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La sinistra in ginocchio

Close view of men's hands with rosary on a dark background

Le sinistre, tutte le sinistre, sono innamorate del papa: come degli studentelli con la ragazza più bella della classe fanno a gara tra loro per mettersi in mostra ai suoi occhi, per citarne un concetto, per evocarne la grandezza. Sono divise su tutto le nostre sinistre, ma non sull’ammirazione che nutrono per il pastore cattolico venuto «quasi dalla fine del mondo». I motivi dell’infatuazione non sono facili da individuare, ad eccezione di quello, biecamente opportunistico, di citare, apprezzandolo, un personaggio popolarissimo, nella speranza che parte di quella popolarità ricada anche su chi pronunzia il complimento. Insomma, il ragionamento dei leader delle nostre sinistre finisce per essere pressappoco questo: se la gente ama il papa e io mostro di fare altrettanto, casomai la gente finisce per amare un po’ di più anche me.
Tolto questo, quali altri motivi hanno le sinistre per genuflettersi dinanzi a Francesco? Io francamente non ne trovo. Si dirà: ci sono le sue parole sui temi economico-sociali, la sua predicazione sull’ingiustizia e la sofferenza sociale. Sì è vero il papa parla spesso di questi temi, ma rimanendo rigorosamente, come è ovvio, entro i confini della tradizionale dottrina sociale della Chiesa. Si leggano alcuni discorsi di Ratzinger sulla povertà o si prendano documenti come la Caritas in Veritate (sempre di Benedetto XVI) e si ritroveranno, espresse forse con un linguaggio leggermente diverso, esattamente le stesse nozioni alle quali si riferisce Francesco. Non c’è nel pensiero sociale di Bergoglio nessuna particolare originalità teorica. E non c’è quindi niente di sinistra, niente di più di quel che vi sia sempre stato nelle parole dei papi, che si sono immancabilmente, almeno dai tempi di Leone XIII e della scoperta della “questione sociale”, riferiti alla povertà e ai poveri, alla necessità di rimediare alle diseguaglianze, all’importanza di liberarsi dall’adorazione idolatrica del denaro e dei consumi. Tutto ciò sempre in un quadro rigorosamente interclassista e auspicando al massimo la conversione spirituale di quella parte malvagia delle elites che dovrebbe cambiare atteggiamento verso i poveri e scoprire la bellezza del dono e della solidarietà. Non si trova, nelle parole del papa, nessun accenno all’opportunità del conflitto sociale o a qualche soluzione politico-organizzativa alternativa al capitalismo. Quello di Francesco è un approccio da papa, cioè essenzialmente moralistico, ai problemi sociali e politici. Il popolo che Francesco ama e benedice, il suo popolo, è quello dei pellegrinaggi e delle adorazioni eucaristiche, non quello dei cortei e delle rivendicazioni sociali….

L’articolo di Marco Marzano prosegue sul numero di Left in edicola


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Medici senza frontiere: Chiudere i porti ai migranti è insensato avrebbe conseguenze umanitarie inaccettabili

La chiusura dei porti italiane alle navi umanitarie cariche di migranti scampati ai naufragi, come hanno minacciato di fare nei giorni scorsi il presidente del Consiglio Gentiloni e il ministro dell’Interno Minniti, non sarebbe solo un’iniziativa in netto contrasto con le normative di diritto internazionale vigenti. Per fare il punto e capire quali ricadute “umanitarie” potrebbe avere una azione di questo tipo abbiamo rivolto alcune domande a Marco Bertotto responsabile attività di difesa di Medici Senza Frontiere. «Non capiamo se l’idea del governo di chiudere i porti agli sbarchi di migranti si tratti di una provocazione o di un’iniziativa concreta» , osserva Bertotto. «Se fosse una provocazione potrebbe avere un senso, per chiedere collaborazione e compartecipazione dagli altri Paesi europei, ma se si dovesse concretizzare provocherebbe delle conseguenze sul piano umanitario che non sono accettabili». Provocazione o no, le polemiche non si sono placate nemmeno dopo un intervento del ministro Del Rio che ha smentito la possibilità del blocco portuale. Del resto sarebbe anche in netto contrasto con le normative di diritto internazionale vigenti. Sarebbe ad esempio incompatibile con la convenzione di Amburgo del 1979, in cui è previsto che le persone soccorse in mare siano portate nel porto sicuro più vicino alla zona del salvataggio, motivo per cui le Ong trasportano in Italia tutti i migranti soccorsi nel tratto di mare fra Libia e Italia. «Il soccorso in mare – spiega a Left Bertotto – si basa sull’importanza di avere sempre delle unità navali di soccorso al centro del Mediterraneo e se si costringessero queste unità a sbarcare in altri paesi si renderebbe più difficile il viaggio per i migranti. I naufraghi che soccorriamo in mare – aggiunge – versano in condizioni drammatiche: queste persone non potrebbero sopravvivere, passando ancora giorni e giorni in mare in attesa di poter sbarcare. Se noi, con le nostre navi, dovessimo impiegare per arrivare ad un porto più lontano rispetto a quello italiano, una o due settimane, avremmo molte più navi in giro per il Mediterraneo alla ricerca di un porto di sbarco piuttosto che nelle zone di soccorso. Questo ovviamente renderebbe ancora più alto il rischio di naufragi». Gentiloni e Minniti hanno chiesto agli altri Paesi europei di rispettare gli accordi stipulati nel 2015, relativi a un ricollocamento con un sistema di quote di 160mila richiedenti asilo. L’Italia ha chiesto all’Europa di non essere lasciata sola a gestire quest’emergenza e ha lanciato l’ultimatum. Il presidente francese Emmanuel Macron ha replicato dichiarando solidarietà ai migranti che arrivano in Italia, ma ha fatto una netta distinzione tra migranti economici e rifugiati politici.

«Noi pensiamo che la distinzione fra migrante economico e rifugiato politico sia una distinzione abbastanza artificiale» sottolinea il responsabile attività di difesa Msf. «Ci sono diversi fattori che rendono quella divisione un po’ artificiale. Per dire, chi arriva come migrante economico sapendo di esserlo? Basti pensare che secondo questa definizione viene considerato migrante economico una persona che dieci anni fa è andata a lavorare in Libia e si è trovata intrappolata in un meccanismo di sfruttamento, finendo nelle mani di un trafficante, ed è stata costretta a partire, buttando via migliaia di euro, per salvare la propria vita». Questa persona può essere considerata un migrante economico? «Lo è solo perché alcuni governi ormai hanno assunto questa definizione legale, semplicemente pensando che se una persona proviene da alcuni paesi è migrante economico mentre altri, che provengono da paesi in stato di guerra sono rifugiati. La situazione è più complessa di così e quindi converrebbe abbandonare questa vecchia logica della divisione tra migrante economico e rifugiato politico». Frontex ha denunciato di aver ricevuto minacce dalla guardia costiera libica. «È successo anche alle navi di Msf. Diverse volte la Marina libica si è resa responsabile di interventi al di fuori degli standard corretti. Il 17 agosto 2016 la nostra nave Bourbon Argos è stata raggiunta da alcuni colpi di arma da fuoco. Per fortuna non ci sono stati feriti. Ma abbiamo dovuto sospendere le nostre operazioni per alcune settimane per capire se fosse stato un incidente e quali fossero le ragioni per cui era successo. C’è stata inoltre un’altra situazione simile di pericolo, il 3 maggio scorso».

Oltre agli “incidenti” in mare vanno segnalate le dichiarazioni del portavoce della Marina libica, Ayyoub Qasem. «Le Ong ostacolano gli accordi tra la Libia e l’Italia» ha detto Qasem all’Adnkronos International ed ha aggiunto: «Le cosiddette Ong, che si trovano in gran numero nel Mediterraneo, soprattutto di fronte alle coste libiche commettono aperte violazioni alla sovranità marittima libica; inoltre incoraggiano i migranti illegali». «Inutile commentare cose già sentite» dice Bertotto. «Capiamo che la guardia costiera libica abbia interessi a mantenere una certa rete di rapporti con le autorità europee. Rispettiamo queste esigenze, ma noi di mestiere facciamo le organizzazioni umanitarie e lo facciamo in modo indipendente e autonomo quindi non vogliamo nemmeno entrare troppo in questo tipo di dibattito». Il 2 luglio a Parigi si è tenuto un nuovo vertice fra Italia, Francia e Germania per discutere dell’emergenza migranti ed è stata raggiunto un accordo di “massima intesa”. Hanno partecipato Marco Minniti, Gérard Collomb e Thomas de Maiziere, i ministri dell’Interno dei tre Stati, e il commissario europeo Dimitris Avramapoulos. Al vertice si è discussa la possibilità di limitare la libertà di movimento delle navi delle Ong, vietandone l’ingresso in acque libiche. «L’ingresso in acque libiche è una circostanza eccezionale, avvenuta in alcune situazioni di emergenza» precisa il responsabile attività di difesa Msf e conclude: «In quelle occasioni avevamo notizie di rischi di naufragio all’interno delle acqua libiche e abbiamo richiesto le autorizzazioni necessarie per intervenire. Credo che il governo italiano e le autorità europee si debbano esprimere chiaramente dicendoci se davvero pensano che di fronte al rischio di un naufragio all’interno delle acque libiche sia corretto decidere di non intervenire, facendo prevalere una logica di rispetto di una regola che peraltro, anche dal punto di vista legale è opinabile, o se prevalga una stato di necessità che autorizzi il comandante comunque a intervenire».

Sud Sudan, conflitto fuori controllo: un milione di persone in fuga. Il Rapporto di Amnesty international

epa04021149 South Sudan's soldiers stand guard in Mvolo County, Western Equatoria State, South Sudan, 14 January 2014. According to local media sources, 13 men turned themselves to authorities in Mvolo claiming they are dissident fighters from the rebel forces. The United Nations says about 355,000 people have been displaced in South Sudan, where rebels headed by rebel leader Riek Machar have been fighting army units loyal to President Salva Kiir since mid-December. More than 1,000 people are estimated to have died in the conflict, which started off as a power struggle between Machar and Kiir. It has increasingly turned into a conflict between their respective ethnic groups, the Nuer and the Dinka. EPA/PHILLIP DHIL

È lo Stato più giovane del mondo ma versa già in gravi condizioni. Il Sud Sudan indipendente solo dal 2011 è nel pieno di una pericolosissima crisi umanitaria. «La più grave dopo la seconda guerra mondiale» secondo Stephen O’Brien, il sottosegretario dell’Onu per gli affari umanitari. A fare il punto è un rapporto di Amnesty International in cui sono stati elaborati i dati di una missione che si è appena conclusa. Nella sola regione di Equatoria sono ammassati quasi un milione di sfollati, si legge nel rapporto. Si tratta di persone fuggite a morte certa e ai peggiori crimini contro l’umanità legati al violentissimo conflitto armato che è scoppiato alla fine del 2013 tra le milizie del vicepresidente pre-secessione e le forze dell’Esercito di Liberazione del Popolo di Sudan, fedeli al presidente Salva Kiir. Come sempre in questi casi ci vanno di mezzo i civili: violenze su donne e bambini, stupri, sequesrti torture e stragi senza senso. Donatella Rovera di Amnesty descrive così la situazione: «L’aumento delle ostilità nella regione di Equatoria ha significato brutalità ancora più diffuse contro i civili. Uomini, donne e bambini sono stati uccisi, pugnalati a morte coi machete e bruciati vivi nelle loro abitazioni. Donne e bambine sono state rapite e sottoposte a stupri di gruppo». Le persone sfollate sono centinaia di migliaia perché «abitazioni, scuole, ambulatori e sedi delle organizzazioni umanitarie… tutto è stato razziato, vandalizzato e raso al suolo. Il cibo è usato come arma di guerra» conclude Rovera, descrivendo le atrocità in corso.

Nel rapporto ci sono i racconti dei testimoni oculari dei villaggi intorno a Yei, che accusano le milizie di omicidi crudeli e deliberati: «La sera del 16 maggio i soldati hanno arrestato 11 uomini del villaggio di Kudupi, nei pressi del confine ugandese. Hanno costretto 8 di loro a entrare in una capanna, ne hanno chiuso la porta, hanno appiccato il fuoco e sparato alla cieca». Amnesty ha incontrato quattro dei sopravvissuti. Raccontano che due dei prigionieri sono stati arsi vivi e altri quattro sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco.

Anche il cibo è un’arma, un’arma di ricatto perché sta diventando sempre più raro. È del 22 giugno scorso il monito delle Nazioni Unite sul fatto che l’insicurezza alimentare abbia raggiunto livelli senza precedenti in Sud Sudan. Sia il governo che l’opposizione hanno bloccato le forniture di cibo e le milizie si dedicano a saccheggiare i mercati e le case, limitando l’accesso di cibo ai civili, che non possono nemmeno più andare in cerca di alimenti nei campi, perché verrebbero fermati ai posti di blocco, dove non si può passare con le provviste. «È crudelmente tragico – commenta Joanne Mariner, consulente di Amnesty per le risposte alle crisi – che questa guerra ha trasformato il granaio del Sud Sudan, che un anno fa poteva sfamare milioni di persone, in un campo di morte che ha costretto quasi un milione di persone alla fuga in cerca di salvezza».

Catalogna, a rischio il referendum per l’indipendenza da Madrid

© EPA/TONI ALBIR

Il referendum in Catalogna, programmato per il prossimo autunno, ad ottobre, per l’indipendenza della regione, potrebbe essere rimandato per timore delle conseguenze sull’amministrazione centrale spagnola.

Lo ha confermato Carles Puigdemont, ministro del governo secessionista, parlando del primo giorno d’ottobre, data in cui doveva svolgersi la votazione. Jordi Baige, ministro regionale dell’occupazione, appellandosi alla Corte Costituzionale, per impedirlo a tutti i costi, ha definito questo referendum “illegale”.

Così, facendo appello all’articolo 155, manette e inchieste sono scattate per chi si era battuto per la votazione per l’indipendenza dalla capitale: Artur Mas, Carme Forcadell, ora indagata, Puigdemont, adesso diffidato. Lo stesso accadrà a ministri e funzionari che collaboreranno con il partito dell’indipendenza, fa sapere Madrid.

Ilaria Alpi è morta di caldo, quindi

Ilaria Alpi

Nello scorso ottobre l’unico imputato per l’omicidio della giornalista Rai Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadisco il 20 marzo del 1994, è stato scagionato e rimesso in libertà dalla Corte d’appello di Perugia. E fa niente che Hashi Omar Hassan si sia fatto già 17 dei 26 anni di condanna. Dopo la tardiva assoluzione la madre di Ilaria, Luciana, disse: “Eppure, nessuno è riuscito a porre fine alle troppe bugie, ai troppi depistaggi che hanno caratterizzato questa vicenda. Io sono stanca – ha detto ancora Luciana Alpi – sono sola dopo aver perso mio marito sei anni fa e non sto neanche tanto bene. Parlerò con il mio avvocato per decidere che cosa fare. Personalmente ho l’impressione che gli inquirenti non siano mai stati interessati a scoprire la verità.”

Se c’è un omicidio e l’assassino era sbagliato significa che manca un pezzo di verità. Anzi, a ben vedere, significa che qualcuno ha avuto tutto l’interesse perché si accusasse la persona sbagliata per coprire quelle giuste e colpevoli. La morte di Ilaria Alpi ha un cattivo odore che parte da molto lontano.

E invece ieri la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione. Tutto nel cassetto. A firmarla è stata il pm Elisabetta Ceniccola, magistrato che assunse la titolarità degli accertamenti dopo che il gip Emanuele Cersosimo, nel 2007, respinse una richiesta di archiviazione sul duplice omicidio disponendo ulteriori accertamenti.

C’è un testimone falso che disse di essersi inventato le accuse “perché gli italiani avevano fretta di chiudere il caso”, c’è qualcuno che ha pagato il falso testimone per inventarsi tutto quanto ma, a quanto pare, non ci sono depistaggi. Niente di niente.

Di ufficiale sulla morte di Ilaria e Milan rimangono le parole del presidente della commissione parlamentare d’inchiesta Carlo Taormina che ebbe l’ardire di dichiarare il 5 settembre 2012«Ilaria Alpi è morta a causa di una rapina. Era in vacanza non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo lo ha accertato. Ho un documento che manterrò privato per rispetto alla sua memoria che racconta tutta un’altra storia».

Oppure è morta di caldo. Del terribile caldo di Mogadiscio. E siamo a posto così.

Buon mercoledì.

 

Facebook, il drone Aquila è pronto a portare il Wi-fi dove non c’è Internet

Aquila, drone facebook

È ufficiale, dopo il test di volo effettuato in Arizona nei mesi scorsi, il drone Aquila è pronto. Gli ingegneri della creatura tecnologica di Mark Zuckerberg hanno postato un video del volo ed hanno espresso entusiasmo per il buon funzionamento del prototipo, progettato per innalzarsi fino a 18.000 metri e restare in aria per mesi. Un anno fa, durante il primo test il drone si era schiantato al suolo in fase di atterraggio. Ora tutte le migliorie sono state apportate e forse il primo esperimento fallimentare si può archiviare una volta per tutte.

Finalmente oggi l’idea di Facebook di portare internet anche nelle zone più remote della terra sembra una possibilità concreta e vicina grazie ad Aquila, un gigante volante delle dimensioni di un Boeing 737, alimentato ad energia solare (che consuma quanto tre asciugacapelli) che è rimasto in aria per 1 ora e 46 minuti, raggiungendo quota 3.000 piedi, per lo più con il pilota automatico.
Tra le modifiche effettuate al drone sono stati aggiunti dei diruttori di flusso (spoiler) sulle ali e molti sensori per raccogliere dati. Il problema principale stava nell’atterraggio, ma anche l’attrito del velivolo è stato ridotto grazie alle modifiche effettuate sul mezzo. Per le manovre più complicate ci sono equipaggi di terra; tutti i movimenti sono lenti: «Per come è stata progettata Aquila fa tutto in modo lento: decolla piano e discende anche più lentamente. Questo perché vogliamo che resti in cielo per periodi lunghi al fine di fornire l’accesso ad Internet» fanno sapere dall’azienda di Zuckerberg.

Far arrivare la connessione internet dove ancora manca e conquistare nuovi mercati attraverso la copertura dei posti più critici è senz’altro una “La sfida” dei grandi colossi del web e il social network mondiale Facebook è sempre in prima linea, a cominciare dal progetto Internet.org, una iniziativa “Free Basics”, in cui gli utenti possono accedere al sito da mobile senza costi per la connessione dati, in 42 Paesi, di cui più della metà in Africa.
Proprio in questi giorni sulle bacheche degli utenti stanno girando dei video postati da Facebook con le principali foto e azioni compiute dagli iscritti sul social network dal logo blu, video in cui si sottolinea che la comunità di Facebook vanta già oltre 2 miliardi di utenti, pari ai due terzi della popolazione mondiale con accesso a internet. Ma Zuckerberg guarda lontano e mira ad irradiare con il Wi-fi le più recondite aree del pianeta grazie ai suoi droni solari e punta a raddoppiare i suoi iscritti.

Da Venezia al Salento, la lunga danza di Amira

C’era anche Amira del debuttante Luca Lepone al Salento Finibus Terrae Film Festival Internazionale Cortometraggio, che si svolge in Puglia fino al 9 luglio. Il corto, interpretato da Alice Attala e dal violinista siriano Alaa Arsheed, è stato scritto e prodotto insieme a Paola Randi, con Recplay di Roberta Putignano e Vincenzo De Marco e Oz Film Produzioni Cinematografiche di Francesco Lopez.
Amira, vincitore del Progetto MigrArti 2016 promosso dal MiBACT, è stato di recente premiato alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia, in ex aequo con Babbo Natale di Alessandro Valenti, ed  stato proiettato alla Multicinema galleria di Bari il 2 luglio.

Come ogni giorno, alla stessa ora, una giovane donna dai lunghi capelli neri cammina velocemente lungo le strade di una grande città. La donna, incinta, ha fretta di arrivare a quello che sembra essere il luogo di un incontro che, una volta raggiunto, diviene lo spazio prescelto per una particolare danza, incomprensibile ai più.
La gente le passa accanto, ma non comprende il linguaggio universale del suo corpo, che racconta della speranza e della possibilità di un rapporto che è puro sentire, quando migliaia di chilometri diventano, grazie a quella danza, pochi centimetri.

Amira è una storia d’amore. Una storia di cui si fanno portavoce il vento, la danza e le note di una musica raffinata, curata dallo stesso regista insieme a Giordano Corapi. Amira è la vita che verrà.
Ma Amira è, soprattutto, un corto di rara bellezza. Le inquadrature nette, perfette, quasi geometriche, ricordano i dipinti di Hopper, gli spazi antononiani, l’architettura del Bauhaus. Tanto grigio. Il grigio di una grande città. Tanto monotono andirivieni. E poi lei, una giovane donna, uno squarcio di sole, di poesia, dove poesia non c’è più. O dove semplicemente non la si sente più. Una pennellata prepotente di giallo-arancio, come la lunga stola che le incornicia il viso e le avvolge parte del corpo. Posa a terra la borsa. Nel grigio. E poi inizia la danza. Delle braccia, degli occhi, la danza di mani che camminano sul volto. È la danza di un tempo lontano. Nessuno sembra accorgersi della sua poesia. Stacco. Luogo indefinito, spazi aperti, quasi desertici. Un uomo corre sulla sua bici. Non pedala semplicemente. Corre. Forse c’è qualcuno ad aspettarlo. Forse una donna. Forse un incontro d’amore. Giunge in una stanza in una casa non più abitata. Siede su un tavolo polveroso e guarda fuori, dall’apertura di un muro vittima di una bomba. Siede e suona. Come se il violino che tiene tra le mani fosse il corpo di una donna. Siede e suona. E lei, da lontano, ascolta. E danza.

Luca Lepone nasce a Roma nel 1976. Appassionato di fotografia, cinema e musica, a 23 anni inizia il suo percorso come aiuto regista, per poi diventare filmaker, montatore, regista e sceneggiatore. Amira è il suo primo cortometraggio.

World population day: il ricorso alla contraccezione sia un diritto di tutte le donne

Si avvicina il giorno del World Population Day voluto dal Consiglio delle Nazioni Unite con un programma sviluppato nel 1989. La data ricade l’11 luglio, per ricordare il “day of five billion”, il giorno dei cinque miliardi della popolazione mondiale, raggiunto nel 1987 nella stessa data estiva. Il bambino numero “5 miliardi” era Matej Gaspar, croato. A metà giugno scorso abbiamo superato i sette miliardi e mezzo.

Si legge sul sito dell’ONU che 225 milioni di donne che vorrebbero evitare la gravidanza ed usare anticoncezionali, per mancanza di informazioni o servizi adeguati, non possono farlo: vivono nei 69 paesi più poveri del mondo. Tutto questo ha generato negli anni 70.000 morti materne, 24 milioni di aborti, 500.000 morti neonatali.

Accedere al voluntary family planning, pianificazione volontaria della famiglia, scrive l’ONU, è un diritto umano, è un punto centrale dell’uguaglianza di genere e del “women empowerment”, oltre ad essere un fattore chiave per ridurre la povertà.

In questo 2017 il giorno della popolazione coinciderà con il Family Planning Summit, dell’UNFPA, United Nation Population Fund, che vuole supportare l’accesso alla pianificazione volontaria familiare per 120 milioni di donne entro l’anno 2020.

Chi dice messa? Don Turturro, il prete condannato per pedofilia

PALERMO 17.09.2003 - PEDOFILIA: ALLONTANATO DALLA SUA PARROCCHIA E DALLA CITTA' PRETE ANTIMAFIA. PAOLO TURTURRO, PARROCO DELLA CHIESA DI SANTA LUCIA, SOTTOPOSTO AD INDAGINI PER EPISODI DI PRESUNTA PEDOFILIA.

Dalle parti del Vaticano dicono che ci sia stato un “giro di vite” contro la pedofilia nella Chiesa ma intanto a Palermo, nella parrocchia di Santa Lucia della zona di Borgo Vecchio, a officiare la messa c’è il parroco in persona, don Paolo Turturro, fresco di tre anni passati in carcere per pedofilia e con un abuso ancora più grave accertato ma finito in prescrizione.

Don Turturo è stato accusato di violenza da due ragazzini: uno disse di avere subito un bacio intimo mentre l’altro parlò di una violenza vera e propria. La Cassazione ha riconosciuto il prete colpevole per la prima denuncia mentre nel secondo caso l’abile lavoro degli avvocati del parroco ha spostato il reato nel 1999 piuttosto che nel 2000 facendolo cadere in prescrizione.

Dopo il carcere Pagliarelli il sacerdote ha scontato la sua condanna nel carcere dell’Ucciardone di Palermo. 3 anni in tutto. Lui avrebbe voluto i servizi sociali: istanza respinta. Si legge in giro che il Vaticano preveda senza sconti la sospensione dell’esercizio sacerdotale e la riduzione allo stato laicale invece don Paolo è tornato in parrocchia e “guida” i fedeli ogni domenica.

«La gente mi accoglie con affetto» ha detto. «Io ho portato la croce in questi anni con la serenità che Dio è amore e perdono. Fino ad ora non ho incontrato nessuno che si mostrasse scandalizzato del mio ritorno», ha dichiarato al Giornale di Sicilia.

Beh, a noi un po’ scandalizza. Sinceramente. Ecco tutto.

Buon martedì.

Legge sulla tortura, un brutto passo falso: l’appello di Ilaria Cucchi, Montanari, Guadagnucci e altri

Manifestazione contro la tortura con ingozzamento forzato e conseguente uccisione di papere e oche per la produzione del foie gras al Pantheon, Roma, 26 novembre 2014. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Nei prossimi giorni la Camera dei deputati discuterà e probabilmente approverà una nuova legge sulla tortura. Il 14 giugno, al termine di un importante convegno a Roma dal titolo “Legittimare la tortura?”, avevamo firmato e diffuso un appello ai parlamentari, per invitarli a non votare il testo uscito dal Senato (e sconfessato dal primo firmatario della versione iniziale, Luigi Manconi), perché confuso, inapplicabile e controproducente. Invitavamo i deputati a tornare alla definizione del “crimine” scritta nella Convenzione Onu contro la tortura, cioè la versione più seria, equilibrata e condivisa al momento disponibile.

Il nostro appello non è stato preso in considerazione e sono stati anche ignorati, cosa ben più grave, il preciso e pressante invito – reso noto il 21 giugno – del commissario europeo per i diritti umani, Nils Muižnieks, a cambiare il testo di legge, nonché le prescrizioni della Corte europea dei diritti umani contenute nella sentenza Cestaro contro Italia (sul caso Diaz) dell’aprile 2015 e ribadite con la nuova condanna inflitta all’Italia dalla Corte il 22 giugno scorso. È stato ignorato anche l’appello di undici giudici e magistrati del tribunale di Genova coinvolti negli scorsi anni nei processi per le torture nella scuola Diaz e nella caserma di polizia di Bolzaneto: il testo in esame – hanno scritto il 26 giugno alla presidente della Camera – non sarebbe applicabile alla maggior parte dei casi che abbiamo esaminato e che la Corte europea qualifica come tortura.

Si profila un esito legislativo disastroso e siamo perciò rammaricati che in queste settimane gli autorevoli appelli appena citati siano caduti nel vuoto; se fossero stati sostenuti da una decisa azione della cittadinanza attiva e da un’adeguata attenzione dei mezzi di comunicazione, forse il parlamento li avrebbe presi in considerazione, riportando così il nostro paese lungo la via maestra della tutela effettiva dei diritti fondamentali.

Non è accaduto e ne portiamo tutti la responsabilità: si è purtroppo creato nel paese un clima di desistenza e rassegnazione al peggio che non può portare niente di buono. I deputati stanno per approvare una norma-feticcio, che porta il titolo “legge sulla tortura” ma non ne ha la sostanza: davvero basta la parola, come sostiene ad esempio la sezione italiana di Amnesty International?

Noi non crediamo che sia così e anzi spiace e amareggia che un’organizzazione come Amnesty International si attesti su posizioni tanto arrendevoli e così in contrasto con le importanti e coraggiose prese di posizione italiane e internazionali degli ultimi giorni. Noi, come il commissario Muižnieks, come la Corte di Strasburgo, come i giudici genovesi e molti altri, pensiamo che la prevenzione e la punizione degli abusi di potere siano questioni troppo importanti per essere ridotte a giochi di parole e a compromessi al ribasso che svuotano di senso provvedimenti normativi attesi da trent’anni.

Il parlamento si appresta a compiere un passo falso che non farà certo avanzare la tutela dei diritti fondamentali e la qualità della nostra democrazia.

I firmatari:

Lorenzo Guadagnucci, Arnaldo Cestaro, Enrica Bartesaghi, Comitato Verità e giustizia per Genova

Enrico Zucca, sostituto procuratore generale a Genova, già pm nel processo “Diaz”

Roberto Settembre, già giudice nel processo d’appello per i fatti di Bolzaneto

Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, associazione Stefano Cucchi

Michele Passione, avvocato del foro di Firenze

Adriano Zamperini, università di Padova, autore di “Violenza e democrazia”

Marialuisa Menegatto, università di Padova, autrice di “Violenza e democrazia”

Marina Lalatta Costerbosa, università di Bologna, autrice di “Il silenzio della tortura”

Donatella Di Cesare, università di Roma La Sapienza, autrice di “Tortura”

Tomaso Montanari, presidente Libertà e Giustizia

Riccardo De Vito e Mariarosaria Guglielmi, presidente e segretaria generale di Magistratura Democratica

Vittorio Agnoletto, già portavoce del Genova Social Forum

Pietro Raitano, direttore, e la redazione della rivista Altreconomia