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Russia: omicidio Nemtsov, condannati cinque ceceni. Mandanti ancora ignoti

Omicidio Boris Nemtsov, Russia, 28 February 2015. EPA/PAVEL BEDNYAKOV

Gelo a Mosca, mura del Cremlino, ponte Bolshoj Moskvoretskij Most: il calendario segnava la data del 28 febbraio 2015, l’oppositore politico Boris Nemzov passeggiava con la sua fidanzata ucraina. Nel computer aveva i file di lavoro sul dossier che stava preparando sulle truppe russe nella guerra in Donbass, Ucraina. Non lo finirà mai perché morirà quella notte.

Due anni dopo, dopo otto mesi di udienze, i processi continuano. Presi gli esecutori e condannati: sono tutti ceceni. I mandanti invece, restano ignoti e ignorati dall’investigazione, come è accaduto in altri processi contro oppositori, attivisti, giornalisti russi.

A sparare sarebbe stato Zaur Dadajev e avrebbe premuto il grilletto contro Boris Nemzov per circa quindici milioni di rubli, più di 220mila euro, per lui e il resto dei suoi quattro complici. Il “patriota”, come il leader ceceno Ramzan Kadyrov definisce Dadajev, è l’esecutore di un ordine che nessuno sa ancora chi ha dato.

«E’ stata l’imitazione di un’inchiesta» ha scritto la figlia di Boris, Zhanna. Quando i russi passano su quel ponte ora lasciano sempre fiori rossi. Adesso non si chiama più Bolshoj, ma tra loro lo chiamano Nemtsov Most, ponte Nemtsov.

Le donne? Per reggere gli ombrelli

Sì, lo so. Ci sono cose più importanti e gravi. Funziona sempre così: quando si discute di diritti e di parità di generi c’è sempre qualcuno che ci accusa di non occuparci d’altro. Forse davvero dovremmo accontentarci delle desinenze e non rompere. Quindi sgomberiamo il campo: ci sono cose più importanti ma ho il privilegio di scrivere qui un po’ di quello che ci pare, di incaponirci anche sulle cose minime. De presto se avessimo aspettato che i diritti fossero mainstream per poterne parlare saremmo ancora al secolo scorso. E, a proposito di secolo scorso, ecco una foto:

 

Siamo all’abbazia di Sulmona e va in scena una due giorni di “idee per lo sviluppo dell’Abruzzo” organizzata dalla Regione Abruzzo (nella persona del governatore Luciano D’Alfonso) e che ha visto la partecipazione del ministro alla Coesione territoriale Claudio De Vincenti.

Cotante teste di cotante idee sono tutte formalmente piantate in corpi maschili (tutti, tutti uomini) che discettano amorevolmente con alcune donne (tutte donne) utilizzate nel sontuoso ruolo di copri teste. Sembra la partenza di una Gran Premio di Formula 1 solo che questi, a differenza dei piloti, dovrebbero (e vorrebbero) cambiare in meglio il Paese. Mica puntare al podio.

Il (cattivo) gusto della foto l’ha descritto bene Alexandra Coppola (badate bene: dirigente del PD locale) che ha scritto: «Troviamo queste foto che ritraggono delle ragazze in funzione parasole e parapioggia che agevolano il dibattito di uomini beatamente seduti. Mi chiedo ma dove vogliamo arrivare?? Nella mia militanza ho fatto di tutto, attaccato manifesti, preparato sale che avrebbero ospitato ospiti importanti, ecc. ma mai nessuno mi ha chiesto di riparare dal sole compagni di partito. Queste immagini sono raccapriccianti. Mi fanno male vederle e mi fa male pensare che nel mio partito nessuna donna dirà nulla. Ora voglio capire chi è responsabile di questo messaggio maschilista».

Ma non è finita qui. Se volete inorridire potete leggere il comunicato stampa che ha sciorinato il portavoce del presidente: «Il presunto “caso degli ombrelli” accaduto a Fonderia Abruzzo è davvero una non-notizia, una boutade estiva giustificabile solo da una domenica senza la possibilità di andare in spiaggia. Nel dettaglio: durante due dei dibattiti svoltisi ieri alla Badia celestiniana di Sulmona, nel corso di Fonderia Abruzzo 2017, è stato necessario l’improvviso utilizzo di ombrelli per riparare i relatori dalla pioggia (al mattino) e dal sole (nel pomeriggio) poiché il palco era scoperto. Non appena si è verificata l’emergenza, alcuni volontari dotati di ombrello si sono attivati autonomamente. Giampiero Leombroni ha provato a coprire il ministro De Vincenti – presente al dibattito del mattino – con i fogli di un giornale locale ma non sono stati resistenti. Nell’apprendere di queste polemiche, per la prossima edizione di Fonderia Abruzzo D’Alfonso ha ironicamente pensato ad un capitolato d’appalto nel quale sia prevista una voce riguardante i portatori di ombrelli in caso di sole e di pioggia, tutti rigorosamente di sesso maschile, magari capitanàti da Leombroni. Il Presidente ha anche confidato: “Disponevo di un cappuccio nella giacca ma non l’ho usato per non passare per affiliato alla massoneria”. Scherzi a parte, la natura strumentale di questa polemica è lampante. I commenti di chi ha visto in questa vicenda un affronto alla parità di genere sono davvero fuori luogo o comunque frutto di disinformazione. Per il resto, c’è chi si attacca ad un ombrello pur di avere un po’ di visibilità mediatica».

Che ridere. Vero?

Buon lunedì.

L’Isis e la generazione perduta

Bilal s’era da poco laureato. Una di quelle lauree alla moda, con un nome carico di vaghe ma luccicanti promesse: management. Poi è partito per la Libia e neanche un mese dopo s’è sparato in cielo portando con sé ventun persone. Era partito con Seif che aveva appena comperato il suo primo scooter a rate: a modo suo un progetto, la promessa di mille avventure sulle strade sconnesse della Tunisia profonda: ma vuoi mettere se ti si prospetta l’occasione di saltare in piena notte su un camion di mangime per agnelli e passare la frontiera insieme al gruppo degli amici, per andare tutti insieme a combattere?

Anche Youssef studiava per diventare un manager. Esperto di occhiali da sole e profumi, si portava avanti con un suo piccolo commercio di griffe contraffatte. È morto a Kobane, combattendo nei ranghi di Daesh, sotto le prime bombe americane. Youssef era il fratello di Dj Costa, uno dei piû noti rapper della Tunisia: lo seguiva a tutti i concerti, da un giorno all’altro ha smesso di rivolgergli la parola, la musica era diventata per lui improvvisamente haram, peccato. Dj Costa non ha solo perso un fratello minore molto amato, il jihad gli ha portato via anche un amico, compagno di formidabili jam session: si chiamava Emino, detto don Camaleon e ha raggiunto una certa notorietà, dapprima con un video che lo ritrae al night circondato da ragazze sofisticate in minigonna, fumo di sigari e bicchieri tintinnanti colmi di whisky, poi con una fotografia che lo ritrae in Iraq in compagnia di una capra, indosso non piû il completo stiloso da gangsta ma una semplice tunica salafita e una kefiah d’ordinanza.

Seifeddine invece era un giovane ingegnere. Frequentava un master prestigioso e prima di uccidere e farsi uccidere ha sostenuto gli esami di fine anno. Era, anche, un provetto ballerino di break dance. Si esibiva per i turisti su quella stessa spiaggia di Sousse dove un giorno d’inizio estate si sarebbe presentato con un kalashnikov tra le mani: non piû Sésco, come lo chiamavano quando danzava, ma Abu Yahya al Kayrawānī.
Poi ci sono Ghofran e Rahma, facevano le majiorettes: un giorno hanno portato alla discarica i loro strumenti musicali, le bambole e i peluches, le t-shirt piû carine. “Improvvisamente parlavano tutto il tempi di Corano”, ci ha detto la loro mamma, “Se durante la cena raccontavo loro qualche piccolo fatto che era accaduto al lavoro o nei negozi del quartiere, mi rispondevano piccate: che t’importa delle persone, non si parla delle persone, pensa a Dio! Poi si alzavano, si chiudevano in camera, andavano su Facebook col telefonino e conversavano con gente che stava in Siria”.

Negli ultimi tre anni abbiamo attraversato più volte la Tunisia e il suo apparente paradosso: il paese musulmano storicamente più vicino all’Europa è anche quello che ha fornito il maggior numero di giovanissimi combattenti al sedicente Stato islamico. Volevamo capire come un ragazzo possa passare dalle capriole al massacro, dalla tenerezza all’odio, dagli eccellenti voti scolastici alla smania di morire. L’abbiamo chiesto a quanti l’hanno visto accadere. Abbiamo ascoltato a lungo i genitori, i fratelli, gli amici, gli insegnanti, gli allenatori sportivi dei tanti giovani “cambiati all’improvviso”. Abbiamo cercato di familiarizzare con il dolore di quegli estranei, e in definitiva con i molti fantasmi che popolano un mondo per noi europei abbastanza indistinto: un mondo che spesso pretendiamo di giudicare da lontano incapaci di riconoscerne la tragedia e di concedere ai percorsi altrui le stesse complessità che rivendichiamo per noi come un diritto. Non avevamo domande da rivolgere perché ci interessavano quelle – e sono molte – che loro stessi si facevano.

La prima cosa che abbiamo capito è che il forsennato entusiasmo con cui i ventenni tunisini hanno raggiunto i campi di battaglia siriani, iracheni e libici è il sintomo più lampante d’un male che va lentamente spandendosi un po’ ovunque nel mondo. Che tra quei giovani non necessariamente marginalizzati, cresciuti in famiglie di ogni tipo e fino a un attimo prima assorti in frivole faccende, vada tratteggiato il ritratto di gruppo di generazioni capaci di passare rapidamente dall’inseguimento di una identità globale all’ossessione identitarista. Non più aspiranti cittadini del mondo, ma alla ricerca di una identità forte di tipo tradizionale (là: «Io sono un musulmano»; qua: «Io non sono europeo, io sono francese, italiano, del nord Italia…»). E per questo in forte polemica con i padri, intesi come maschi musulmani adulti, accusati di essersi troppo allontanati dalla tradizione e di avere perso la loro autorevolezza pubblica.
Succede, là come qua, in un momento di crisi economica. E se tutto ciò che viene offerto ai ragazzi è oggi disoccupazione, corruzione, ingiustizia, come stupirsi che la religione, così piena di promesse, appaia ai loro occhi improvvisamente seducente? L’Islam radicale, uno dei tanti pensieri populisti e demagogici che oggi attraversano con grande fortuna il nostro mondo, su questo gioca la sua partita.

I reclutatori usano infatti il linguaggio e gli strumenti di tutti i populisti. Distillano teorie semplificatorie e parole divisive (“noi” e “loro”, anche là). Soffiano sul fuoco dei sentimenti di vittimismo e frustrazione e naturalmente trovano negli algoritmi che polverizzano e riducono in bolle il vasto mondo dei social network degli straordinari alleati.
«È incredibilmente facile creare il vuoto attorno a un ragazzino che sta su Facebook, separarlo dalle abitudini, allontanarlo emotivamente dalla famiglia e dalle persone che gli sono più care», ci ha detto un ex jihadista oggi impegnato a prevenire la radicalizzazione nel web.
Ma altrettanto illuminanti sono state per noi le parole di uno che è riuscito a venirne fuori e ora sa tutto su come ci si costruisce un’ identità solida, e a quali prezzi. Si chiama Abderhamen, a 18 anni aveva scoperto il salafismo e pensava di avere finalmente trovato qualcosa a cui appartenere; a 20 si è iscritto a Teologia e si è sudato sui libri il distacco critico da quel mondo; ora che ne ha 23 studia per la seconda laurea, Antropologia, e si definisce un umanista. Ci ha raccontato che i reclutatori presentano il Corano come fosse un manuale di informatica o ingegneria.

E ingegnere, come tantissimi jihadisti, è Malik. Lui ha combattuto contro gli americani in Iraq tra il 2003 e il 2004, è accorso in Siria dieci anni dopo, ha assistito all’arrivo di Daesh ad Aleppo, al repentino cambiamento dei metodi e delle facce, alle mattanze insensate (ci ha raccontato come ha visto ammazzare un bambino la cui unica colpa era di aver pronunciato invano il nome del Profeta), finchè quei suoi invasati fratelli minori, che non riconosce come tali, hanno cominciato a fare paura persino a lui, e per salvare la pelle è stato costretto a tornarsene a casa. «La verità» ci ha detto, «è che Daesh quando è arrivato in Siria ha rovinato tutto».
Malik, che ora guarda da lontano la disfatta sul terreno di un Califfo che non riconosce come tale, pensa che l’Iraq sia la chiave di tutto quel che sta accadendo ora. «Voi ve lo siete già scordato, noi no, per noi non è possibile dimenticare quel che succedeva nel carcere di Abu Ghraib. Un male così non passa mai, ogni volta che ci pensi senti che vuoi restituirlo, anche un bambino che sta nascendo ora, forse un giorno lo sentirà. Non si può sapere adesso come reagirà quel bambino tra vent’anni. La storia ce lo sta insegnando».

L’articolo di Anna Migotto e Stefania Miretti è tratto da Left n. 26  


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Ius soli, lo spartiacque tra diritti umani e calcolo politico

I senatori della Lega protestano nell'Aula del Senato contro lo 'Ius soli', Roma, 15 giugno 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Contro lo ius soli, una legge che riconosce un fondamentale diritto umano, quello di diventare cittadino del Paese dove si nasce e si vive, viene agitata la bandiera di una politica sempre più povera di linguaggio e di pensiero. Il diritto alla cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia (ius soli) e per i minori arrivati da piccoli e che hanno compiuto il primo ciclo di studi (ius culturae) viene sempre più spesso accostato a paure – perlopiù indotte da politici e media – come quella del terrorismo o della criminalità legata al fenomeno dell’immigrazione. Non conta la vita reale di 800mila giovani “italiani senza cittadinanza” da decenni nel nostro Paese, che hanno compiuto i loro studi qui, che tifano Roma o Inter, che parlano i mille dialetti d’Italia. I fatti vengono falsificati e così anche lo ius soli scivola nel gran calderone della sicurezza, efficace strumento elettorale. La Lega lo cavalca ormai da tempo, in compagnia adesso del M5s che sullo ius soli ha fatto una giravolta con l’astensione al Senato, in pratica un voto contrario. Cosa sta accadendo? «Uno spostamento continuo di significati e tanta confusione», commenta Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci che da anni è in prima fila nella campagna per la cittadinanza. «L’immigrazione si presta a una grande strumentalizzazione, per cui si passa da quelli che sbarcano a quelli che nascono, dai musulmani all’intercultura: tutto è uguale, tutto fa brodo per indurre una sensazione di assedio e di estraneità degli immigrati». Lo ius soli è stato tirato in ballo anche per spiegare la sconfitta del centrosinistra e il fallimento del Pd di Renzi alle ultime elezioni amministrative. «A me sembra una sciocchezza, perché il tema della sicurezza è sempre stato l’argomento principale della destra. È l’unica cosa che sanno dire alle persone che vivono la crisi economica: la colpa è degli immigrati».
Sempre a proposito delle elezioni amministrative, il 25 giugno, giorno del ballottaggio, un articolo diNando Pagnoncelli sul Corriere della Sera ha avuto un roboante effetto mediatico, rilanciato durante tutta la giornata e anche nei giorni successivi da tv e radio. Veniva riportato un sondaggio Ipsos: rispetto al 2011 gli italiani favorevoli a concedere lo ius soli ai figli di immigrati passano dal 71% al 44%. Il sondaggista poi spiega che gli italiani sarebbero preoccupati perché gli immigrati «sono giudicati troppo numerosi, gravano sui conti pubblici e competono nel mercato del lavoro» con i possibili rischi «per la sicurezza, non solo per gli episodi di microcriminalità (scippi, furti negli appartamenti, spaccio, ecc.) ma anche per la possibile presenza di terroristi». Ecco qua, il gioco è fatto. Ma il clima che si è creato pregiudicherà l’approvazione della legge, sostenuta da Pd, Mdp, Sinistra italiana e Ncd, e che attende da due anni dopo l’ok della Camera?
La senatrice Doris Lo Moro, Mdp, relatrice del disegno di legge, ammette di esserci rimasta male leggendo l’articolo di Pagnoncelli. «Quel sondaggio dimostra che più il tempo passa, per via dell’indecisione dei politici, e più sorgono dubbi anche in chi prima non li aveva», dice. Per questo bisogna fare in fretta e arrivare all’approvazione che secondo la senatrice, visto lo schieramento a favore, potrebbe avvenire entro la fine dell’estate.

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Lo Stato della poesia

L’estate nel nostro Paese tornano puntuali il caldo da tropici, le diete, il neo-noir sotto l’ombrellone e anche i festival e reading di poesia. Così dal 2 al 9 luglio ad Ancona tra i monumenti storici della città e la Baia di Portonovo si svolge un festival di poesia, “La punta della lingua”, giunto alla XII edizione (con trasferta a Recanati sui luoghi leopardiani, soprattutto al colle dell’Infinito).
In otto giorni più di quaranta autori, nazionali e internazionali (Tiziano Scarpa, Antonella Anedda, il poeta inglese Jan Noble…): letture, eventi, presentazioni, gare di Slam Poetry, perfino dentro una casa di reclusione.
La domanda è: manifestazioni del genere servono a creare quel pubblico della poesia che non esiste da decenni, o meglio che si identifica con un (fantasmatico) milione di poeti (ufficialmente recensiti!), una moltitudine di autori cioè impegnatissimi a pubblicare, anche con editori infimi e a pagamento, ma che, fatalmente, leggono solo se stessi? Difficile dirlo. Il programma è fittissimo e non privo di interesse, solo con qualche incongruenza (va bene Walter Siti come critico di poesia, ma che c’entra qui il suo ultimo romanzo, che ha avuto un grande exploit mediatico ma che – fortunatamente – pare ignorato dal pubblico?). E forse Tiziano Scarpa è più memorabile come estroso, sulfureo saggista che come poeta. Ma ci si riconcilierà tutti intorno a un “menu leopardiano”. Spicca tra le altre cose l’omaggio a Bob Dylan, affidato a uno studioso, poeta e finissimo critico della poesia del valore di Alessandro Carrera. Però peccato non averlo messo a confronto con un detrattore del Nobel a Dylan, come ad esempio Magrelli,
Dunque un pubblico indubitabilmente di massa – quello della poesia – però singolarmente inappetente, autoreferenziale, perlopiù incolto (scrive versi molto più che leggerli). Eppure ci si forma un gusto personale, e si coltiva una propria eventuale vocazione lirica, solo attraverso la lettura. Anche perché la critica di poesia nel nostro Paese tende a latitare (trovo particolarmente penose le quarte di copertina di libretti di poeti esordienti firmate da Luzi, Giudici, etc, e evidentemente scritte per ragioni “alimentari”). Segnalo allora velocemente ….

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La sfrontata bellezza di Manet. Ultimo weekend

Manet, Berte Marisot

In vita fu denigrato dalla critica e contestato dal pubblico benpensante. Ma l’opera del colto e dirompente Édouard Manet ha conosciuto nell’ultimo secolo il giusto riscatto, conoscendo un successo e una attenzione crescenti. Merito anche del suo modo “modernissimo” di rappresentare le donne, di indagarne la psicologia e il narcisismo, in tutte le sue sfumature, dando forme e colori alla bellezza consapevole di sé delle parigine, ma anche raccontando lo sguardo apparentemente sfrontato, ma al fondo drammaticamente freddo, delle prostitute, obbligate a vendere il proprio corpo.
Manet è stato forse il maggiore interprete della vita nella Parigi della seconda metà dell’Ottocento, ne ha saputo rappresentare la vivacità intellettuale e lo scandalo, denunciando silenziosamente l’ingiustizia che colpiva le donne, di cui sosteneva l’emancipazione, seppur dal punto di vista di un alto borghese e impenitente seduttore.

Lo racconta bene la mostra milanese Manet e la Parigi moderna, aperta fino al 2 luglio nelle sale di Palazzo Reale, percorsa da vari fili rossi: la metropoli, l’universo femminile, l’attrazione per la cultura spagnola, il mare. Attraversate le sale abbaglianti che precedono la mostra, dedicate a una esposizione di diamanti, si scivola ancor più volentieri nel buio delle sale dove compaiono come improvvise epifanie l’affascinante ritratto della pittrice Berthe Marisot, eleganti autoritratti in inchiostro al chiaro di luna, visioni di mare in tempesta solcato da una piccola barca in fuga. Un percorso affascinante di luci e ombre, molto teatrale, attraverso opere del Museo d’Orsay selezionate dai curatori Guy Cogeval, Caroline Mathieu e Isolde Pludermacher che nei loro saggi (pubblicati nel catalogo Skira) approfondiscono la genesi colta dei dipinti di Manet e la spregiudicatezza espressiva trasmessa dal libero accostamento dei colori. Una licenza poetica che scatenò le negazioni violente di commentatori e colleghi invidiosi.

Manet  Olympia, 1863

Il pubblico borghese dei Salon nel 1865 giudicò l’Olympia di Manet uno scandalo: troppo dirompente troppo reale e presente. Come ricorda Lauretta Colonnelli in Cinquanta quadri (Edizioni Clichy) ricostruendo la vicenda della pittrice e modella Victorine Meuren che si prestò a interpretare la parte della prostituta nel quadro per essere poi scambiata dal pubblico per una prostituta vera. Difficile comprendere allora il dirompente realismo di Manet che non era copia della realtà, ma creazione di immagine che poi risultava più vera del vero. Con tutto ciò che faceva scattare nell’intimo di chi guarda. Quello di Manet era il rassicurante impressionismo di Claude Monet, con i suoi laghi di ninfee né un realismo alla Courbert che non andava oltre la figurazione razionale. Nel 1963 dell’Olympia  il pittore impressionista disse che «sembrava la regina di picche appena uscita dal bagno».

In quello stesso anno, Édouard Manet aveva dipinto anche Le déjeuner sur l’herbe dove apparentemente riprendeva il tema del Concerto campestre di Tiziano rappresentando una giovane prostituta nuda sulle rive della Senna con due studenti vestiti di tutto punto. Qui a scatenare lo scandalo, più che il nudo in sé (che già compariva nel precedente rinascimentale) fu l’aver citato modelli alti e antichi togliendo loro ogni “aura”. Come rileva Federica Rovati ne L’arte dell’Ottocento (Einaudi, 2017) ciò che fece arricciare il naso agli organizzatori del Salon che rimandarono indietro il quadro fu «l’onta» di un’opera piena di citazioni a partire dall’incisione di Marcantonio Raimondi tratta dal Giudizio di Paride di Raffaello «abbassando i prestigiosi prototipi a un livello banale, anzi volgare, anziché trasfigurare la realtà su un piano ideale». Evidentemente erano abbastanza colti da cogliere tutte le citazioni ma non abbastanza sensibili da comprenderne il senso.

Manet faceva un uso spregiudicato delle sue molteplici fonti, trattando con «insolente libertà dipinti, incisioni e qualsiasi altro materiale l’epoca mettesse a sua disposizione». E questo pareva inaccettabile. Durante il suo secondo viaggio in Italia Manet si fermò a Firenze. Agli Uffizi passava lunghe ore “copiando” opere di Parmigianino, Andrea del Sarto e degli amati veneti, come Tintoretto, dai quali aveva mutuato l’arte di di dipingere senza disegni preparatori. In particolare si mise a studiare Tiziano. Al Louvre si era già esercitato sulla Venere del Pardo e Firenze si dedicò alla Venere di Urbino, la sensuale bionda che scandalosamente si tocca, evocata nell’Olympia, al pari della Maja desnuda di Goya.

La copia della Venere di Urbino è tutt’altro che un esercizio accademico: la libertà di tocco e l’eliminazione di alcuni dettagli ne fanno tutt’altro che una riproduzione servile e «fotografica». L’artista trasforma il soggetto emulato lo immette in una nuova visione. Colpisce l’imprevedibilità dei percorsi iconografici di Manet, colpiscono gli accostamenti analogici con i quali sconvolge ogni gerarchia dei generi e «le regole del decoro». Tutto questo appare evidentissimo a Milano davanti a Il balcone, un quadro di Manet tradizionalmente abbinato a Goya e che per l’atmosfera sospesa richiama le Due Dame veneziane di Carpaccio (una precedente mostra curata da Cogeval esplicitava questo nesso) ma lo scrittore Gautier quando vide questa intrigante creazione del 1868 se ne uscì dicendo: «L’artista era in concorrenza con gli imbianchini», stigmatizzando il colore verde del balcone che riprende le persiane, senza guardare alla sinfonia del verde, del bianco, con il rosso del ventaglio di Berthe e del fiore giallo nei capelli della giovane violinista Fanny Claus.

Manet, ritratto di Mallarmé

Manet si muoveva su un filo di ricerca continua: «Non ripetere mai il giorno appresso ciò che si è fatto il giorno prima, essere sempre ispirato da qualcosa di nuovo». Così la pittrice e poi cognata Berte Marisot ritratta in questa scena spagnoleggiante appare completamente diversa nel bellissimo ritratto di Berthe con il mazzo di violette (1872). Ancora diversi, forse un poco più freddi, i ritratti degli amici pittori del Caffè Guerbois, dell’amico Zola (con sullo sfondo alcune stampe giapponesi che per Manet furono una preziosa fonte di ispirazione) e quello quasi in dissolvenza di Stéphane Mallarmé, che Manet aveva conosciuto nel 1873. Il poeta e amico lo difese in un lungo articolo sostenendo che Manet era l’unico artista che aveva aperto ad una via nuova impressionisti ai quali rifiutò sempre la propria adesione a proclami. «Monet ama l’acqua, di cui sa rendere in special modo la mobilità e la trasparenza, sia essa di mare o di fiume» notava Mallarmé. «Sisley fissa i momenti fuggitivi della giornata, osserva una nube che passa e sembra dipingerla nel suo volo… Pissarro, il più anziano dei tre, ama l’ombra densa dei boschi, l’estate, le terre rigogliose, e non teme l’impasto che, talvolta, serve a rendere l’aria visibile come bruma luminosa, satura di raggi solari. Non è raro che uno dei tre batta sul tempo Manet, il quale poi, percependo d’un tratto il risultato o l’intenzione, sintetizza tutte le loro idee in un’opera magistrale e definitiva».

Lettera aperta a Giuliano Pisapia

ROME, ITALY - JUNE 18: Tomaso Montanari during the assembly to build a popular alliance for Democracy and Equality, a United Left Alternative to the Democratic Party at the Brancaccio Theatre on June 18, 2017 in Rome, Italy. The assembly was called by Anna Falcone and Tomaso Montanari with a view to creating a new movement in Italy, seeking to attract broad support from citizens as well as sympathetic political parties, movements, associations, committees and across all civil society. (Photo by Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images)

Oggi, primo luglio in piazza Santi Apostoli, a Roma, Giuliano Pisapia spiegherà finalmente – almeno così in molti speriamo – quale strada intende imboccare. Grande coalizione da Carlo Calenda a lui, passando per il Pd di Matteo Renzi, ma con un governo a guida di Piero Grasso, si dice oggi, mentre scrivo.
La formula Genova, insomma: il che non suona rassicurante, visto il risultato.
Ma non è questione di formule, è questione di sostanza. E la sostanza è che queste grandi manovre di vertice danno per scontato che metà del Paese non voti più. Se per caso l’altra metà degli italiani tornasse a manifestarsi, anche solo al dieci per cento, tutto questo castello di carte verrebbe giù: come insegna il voto del 4 dicembre.
Anna Falcone, io, le 1.500 persone che erano al Brancaccio e le 65.000 che hanno seguito in streaming l’assemblea del 18 giugno: saremmo stati tutti felici se Pisapia avesse accolto il nostro invito a parlare, e ad ascoltare. O se solo avesse risposto alla nostra richiesta di prendere oggi la parola a Santi Apostoli. Ma mi rendo conto che non abbiamo l’appeal di Bruno Tabacci, o del napoletano Michele Pisacane.
Provo allora a scrivere qua ciò che gli avrei voluto chiedere in pubblico.
È d’accordo, caro Pisapia, sul ripristino dell’articolo 18 e anzi sull’estensione, che era prevista dal quesito referendario della Cgil? È d’accordo ad istituire un reddito di dignità così come lo propone Libera? È d’accordo con la ricostruzione di una seria progressività fiscale, che alzi oltre il 60% lo scaglione per i redditi più alti? È d’accordo nel riaffermare il ruolo centrale dello Stato nella economia? Cioè, in concreto, è d’accordo nel sospendere le alienazioni del patrimonio pubblico e nel fermare le privatizzazioni? È d’accordo nella ricostruzione di un vero diritto alla salute, omogeneo sul territorio nazionale? È d’accordo nello stabilire il consumo di suolo a zero e nel varare una grande opera pubblica di risanamento del territorio? È d’accordo nel dire no al Ceta? È pronto ad impegnarsi a togliere dall’articolo 81 della Costituzione il pareggio di bilancio? È d’accordo nel ritirare lo Sblocca Italia, la Buona Scuola e il decreto Minniti? È pronto a dividere draconianamente le cariche di partito dalle cariche di governo, a cominciare dalla presidenza del Consiglio?
Non è un programma estremistico. È anzi assai più moderato di quello che propone Jeremy Corbyn. Ed è esattamente questo l’orientamento condiviso dalla base a cui lo stesso Pisapia dice di richiamarsi. Per esempio: l’assemblea regionale lombarda di Articolo Uno – Mdp che si è riunita il 24 giugno, ha approvato una mozione in cui si legge: «Occorre un nuovo soggetto politico che sappia offrire al vasto mondo del centrosinistra un’alternativa al  Pd, che sia credibile e con ambizioni di governo. Un nuovo centrosinistra  non può esistere a prescindere da questo nuovo soggetto. Per fare questo serve: il riconoscimento degli errori compiuti negli ultimi tre anni di governo, ma anche una forte discontinuità con le politiche neoliberiste che hanno condizionato anche le migliori esperienze  di centrosinistra degli ultimi 20 anni; la piena consapevolezza di ciò che ha rappresentato il voto del 4 dicembre».
Su questa base la sinistra non solo sarebbe unita: sarebbe anche una bella sinistra. Troppo bella, per essere vera?

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


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La scena culturale di Hong Kong sfida la censura

Si riempie di nuove ombre Bauhinia Square, la piazza simbolo di Hong Kong dove il primo luglio del 1997 fu siglato il passaggio della città-Stato, dopo 159 anni, dalla Gran Bretagna alla Cina. In questi venti anni la vita nella popolosa metropoli ha continuato scorrere, per quanto a ritmo alterno fra i grattacieli disegnati da archistar e i più diffusi alveari verticali con appartamenti minuscoli ma ugualmente costosi. Il vivace melting pot honkongese sovrasta la City e la strada, alimenta il grande cinema d’autore e quello di genere, la letteratura colta e il noir. Riesce abilmente a far incontrare questi due registri, alto e basso, lo scrittore Chan Ho Kei, che abbiamo conosciuto tre anni fa in occasione dell’uscita per Metropoli d’Asia del suo Duplice delitto ad Hong Kong. Dopo il successo asiatico del suo The Borrataya owed in attesa di leggere ad agosto il suo nuovo libro che racconta storie di hackers e indaga il fenomeno del cyberbullismo, siamo tornati a trovarlo per sapere cosa è cambiato nella scena culturale di questa vivace regione amministrativa speciale della Cina; per cercare di capire cosa potrebbe cambiare in peggio riguardo alla libertà e al rispetto ai diritti umani che i ragazzi di Occupy central tre anni fa chiedevano con forza e strumenti di lotta non violenta.

Mentre si avvicina il ventesimo anniversario del ritorno di Hong Kong alla Cina si intensifica il controllo di Pechino?

Per capire cosa sta succedendo bisogna tornare a tre anni fa, alla cosiddetta Rivolta degli ombrelli del 2014. Da allora ci sono stati molti cambiamenti nel mondo dell’editoria ad Hong Kong. Sono usciti tanti libri di storia locale. Le persone sono molto interessate a tutto ciò che riguarda la nostra società. Oserei dire che negli ultimi 50 anni non sono mai state così attente a ciò che accade dal punto di vista sociale come lo sono oggi. Escono numerosi titoli di taglio politico. È un bel segnale, ma al tempo stesso è il frutto di una preoccupazione crescente per la sfida che ci aspetta.

Almeno giova al mercato editoriale?

In realtà gran parte delle case editrici sono state costrette a chiudere a causa dal costo molto alto degli affitti. Così negli ultimi vent’anni molti libri sono stati stampati in Cina. Con il risultato che molte librerie qui hanno cominciato a censurarsi nelle scelte. Preferiscono non ordinare libri considerati poco in linea con ciò che piace al governo di Pechino. La conseguenza è che molti libri devono essere stampati qui, ma i costi diventano vertiginosi.

Nonostante questo però sono usciti titoli che hanno scatenato un certo dibattito.

Sì negli ultimi tre anni alcuni editori locali si sono concentrati sulla pubblicazione di libri sulla politica cinese. Alcuni sono diventati estremamente popolari, ma fra lettori che non vivono qui. Hanno trovato un folto pubblico fra i turisti provenienti dalla Cina. Da loro sono libri. Così vanno a ruba fra i cinesi di passaggio che di contrabbando li portano nella madrepatria. Dopo la vicenda del sequestro e della sparizione di alcuni editori della Causeway Bay, tra il 2015 e il 2016, molte case editrici specializzate in questo tipo di pubblicazione sono state costrette a chiudere i battenti. Temevano che agenti segreti cinesi potessero rapirli come è successo ai loro colleghi.

Censura e autocensura sono due fenomeni macroscopici in Cina. Teme che possano riguardare anche Hong Kong?

Anche se la piena libertà di Hong Kong comincia a scricchiolare siamo ancora protetti dal patto “Un Paese con due sistemi”. I libri censurati in Cina, come ad esempio i romanzi di Yan Lianke, sono ancora pubblicati ad Hong Kong e sono reperibili nelle librerie. Gli scrittori di qui possono ancora trattare temi proibiti in Cina. Possiamo mandare i nostri lavori a Taiwan e farli pubblicare da un editore di lì e poi venderli qua (in Hong Kong più del 70 per cento dei libri sono stampati a Taiwan). Al momento possiamo ancora scrivere senza censura. Ma non so quanto potrà durare.

L’intervista a Chan Ho Kei è tratta da Left n. 25/2017


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Ius nativitatis

Perché mai l’essere figlio di qualcuno (per esempio di italiani) dovrebbe garantire dei diritti?
E perché mai il luogo dove si nasce (per esempio in Italia) dovrebbe garantire dei diritti?
Il lettore non mi fraintenda. Ben venga lo ius soli. È giusto che chi nasce e chi vive da tempo in Italia abbia gli stessi diritti di chi discende da persone italiane.
Ma credo sarebbe più giusto ancora fare un passo in più. Quello che si potrebbe chiamare ius nativitatis
Gli esseri umani, tutti gli esseri umani, a prescindere da chi siano i loro genitori biologici o dal luogo dove gli capita di nascere o dalla scuola che hanno frequentato, dovrebbero godere degli stessi diritti. Di tutti i diritti, compresi quelli di cittadinanza.
L’articolo 3 della costituzione dice: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
In questo articolo della Costituzione, e mi scusino i costituzionalisti se mi azzardo, ci sono due problemi.
Il primo è che si parla di razze, anche se al negativo. Senza distinzione di razza. Il fatto è che però le razze umane non esistono. Esiste solo la specie umana, a prescindere dal colore della pelle, dei capelli o dalla statura. A prescindere da dove uno è nato o di chi è figlio. La nobiltà e la schiavitù non esistono più, almeno non in termini legali.
I tribunali non giudicano in base all’origine di nascita. In effetti non giudicano nemmeno in termini di cittadinanza, in questo superando la Costituzione in cui si afferma che solo i cittadini sono uguali di fronte alla legge. E questo è il secondo problema dell’articolo 3. I tribunali invece affermano che la legge è uguale per tutti. Ovvero che siamo tutti uguali, davanti alla legge, a prescindere dalla cittadinanza.
Bisogna fare un passo in più: andare anche oltre l’uguaglianza di ogni essere umano davanti alla legge.
Le differenze biologiche sono un’apparenza. Anche le differenze culturali sono un’apparenza. Le differenze esistono ma sono come un vestito. Sotto a quel vestito, che fa una differenza, c’è un’uguaglianza.
La chiave per vedere quest’uguaglianza, apparentemente invisibile, sta nella Teoria della nascita di Massimo Fagioli.
La nascita, l’origine del pensiero come reazione allo stimolo luminoso assolutamente nuovo, quella dinamica di formazione del primo pensiero di rapporto con il mondo e di certezza dell’esistenza di un altro essere umano e del rapporto con esso, è l’uguaglianza di fondo. È una dinamica che riguarda tutti. È universale. Ovunque si nasca, da chiunque si nasca. La dinamica della nascita è qualcosa che accade necessariamente e in cui il feto che nasce realizza il primo pensiero di rapporto con il mondo nel rapporto con una realtà non umana. la luce. È una dinamica universale perché per tutti è così.
Nel corso della sua breve vita, 37 anni appena, Mozart ha creato opere che oggi sono conosciute e ascoltate in tutto il mondo. Si potrebbe dire che la sua musica viene compresa senza nessuna difficoltà da chiunque, che sia un bambino o una persona anziana, che sia nato in in Brasile o in Cina, che abbia la pelle nera, gialla o bianca e a prescindere dalla formazione culturale o dalla lingua parlata.
La musica di Mozart ha in sé qualcosa di universale, qualcosa che è compreso da tutti. Se vi capita, andate a visitare la sua casa a Vienna. Sono poche semplici stanze, quasi vuote perché non si hanno indicazioni di come fosse arredata e disposta la sua casa. L’emozione è grande. È come se ci trovassimo nel luogo dove ha abitato una persona che abbiamo conosciuto bene, come se fosse un caro amico, una persona con cui abbiamo avuto un rapporto profondo.
È il rapporto con quella persona, mai vista e mai incontrata, che però ci ha parlato mille e mille volte con la sua musica, ogni volta che lo abbiamo ascoltato e ci siamo emozionati.
Mozart era un genio.
E se il genio fosse colui che riesce ad avere rapporto con tutta l’umanità?
È colui che ha un rapporto così profondo con gli altri che riesce ad esprimere qualcosa che è valido per tutti.
Il genio può essere un pittore. Può essere uno scrittore. Può essere un musicista. Il genio può essere uno scienziato.
Il genio è colui che riesce a vedere in profondità, a parlare con quel qualcosa che ci rende tutti uguali, che vale per tutti, a prescindere da qualunque differenza, culturale o biologica, ci possa essere.
Il genio ha la certezza del rapporto con gli altri esseri umani. È a loro che parla.
Il genio è colui che parla, con la sua propria nascita, alla nascita di tutti gli esseri umani.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto dal numero di Left in edicola


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Uguali e diversi, tutti cittadini

MANIFESTAZIONE IUS SOLI AL PANTHEON MANIFESTAZIONE PER LA CITTADINANZA AGLI STRANIERI PROTESTA MANIFESTANTE MANIFESTANTI

L’idea che le leggi razziali del 1938 fossero una conseguenza di quell’avvicinamento tra Hitler e Mussolini culminato nel Patto d’acciaio del 1939, non regge all’analisi storica. L’Italia, infatti, aveva una propria tradizione di pensiero razziale risalente a ben prima di quei fatidici anni. Nutrito da figure quali i celebri economisti Pareto e Maffeo Pantaleoni, lo statistico Gini, Rocco e Agostino Gemelli, il razzismo fu infatti una componente significativa del pensiero sociale italiano. Vale la pena di ricordarlo, oggi, anche perché non ha altro fondamento, se non quello razziale, l’idea che l’identità dei membri di un popolo possa essere definita su base biologica, e dunque quest’ultima debba figurare come requisito per l’acquisizione della cittadinanza.
In tema di cittadinanza si hanno due principi: il primo, quello seguito da Paesi quali Stati Uniti, Francia, Spagna, Germania, Regno Unito, riconosce sotto alcune condizioni lo ius soli, cioè muove dall’idea per la quale la cittadinanza è assegnata a chi nasce sul territorio nazionale. Il secondo principio, quello che vige in Italia e che il Senato – nonostante l’opposizione della destra e del Movimento 5 Stelle – si spera riesca finalmente ad abolire, è basato all’opposto sul ius sanguinis: è cittadino chi, nato in Italia o all’estero, è di discendenza italiana e non lo è, salvo il verificarsi di alcune condizioni, chi nasce sul territorio italiano da genitori che non sono già cittadini del Paese. Quest’ultimo principio tradisce la sua origine nel pensiero razziale: non contano la lingua, la cultura, l’istruzione, o anche il periodo più o meno lungo di permanenza nel Paese, ma vige un’idea per la quale vi sarebbe, come indica la dizione stessa, un diritto alla cittadinanza italiana che si dovrebbe trasmettere per via fisico/biologica. Chi ne è privo è pertanto costretto a vivere una condizione diversa, con meno diritti, in conseguenza appunto di una circostanza a carattere genetico.
Ora, a parte il fatto …

L’articolo di Andrea Ventura prosegue su Left in edicola


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