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Le scuse per Genova e il sangue raffermo

Franco Gabrielli, a nome della Polizia di Stato, ha chiesto scusa. «Un’infinità di persone subirono violenze che hanno segnato le loro vite. In questi 16 anni non si è riflettuto a sufficienza. E chiedere scusa a posteriori non è bastato», ha dichiarato in un’intervista a Repubblica che, almeno, ristabilisce la verità sulla macelleria della Diaz, di Bolzaneto e su una parentesi della democrazia che ancora oggi in molti si ostinano a negare.

L’ha fatto, Gabrielli, mettendo le parole al posto giusto, chiamando le cose per nome: «tortura» per Bolzaneto, «catastrofe» la gestione dell’ordine pubblico, «infelice» la scelta di Genova come luogo per il G8, vista la sua conformazione urbanistica e «sciagurata» la scelta dell’irruzione come metodo operativo.

In pratica, lo dice il capo della polizia, sono consapevolmente bugiardi tutti coloro che in questi 16 anni hanno voluto farci credere che davvero a Genova fosse tutto «normale». E non parlo solo dei condannati (condannati, si fa per dire, visto che alcuni del cordone di comando hanno addirittura ottenuto sonanti promozioni) ma anche e soprattutto di tutti coloro (politici compresi) che per salvare la polizia hanno dannatamente sfigurato la realtà dei fatti. Bugiardi, schifosi, per una carezza servile alle forze dell’ordine e oggi il capo della polizia gli risponde prendendoli a pesci in faccia. Pensa te.

Ma l’aspetto più interessante dell’intervista di Gabrielli è un altro, quando dice di immaginare «una polizia che non ha e non deve avere paura degli identificativi nei servizi di ordine pubblico, di una legge, buona o meno che sia, sulla tortura, dello scrutinio legittimo dell’opinione pubblica o di quello della magistratura».

Dall’esperienza, del resto, si dovrebbero trarre le conclusioni per scrivere le leggi e, ad oggi, ci ritroviamo tra le mani una pessima legge sulla tortura e un solido “partito della Polizia” che attraversa sia la destra che la sinistra. Se è vero che le scuse seppur tardive non possono che rinfrancare è pur vero che la politica, da tempo, considera Genova (ma anche Aldrovrandi, Cucchi e tutti gli altri) dei banali “incidenti di percorso”.

E vedrete che lo faranno anche con questa intervista di Gabrielli.

Fermi. Fermi loro. E il tanto il sangue che si fa raffermo.

Buon giovedì.

«Io alla Diaz c’ero, quella del capo della polizia non è una presa di coraggio»

Dopo 15 anni apre al pubblico la scuola Diaz per un convegno sul G8, 21 luglio 2016 a Genova. ANSA/LUCA ZENNARO

«Non la accetto come una presa di coraggio, non la è». A parlare è Lorenzo Guadagnucci, giornalista vittima delle torture avvenute all’interno della scuola Diaz nel G8 di Genova nel 2001. Guadagnucci che da anni porta avanti una strenua lotta per avere giustizia, risponde così a Left nel commentare l’intervista, pubblicata oggi su Repubblica, in cui il capo della polizia Franco Gabrielli ammette le responsabilità della polizia per i fatti del G8 di Genova.
«Gabrielli fa qualche ammissione di responsabilità, ma è anche un’intervista piena di omissioni» dice Guadagnucci. «L’unica novità positiva è il giudizio che lui dà sulla gestione di De Gennaro: Gabrielli oggi dice che Gianni De Gennaro avrebbe dovuto dimettersi. E questo è ciò che tutti noi chiedevamo già 16 anni fa. De Gennaro non ha fatto il bene delle forze dell’ordine con le sue scelte, peraltro assecondate dal potere politico, e così, con questa affermazione, Gabrielli chiude finalmente “l’era De Gennaro” della polizia».

«Il punto sul quale non sono assolutamente d’accordo» continua Guadagnucci, «è quando Gabrielli dice che siamo in una fase ulteriore rispetto a quando la polizia ha fatto le proprie scuse per quanto accaduto. Ma queste scuse non ci sono mai state: Gabrielli, come tanti altri, fa riferimento a una frase del 2012 in cui Manganelli, al momento delle condanne definitive per la Diaz, ha detto che “era arrivato il momento delle scuse”. Ma questo non vuol dire scusarsi, anche in italiano dire “è il momento delle scuse” non significa scusarsi».
Infatti per «chiedere scusa bisogna chiarire per che cosa e a chi si chiede scusa: questi non sono dettagli. Per che cosa si chiede scusa? Per le violenze dentro alla scuola Diaz o per le falsità che hanno accompagnato le violenze alla scuola Diaz? Per l’ostacolo alla giustizia che è stato attuato per 10 anni nei tribunali di Genova o per i mancati provvedimenti disciplinari verso i responsabili dei fatti? Ci sono tanti motivi per cui chiedere scusa».
Ed è importante specificare anche a chi si chiede scusa. «Immagino si chieda scusa a chi era dall’altra parte dei manganelli, a chi ha subito violenze fisiche, ma sarebbe interessante sapere se si chiede scusa anche a tutti i cittadini italiani per aver esercitato una funzione pubblica in maniera immorale, oltre che illegale. C’è anche da chiedere scusa a chi lavora in polizia e vorrebbe avere dei dirigenti che si prendano le loro responsabilità tempestivamente».

Tutto questo non c’è stato, non è mai avvenuto, al contrato di quanto dice Gabrielli. «Non siamo assolutamente nella fase che Gabrielli sembra voler indicare: non è ancora arrivato il momento di mettere il punto su quanto accaduto al G8 di Genova, siamo lontanissimi dal mettere un punto», afferma Guadagnucci. «Non è accettabile dire che ci siano state delle condanne esemplari per i fatti della Diaz e delle condanne modeste per i fatto di Bolzaneto: non è così, non c’è stata nessuna condanna esemplare. Gabrielli parla di condanne esemplari, ma quali sono state? Ci sono state condanne massime a 5 anni, mentre la maggioranza sono state inferiori e alcune addirittura sono coperte dalla prescrizione. Nel 2015 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea di Strasburgo e il mese scorso è stata condannata anche per la lieve entità delle pene inflitte per i fatti della Diaz e di Bolzaneto: 5 anni, di cui 3 coperti dall’indulto non sono assolutamente una pena esemplare. E dato che a Bolzaneto va tutto in prescrizione, non si può parlare di “condanne modeste”: questa è impunità».

Il testo di legge con l’articolo 613-bis che introduce il delitto di tortura è stato approvato, suscitando molte critiche, il 17 maggio scorso al Senato. «Le dichiarazioni di Gabrielli sono colpevolmente tardive» dice Guadagnucci. «Se è vero che la polizia di Stato è disposta a confrontarsi, come è scritto in un passaggio dell’intervista, ad accettare una buona legge sulla tortura, allora Gabrielli avrebbe dovuto fare queste dichiarazioni prima che questa legge sulla tortura venisse approvata. Quella che è passata infatti è una legge truffa, e se queste dichiarazioni fossero state fatte in precedenza, magari il Parlamento avrebbe approvato una buona legge sulla tortura, al contrario di questa che la tortura nemmeno la punisce. Basti infatti pensare alla lettera che i magistrati che si sono occupati dei processi della Diaz e di Bolzaneto hanno scritto alla presidente della Camera, Laura Boldrini, prima che la legge fosse approvata, spiegando che questa legge, scritta così, non avrebbe potuto essere applicata in questi due processi. La legge sulla tortura in Italia è stata voluta dopo i fatti del G8 di Genova ed è un paradosso enorme che questa legge non avrebbe potuto essere applicata in questi due casi. Questa legge è una truffa».

I vaccini polivalenti sono sicuri. Elena Cattaneo, da scienziata, zittisce i senatori antivax

Elena Cattaneo, durante l'esame del ddl sulle riforme, Roma, 16 Luglio 2014. ANSA/ RICCARDO ANTIMIANI

«L’idea del sovraccarico vaccinale è priva di fondamento scientifico», «i vaccini trivalenti, quadrivalenti, esavalenti sono sicuri e ben tollerati, anche dalle persone già immuni». Elena Cattaneo – biologa e ricercatrice, nonché senatrice a vita e baluardo scientifico per quanto riguarda il fascicolo vaccinazioni – è intervenuta così oggi pomeriggio al Senato, per rispondere alla pioggia di critiche arrivate dalle opposizioni (ma non solo) nei confronti del decreto sui vaccini obbligatori in discussione a Palazzo Madama.

La battaglia si gioca sul tema delle “dosi monocomponenti”, ossia dei vaccini che possano garantire la copertura medica senza che sia necessario inoculare contemporaneamente anche prodotti contro malattie per le quali già si è immunizzati in precedenza. In prima fila la Lega Nord, che teme che l’ostilità del governo nei confronti dei vaccini in versione multipla sia in realtà una mossa per avvantaggiare le case farmaceutiche, senza un reale beneficio per la salute della cittadinanza.

In risposta, la senatrice a vita elenca – da scienziata – alcuni casi di specie. Tra i militari ad esempio, notoriamente “iper-vaccinati”, non sono stati rilevati scostamenti statistici per quanto riguarda malattie autoimmuni, allergie e altre malattie in genere. Per produrre i vaccini inoltre – commenta Elena Cattaneo – serve un grosso investimento, e l’industria dei vaccini rappresenta solamente l’1% della spesa sanitaria nazionale, pertanto «le case farmaceutiche non diventano ricche con i vaccini». Non esistono altri Paesi che stiano andando nella direzione dello sviluppo di vaccini monocomponente, e anche l’Inghilterra si sta valutando l’opzione esavalente.

 

Istanbul come Guantanamo: così Erdogan vuole vendicasi del golpe 2016

epa06090466 Turkish President Recep Tayyip Erdogan speaks during a ceremony to mark the first anniversary of Coup attempt on 15 July, in front of the Turkish Parliament in Ankara, Turkey, early 16 July 2017. The 15 July 2017 events mark the first anniversary of the failed coup attempt which led to some 50 thousand workers being dismissed, some eight thousand people arrested, and scores of news outlets shut down by the government. Turkish President Recep Tayyip Erdogan blamed US-based Turkish cleric Fetullah Gulen and his movement for masterminding the failed coup and Turkey remains under a state of emergency as a result. EPA/TUMAY BERKIN

Il sultano che un anno fa si è salvato grazie a uno smartphone e un video ritrasmesso dalla Cnn turca, ora ripete più volte dal palco alla folla oceanica, come la regina di Alice del paese delle meraviglie: tagliategli la testa. «Il golpe del 15 luglio 2016 non è stato il primo attentato contro il nostro paese, non sarà l’ultimo. Ma prima taglieremo le teste dei traditori, taglieremo le loro teste» dice Tayyip Erdogan. È questo il dizionario del presidente della Turchia.

Era previsto che il suo discorso cominciasse alle 2.32 di notte, l’esatto momento in cui l’attacco aereo 365 giorni fa colpiva il Parlamento, durante il tentativo di colpo di stato, ma Erdogan ha tardato di 49 minuti. Non ha colto l’attimo, ma è comunque diventato l’uomo del momento, di nuovo: alla commemorazione c’erano decine di migliaia di persone. Festeggia anche chi non vorrebbe, per paura di essere accusato di complicità. Per Erdogan il 15 luglio, un anno dopo, è il giorno della sua resurrezione, del suo destino ed è anche la fine del ramadan. Le bandiere turche coprono edifici di 20 piani. È celebrazione totale sul Bosforo. Da quella notte la repubblica di Erdogan ha vacillato ogni giorno di più, per poi smettere di esistere a poco a poco.

«I prigionieri dovrebbero essere vestisti come a Guantanamo», continua il dittatore. La folla applaude. Ha invitato ad ascoltarlo 300 giornalisti stranieri: russi, tunisini, egiziani, sudanesi, bosniaci, kirghisi, boliviani, argentini e pakistani. Gli occidentali si contano sulle dita di una mano.

La stessa notte di un anno dopo suona la musica e sventolano le bandiere contro chi ha fallito. Del putsch che non è riuscito è accusato Fethullah Gulen, con altre 50mila persone ora in prigione e 150mila licenziati. Ce ne sono altri, che tentano la via dell’esilio. Tra gli arrestati dell’ultimo mese spiccano due figure apicali di Amnesty international: il presidente dell’organizzazione locale, l’avvocato Taner Kilic, che in aprile aveva difeso il blogger italiano Gabriele Del Grande; e più di recente, dieci giorni fa, l’intero vertice di Amnesty Turchia, compresa la direttrice Idil Eser.

Nel 2016 250 persone sono morte per essersi opposte al tentativo di “ecoup d’etat” e sono diventate oggetto di culto organizzato dallo Stato: «Fino al 15 luglio erano i nostri figli, dal 16 sono i figli di tutta la Turchia» ha detto a Liberation la madre di uno dei 250 sehit, quelli che chiamano i martiri turchi, soldati e poliziotti che hanno «perso la vita per il paese: ora scuole, strade portano il loro nome».

«Devono pagare, noi chiediamo le esecuzioni» è la chiamata per la vendetta del presidente, che cita sermoni del Corano su traditori, martirio e resistenza. Per il nemico vuole la pena capitale. La martirologia fa parte della propaganda del leader, della storia di un Paese: «Il presidente Erdogan ha reso il 15 luglio la data commemorativa della nuova Turchia e del suo regime, i martiri di questa Turchia donano sacralità, una sacralità per i suoi abusi. Regolarmente Erdogan evoca il dovere di vendicare quei martiri, per giustificare tutte le operazioni eccezionali compiute in stato di emergenza» dice il politologo Ahmet Insel.

Temmuz, luglio è la parola del potere: quello che fa il sultano è proporre l’epopea del 15 luglio in televisione e sui giornali, per convincere il popolo turco di essere l’uomo della provvidenza e quella di Temmuz sarà ogni volta la festa della democrazia e unità nazionale.

Kemal Kilicdaroglu ha la stessa bandiera turca rossa e un’altra parola: adelet, giustizia. Ha guidato una marcia per quasi 500 chilometri d’asfalto, è stata percorsa da centinaia di migliaia di persone che chiedevano un altro volto per il loro paese ed è riuscito a mettersi a capo di un’opposizione divisa e del partito ereditato da Mustafa Kemal Ataturk. «Faremo uscire Erdogan dal suo palazzo, vinceremo le elezioni del 2019» ha detto, proprio quando, prima di tutto questo, la sua carriera sembrava essere al crepuscolo. Due Turchie, due in una o una dentro l’altra.

Delrio: se questo è un ministro

Scritto volutamente minuscolo. Delrio ieri ha testimoniato nell’ambito del processo Aemilia per raccontare di quella sua visita all’allora prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro in cui prese le difese degli imprenditori cutresi, alcuni dei quali si rivelarono mafiosetti poco raccomandabili. Delrio si è difeso dicendo che «non era in discussione lo strumento delle interdittive», bensì «il fatto che nella comunità dei cutresi non ci fossero persone perbene». «A fronte di una crescita dell’opinione pubblica – ha detto Delrio – e di notizie allarmanti che emergevano sulla stampa, qualcuno si sentiva ingiustamente accomunato ai delinquenti e questo è un fenomeno da stigmatizzare perché i cittadini reggiani sono sia di origine cutrese che non. Quelli che fanno i delinquenti lo fanno e le persone perbene non devono dire da dove vengono per dimostrarlo». In pratica il ministro ci dice che da sindaco si è preoccupato più di difendere i cutresi dal rischio di ghettizzazione piuttosto che preoccuparsi dei segnali che la prefettura gli inviava in tema di criminalità organizzata.

Delrio ha anche minimizzato il suo viaggio a Cutro (mentre era sindaco di Reggio Emilia) dichiarando di avere ricevuto numerosi inviti. Non c’è che dire: dalle dichiarazioni emerge una consapevolezza quasi nulla sul pericolo mafioso. Beato lui. «Un sindaco non può rendersi conto delle infiltrazioni mafiose solo perché il prefetto adotta i provvedimenti o perché viene il dottor Gratteri a parlare del pericolo», aveva dichiarato nel 2012 il magistrato antimafia Roberto Pennisi.

E oggi quella frase sembra vera più che mai.

Solo che questo, alla fine, è diventato ministro. Per dire.

Buon mercoledì.

Lavoro, una ricerca della Ue conferma: l’Italia non è un Paese per giovani

Cresce la disoccupazione giovanile

L’indagine 2017 sull’Occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa (Esde) pubblicata dalla Commissione Ue conferma l’Italia come patria dei Neet (Not engaged in Education, Employment or Training): i giovani tra i 15 e i 24 anni che non cercano un lavoro né sono impegnati in un percorso di studi o formazione. Quasi un giovane su cinque in Italia fa parte dei Neet e la media italiana è notevolmente più alta (19,9%) rispetto a quella europea (11,5%). Secondo lo studio, tra il 2015 e il 2016 in Italia è aumentato anche il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema (11,9%): unico caso in Europa con Estonia e Romania. E la disoccupazione tra i 15 e i 24 anni nel 2016 è stata del 37,8%, in calo rispetto al 40,3% del 2015, ma che comunque si classifica terza in Europa, dopo Grecia (47,3%) e Spagna (44,4%).

Secondo questi dati, sembrerebbe quindi che i giovani italiani non vogliano lavorare, né studiare. Purtroppo o per fortuna però non è così, ci sono infatti gravi e numerosi fattori che condizionano le loro scelte. Primo fra tutti, i giovani hanno sempre più difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro e anche qualora ci riescano la situazione è ben diversa da quella che ci si aspetta. Chi riesce ad ottenere un impiego infatti si trovano nella maggior parte dei casi a firmare contratti temporanei: una soluzione atipica e ad alto rischio precarietà. In più del 15% dei casi i giovani lavoratori hanno contratti a tempo determinato di qualche mese, che comportano anche una minore copertura previdenziale.

Un altro dato significativo e preoccupante per quanto riguarda l’occupazione giovanile è che chi è così fortunato da trovare un impiego guadagna in media il 60% in meno rispetto ad un lavoratore ultrasessantenne. Inoltre con tutta probabilità le nuove generazioni avranno pensioni più basse rispetto alla loro remunerazione e l’indagine dell’Esde prevede che da oggi al 2060 assisteremo ad un calo dello 0,3% annuo della popolazione in età lavorativa. Ad attenderci sarà quindi un futuro in cui una forza lavorativa ridotta dovrà fronteggiare un numero sempre crescente di anziani a cui pagare la pensione.

La conseguenza è che i giovani italiani si rendono indipendenti e diventano a loro volta genitori tra i 31 e i 32 anni, molti anni più tardi rispetto ad una decina di anni fa e molto dopo la media europea: i giovani europei infatti vivono da soli e fanno figli già dai 26 anni. A questo si aggiunge un sistema scolastico che abbandona lo studente una volta finiti gli studi superiori e che non prevede veri e propri percorsi che aiutino lo studente a trovare la propria strada per il futuro. Inoltre in media chi riesce a laurearsi aspetta almeno 36 mesi prima di trovare un impiego (se si è abbastanza fortunati da averlo) e anche chi è in questo limbo risulta essere parte dei cosiddetti Neet.

Questa grande fetta di giovani ovviamente ha un costo significativo per lo Stato: circa 36 miliardi di euro, pari al 2% del Pil. Secondo il rapporto Young workers index di PricewaterhouseCoopers del 2016 per far crescere il Pil del nostro Paese dal 7 al 9% sarebbe sufficiente trovare un lavoro a questi giovani Neet. Secondo la stimata società di consulenza infatti i Neet rappresentano un enorme spreco per le casse del nostro Stato: sono un valore potenziale pari a mille miliardi di dollari. A riuscire nel difficile compito di impiegare questa enorme forza lavorativa è stata, ad esempio, la Germania che oggi è il secondo miglior paese (dopo la Svizzera) per le opportunità offerte ai giovani. Negli ultimi anni la Germania è riuscita a rilanciare i propri giovani partendo da un programma scolastico in cui viene dato ampio spazio all’alternanza scuola-lavoro: oltre il 50% degli studenti tedeschi sono infatti coinvolti in periodi di formazione in aziende.

L’alternanza scuola-lavoro è stata una delle principali innovazioni della riforma della cosiddetta Buona Scuola voluta da Renzi che ha destato varie polemiche, ma che in Germania sembra essere stata una carta vincente per inserire i giovani nel mercato del lavoro. Per capire se effettivamente questa riforma possa funzionare è ancora presto: ci vorrà qualche anno per capire se effettivamente la riforma aiuterà l’Italia a sbloccare la precaria condizione dei Neet. Il quadro emerso dall’inchiesta presentata lo scorso 29 maggio dall’Unione degli studenti non è però rassicurante. Lo studio, svolto su 15mila studenti di scuole superiori di nove regioni italiane (Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Sardegna, Sicilia, Campania, Puglia) riporta che il 57% dei ragazzi intervistati ha partecipato a percorsi di alternanza scuola-lavoro non inerenti al proprio percorso di studi, mentre 4 studenti su 10 ammettono di non essere stati messi nelle condizioni di poter studiare, oltre a lavorare, o di essere seguiti da un tutor, entrambi diritti che gli sarebbero dovuti essere stati garantiti per legge.

Nelson Mandela Day, una festa a cui siamo tutti invitati

epaselect epa05689887 A view of the memorial depicting Nelson Mandela at the place where he was arrested near Howick, South Africa, 28 December 2016. The first black president of South Africa, Nelson Mandela, was arrested at this place on 05 August 1962 and went on to spend 27 years in prison before being released and leading the country into its first four years of political freedom after the Apartheid system was abolished. EPA/KIM LUDBROOK

Dal 2009 ogni anno il 18 luglio si celebra il Nelson Mandela international day, una giornata internazionale istituita ufficialmente dalle Nazioni Unite, perché il 18 luglio del 1918 nasceva colui che è universalmente riconosciuto come un simbolo di giustizia, tenacia e coraggio. Nelson Madiba Mandela, questo il suo nome completo – perché ricevette dagli anziani della sua tribù sudafricana il titolo onorifico di “Madiba” – é un uomo che ha cambiato non solo il suo Paese, ma il mondo intero, con le sue azioni ed il suo esempio.
La decisione delle Nazioni Unite nacque con la speranza che l’esempio del presidente africano e premio Nobel potesse essere imitato e messo in atto almeno per un giorno all’anno, in ogni angolo della terra: ogni persona dovrebbe sapere che, volendo, ha il potere di cambiare il mondo con le sue buone azioni; se ognuno di noi aiutasse gli altri, come ha fatto Mandela nei suoi 67 anni di vita, le azioni di solidarietà e pace potrebbero diventare globali. Questo l’obiettivo dell’Onu.

Mandela ha lasciato in eredità valori inalienabili e imprescindibili dall’essere umano come la difesa della vita e della dignità personale, la difesa per la pace, il rifiuto di razzismo e oppressione. A 22 anni Mandela scelse di lottare in prima persona per la liberazione dal regime, divenendo uno dei più noti attivisti anti-apartheid in Sudafrica. Poi, fuggito dal suo villaggio, decise di studiare Giurisprudenza a Johannesburg e presto aderisce all’African national congress (Anc). Proprio per aver speso la sua vita ribellandosi al regime e alle ingiustizie nei confronti dei neri africani, venne imprigionato nel 1964 nella prigione 466, sull’isola di Robbennel, e fu liberato dal carcere soltanto nel 1990. Con la sua condotta e le sue lotte ha guidato la transizione del Sudafrica verso una democrazia multirazziale e nel 1993 ottenne il Premio Nobel per la pace, insieme all’ex presidente sudafricano Frederik Willem de Klerk. Mandela, sempre in prima linea contro la repressione del regime bianco sui neri, fu eletto presidente del Sudafrica nel 1994, in carica fino al 1999 ed è stato anche padre di 4 figli, dei quali ne perse 3 a causa dell’Aids, malattia contro la quale ha lottato tutta la vita. Tra le iniziative del Mandela Day rientra anche la campagna “46664”, in riferimento al numero di prigione (e all’anno di imprigionamento) di Robben Island, una campagna lanciata inizialmente per aumentare la consapevolezza dell’HIV/AIDS ma anche per ricordare lo sforzo di un uomo contro il razzismo.

Organizzazioni e associazioni di tutto il mondo partecipano alle molte attività organizzate appositamente per il Nelson Mandela day, per onorare il suo lavoro e per promuovere progetti umanitari, soprattutto dedicati a raccogliere fondi e donazioni per agire tutti insieme contro la povertà. Naturalmente non mancano iniziative e omaggi dedicati a Mandela, come la statua che si trova a Nelson Mandela Square a Johannesburg, in Sudafrica o il ponte omonimo, sempre a Johannesburg o i francobolli a lui dedicati.

Russian gate: tutti gli uomini dei due presidenti

epa06073408 Russian President Vladimir Putin (L) and US President Donald J. Trump (R) meet on the sidelines of the G20 summit in Hamburg, Germany, 07 July 2017. The G20 Summit (or G-20 or Group of Twenty) is an international forum for governments from 20 major economies. The summit is taking place in Hamburg from 07 to 08 July 2017. EPA/MICHAEL KLIMENTYEV / SPUTNIK / KREMLIN POOL / POOL MANDATORY CREDIT

All’alba del mattino del 16 luglio, gli Stati Uniti d’America si sono svegliati al grido cinguettato del loro presidente che li informava che «#FakeNews is distorting democracy in our country» (le fake news stanno distorcendo la democrazia nel nostro Paese). Eppure, dietro l’ennesimo tweet contro i media, c’è proprio l’azione di un giornalista, un vecchio amico della famiglia Trump, che cercava di aiutare Donald durante la campagna elettorale, quando era solo un candidato improbabile del partito, su cui nessun repubblicano voleva scommettere. È il 2016 quando il reporter di un tabloid inglese, Rob Goldstone, intermediario tra il clan di The Donald e affaristi russi, manda un messaggio al figlio dell’attuale presidente degli Stati Uniti: ci sono documenti ufficiali e informazioni utili, dice, contro la candidata democratica nella battaglia presidenziale, Hillary Clinton. Queste informazioni, dice Rob, sono «sensibili», «di alto livello, e sarebbero utili a tuo padre». Tutto ciò fa parte «del sostegno del governo russo per Trump». Un contributo che, risponde Donald junior, «ama, soprattutto a fine estate». Il cerchio del Russian Gate, come un cappio politico, si sta facendo sempre più stretto intorno ai Trump e tutto quello che lo riguarda è ormai una specie di segreto pubblico.
È così – ha scoperto il New York Times – che Trump figlio ha incontrato nella torre che porta il suo nome, l’avvocatessa Natalia Veselnitskaya, 42 anni, moscovita, laureata in legge nel 1998, dirigente della Camerton, società legale privata, amica del procuratore generale nominato da Putin, Yuri Chaika. Si incontrano d’estate al 25esimo piano della T tower: sopra le loro teste c’è l’ufficio di Trump padre, dietro di loro, invece, c’è un altro avvocato e un’altra epoca di corruzione e ritorsioni di Washington contro Mosca.

Serghey Magnitsky aveva 36 anni quando è morto in un carcere moscovita nel 2009 in circostanze misteriose. Nonostante fosse morto, per la prima volta nella storia e in contrasto con lo stesso diritto penale, la sentenza del reato di cui era accusato – frode fiscale – venne comunque emessa. Anche un altro provvedimento legale però portava il suo nome: la legge firmata da Barak Obama nel 2012, passata alle cronache come il Magnitsky act, una lista nera di ufficiali russi, coinvolti nella violazione di diritti umani. La risposta in arrivo da Mosca a quella decisione dell’ex presidente è stata il divieto di adozione dei bambini russi per le famiglie americane. Nei casi di corruzione su cui indagava il deceduto Magnitisky erano coinvolti membri e ufficiali del governo Putin e la donna che incontra il figlio di Donald Trump nel 2016 è arrivata negli Stati Uniti già un anno prima, proprio per difendere uno di loro: il figlio di un esponente governativo, Denis Katsyv, alla sbarra del tribunale USA con l’accusa di aver riciclato denaro sporco per 14 milioni di dollari, dopo averne frodati 230, con la sua società Prevezon.

All’incontro con Trump junior e l’avvocatessa di Mosca partecipa anche Anatoly Samochornov, un traduttore che aveva lavorato sia con la Veselnitskaya che con il dipartimento di Stato americano, e un presunto ex agente della GRU, i servizi segreti russi, Rinat Akhmetshin, che ha doppio passaporto, sia russo che americano, e molti interessi, dopo essere diventato lobbista a Washington.

Akhmetshin smentisce alla stampa: ha servito nell’esercito dell’Armata Rossa dal 1986 al 1988, dove non è mai stato addestrato per diventare una spia, ha solo partecipato a qualche operazione di controspionaggio nel Baltico. All’incontro ai piani alti ci sono otto persone e una cartellina di plastica: le informazioni “high level”, compromettenti e dannose su Hillary e sui finanziamenti illeciti finiti al suo comitato, sono state stampate e trasportate su carta. Lo stesso Akhmetshin ha ammesso di non sapere due cose: da dove vengono quei dati – se dal Cremlino – e dove vanno a finire. Perché nessuno sa se la cartellina di plastica rimane al 25esimo piano, nella stanza, o se qualcuno del team americano la prende. Questo, secondo Adam B. Schiff, deputato democratico della California della commissione Intelligence alla Camera, è «solo un altro dettaglio disturbante su questo incontro segreto» e un’ennesima prova di collusion with the Russians, quella che Jay Sekulow, della squadra legale del presidente Trump, va in onda su tutti i canali tv a smentire quotidianamente.

Trump figlio – è questa l’ultima versione dei fatti – era interessato alle informazioni compromettenti su Hillary, ma non sapeva, rivela ora, provenissero dal Cremlino e con suo padre, comunque, dell’incontro non ha mai parlato. Per gestire le risposte giuste sul Russian Gate, di cui ogni giorno una puntata nuova viene pubblicata dai quotidiani americani, è stato ora assunto Ty Cobb, tra gli avvocati più in vista nella capitale. Sui legami della Veselnitskaya con il Cremlino, recentemente pubblicati, è arrivata subito una smentita dalle autorità sulla Moscova e dal portavoce del presidente russo, Dimitry Peskov. È il deputato Adam Schiff che sta premendo adesso per chiamare a testimoniare in commissione Rinat Akhmetshin, riguardo quell’incontro avvenuto solo una settimana prima che gli hacker riuscissero a violare il server delle mail del comitato democratico – un evento che, per molti in America, ha cambiato l’esito delle ultime e più controverse elezioni americane. Le connessioni si vedono e le teorie non mancano. Dei fili della matassa del Russian Gate che si stanno sciogliendo a Washington mancano solo gli anelli di congiunzione, le prove evidenti, le pistole fumanti di un cerchio che si attorciglia intorno a un altro, lasciando nel mezzo, a galla, nomi e interessi, avvocati, lobbisti, agenti segreti, russi e americani. Sono già fuori il generale Micheal Flynn – dimessosi dopo aver mentito sui suoi contatti col governo russo. Prima di lui è stato allontanato Paul J. Manafort, ex capo della campagna elettorale di Trump, ma anche di Viktor Yanukovich, l’ex presidente filorusso scappato da Kiev dopo la rivoluzione di Maidan. Jered Kushner, marito di Ivanka Trump e consigliere di suo padre, ha incontrato l’ambasciatore russo, ma è ancora al suo posto, dove probabilmente rimarrà anche Donald Trump junior finché al suo posto rimarrà anche suo padre.

Lo Ius soli, il pavido premier e il ministro piccolo piccolo

Il ministro degli Affari Esteri Angelino Alfano (s) e il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni alla Camera durante comunicazioni in vista del Consiglio europeo straordinario, Roma 27 aprile 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

«Si è trattato di una decisione di buon senso». Da Bruxelles, a margine del Consiglio affari esteri, il ministro agli Affari esteri, Angelino Alfano, ha risposto così  alle domande sul voto per lo Ius Soli che Gentiloni ha rimandato all’autunno. E che in realtà vedrete che non passerà mai.  «Molti dicono che sia stato un nostro successo – ha continuato – ma noi crediamo sia stato un successo della ragionevolezza perché farlo adesso, nel pieno degli sbarchi e poco prima della pausa estiva, sarebbe stato contro ogni logica. Abbiamo apprezzato il comportamento del premier Gentiloni che non ha rinunciato all’idea di approvarlo, ma in questo momento temporale ha deciso con grande realismo la cosa giusta».

Ecco, se si volesse davvero avere il coraggio di dire le cose come stanno, il problema vero del mancato voto sullo Ius Soli è tutto qui: avere reso fondamentale un patetico ministro come Angelino Alfano (e quel minuscolo caravanserraglio che è il suo volubile partito) elemento fondamentale di un intero governo. “Angelino sempre in piedi”, con il suo 3% che non prenderà mai più, decide le sorti di una legge che tutti dichiaravano fondamentale e che invece si incaglia.

E non si incaglia su chissà quali articolati pensieri. No. Si incaglia sul servilismo di Alfano verso il «sentimento popolare» e sugli istinti bassi di una campagna elettorale che è già cominciata da un pezzo. E non solo: si incaglia sull’enorme bugia che questa legge abbia a che vedere con gli sbarchi, mentre in realtà non c’entra nulla con l’ondata migratoria.

E Gentiloni (e i suoi) permettono ad Alfano di dichiarare che «farlo adesso, nel pieno degli sbarchi e poco prima della pausa estiva, sarebbe stato contro ogni logica».

Che vergogna. Per Alfano. Per Gentiloni. Che vergogna.

Buon martedì.

Antonio Natali: i musei non sono macchine da soldi, ma spazi di ricerca

Dopo 35 anni di lavoro nella Galleria degli Uffizi, il direttore Antonio Natali se ne andò raccontando in un video ironico e un po’ bianciardiano, il suo mettere tutto in una scatola e chiudere la porta del maggior museo fiorentino che per lunghi anni era stato di fatto la sua casa. Da funzionario, con uno stipendio che si aggirava intorno a 1600 euro, Natali ha fatto sì che gli Uffizi si aprissero al territorio e diventassero un luogo di studio, con mostre con cui sono stati riscritti capitoli importanti della storia del Manierismo, incentrati sui suoi amatissimi Pontormo e Rosso. Poi Renzi e Franceschini, in veste di premier e ministro dei Beni culturali hanno deciso di indire il famigerato concorso internazionale per la nomina di venti direttori di altrettanti musei italiani, tutti insieme. Così è stato selezionato l’attuale direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, con molta esperienza nel mondo delle aste. Il mese scorso quel famigerato concorso è stato invalidato dal Tar perché violava norme vigenti, ma anche per irregolarità nei colloqui a porte chiuse. Di tutto questo l’ex direttore Natali preferirebbe non parlare, ma la sua passione per la ricerca e nuove uscite nella sua collana “iconologia” per l’editore Maschietto ci hanno offerto lo spunto per questa sua generosa intervista.

Professor Natali, si parla molto dell’Italia come museo diffuso perché ogni piccolo borgo ha monumenti di rilevanza storico artistica. Per dirigere un museo occorre anche una conoscenza approfondita del territorio?

Il museo degli Uffizi è nato dal collezionismo di una famiglia, i Medici, e poi son venuti i Lorena e lo Stato italiano. Ha strettissimi rapporti con l’intorno. Perciò come direttore mi ero concentrato sulla restituzione al territorio, con la collana di mostre La città degli Uffizi in particolare badavo a riallacciare i fili della storia anche dimostrando la riconoscenza dell’istituto che dirigevo nei confronti di quesi contesti che nei secoli gli avevano dato linfa. Un museo non è solo un luogo di conservazione, né tanto meno serve solo per far denaro come viene detto oggi («Gli uffizi sono una macchina da soldi» disse Renzi il 29 novembre 2012 ndr), ma è un luogo di educazione e di formazione, è un istituto culturale, ma anche un luogo dalla propensione centrifuga. Nel senso che il museo si deve aprire alle terre intorno, e così è accaduto, fino al punto di arrivare in terra partenopea con la mostra Gli Uffizi a Casal di Principe nel 2015. Il museo è il luogo da cui la cultura parte e si diffonde.

Lei ha realizzato 13 mostre in 9 anni, che alle spalle avevano un lavoro scientifico. Il museo è anche luogo di ricerca?

Il numero non l’ho contato, ma sì, questo lo posso dire perché il mio fine era divulgare, che per me è un fine molto nobile, ovviamente deve essere una divulgazione scientificamente fondata, è lo strumento più democratico. Lavoravamo con i più esperti, avvertendoli che il pubblico era ad ampio spettro. Una mostra non deve essere una funzione liturgica per pochi intimi, doveva essere popolare, ma con dietro preparazione, altrimenti si scade nella comunicazione turistica dove vale più l’aneddoto che altro. Importante è stato anche scegliere bene gli argomenti che non fossero dei feticci. Le mostre fatte in luoghi privati o da organizzazioni private hanno bisogno di un ritorno immediato, lo capisco. Ma il rischio è che si ripetano sempre gli stessi argomenti con i soliti nomi. Io credo che lo Stato abbia il dovere di fare proposte culturali che allarghino le vedute, non deve proporre feticci, pensando solo al profitto. I musei, la scuola, le biblioteche non si possono valutare con i sistemi aziendali, in base ai guadagni. Ciò che conta è se da un museo si esce più colti. Per questo avrei voluto intitolare ….

L’intervista ad Antonio Natali prosegue su Left in edicola


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