Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha annunciato domenica che il Parlamento non procederà con l’approvazione della legge ius soli, che avrebbe concesso la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia – con uno dei due genitori residenti nel Paese da più di 5 anni – e a quelli venuti qui da piccoli dopo aver compiuto un ciclo di studi (ius culturae). Un vero dietrofront da parte del governo che fino a qualche settimana fa si dichiarava assolutamente favorevole all’approvazione del ddl.
«Ci sentiamo non solo traditi dal governo, ma anche presi in giro: dopo tante promesse ci troviamo ancora nella stessa situazione» ci ha detto Youness Warhou, 23 anni, tra i fondatori del movimento Italiani senza cittadinanza, «Hanno calendarizzato il ddl, hanno detto che l’avrebbero votato entro fine luglio e adesso l’hanno rimandato. Non si rendono conto che stanno giocando con la vita di giovani e bambini che sono appesi ad un permesso: ci stanno distruggendo».
Nella nota rilasciata domenica dal presidente del Consiglio si legge che: «Tenendo conto delle scadenze urgenti non rinviabili in calendario al Senato e delle difficoltà emerse in alcuni settori della maggioranza, non ritengo ci siano le condizioni per approvare il ddl sulla cittadinanza ai minori stranieri nati in Italia prima della pausa estiva. Si tratta comunque di una legge giusta. L’impegno mio personale e del governo per approvarla in autunno rimane».
Nella nota Gentiloni si riferisce all’indisponibilità del partito di Angelino Alfano, Alternativa popolare, a votare per il disegno di legge. Il partito di Alfano, che è il principale alleato del Partito Democratico, ha infatti espresso molti dubbi rispetto all’approvazione dello ius soli, per ragioni di “opportunità”: in altre parole, Alfano e il suo partito si sono mostrati timorosi di perdere consensi votando una legge del genere in un momento in cui le preoccupazioni sull’immigrazione sembrano crescere di giorno in giorno.
«Sono solo giochi politici da palazzo a cui noi ormai siamo abituati: sono 13 anni che fanno questi giochetti e sembra che la parte politica di cui ci fidavamo, la maggioranza, non sia più affidabile» ha amaramente detto Youness, «Continuano a rimandare perché manca il coraggio. Non ci sono i leader giusti, perché se ci avessero tenuto a questa causa non avrebbero continuando a rimandare e a tirarsi indietro davanti ad atti di giustizia e di diritto, perché lo ius soli è questo: un atto di diritto. Se ci tenessero alle nostre vite, se capissero quanto questo influenzi la nostra esistenza di tutti i giorni, non avrebbero ancora tardato».
Nella nota il presidente del Consiglio assicura che la discussione del disegno di legge verrà rimandata all’autunno. Ma che cosa cambierà in autunno non è ben chiaro. «Sembra che tutto sia più urgente dei nostri diritti, perché questa è una manovra già vista: è già successo al referendum del 4 dicembre ed è successo di nuovo a febbraio» ci spiega Youness, «Sono solo bugie, per prenderci in giro, per far tardare quest’approvazione, per affossare questa legge per sempre. Perché questa legge non la si vuole fare. Sappiamo benissimo che in autunno si parlerà di legge elettorale e di altre cose e noi saremo ancora qui».
La decisione di Gentiloni risulta presa in accordo con il segretario del Pd Matteo Renzi, le cui insistenze per l’approvazione della legge sembravano essere maggiori. Ovviamente la decisione del governo è stata celebrata come una vittoria da Forza Italia e dalla Lega, il cui leader Matteo Salvini l’ha immediatamente definita una “vittoria della Lega”.
Nonostante questo dietro front del governo il movimento Italiani senza cittadinanza non si fermerà: «Stiamo scendendo nelle piazze di quasi tutte le città italiane» ci assicura Youness. «Adesso siamo a Reggio Emilia davanti al Comune, nel pomeriggio saremo a Modena, a Padova e anche a Roma per dimostrare il nostro dissenso contro questo ennesimo rinvio».
Una battaglia che continuerà e che è importante che continui. Soprattutto perché se la sinistra italiana si dimostra cosi miope, così spaventata di perdere voti dal rinunciare ad approvare quello che altro non sarebbe se non un atto di civiltà, c’è estremo bisogno di persone che continuino a lottare per vedere rispettare i propri diritti.
Ius soli addio, i giovani senza cittadinanza: così il governo ci distrugge la vita

Hacker russi, Putin respinge le accuse di Washington

Ogni giorno si stringe il cerchio intorno allo staff di Donald Trump, in contatto con avvocati, businessman, ambasciatori, diplomatici legati al Cremlino. Sono accuse «inutili e dannose», secondo il presidente russo Vladimir Putin, quelle che arrivano quotidianamente da Washington a Mosca, sin dall’inizio di ottobre scorso, quando gli Stati Uniti hanno ufficialmente accusato il suo paese di intervento durante la battaglia per le presidenziali.
La Russia c’entra col collasso del servizio di registrazione degli elettori durante il referendum sulla Brexit? E quali erano i legami della Russia con l’hacking della campagna francese di Emmanuel Macron durante le elezioni a maggio? L’interferenza russa nelle democrazie occidentali non è certo una novità, risale alla guerra fredda. Ma ora l’attenzione sul tema è massima, con le elezioni tedesche alle porte.
Per il direttore generale dei servizi segreti inglesi – l’M15 – Andrew Parker, la Russia sta usando «una vasta gamma di poteri nella sua politica estera in maniera sempre più aggressiva: propaganda, spionaggio, sovversione e cyber attacchi compresi. La minaccia russa è in aumento anche in Gran Bretagna, usa tutti gli strumenti più sofisticati a disposizione per raggiungere i suoi scopi». Per la prima intervista rilasciata dai servizi segreti inglesi nel Regno Unito, Parker ha scelto il Guardian, il quotidiano che ha pubblicato gli “Snowden files”, «perché riconosciamo che in un mondo che cambia anche noi dobbiamo cambiare».
Il senatore Giarrusso e la solidarietà che si fa solo con i propri sodali

«Quel senatore è pericoloso». A parlare non è uno qualunque ma Giuseppe, uno dei fratelli Graviano, boss di Cosa Nostra in Sicilia, in carcere al 41bis. La notizia è stata data dal settimanale siciliano S e il senatore di cui parla Graviano è Mario Michele Giarrusso, senatore del Movimento 5 Stelle che da anni si occupa di criminalità organizzata e che in commissione giustizia ha dato battaglia (tra le altre cose) per l’inasprimento delle pene del 416bis, sulla scrittura dell’articolo 416ter (sul voto di scambio politico mafioso) e altro.
Un boss storico di Cosa Nostra, insomma, dimostra, mentre è intercettato nella sua cella, di conoscere bene i meccanismi parlamentari e individua con nome e cognome il presunto “responsabile”. Per Giarrusso questa è una medaglia da appuntarsi sul petto, senza dubbio: dispiacere ai mafiosi è sempre un bel merito, soprattutto in questo tempo di amici degli amici che si mimetizzano perfettamente.
Il buon senso quindi vorrebbe che oggi, le persone sinceramente democratiche e antimafiose, esprimessero la propria solidarietà a un uomo dello Stato (nonostante il disgustoso vizio di svilire il Parlamento per abitudine, piuttosto che alcuni suoi parlamentari) che si ritrovi in questa spiacevole situazione. E invece.
E invece continua a prendere piede quest’orribile abitudine di essere solidali solo con i propri sodali. Se la minaccia mafiosa arriva a qualche compagno di partito (o a qualcuno comunque vicino) si sventolano l’indignazione, la solidarietà e tutto il resto mentre se capita a qualcuno che non “amiamo” allora ci si impegna a sminuire o peggio ancora a non parlarne. E alla fine anche su Giarrusso i comunicati solidali arrivano da una parte sola.
Ed è un peccato. Davvero. Perché l’essere antimafiosi dovrebbe essere il prerequisito essenziale per essere candidabile, ancora prima di essere eletto e perché un uomo di mafia (che sia Graviano o altri) che esprime giudizi di questa risma contro un parlamentare sono sempre una cattiva notizia. E invece niente.
E lo dico, si badi bene, con tutta la distanza e lo sconcerto che mi separano da Grillo e da alcune posizioni politiche del Movimento 5 Stelle. E lo dico, si badi bene, con a memoria tutte le volte che con Giarrusso (e altri, mi viene in mente Giulia Sarti) mi sono confrontato con piacere sugli spinosi temi della criminalità organizzata nel nostro Paese.
Ma qui è tutto tifo. Anche la solidarietà.
Buon lunedì.
Rischio Jihad, la stretta di Pechino

Il 10 giugno, le autorità dello Xinjiang cinese hanno arrestato una decina di esponenti della minoranza etnica kazaka per «avere avuto stretti legami» con un gruppo di uiguri. L’ha riportato Radio Free Asia, citando fonti locali. I kazaki sono stati arrestati nel distretto di Dushanzi, nella città di Karamay, e sarebbero stati accusati di avere pregato insieme agli uiguri al di fuori dei luoghi consentiti, secondo recenti disposizioni della autorità che considerano «legali» solo alcune moschee.
Pochi giorni prima, sempre secondo Rfa e sempre in Xinjiang, un imam kazako di nome Akmet era morto mentre si trovava agli arresti. La versione ufficiale parla di suicidio.
Durante il mese del Ramadan – dal 26 maggio al 24 giugno – nella prefettura di Hotan, nel sud della regione autonoma, a ogni nucleo familiare uiguro è stato assegnato un funzionario che, per almeno 15 giorni, ha condiviso ogni aspetto della sua vita quotidiana. L’intento era quello di controllare che le famiglie non digiunassero e non pregassero. Nel frattempo, in tutta la regione, i ristoranti erano obbligati a restare aperti e veniva ristretto l’accesso alle moschee.
In maggio sul singaporiano Straits Times si segnalava invece il pericolo ancora presente e concreto posto dalla JI. La sigla sta per Jemaah Islamiyah, gruppo islamista che a quanto pare starebbe tornando in forze dopo essere stato decimato dalle operazioni antiterrorismo che seguirono gli attacchi contro gli hotel Marriott e Ritz Carlton di Jakarta nel 2009. Nello stesso anno l’esercito indonesiano riusciva ad uccidere Noordin Mohamed Top, il leader dell’organizzazione fondata anni prima da un ulema locale, il cui marchio è legato alla strage di Bali del 2002, rivendicata dai qaedisti. Secondo la ricostruzione del giornale, il gruppo starebbe poco a poco ricostruendo una propria struttura. Attualmente potrebbe contare su circa duemila miliziani, più o meno le stesse forze che poteva vantare all’apice della sua notorietà a cavallo del passaggio agli anni 2000 e subito dopo gli attacchi dell’11 settembre. Secondo un rapporto pubblicato in aprile dall’Ipac (Institute for policy analysis of conflict), decine di arresti condotti nel 2014 dimostrano che l’organizzazione ha la sua roccaforte a Java, con ramificazioni in tutto l’arcipelago. Il reclutamento ...

L’articolo di Ernesto Corvetti e Andrea Pira prosegue Left in edicola
Nuove professioni mafiose: il facilitatore

Si tratta di un soggetto intermedio ed autonomo, a suo modo un professionista nel mondo delle opere e dei servizi pubblici. Anche in questo caso sono venuti in rilievo professionisti qualificati che avevano un passato nel settore pubblico. In particolare, vengono in considerazione, spesso, ex politici o para-politici, ex funzionari pubblici, che, con la pregressa pratica, hanno imparato a conoscere la macchina degli apparati pubblici, i suoi tempi, i suoi meandri, i suoi passaggi. Ed hanno, quindi, amicizie nel descritto contesto, come nelle organizzazioni che a loro si rivolgono per ottenere le loro prestazioni». Sono le parole, precise e taglienti, della Relazione annuale della Direzione nazionale antimafia e terrorismo (Dna), presentata il 12 aprile del 2017 e presentata alla stampa (con tanta retorica e sempre troppa poca analisi) qualche settimana fa a Roma. Un quadro impietoso sullo stato di salute delle organizzazioni criminali nel nostro Paese (Cosa nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra corona unita e le mafie straniere) sulle risultanze investigative nel periodo che va da luglio 2015 fino a giugno 2016. Una relazione che, in una democrazia matura, avrebbe acceso i riflettori sull’incapacità politica e sociale di contrastare un fenomeno criminale che sembra essere l’unico vero filo rosso che lega l’Italia da nord a sud: le mafie stanno benissimo, sono in ottima salute e continuano imperterrite a fare affari, a stringere relazioni, a prendersi cura dei propri affiliati e a garantirsi un roseo futuro.
Ma torniamo al «soggetto intermedio ed autonomo, a suo modo un professionista nel mondo delle opere e dei servizi pubblici» che, si badi bene, non è un mafioso tout court ma compare per la prima volta nelle parole del procuratore nazionale antimafia: il «facilitatore», com’è chiamato nelle 965 pagine del documento, è l’ultima evoluzione delle mafie che hanno compreso come le relazioni e la conoscenza delle leggi (e dei regolamenti) siano molto più fruttuose delle armi e delle minacce…..

L’inchiesta di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola
Il ’77 e quella ferita ancora aperta tra partiti e movimenti. Il racconto di Giovanni De Luna

Anche se sono 40 anni esatti, l’anniversario del ’77 sta passando sotto silenzio. Per la logica che lo storico Giovanni De Luna definisce “perversa”, anche nelle date vige la regola dell’ubi maior minor cessat e quindi il 50esimo anniversario del ’68, ormai alle porte, schiaccia tutti gli altri. Eppure quell’anno, il ’77, che ha dato il nome addirittura a un movimento, è d’importanza cruciale. «Si consuma allora una rottura tra partiti e movimenti che arriva fino ad oggi», dice De Luna che ha insegnato Storia contemporanea a Torino e che è autore di Le ragioni di un decennio 1969-1979 (Feltrinelli, 2009) un libro «sospeso tra lo sguardo del testimone e il senno di poi dello storico». De Luna infatti era militante di Lotta Continua, la formazione politica scioltasi nel 1976 ma che con il suo quotidiano rimane protagonista del movimento del ’77.
Professor De Luna, si dice che il movimento italiano del ’77 sia un caso unico. O è solo l’ultimo atto del periodo di lotte che inizia con il ’68?
Ma proprio per questo è un caso unico, perché essendo l’epilogo del ’68, ne sottolinea anche la lunghezza, a differenza di altri Paesi. In Francia tutto si risolve nel maggio, negli Stati Uniti addirittura la rivolta è avvenuta prima del ’68, con Berkeley. Il ’77 si distingue anche per altri motivi. Il ’68 appartiene totalmente al Novecento, il ’77 invece ha fortissime caratteristiche postnovecentesche, è qualcosa di autonomo.
Quali sono le sue caratteristiche?
Soprattutto la frammentazione di quello che era stato l’universo del ’68, nel senso che il ’77 non propone più quel mondo, che era molto riconoscibile. Il ’68 aveva una priorità: la centralità operaia, e organizzava i movimenti e la spontaneità attorno al quel criterio. Nel ’77 tutto questo non c’è più. C’erano tante tribu che si affiancavano: le donne, gli studenti, gli operai, gli autonomi.
Questa particolarità del ’77 la si ritrova anche nel linguaggio? Lei nel suo libro parla proprio di «babele di linguaggi».
Sì, il linguaggio del ’68 era un linguaggio unitario e riconoscibile, con pezzi di vecchi linguaggi comunisti legati al mondo operaio più altri nuovi legati alla comunicazione. Tutto era molto “compatto”: dalla dimensione esistenziale alla musica fino agli abiti, direi. Nel ’77 tutto questo….

L’intervista al prof. De Luna prosegue su Left in edicola
Fine vita, la lezione inglese

«Quando ho accettato la richiesta di Fabo, sapevo di andare incontro al rischio di essere processato, così come lo sanno Mina Welby e Gustavo Fraticelli per le altre persone che abbiamo aiutato e continuiamo ad aiutare. Il processo sarà l’occasione per difendere il rispetto della libera e consapevole scelta di Fabo di interrompere una condizione di sofferenza insopportabile. Sarà anche l’occasione per processare una legge approvata in epoca fascista che, nel nome di un concetto astratto e ideologico di vita, è disposta a sacrificare e calpestare le vite delle singole persone in carne e ossa». E così per Marco Cappato, il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, è stata disposta nei giorni scorsi l’imputazione coatta per aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo per la pratica del suicidio assistito. Nel commentare la decisione del gip di Milano Luigi Gargiulo, Cappato ha espresso rispetto per la giustizia e ha annunciato che «l’azione di disobbedienza civile» che l’associazione porta avanti dal sito soseutanasia.it proseguirà «fino a quando il Parlamento non avrà avuto il coraggio di decidere sulla nostra proposta di legge di iniziativa popolare depositata ormai quattro anni fa». Già, perché come nota il tesoriere dell’associazione Coscioni «persino sul testamento biologico la politica ufficiale è incapace di assumersi le proprie responsabilità». L’isolamento della Coscioni appare palese e alla sordina mediatica imposta alle sue iniziative di civiltà – che non riguardano singoli casi ma sono sempre condotte nell’interesse della collettività – si somma il doppio gioco della politica italiana. Che sul fine vita, sin dal disegno di legge sul testamento biologico elucubrato subito dopo la morte di Eluana Englaro nel 2009, si mostra più attenta a non urtare la suscettibilità del Vaticano, che ai diritti costituzionali dei cittadini. Su tutti, quello alla salute. Non a caso le bozze di legge si impolverano in Parlamento, e non a caso anche al di fuori del Palazzo il dibattito pubblico su eutanasia e dichiarazioni anticipate di trattamento mostra un encefalogramma piatto. Salvo rianimarsi temporaneamente quando la Chiesa cattolica decide di intromettersi pubblicamente per depotenziare gli effetti di situazioni che ritiene “pericolose”. Intervenendo con le sue bocche da fuoco in maniera ideologica e antiscientifica. È accaduto con Welby, Dj Fabo e altri, e sta accadendo con il caso di Charlie Gard. “La vita è di Dio quindi un medico non può staccare la spina”. Si può tranquillamente sintetizzare così la bioetica cattolica sul fine vita. Un’idea astratta che denota indifferenza per le sofferenze cui è sottoposto inutilmente un malato terminale. Ben diversa, per dire, da quella che c’è dietro ogni azione e decisione dei medici del Great Ormond Street Hospital di Londra e dei giudici della Corte londinese che si sono pronunciati sulla opportunità di interrompere le cure palliative di Charlie per evitargli inutili sofferenze. Al centro c’è la persona, tutto ruota intorno al concetto di «child’s best interest». Questo principio ha permesso al giudice di porsi nei panni del piccolo paziente e di decidere in modo autonomo e oggettivo quale sia l’interesse prevalente per lui, avendo rilevato su istanza dei medici che i genitori – comprensibilmente disperati per la morte certa del figlio e illusi da improbabili cure testate solo su topi – non ne erano più in grado.
Charlie è vissuto intubato in rianimazione 10 mesi e due settimane dei suoi 11 mesi di vita. Al momento di andare in stampa non sappiamo fino a quando sarà tenuto artificialmente in vita. Ma sappiamo che ogni secondo della sua brevissima esistenza non è mai stato solo. Attorno a lui anche numerosi “sconosciuti”. Medici e giudici per i quali la priorità è il suo diritto alla salute e a non essere torturato da sofferenze inutili. Tutti si sono adoperati affinché gli fossero garantiti senza lasciare nulla di intentato. Fino al suo ultimo, dignitoso, respiro. Questo, in Italia non sarebbe possibile.

L’articolo di Federico Tulli è tratto da Left in edicola
Caso Chioggia, l’assessora all’Istruzione riscrive la storia a modo suo: Chi si deve vergognare sono gli antifascisti
L’imprenditore Gianni Scarpa, tristemente noto alle cronache per aver trasformato la spiaggia di Playa Punta Canna a Chioggia, in Veneto, in una succursale estiva di Predappio, è stato indagato per apologia del fascismo. Bene. In un’intervista l’assessora regionale all’Istruzione in Veneto, Elena Donazzan (Forza Italia), svuota di senso il grave episodio di cui Scarpa si è reso protagonista e la butta in farsa lanciando dalle pagine locali de Il Tempo l’idea di un party in maschera a tema anni ’30, dove indosserebbe il costume di Margherita Sarfatti, la giornalista veneta amante di Benito Mussolini. Non bene.
Del resto secondo la responsabile dell’Istruzione (sic!) in Veneto, la questione dell’antifascismo non si pone. Lo spiega chiaramente e senza pudore, con una prosa da brivido, sulla sua pagina Facebook. Ecco la perla: «Per me è allucinante che da giorni si stia parlando della diatriba fascismo/antifascismo. Fatti superati, che dovrebbero essere consegnati alla storia. Ma questa diatriba serve alla sinistra, debole e sfilacciata al proprio interno, per avere un nemico comune su cui tentare una nuova sintesi. Anche se trattasi di un nemico di 70 anni fa, poco importa. Una sinistra che fonda la propria azione contro qualcuno e non per qualcosa, non per l’Italia, non per rispondere alle priorità degli italiani. Ma a chi non arriva a fine mese o non ha il lavoro o ha una pensione da fame o si sente a disagio a vivere in città insicure e piene di clandestini allo sbaraglio, interessa davvero che venga sanzionato chi va in giro con un accendino con il volto del Duce? Siamo seri. La sinistra di governo sia seria. E al posto di promuovere leggi illiberali e liberticide come la legge Fiano dia risposte all’Italia che brucia per gli incendi. Peccato che per i tagli del governo Renzi 28 elicotteri su 32 del Corpo Forestale smantellato in modo irragionevole non possano essere utilizzati. Si vergognino». Avete capito bene, voi che ancora vi aggrappate alle disposizioni transitorie e finali della Costituzione, sappiate che gli antifascisti, secondo questa rappresentante politica di Forza Italia si devono vergognare per il solo fatto di essere antifascisti. A posto così.
Il post della consigliera veneta di Forza Italia fa seguito a quanto lei stessa poche ora prima aveva detto durante la trasmissione di Rai Tre Agorà Estate, questa mattina, definendo il caso di Chioggia una semplice goliardata (ricordiamo, per rendere l’idea, che sulle cabine della spiaggia c’è anche la scritta “camera a gas”). La Donazzan, probabilmente nostalgica di Salò, ha avuto anche il “buon gusto” di definire la Resistenza una guerra civile. E qui le ha risposto Massimo Giannini: «Non si può declinare il Ventennio in questo modo, non è accettabile. Il fascismo è una cosa seria. È stata una dittatura contro la quale c’è stata una guerra di liberazione, e per fortuna ci siamo liberati. Definire il ventennio guerra civile è una chiara volontà di manipolare la storia».
Una petizione per sostenere la lotta del Baobab in difesa dei diritti di rifugiati e richiedenti asilo

Ci sono stati venti sgomberi, ma la lotta del Baobab in difesa dei diritti di rifugiati e richiedenti asilo prosegue con coraggio. I volontari del Baobab Experience hanno lanciato una petizione online indirizzata all’amministratore delegato e al direttore generale delle Ferrovie dello Stato chiedendo di poter utilizzare per le proprie strutture il parcheggio abbandonato dietro la stazione Tiburtina di Roma, ribattezzato Piazzale Maslax, dove da mesi il Baobab ospita i migranti transitanti in strutture di fortuna. La petizione ha già raggiunto i 17.000 sostenitori, ma i volontari del centro Baobab vogliono raggiungere una cifra dal forte valore simbolico: 17.311 firme, quante sono le persone morte in mare dal 2015 a oggi. Un simbolo forte per portare avanti una proposta coraggiosa che potrebbe segnare una svolta nella realtà dell’accoglienza romana: un modo per accostare ognuna di quelle 17.311 persone morte in mare a un altro nome, un nome di qualcuno che crede si possa ancora fare qualcosa per accogliere dignitosamente quanti ce lo chiedono.
I volontari del Baobab sono pronti ad attrezzare un presidio umanitario in pochissime ore grazie all’enorme rete di associazioni mediche e legali, alle Ong internazionali e ai cittadini che sono solidali con il centro che è ormai diventato un punto di riferimento nel panorama romano e che da mesi accoglie i migranti con sistemazioni di fortuna in un parcheggio abbandonato. Questo spiazzo è stato ribattezzato dai volontari “Piazzale Maslax” in ricordo di Maslax Moxamed,un giovanissimo ospite del Baobab, che lo scorso marzo si è tolto la vita a 19 anni in un parco di Roma. Maslax era arrivato nella Capitale ad agosto dopo un lungo viaggio dalla Somalia per raggiungere la sorella in Belgio, ma una volta arrivato, a causa del regolamento di Dublino, è stato rispedito a Roma.
Nei campi del Baobab sono passate più di 70.000 persone che hanno avuto accesso a cure mediche, assistenza legale, cibo e riparo per la notte. Donne e uomini in transito verso altri paesi europei o che richiedono asilo in Italia e che, senza i volontari del Baobab, sarebbero abbandonati a loro stessi. Come Left aveva raccontato, alle 7.30 di mattina del 19 giugno il Baobab è stato di nuovo sgomberato, raggiungendo un triste record: si è trattato del ventesimo sgombero in due anni. Una persecuzione continua contro un centro che potrebbe rappresentare l’esempio di un nuovo modello di accoglienza di fronte ai fallimenti di un sistema politico che stenta a dare risposte concrete per affrontare quest’emergenza.
Baobab Experience nasce dall’ex centro Baobab di via Cupa, un centro d’accoglienza autogestito per migranti che tra il 2015 e il 2016 ha accolto più di 35.000 persone. Lo scorso 30 settembre il centro di via Cupa è stato però definitivamente sgomberato e dopo vari spostamenti e presidi di fortuna il Baobab si è “insediato” nel parcheggio di Piazzale Maslax, dove i volontari sono riusciti a garantire accoglienza fino allo scorso giugno, quando, per un rimpallo di responsabilità tra Ferrovie dello Stato e Questura, sono stati sgomberati di nuovo. Ora i volontari del Baobab chiedono aiuto alle Ferrovie della Stato, consci che anche dopo venti sgomberi, la situazione nella Capitale non è migliorata: la sicurezza non è aumentata, né i servizi che vengono offerti, mentre non sono certamente diminuiti gli arrivi, che anzi, continuano sempre più numerosi.
La petizione, che ha in breve raggiunto un numeroso gruppo di sostenitori, raccoglie anche le firme di personaggi noti, dall’ex sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, a Susanna Camusso, Valerio Mastrandea, Ilaria Cucchi, Sabina Guzzanti, Giuseppe Civati, Valeria Golino, Stefano Fassina. Si spera che, almeno questa volta, si decida di dare spazio a chi da anni, dà garanzie e sicurezze a chi arriva nel nostro paese.
“Primavera progressista”: l’avventura degli under 30 che vogliono riunire la sinistra
Costruire una rete di under 30 per rimettere insieme i cocci di ciò che sta a sinistra del Pd ripartendo dai giovani e dai territori. Ennesimo slogan incartapecorito, annotato da cronisti a margine di un comizio di partito? No, è un giovane ravennate a dirlo. Alan Arrigoni, 18 anni, III liceo classico. Ma non è da solo: al suo fianco i cento ragazzi che hanno firmato il suo appello “Per la Sinistra unita”, nei primi due giorni dalla pubblicazione. «Ragazzi contattati in giro per l’Italia e impegnati in partiti differenti, da Articolo 1 a Possibile, dai Verdi a Sinistra italiana – spiega Alan a Left – ma anche attivisti di formazioni civiche e del mondo del volontariato».
L’obiettivo è titanico, ma il suo accento romagnolo non tradisce timore. «Chiediamo agli schieramenti che si collocano a sinistra responsabilità, unità e un progetto alternativo al Pd chiaro, di governo e lungimirante, che non nasca con l’obiettivo di un cartello elettorale destinato a vita breve» si legge nell’appello. «Un fronte comune che parta dal basso e dai territori, in quanto mosse politiciste e scelte calate dall’alto non possono che risultare perdenti in partenza, che sappia prendere decisioni nette e che sia in grado di coinvolgere i milioni di elettori progressisti sfiduciati, disorientati o accasatisi al M5S, mettendo al centro contenuti validi e proposte credibili». E la rete di giovani battezzata da Alan “Primavera progressista”, composta per ora dai sottoscrittori dell’appello e dai blogger del sito, dovrebbe rappresentare un esempio, l’innesco di questo percorso virtuoso. Ma, prima ancora, uno spazio di discussione e di confronto tra giovani che antepongono ciò che li unisce da ciò che divide.
«Inizialmente pensavo fosse utopistica – confessa il ravennate – ma la risposta positiva che ha avuto mi ha stupito». Oltre ai cento firmatari, ci sono le 1100 – 1200 visualizzazioni del sito (https://primaveraprogressista.wordpress.com). «Tutto è partito dai social network e dai canali che permettono comunicazioni rapide», ma al più presto il terreno del confronto si potrebbe spostare nel mondo analogico. «Siamo ai primi step, bisognerà vedere come organizzarsi, si pensava ad una associazione, ma decideremo tutto dopo una assemblea, si pensava a settembre». Un progetto che vorrebbe essere un modello per la sinistra “dei grandi”, troppo spesso rottamatrice soltanto a parole. Alan conosce da vicino i meccanismi della politica, è consigliere territoriale di “Sinistra per Ravenna” e vicepresidente della commissione “Scuola cultura e sport” della sua circoscrizione. E su come i partiti trattano le “nuove leve” non le manda a dire. «Il ruolo delle giovanili di partito – il tono diventa più tagliente – è stato un po’ svilito. Non possono solo chiudersi in una stanza per capire come far prendere il 3-4 percento al proprio partito. Noi stessi dovremmo stare attenti ad evitare questa scelta perdente, in futuro».
Quello che apre Alan è lo spaccato di una politica che è riuscita a rendere l’imperativo “spazio ai giovani” un motto tanto diffuso quanto vuoto. Ma gli under 30 che rifiutano questa logica ci sono «A differenza dello stereotipo dei giovani, sono in tanti ad avere questa esigenza». E il rifiuto è anche verso la frammentazione: «Siccome c’è un vuoto completo di organizzazione trasversali, noi vorremmo colmarlo».
Per questi motivi la critica non è diretta solo al Pd – «chi dice che il Pd è argine ai populismi sbaglia, sono proprio le sue politiche liberiste che portano consenso ai populisti» – ma anche al progetto di Pisapia: «Rifondazione comunista muoveva perplessità su Pisapia per esempio, noi non vorremmo escludere nessuno». I tre pilastri fondamentali della sinistra che verrà dovranno essere: unità, il ripartire dal basso (dalle fabbriche, dalle periferie), l’essere alternativi Pd (considerato un partito centrista, verticista e liberista). E poi, un europeismo critico ma convinto dalla maggior parte del gruppo, e il rifiuto convinto del leaderismo.
Anche la loro pagina internet rispecchia la voglia di unità, persino quella tra generazioni: in alto in apertura c’è un sorridente Berlinguer. «L’emblema della nostra sinistra», lo definisce. Non proprio un personaggio giovane, e non proprio un “anti-leader”, bisogna ammettere. Ma forse la loro scelta è eloquente. I giovani hanno bisogno di organizzarsi, di costruire i propri simboli. E, quando non hanno spazio, provano a costruirlo senza chiedere permesso.


