudere porti e frontiere ai cittadini extracomunitari non è solo una questione di miopia politica e/o di carenza di umanità (che a volte sfocia in vera e propria xenofobia) delle istituzioni e dei partiti di destra e centro. Se dovesse tramutarsi in realtà potrebbe costare oltre un miliardo e mezzo l’anno alle casse dell’Inps. È stato il presidente dell’Inps, Tito Boeri, a gettare il sasso nello stagno con una simulazione resa pubblica durante la presentazione della Relazione annuale dell’Istituto nazionale di previdenza sociale di mercoledì a Montecitorio: se dovesse essere impedito l’accesso a nuovi migranti, questa “politica” fino al 2040 potrebbe costare alle casse dell’Inps 38 miliardi. In pratica, ha detto Boeri avremmo 73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate agli immigrati «con un saldo netto negativo di 38 miliardi». Insomma, ha osservato Boeri davanti al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, «una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i contri sotto controllo». Le considerazioni del presidente Inps hanno scatenato il consueto vespaio di polemiche dal profilo infimo da parte dei soliti politici terrorizzati da una inesistente «invasione» (termine che ormai alcuni usano come sinonimo di immigrazione). Non riteniamo sia il caso di rilanciarle. Ci sembra invece più importante e interessante riportare le parole equilibrate che Boeri ha pronunciato durante Tutta la città ne parla la trasmissione di Radio Tre condotta da Pietro Del Soldà.
«Il tema dell’immigrazione è molto controverso, quindi suscita sempre reazioni molto sanguigne. Io però penso che sia molto importante dire la verità agli italiani» ha esordito Boeri: «Senza gli immigrati l’Inps crollerebbe, lo abbiamo dimostrato con la nostra simulazione». E per quale motivo il nostro sistema sociale fallirebbe? I problemi di fondo sono due: «Il primo è che le persone vivono più a lungo e quindi si pagano molte più pensioni rispetto a prima e così il sistema non riesce più a reggere». Il secondo è che a causa della lunga crisi economica e del calo demografico ci sono sempre meno lavoratori quindi sempre meno contribuenti. E qui arriviamo al ruolo degli immigrati. Il sistema pensionistico si regge sul fatto che chi lavora paga le pensioni di chi le riceve. «Gli immigrati che oggi lavorano stanno versando i contributi delle nostre pensioni» rimarca Boeri. Quelli che arrivano in Italia sono sempre più giovani: il numero degli under 25 che contribuisce all’Inps è passato dal 27,5% del 1996 al 35% del 2015. Si tratta quindi di 150 mila contribuenti in più ogni anno. Numeri che compensano tra l’altro il continuo calo delle nascite: «Le natalità sono sempre più in diminuzione» spiega Boeri, se anche dovessero essere approvate tutte le proposte di sostengo alla genitorialità «ci vorranno vent’anni prima che i nuovi nati comincino a lavorare».
«Gli immigrati invece sono già qui da noi e non diamo loro la possibilità di lavorare in modo regolare e quindi di pagare i contributi». Non dando agli immigrati la possibilità di lavorare togliamo quindi loro la possibilità di versare contributi. Contributi che invece potrebbero fare la differenza per la nostra economia e per il nostro sistema pensionistico. È falso poi e priva di basi statistiche l’affermazione – anche questa molto in voga specie presso la destra, estrema e non – secondo cui i lavoratori stranieri portino via il lavoro agli italiani. «Gli stranieri fanno lavori diversi, con retribuzione diverse. Studiando il fenomeno dei lavoratori stranieri si è notato che “inizialmente (i lavoratori stranieri) pagano poco perché hanno dei salari molto bassi, sono circa 2800 euro all’anno, ma poi hanno delle progressioni molto rapide e in soli dieci anni danno dei contributi importanti per il pagamento delle nostre pensioni». E qui una stoccata al fallimento delle politiche di accoglienza. «Quando arrivano i rifugiati li teniamo per due anni in centri di accoglienza in cui non sono nelle condizioni di poter lavorare e quindi di poter contribuire. Sarebbe molto più lungimirante cercare di integrare subito queste persone, di farle lavorare. Sarebbe una cosa utile per loro e sarebbe una cosa utile per i nostri pensionati». Il presidente dell’Inps pensa quindi che l’Italia dovrebbe puntare nell’integrazione nel mondo del lavoro. Un processo che certamente richiederebbe tempo e che comporterebbe dei costi, ma che è necessario. E non più procrastinabile.

Nibir, Ruz e gli altri: la carica delle nuove generazioni

In un sabato mattina di giugno a Roma una biblioteca comunale apre le porte del suo giardino ai “libri umani”. Seduti nelle loro postazioni sotto l’ombra di un albero o di un gazebo sono pronti a narrare la propria storia. Si chiamano Nibir, Ruz, Kwanza, Fioralba, Samir, Roberto, Freddy, Amarilda, Igor, ragazzi dai nomi particolari ma con un denominatore comune. Tutti di origine straniera, ma nati o cresciuti a Roma. Ecco, sono loro la Biblioteca vivente.
Elaborata dalla cooperativa milanese ABCittà, in collaborazione con Roma Capitale – Biblioteche di Roma (Roma Multietnica), il giornale Piuculture, l’associazione New Romalen e Spazio culturale Rampa Prenestina, la Biblioteca Vivente 2G ha affrontato il tema delle seconde generazioni. Pregiudizi che s’incontrano e si scontrano con scorci di autobiografie. Ogni lettore ha 30 minuti di tempo per consultare un libro umano. Ogni incontro parte da una storia e poi si trasforma, una vera e propria interazione tra libro umano e lettore. «Alla fine mi sono trovato a interessarmi anche io della vita del mio lettore», racconta Nibir, ragazzo bengalese. La sua storia parla di jeans e punjabi (il vestito tradizionale bengalese) e di tutte le volte che viene fermato dalla polizia quando lo indossa. Samir, ragazzo rom di 31 anni racconta invece il passaggio da Casilino 900 a Salone. Ed è proprio quell’indirizzo scritto sulla sua carta di identità, Via di Salone, 323 che non gli permette di trovare una casa in affitto nonostante abbia un contratto di lavoro. Freddy, capoverdiano: la sua storia inizia con il naso rotto per uno spintone di un bullo a scuola quanto aveva 14 anni. «Mi sono emozionato a fare il libro umano. In genere sono sempre io ad ascoltare gli altri, mentre questa volta erano gli altri ad ascoltare me».

Amarilda ha una storia che si scontra con la tradizione del Paese dove è nata, l’Albania. «Un paio di anni fa ho portato il mio nipotino di 6 anni in vacanza. In spiaggia ho incontrato altre due ragazze albanesi poco più grandi di me, che non ci hanno pensato due volte a mostrarmi il loro disappunto: “Amarilda, che sia l’ultima volta che porti il tuo nipotino in vacanza, tutti penseranno che è tuo figlio e non troverai mai marito”». Giovane trentenne, Amarilda cerca la propria realizzazione personale a prescindere dalla cultura del proprio Paese di origine o da quella del Paese dove è cresciuta.
Ruz è il piccoletto del gruppo, ragazzo rom di 15 anni. Jeans, maglietta bianca e un taglio di capelli alla moda. «L’anno scorso, sull’autobus, una signora iniziò a urlare contro una famiglia rom perché erano sporchi. Diceva che tutti i rom sono così. Mi sono arrabbiato tantissimo, ho iniziato anche io a gridare contro la signora e dirle: “Mi guardi anche io sono rom e sono pulito e profumato, lo vede che non siamo tutti uguali?” Dopo sono sceso dall’autobus, con ancora un po’ di rabbia dentro. Io sono nato in Italia in un campo rom, poi ci siamo trasferiti in una casa. Mio padre ha rubato nella sua vita ed è anche finito in galera» racconta abbassando lo sguardo.

«Ma a me ripete tutti i giorni che quelli sono stati degli errori e che io mi devo impegnare a studiare». Ruz ha capito l’importanza di andare a scuola ed ha appena finito il primo anno delle superiori. Kwanza ha la mamma italiana, il papà brasiliano ed è nata in Germania. Il titolo del suo libro umano è Melanina. «Un giorno un mio amico mi ha detto: ma voi neri sentite più caldo visto che avete la pelle scura?» racconta Kwanza divertita. Pregiudizi e ignoranza a volte si trovano anche in persone dalle quali meno te lo aspetti. I 2G? «Non siamo secondi a nessuno, siamo nuove generazioni», conclude Kwanza.

(Foto di Simone Zamatei ©)

 

 

L’articolo di Amarilda Dhrami è tratto dal numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Renzi, il Pd e lo streaming “ma non troppo”

Ops. L’ultima direzione nazionale del Pd non è andata in streaming. Il feticcio che Renzi a tutti i costi aveva voluto importare dai propositi (del resto mai realizzati) del M5S oggi non è già più di moda. La direzione nazionale del Partito democratico sui risultati (pessimi) delle ultime elezioni amministrative si è svolta nel clima da “caminetto” che lo stesso Renzi ha perculato per mesi su tutti i giornali e in ogni ospitata tv.

Dice Renzi che la decisione è stata presa perché altrimenti «qualcuno si sarebbe alzato solo per farsi notare sapendo della diretta tv»: osservazione legittima se non fosse che lo stesso Matteo sia proprio un’invenzione televisiva di chi ha colto nella “rottamazione” il messaggio che abbracciava i cuori quando, ormai sono anni, quel piccolo sindaco di Firenze divenne simpatico a tutti per la sua volontà distruttrice.

Un personaggio televisivo che odia la televisione è un po’ come un Berlusconi che si batte per la dignità delle donne: ripensamenti tardivi e poco credibili che servono più che altro a parare le crepe evidenti piuttosto che avere un senso.

«Hanno cercato di “ammazzarmi” ma non ci sono riusciti, e anche la roba di Pisapia si è rivelata un mezzo flop, ora portiamo avanti la nostra idea di partito maggioritario e poi vediamo quello che succede alle elezioni, dove ognuno si presenterà per conto proprio, niente coalizioni pasticciate. Ora il sondaggio che ci dà più bassi, quello di Masia, ci attribuisce un 27,2 per cento. Il che significa che male che va avrò 200 deputati e un centinaio di senatori. E se il problema è quello delle liste, chi si vuole candidare lo dovrà dire apertamente e con chiarezza, senza fare giochetti». Questa è l’analisi dell’uomo che vorrebbe risollevare l’Italia. Roba da chiacchiere da bar. Analisi da bulletti traditi. E intanto l’Italia galleggia.

Bene così.

Buon giovedì.

L’identità dell’uomo e della donna

Renzi ha completato l’opera. Dopo la chiusura dell’Unità è stato tenuto il battesimo del nuovo quotidiano del Pd: Democratica. Un Pdf che viene distribuito gratuitamente in rete, firmato da Andrea Romano e dai giornalisti che già lavorano ad Unita.tv, il sito che ha sostituito due anni fa quello del quotidiano unita.it. Un quotidiano che, peraltro, non reca nemmeno la registrazione della testata né tantomeno indicazione di una registrazione in corso.
Democratica è uno strano nome per un giornale. Come se fosse necessario ribadire, nel nome, l’essere democratici. Come se fosse necessario ribadire, nel nome, di avere un pensiero che non nega la donna.
Il sospetto è che entrambe queste cose non siano più nel pensiero e nell’azione del Partito democratico ormai da tempo. Per lo meno da quando Matteo Renzi è segretario.
Renzi ha completato l’opera di distruzione del Pd. Sicuramente esso non sarà più un partito che corrisponde alla parola sinistra. Inutile girarci intorno e pensare che possa non essere così.
Anche se Franceschini riuscirà a scalzare Renzi dalla segreteria, non farà che confermare la nuova identità del partito: non più Partito democratico ma Partito democristiano.
L’idea che il pensiero religioso cristiano possa avere qualcosa da dire in termini politici è ormai un pensiero comune, direi dato per scontato in politica, da qualunque prospettiva la si guardi. È questo il grande problema della politica italiana.
È difficile, difficilissimo, trovare un esponente politico che abbia voglia di esporsi a dire “qualcosa di laico”. La Chiesa non si può contestare. Il papa non si può criticare. La politica non vuole pensare in termini critici. La politica accetta, subisce ed esegue gli ordini del papa re.
Perché “il papa è buono”. Perché “il papa dice cose giuste”. Perché “meno male che c’è il papa, almeno lui certe cose le dice…”
Quindi dobbiamo ascoltare a reti unificate l’ovvietà delle affermazioni del papa, tipo “L’ Europa deve accogliere i migranti”, “Il lavoro è importante”, “I sindacati devono difendere i lavoratori”.
Come possiamo non essere d’accordo? Diceva un commentatore su Facebook: “perché voi di Left siete contro il papa? In fondo dice cose giuste e finché sarà così io sarò d’accordo con lui”.
Va chiarito questo passaggio: noi non siamo contro il papa. Il papa è in verità solo un venditore. Lo strumento di un pensiero violentissimo, quello sì da rifiutare completamente.
Un pensiero che promette e afferma cose che non esistono (la vita dopo la morte o l’esistenza del diavolo come “persona”) affermando continue falsità sulla realtà umana.
Tanto per dirne una: il pensiero religioso dice che gli esseri umani sono spontaneamente cattivi. Il cosiddetto peccato originale. Ma se così è, inevitabile pensare che il razzismo sia naturale!
Chi ha ragione? Noi che pensiamo che gli esseri umani diventano razzisti perché hanno un problema con il diverso da sé o la Chiesa che dice che gli esseri umani sono cattivi e semmai vanno costretti a non esserlo seguendo delle regole che stabiliscono loro?
L’avevo già detto qualche settimana fa: la religione sfrutta la normale “piccola” alienazione che tutti possiamo avere in misura minore o maggiore, per insinuare il suo pensiero mortifero: la realtà umana è la sofferenza, lo scopo dell’essere umano è la morte perché dopo la morte ci sarà la vera vita, la verità umana è il rapporto con il non essere, è il rapporto con dio.
Tutto questo è falso.
La verità umana è il rapporto con gli altri esseri umani. La realtà umana che compare alla nascita (e non prima) con la comparsa della realtà psichica che si crea dalla biologia umana tramite un meccanismo di reazione alla luce, lo stimolo nuovo. La reazione è inevitabile. La nascita è inevitabile. La reazione è la pulsione di annullamento – il mondo non esiste – che diventa istantaneamente, con la vitalità della biologia del corpo, fantasia di sparizione. La pulsione viene trasformata in pensiero. Il mondo resta là dov’è ma viene messo da parte. L’annullamento diventa completo disinteresse per il mondo non umano. Il pensiero umano è tutto rivolto verso l’umano perché il mondo non umano non esiste. È annullato. Esiste solo la certezza dell’esistenza di un altro essere umano. L’essere umano nasce inetto perché non ha rapporto con il mondo non umano. Se il bufalo annullasse il mondo quando nasce come gli esseri umani sarebbe immediatamente ucciso da un predatore. Deve subito camminare, essere subito indipendente. L’uomo cammina dopo un anno di vita. Perché deve prima superare l’alienazione insita nella nascita e prendere rapporto con il mondo.
Il lettore che voglia comprendere questo pensiero affascinante legga Istinto di morte e conoscenza di Massimo Fagioli (ed. l’Asino d’oro) per capire appieno come questa dinamica spazza via ogni pensiero religioso.
Ci si potrebbe poi chiedere: questo vale per il bambino, ma per gli adulti? Qual è l’identità dell’uomo e della donna?
La risposta è apparentemente semplice. L’ho ascoltata dalla bella voce di Elena Pappagallo in un video di un convegno del 2000 all’Aula magna dell’Università di Roma “Sapienza”.
«Forse posso pensare qual è la causa della depressione. Uno strano rapporto, mortale, tra uomini e donne. Perché per un verso gli uomini non hanno mai capito che la loro identità siamo noi. E noi donne, non abbiamo mai capito, o se per una volta abbiamo capito poi non abbiamo voluto o non abbiamo avuto il coraggio di imporre agli uomini, che la loro identità siamo noi. Perché siamo noi la loro immagine interna. Se la mia colpa mi porta alla depressione penso potrò calmarmi un po’ soltanto se riuscirò a dimenticare me stessa per essere la bellezza di un uomo».

L’editoriale di Matteo Fago è tratto dal numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA