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E Bella intonò un canto per i migranti in salvo e per i loro soccorritori

935 migrants disembarked from Vos Prudence's ship of Medecins Sans Frontières (MSF) at Salerno's Harbour, 14 July 2017.ANSA/CESARE ABBATE

I migranti continuano a raggiungere le coste italiane, oggi sono 3223 a sbarcare nei porti. Un fiume inarrestabile, costituito da moltissimi bambini e donne incinte. Il segno che la fuga da luoghi inospitali è ormai una priorità, al punto che anche persone particolarmente fragili osano mettersi in viaggio rischiando la propria vita. Un canto, per una manciata di minuti, riporta l’armonia tra chi ha vissuto momenti terribili. Accade anche questo nel “normale” tran tran dei soccorsi. E per fortuna, perché significa che l’umanità non viene mai perduta, nonostante il dolore e la paura.

La nave Vos Prudence di Medici senza Frontiere, con 935 migranti a bordo, è attraccata questa mattina intorno alle sette al Molo Manfredi di Salerno. È il 21esimo sbarco sulle coste salernitane. Da qui, secondo il Piano Nazionale di Riparto centocinquanta verranno accolti in strutture della regione Lombardia, 100 in Campania, altrettanti nel Lazio (Frosinone, Latina, Viterbo), 80 in Piemonte, 55 in Veneto, 50 in Emilia-Romagna e altrettanti in Abruzzo, Molise, Umbria, Marche. Dei 935 migranti, 793 sono uomini. 125 donne (di cui sette in gravidanza e una in travaglio che è stata anche la prima persona a scendere dalla nave insieme a un ferito di circa 30 anni) e 16 minori, di cui due neonati.

C’è stato un momento commovente al molo Manfredi del Porto di Salerno quando una donna nigeriana – si chiama Bella e ha 22 anni si legge sul Mattino – mentre stava scendendo dall’imbarcazione, ha intonato un canto di preghiera del suo Paese. Una litania dolce e toccante, che ha spinto uno dei soccorritori a chiederle di ripeterlo attraverso un microfono. Il canto, che ha suscitato l’emozione dei presenti, si è poi conclusa con l’applauso dei migranti, dei soccorritori e di tutti coloro che erano presenti sul molo. Un momento difficile da dimenticare. Per fortuna.

Ma non è finita qui. In Puglia una nave con a bordo circa 860 migranti, salvati nel Canale di Sicilia ha attraccato questa mattina al porto di Brindisi. Si tratta del guardapesca Acquarius, dell’associazione Sos Mediterrané a bordo della quale, durante il trasporto, è nato un bimbo.
Gli 860 migranti saranno smistati per la gran parte in Lombardia e Lazio, ma anche in Piemonte, Veneto, Toscana, in altre strutture della Puglia, in Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Marche, Abruzzo, Molise e Umbria. Infine in Sicilia, sempre questa mattina è giunta stamane nel porto di Catania la nave Diciottidella Guardia Costiera con a bordo 1.428 migranti, tra cui un centinaio di minori, salvati nei giorni scorsi in diverse operazioni di soccorso.

Franceschini I, lo zar d’Italia

DARIO FRANCESCHINI

La cultura non può essere consegnata alle logiche di mercato. Un prodotto può essere di grande valore culturale ma non essere redditizio e quindi occorre mettere confini fra ciò che si fa al servizio dell’umanità e ciò che si fa per profitto. La cultura è un servizio». Un sorprendente Dario Franceschini quello che a giugno 2014 in un dibattito con il presidente di Google, Eric Schmidt, parlava di cultura e turismo. Fu perfino spiazzante il ministro nell’affermare «che la cultura e il turismo non sono il petrolio del Paese, ma l’ossigeno che lo fa respirare». Che quindi le prime impressioni, non propriamente positive, di molti fossero sbagliate? Che l’allarme scattato, soprattutto tra gli addetti ai lavori, fosse soltanto l’infastidito tentativo di opporsi al cambiamento? Già perché per Franceschini, come per il suo ex presidente del Consiglio Renzi, chi è in disaccordo e mostra perplessità, è poco più che un oscurantista. In ogni caso qualsiasi speranza di una nouvelle vague del ministro, è stata annullata nel giro di pochi mesi.
«L’Italia è una superpotenza culturale e il ministero della Cultura è il più grande dicastero economico del Paese», la prima dichiarazione da ministro il 22 febbraio 2014. Quello il suo piano programmatico. Quello l’autentico Franceschini. Il rivoluzionario ministro dei Beni culturali che punta forte sulla valorizzazione con il pretesto che così la tutela possa trarne effetti benefici. Nella sostanza ridefinendo il concetto stesso di valorizzazione. Non più esplicitazione dei caratteri di ogni singolo elemento del Patrimonio. Non più miglioramento della fruibilità del singolo sito, né tanto meno incremento dei servizi disponibili. Molto di più. La nuova valorizzazione non conosce limiti, non ha restrizioni. L’obiettivo principale è fare cassa.
Musei e pinacoteche, aree archeologiche e palazzi storici trasformati da luoghi della cultura in location. Per matrimoni, presentazioni con aperitivi, cene aziendali, sfilate di moda ed anche gran balli, senza dimenticare corsi di yoga e lezioni di lirica. Qualcuno, fuori dal coro, ha provato a dire che queste operazioni, costringendo a drastiche riduzioni di orari di apertura, qualche volta perfino a chiusure, avrebbero leso i diritti dei “semplici” visitatori. Pochi hanno scritto che questo utilizzo del patrimonio storico-archeologico sarebbe stato un atto anti democratico. Tanto più grave perché realizzato proprio dallo Stato. Tutto inutile.
«Penso che in Italia ci sia un gran bisogno di campi da golf e che ci sono alcune regioni, in particolare del Mezzogiorno, che ampliando l’offerta di campi da golf riusciranno ad attrarre il turismo straniero, che oggi non si riesce ad attirare». Dichiarazione dell’aprile 2014 che ha segnato un ulteriore passaggio del disegno di Franceschini. A volte il patrimonio….

L’articolo di Manlio Lilli prosegue su Left in edicola


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Ripartiamo dall’articolo 9

Come è possibile che nell’Italia uscita a pezzi dalla guerra, povera e affamata, si pensasse a costituzionalizzare il valore dell’arte e del paesaggio? È una domanda che ci siamo posti tante volte. E ogni volta rileggendo l’articolo 9 della nostra Carta torna la gioia e lo stupore di fronte a quella formulazione rivoluzionaria che lega strettamente la tutela del patrimonio storico artistico e del paesaggio alla ricerca. Ogni volta, ad ogni rilettura, torna l’ammirazione per Lelio Basso che contribuì alla stesura del secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione là dove dice: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana». Parole che lasciano intendere una visione antropologica complessa, a tutto tondo, in cui la realtà psichica, i valori “immateriali” dell’arte e della cultura contano almeno quanto i bisogni primari. Una concezione raffinatissima rispetto a quella che – senza soluzione di continuità – ci propone la classe politica italiana dagli anni Ottanta, dalla Milano da bere di Craxi e Berlusconi fino agli anni Duemila di Renzi e della valorizzazione intesa come monetizzazione, sfruttamento intensivo del patrimonio culturale che De Michelis chiamò «petrolio d’Italia», inaugurando una bruttissima stagione di cartolarizzazione, svendite, condoni varata dalla finanza creativa di Tremonti e tristemente portata a compimento dai governi di centrosinistra guidati da Renzi a Gentiloni, in perfetta continuità fra loto grazie al ministro dei Beni culturali e del turismo, Dario Franceschini. Paladino dell’ambiente, autore di romanzi, che, folgorato sulla via di Damasco del renzismo, si è tramutato in rottamatore superando persino il maestro (che ora rischia di essere a sua volta rottamato dal democristiano ferrarese). Con la politica delle promesse, con imprese come il recupero dell’arena del Colosseo a cui sono stati destinati ben 18 milioni di euro, con iniziative imbarazzanti come il sito Very Bello e il flop del concorso internazionale per la direzione di venti musei e, soprattutto, con una disastrosa riforma delle soprintendenze e della rete museale, Dario Franceschini dimostra di aver appreso molto dall’ex premier. Emulando le gesta del sindaco di Firenze che trapanava il Salone de’ Cinquecento alla ricerca impossibile di lacerti della Battaglia di Anghiari di Leonardo, che improvvisandosi novello Michelangelo annunciava di voler completare la facciata di San Lorenzo lasciata da lui incompiuta, che, sodale di Farinetti, considerava di buon gusto il suo Eataly che attrae frotte di turisti per un pic nic fra riproduzioni miniaturizzate del campanile di Giotto e del Duomo, a due passi dagli originali. Il nuovo che avanza è il vecchio e usurato kitsch dell’era berlusconiana, che per la valorizzazione dei beni culturali si affidava al manager di McDonald’s Mario Resca. Ma c’è ben poco da ridere di queste grottesche politiche di un governo di centrosinistra che, al pari di quelli di destra, considera l’Italia un brand da sfruttare, usa i beni culturali per fare cassa, pensa che investire in cultura e in ricerca sia un lusso ma non lesina denaro pubblico per inutili operazioni di marketing. Per nostra fortuna segnali di mobilitazione, proteste di associazioni di cittadini, intellettuali, ambientalisti, studenti a Venezia come a Roma, fanno sperare che la concezione dell’ambiente e del patrimonio artistico come mera merce e l’idea di una “buona scuola” finalizzata alla produzione abbiano i mesi contati. Anche noi di Left lavoreremo per far crescere questa consapevolezza.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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E intanto Giulio Regeni appassisce

Parents of Giulio Regeni, Claudio (L) and Paola, show the picture of a mural made upon a wall in Berlin, by Egyptians writers, with the image of their son and a stylized cat during a press conference at the Italian Senate, 04 April 2017. Regeni's parents appealed to Pope Francis to bring up the case of the Italian student tortured and murdered in Cairo when he visits Egypt on April 28-29. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Al presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi «abbiamo portato un messaggio estremamente chiaro», e anche «molto unitario, della delegazione: L’Italia avverte fortemente il bisogno di verità» sul caso di Giulio Regeni, sull’ «omicidio di un nostro figlio», ha detto il senatore Nicola Latorre al Cairo aggiungendo che «questa verità ha bisogno di un impulso significativo nell’attività di cooperazione giudiziaria». Lunedì la delegazione del Parlamento italiano (guidata proprio dal senatore Latorre) ha raggiunto l’Egitto (anche) per capire a che punto stiamo con la verità su Giulio Regeni. Indietro. Molto indietro.

Per darvi un’idea: da una parte noi italiani abbiamo chiesto che si rafforzassero (o forse, si “attivino” sarebbe più giusto visti i risultati scarsi fin qui) le linee di cooperazione fra magistratura italiana e Egitto mentre Al Sisi rispondeva augurandosi di «proseguire la cooperazione stretta e continua fra gli inquirenti nei due Paesi». In pratica noi gli abbiamo detto «bisogna cambiare passo!» e quelli ci hanno risposto «avete ragione, allora continuiamo così!».

E qui sta il punto: la verità su Giulio Regeni passa per forza dal coraggio di dismettere i panni falsi cortesi di chi continua a trattare Al Sisi come il sincero democratico che non è. Lo spettacolo dell’Egitto avvenuto con la delegazione italiana (con il leader egiziano principalmente preoccupato di “rilanciare le relazioni internazionali” tra i due Paesi) è umiliante. Ancora. Per l’ennesima volta.

Anche se ogni volta sembra che se ne parli sempre un po’ meno.

E intanto Giulio Regeni appassisce.

Buon venerdì.

I docenti universitari rompono col Miur: salta un appello d’esame nella sessione autunnale

L'ingresso dell'aula magna del Politecnico di Milano in piazza Leonardo da Vinci. Quello milanese si conferma il primo ateneo italiano: nella nuova classifica del QS World University è 170/o e guadagna 13 posti. Per la prima volta quattro università italiane sono tra le prime 200 al mondo: dopo il Politecnico figura l'Alma Mater di Bologna (188/a, sale di 20 posizioni) e per la prima volta entrano la Scuola Superiore Sant'Anna Pisa e la Scuola Normale Superiore (entrambe al 192/o posto). Milano, 9 giugno 2017. ANSA / MATTEO BAZZI
Più di 5000 professori e ricercatori di 79 università italiane incroceranno le braccia durante la sessione autunnale di esami. Uno sciopero limitato a 24 ore, in concomitanza col primo appello della sessione che va dal 28 agosto al 31 ottobre. Lo scopo della protesta è lo sblocco degli scatti stipendiali e delle progressioni di carriera bloccati nel quinquennio 2011-2015 dall’1 gennaio 2015 (e non dall’1 gennaio 2016, come è attualmente) e il riconoscimento dello stesso quinquennio ai fini giuridici.
Nella lettera di proclamazione dello sciopero, i docenti ripercorrono la genealogia che ha portato alla rottura col governo: la vertenza risale al 2014, quando i prof. scrissero numerose missive di protesta, una lettera al presidente della Repubblica il 2015 e tre al premier tra 2014 e 2016, in seguito alle quali una delegazione di insegnanti era stata ricevuta dalla presidenza del Consiglio. Poi lo sciopero bianco del 2015 e il tentativo di boicottare la Vqr, il meccanismo di valutazione. E infine gli ultimi abboccamenti con delegati del Miur a marzo e a giugno. Senza però ottenere i risultati sperati.
Il soggetto che sta per mobilitarsi non è un vero e proprio sindacato, bensì una rete trasversale di docenti e ricercatori, guidata da tre portavoce, Carlo Vincenzo Ferraro del Politecnico di Torino, Carmela Cappelli della Federico II di Napoli, Paolo D’Achille di Roma Tre. Le loro rivendicazioni sono chiare, ma i problemi dell’università non si limitano al blocco di scatti e classi di carriera voluti dal governo Berlusconi. I docenti sono diminuiti del 12% in sei anni, da 62.753 ai 54977 del 2015. E poi il blocco del turnover, il 18° posto nell’Ocse per quanto riguarda la quota di Pil dedicata alla ricerca e allo sviluppo, come confermano i dati Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario).
Proprio perché le problematiche della scuola sono più grandi e strutturali, Francesco Sinopoli (Flc-Cgil), dalle colonne del Manifesto lancia l’invito ad allargare il fronte della mobilitazione: «Va bene questa vertenza ma bisogna costruire un movimento che tenga dentro tutte le componenti dell’università a cominciare dagli studenti, dai precari e dal personale tecnico-amministrativo che soffre per lo stesso blocco degli stipendi».
Anche per l’associazione studentesca Link – Coordinamento Universitario bisogna evitare frammentazioni interne al mondo universitario. Se è vero che la decisione di scioperare «è stata seguita da una scia di polemiche in aule, biblioteche e bacheche facebook, soprattutto riguardanti la forma della protesta ed i disagi che produrrebbe sugli studenti» e che la componente docente «in questi anni è stata poche volte accanto alle nostre battaglie per i diritti degli studenti e delle studentesse», per Link è comunque necessario «uscire dalla lotta intestina, dalle ritorsioni, dalla visione compartimentale, che alimenta la frammentazione e l’isolamento costante tra le componenti dell’università. Occorre provare a re-indirizzare verso il nemico comune la rabbia di chi vive giornalmente, in forma diversa, le miserie dell’università italiana».
Ad ogni modo i disagi per gli studenti che affronteranno gli esami dopo l’estate, e che magari devono rispettare i ritmi imposti dalle borse di studio, saranno contenuti. I prof. rassicurano: negli atenei in cui è previsto un solo appello per la sessione, i docenti chiederanno alle strutture competenti di fissare un appello straordinario dopo il quattordicesimo giorno successivo alle 24 ore di sciopero. Almeno un appello sarà dunque garantito, e l’estate sui libri di numerosi studenti non sarà stata vana.

Caldo in Italia, Rapporto Ispra sul 2016: lo scorso anno è andata peggio del 2015. E il 2017…

Il fiume Po in secca a causa dell'assenza di precipitazioni e del grande caldo in località Ragazzola (Parma), 23 giugno 2017. ANSA/SANDRO CAPATTI

Quella dell’enorme iceberg A68 che si sta staccando dalla banchisa antartica, grande quanto la Liguria, molto probabilmente sarà l’immagine più emblematica del caldo record del 2017. Ma il 2016 se ci ricordiamo bene, non andò meglio. La conferma viene ora dal XII Rapporto Ispra sugli indicatori del clima in Italia, secondo cui il 2016 risulta essere stato il sesto anno più caldo per l’Italia dal 1961.

L’aumento delle temperature che si è registrato in Italia lo scorso anno è di poco superiore ai valori climatici globali del mondo, rileva l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. Nel 2016, per il terzo anno consecutivo, «la temperatura media annua globale del pianeta ha segnato un nuovo record». La media annuale italiana, infatti, è aumentata di 1,35° mentre quella mondiale si è fermata, si fa per dire, a +1.31 °C.

Le anomalie dei cambiamenti climatici non riguardano solo le terre emersea: nei mari italiani c’è «un’anomalia media di +0.99°C rispetto al periodo di riferimento 1961-1990». Secondo i dati Ispra il 2016 si colloca «al 4° posto della serie, dopo il 2015, il 2012 e il 2014», afferma ancora Ispra. Nel 2016 tutti i mesi sono stati più caldi della norma, soprattutto dicembre al Nord (+2.76°C), febbraio al Centro (+3.02°C) e aprile al Sud e sulle Isole (+2.99°C). Ecco perché tanta siccità e bombe d’acqua. «Nel 2016 non sono mancati eventi di forte intensità, anche prolungati, come quelli che hanno colpito la Liguria e il Piemonte nella terza decade di novembre. Tuttavia, la caratteristica più rilevante del 2016 è stata forse la persistenza di condizioni siccitose», dicono infatti gli esperti. Lo scorso inverno è stato registrato un record negativo: pochissime precipitazioni, per un livello inferiore o uguale a 1 mm registrato a Capo Bellavista (Nu) con 334 giorni di seguito senza pioggia.

Puttane e antifasciste, ecco la storia di Adele e le altre che si opposero a Mussolini

Adele non ha ancora compiuto 29 anni, vive a Genova e di professione fa la prostituta. Il 28 marzo 1927 alle 3 del mattino viene arrestata dalla polizia per motivi di pubblica sicurezza. Mentre viene trascinata via la rabbia ha il sopravvento e urla: «carogna Mussolini, per colpa sua, voialtri ci arrestate!». Questo è quanto, tanto basta per essere condannata e schedata come “donna di sentimenti contrari al regime” e per essere condannata a 8 mesi e 10 giorni di reclusione e a una multa di 800 lire.

Quella di Adele è una delle storie che Matteo Dalena ha raccontato nel suo libro Puttane Antifasciste nelle carte di polizia: 27 storie di prostitute che dal 1927 al 1942 sono state denunciate e schedate per aver insultato il capo del governo, Benito Mussolini. Molte di loro erano prostitute clandestine che dovevano essere sanzionate per misure di pubblica moralità, per “adescamento al libertinaggio”, che però al momento dell’arresto si scagliavano contro il regime insultando il Duce stesso. E così, bastavano poche parole per non essere più giudicate solo per ragioni di pubblica moralità, ma per essere perseguite in linea politica, guadagnandosi l’etichetta di antifasciste.

Quella di antifasciste non era però solo un’etichetta: le pene infatti cambiavano considerevolmente. Se da “semplici” prostitute infatti rischiavano un massimo di 6 mesi di reclusione, da antifasciste le attendevano ben altre condanne. Il solo sospetto di nutrire idee sovversive era sufficiente a far scattare l’ammonizione giudiziale che prevedeva una serie di forti privazioni della libertà personale. Come ci spiega l’autore del libro: «La condanna più temuta da queste donne era la misura preventiva del confino di polizia: molte prostitute venivano relegate in lande desolate, soprattutto del meridione, solitamente per tre anni». Ma non c’era solo il rischio del confino, molte di queste donne finivano nei sifilicomi, strutture dedicate alla cura delle patologie veneree, soprattutto della sifilide, da cui prendevano il nome. Ad altre invece veniva diagnostica una “demenza paranoide” e venivano spedite in qualche sperduto manicomio di provincia fino alla fine dei loro giorni.

È stata proprio questa la sorte di Maria Degli Esposti, prostituta bolognese schedata come antifascista nel 1928 e che nelle carte di polizia viene bollata come “ebete”. Evidentemente per i funzionari di polizia Maria aveva tratti fisionomici che tradivano l’idiozia di cui, secondo le autorità, era succube. Per la polizia Maria infatti presentava tutte quelle caratteristiche che doveva avere una prostituta nata: non aveva pudore, era dedita all’alcol e vendeva il proprio corpo. «Si tratta dell’esempio più lampante di come in epoca fascista le teorie di Lombroso e dei post lombrosiani sulla cosiddetta “donna delinquente” fossero penetrate nei metodi di polizia scientifica» dice Dalena. Maria, come molte altre, è stata poi internata in un manicomio fino alla fine dei suoi giorni.

Maria, Adele, Giuseppa, Agnese, Filomena e le altre sono tornate a vivere grazie al lavoro di Matteo Dalena, che ha deciso di raccontare queste storie di donne che sarebbero rimaste sconosciute se non fosse stato per quell’unico contatto con un potere che le voleva schedare ed etichettare.  Matteo Dalena spiega che è stato possibile raccontare le loro storie grazie ai fascicoli trovati in archivio, documenti che possono rivelare molto. «Le carte di polizia, pur rimanendo l’unica fonte in grado di raccontare queste esistenze infime», dice Dalena,«sono però purtroppo parziali perché ci danno una rappresentazione della persona schedata funzionale agli interessi dell’istituzione. Ma talvolta nei verbali degli interrogatori emergono virgolettati bellissimi che aprono degli sprazzi di luce nel buio di queste vite. Talvolta emergono le loro abitudini, le loro emozioni, oppure echi di ribellioni stroncate dal potere».
Puttane antifasciste racconta di un tempo di ribellione al regime in cui persone emarginate come le prostitute comunque trovavano il coraggio di lottare contro l’oppressione.  Ora è arrivato il momento di conoscere anche questa storia.

Istat, l’Italia è sempre più povera. Gli indigenti sono ormai oltre quattro milioni

© ANSA/ CIRO FUSCO

Oltre 1 milione e 600mila famiglie vivono in condizione di povertà assoluta, per un totale di più di 4 milioni e 700mila persone. E’ questo il dato più drammatico del rapporto Istat, che misura la povertà in Italia nel 2016 secondo due distinte unità di misura: la povertà assoluta e quella relativa, elaborate sulla base delle spese per consumi delle famiglie.

La situazione del 2016 resta stabile rispetto al 2015, ma la povertà assoluta aumenta tra le famiglie numerose tanto da far spostare l’ago della bilancia a 3 componenti, dove si stenta a condurre uno stile di vita dignitoso. il numero medio di componenti delle famiglie in povertà assoluta è ormai prossimo a tre. Nel 2016 l’incidenza della povertà assoluta sale, infatti, al 26,8% dal 18,3% del 2015 tra le famiglie con tre o più figli minori, situazione che riguarda 137.771 famiglie e 814.402 persone nel 2016. La povertà relativa é ugualmente stabile rispetto al 2015. Nel 2016 la povertà relativa riguarda il 10,6% delle famiglie residenti per un totale di 2 milioni 734mila, e 8 milioni 465mila individui, il 14,0% dei residenti. La fotografia della povertà nel 2016 è simile all’anno precedente: anche l’incidenza percentuale della povertà assoluta è in linea con i valori degli ultimi 4 anni: 6,3% per le famiglie e 7,9% per gli individui nel 2016.

La povertà per ripartizione geografica

La povertà assoluta riguarda soprattutto il Mezzogiorno e ancora di più il Centro Italia, sia per quanto riguarda le famiglie (5,9% da 4,2% del 2015) sia gli individui (7,3% da 5,6%): peggiora la situazione economica nei comuni fino a 50mila abitanti al di fuori delle aree metropolitane (6,4% da 3,3% dell’anno precedente). Solo i dati del nord Italia sono migliori di quelli del 2015, quando erano 613.000 le famiglie povere (il 38,8%), mentre nel 2016 sono 609.000 (37,6%); al Centro crescono a 311.000 nel 2016 (19,2%) rispetto ai 225.000 del 2015 (14,2%); al sud sono 699.000 nel 2016 (43,2%), contro i 744.000 dell’anno precedente (47%). Il malessere economico colpisce soprattutto le famiglie degli operai, in cui l’incidenza della povertà assoluta è doppia (12,6%) rispetto a quella delle famiglie nel complesso (6,3%), mentre la situazione è ben diversa tra le famiglie di dirigenti, quadri e impiegati (1,5%).

Più poveri i più giovani

La povertà assoluta è calcolata sulla base della spesa mensile (soglia minima) necessaria per standard di vita minimamente accettabile. Prosegue la relazione inversa tra incidenza di povertà assoluta e l’età della persona di riferimento: dal 2012 aumenta la prima al diminuire della seconda. Infatti, nelle famiglie con persona di riferimento over 64 troviamo il valore minimo, pari al 3,9%, mentre il valore massimo del 10,4% colpisce le famiglie con persona di riferimento sotto i 35 anni. Anche il benessere dei minori è in netto peggioramento: si è passati da un’incidenza di povertà assoluta pari al 3,9% nel 2005 ad un valore più che triplicato nel 2016 (10,0%).

La stessa relazione inversa vale anche per il titolo di studio della persona di riferimento: 8,2% per chi ha la licenza elementare e 4,0% se è almeno diplomata. La soglia di povertà per una famiglia di due componenti risulta pari a 1.061,50 euro nel 2016 (+1,0% rispetto al 2015). Le famiglie composte da due persone che hanno una spesa mensile pari o inferiore a tale valore sono classificate come povere. Nel 2016 la povertà assoluta è più bassa tra le famiglie di soli italiani (4,4%) mentre aumenta tra le famiglie con componenti stranieri: 25,7% per le famiglie di soli stranieri, con il Mezzogiorno a sfiorare addirittura il 30%. Per le famiglie miste il valore dell’incidenza è pari a 27,4%, con una crescita più accentuata nel Nord (da 13,9% a 22,9%).

Nel 2016 le famiglie “sicuramente” povere sono il 5,6%, quota che sale a 10,5% nel Mezzogiorno; è “appena” povero (spesa inferiore alla linea del 20%) il 5,0% delle famiglie; è invece “quasi povero” il 7,0% delle famiglie, mentre il 3,3% ha valori di spesa superiori alla linea di povertà di non oltre 10%, quote che salgono rispettivamente a 11,1% e 5,9% nel Mezzogiorno. Le famiglie “sicuramente” non povere, infine, sono l’82,4% del totale, con valori pari a 90,1% nel Nord, 84,8% nel Centro e 69,2% nel Mezzogiorno.

La marcia degli imam a Parigi, contro il terrorismo

epa06078874 Participants of the 'Muslim March Against Terrorism' demonstration pose with a banner as they pay tribute to the victims of terrorism at Brussels Bourse place, in Brussels, Belgium, 10 July 2017. A group of about 30 Muslims and Imams took part in the initiative originally started by French Imam Chalghoumi and Jewish writer Marek Halter. The group tours Europe and visits the sites of recent Islamist terror attacks with Berlin, Brussels and Paris being the main points of their tour. EPA/OLIVIER HOSLET

Un autobus, l’islam e piccoli atti di coraggio. I leader musulmani europei hanno deciso che è scoccata l’ora esatta per cominciare un tour europeo contro il terrorismo, ma questa idea è venuta a un ebreo.

L’idea è di Marek Halter, celebre scrittore francese, e di un suo amico, l’imam di Drancy, sobborgo settentrionale di Parigi. Gli imam e tutti i “musulmans contre le terrorisme”, partiti da Parigi, Champs-Elysées hanno fatto tappa a Berlino, Nizza, Bruxelles, per ritornare a Parigi domani, 14 luglio, anniversario della rivoluzione francese, ma anche dell’attacco letale a Nizza, in cui persero la vita 86 persone.

I leader religiosi sono arrivati l’8 luglio dalla Gran Bretagna, Francia, Belgio, Tunisia e hanno incontrato i capi delle altre comunità proprio nel luogo dove il poliziotto Xavier Jugele ha perso la vita ad aprile. Il tour degli imam ha toccato ogni luogo in cui un attentato è avvenuto in Europa per ricordare le vittime e condannare la violenza, da Nizza fino a Berlino. Sono partiti in trenta, ma con l’autobus torneranno in sessanta, perché altri si sono uniti durante le tappe del viaggio.

Intanto continuano in questi giorni in Francia gli arresti per la tragedia di gennaio 2015. La pistola Tokarev e i fucili d’assalto usati dal terrorista Coulibaly a Parigi erano stati comprati da un’azienda di proprietà della moglie di un sospetto trafficante di armi, Claude Hermant. Hermant, ex mercenario in Yugoslavia, dice di averle vendute invece ad un altro trafficante d’armi, noto come Samir L., che è stato fermato e dice di non avere a che fare con questo piano.

Eccolo qui l’esempio: il gerarca Corsaro contro Fiano

A vederlo viene voglia di non crederci:

Il deputato Massimo Corsaro, piccolo fascistello nostalgico, passato dai Berluscones ai sostenitori di Fitto (rendetevi conto, Fitto) riesce in una sola frase ad essere stupido, schifoso, antisemita e volgare. Un capolavoro che nemmeno il peggior comico riuscirebbe a condensare in una sola frase.

Fiano, da parte sua, avrebbe la colpa di essere estensore di una legge contro la propaganda fascista (legge che personalmente ritengo piuttosto pasticciata) ma soprattutto di essere ebreo e circonciso: così il gioco viene facile.

Al di là della personale solidarietà per Fiano (e tutto il disgusto per Corsaro) la vicenda è l’esempio lampante di una “moda di manganello” che piuttosto che nuove leggi avrebbe bisogno di punizioni esemplari con le leggi che già ci sono. Questo post è un reato. Chiaro. Semplice.

Ora serve solo uno Stato che abbia la capacità di punirlo.

Ecco qua.

Buon giovedì.