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Non è tanto per Fini. Ma per Genova, la Diaz, Bolzaneto e i suoi luridi scendiletto

Hanno sequestrato un milione di euro a Gianfranco Fini. Un milione di euro diviso in due polizze da 495.000 euro l’una (queste sì, polizze su cui indignarsi) stanate dal Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata come potrebbe succedere a una mafiosetto moccioso, un corrotto provincialotto o un ebete ingordo.

Ma non è il sequestro e nemmeno l’indagine a interessarmi. Non ora. Ci sarà il processo, la giustizia e tutto il resto.

Mi interessa piuttosto un’immagine che non sono mai riuscito a togliermi dalla testa. Accadde a Genova. Nel 2001. Ed era Gianfranco Fini (che diventerà Presidente della Camera dei Deputati, per dire) che pontificava a reti unificate sul G8, la scuola Diaz e Bolzaneto dicendo al mondo che il suo polso aveva permesso di mantenere l’ordine pubblico lì a Genova. Era quella strana idea di sicurezza in salsa parafascista che crea il deserto e lo chiama pace. Come va di moda oggi anche in un certo centrosinistra.

Ed era quel Gianfranco Fini che ci veniva rivenduto come statista, con fior di giornalisti che si stendevano ai suoi piedi per leccargli la bava e con una classe politica che lo adorava come fulgido esempio. Ricordatevi gli editoriali, l’entusiasmo e addirittura un certo complesso di inferiorità di una qualche sinistra (che infatti era di destra). Andate a rileggere i nomi, le firme degli editoriali.

Ecco non mi sconvolge scoprire (si sapeva da un pezzo per chi si occupa di criminalità e gioco d’azzardo) che Fini fosse vicino a quel Francesco Corallo che nonostante il curriculum criminale è arrivato fino alle vette delle slot con il beneplacito del governo ma piuttosto mi domando come sia possibile che perduri quel sottobosco lì, di lestofanti morali che volevano rivendercelo per statista. Dove sono, gli scendiletto di Fini, oggi?

Buon martedì.

Che fine ha fatto il progetto Bellezz@ varato da Renzi e Franceschini?

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse15-09-2015 RomaPoliticaMIBACT. Presentazione di venti nuovi direttori dei musei italiani Nella foto Dario Franceschini, Matteo RenziPhoto Fabio Cimaglia / LaPresse15-09-2015 Rome (Italy)PoliticMIBACT. Presentation of 20 new directors of italian museumsIn the pic Dario Franceschini, Matteo Renzi

Ad oggi, il senso del progetto Bellezz@ dell’ex governo Renzi sta tutto nella chiocciolina. I fondi promessi per i luoghi segnalati da 140 mila persone sono una lumaca: niente è ufficialmente arrivato.
E pensare che quel simbolo era usato prima che in informatica nel commercio: si tratta di una non riuscita operazione di marketing politico. Sperando che le oltre 140 mila mail non siano finite in qualche database elettorale di Renzi&Co, quello che oggi un cittadino può trovare sul sito del governo dell’operazione Bellezz@ è: «acceso negato». 
Per un governo che si beava del Foia (Freedom for information act) togliere pure le pagine dal web non è tanto una beffa, ma la dimostrazione plastica della improvvisazione portata alla politica. Siamo dinanzi ad un ennesimo spot di questa perenne campagna elettorale. Fingere di far partecipare i cittadini, addirittura far scegliere loro i luoghi architettonici da recuperare: certo, un bel gesto, ma fareste un sondaggio via mail per definire le priorità di cosa fare in un ospedale?
Come Sinistra italiana abbiamo depositato un’interrogazione al Ministro Franceschini perché il silenzio calato sul progetto è assordante.
Sono anni che mancano fondi per la semplice manutenzione ordinaria del nostro patrimonio culturale, negli ultimi 20 sono state tagliate risorse sia per la tutela che per la valorizzazione. Sono anni che le sovrintendenze sono sotto attacco da parte dei governi stessi perché viene imputato loro la responsabilità dell’immobilismo architettonico. Allo stesso tempo, si ignorano del tutto gli appelli e le richieste di risorse presentate da sempre dalle stesse sovrintendenze per la tutela e salvaguardia del patrimonio architettonico e culturale.
Si è proceduto all’accorpamento di sovrintendenze con competenze territoriali ampie, spesso ricche di beni culturali, in nome della razionalizzazione e della riduzione dei costi, costringendo i funzionari a veri salti mortali per garantire tutela e sviluppo: una visione al ribasso del patrimonio artistico, paesaggistico e culturale.
Purtroppo, tutto questo non ci sorprende: abbiamo un ministro che punta tutto sul sostegno dai privati con l’Art bonus ma poi consente che i lavoratori della Biblioteca nazionale, quelli che permettono il quotidiano accesso e gestione della Biblioteca, siano pagati con rimborsi ottenuti con scontrini raccolti persino tra amici e parenti. E la stessa cosa si è verificata anche all’Archivio di Stato di Roma.
 C’è però qualcosa di più profondo nel progetto stentato di Bellezz@. Il tentativo di un “appello diretto ai cittadini”, un approccio che appartiene all’ex presidente del Consiglio fin ad quando era alla guida della Provincia e del Comune di Firenze. Un piano di “destrutturazione” dello Stato e della politica. La cancellazione, in entrambi i settori, dei corpi e delle istituzioni intermedi, sia che si tratti di province, di sovrintendenze, di sindacati. Il tentativo di centralizzare tutto e creare uno pseudo rapporto diretto tra cittadini e chi governa: un rapporto falso, perché dopo aver chiesto i luoghi del cuore, gli si chiederà le strade dimenticate, le spiagge abbandonate, fingendo di coinvolgerli ma in realtà è solo un tentativo di “annusare l’aria” per poi far quello che si vuole (o non fare nulla). Una sorta di psicosi da controllore ossessivo che sottovaluta la degenerazione culturale che produce: invece di valorizzare le competenze incredibili presenti nelle sovrintendenze per stilare le vere priorità, si mortificano per rispondere alle esigenze di marketing del privato di turno disposto a sborsare qualcosa, grazie alle deduzioni fiscali. I “luoghi culturali dimenticati” così saranno solo i luoghi del marketing. Perché i privati non sceglieranno in base alle reali esigenze di conservazione e tutela ma solo in base ai loro interessi di immagine. Una scelta coerente con quella del governo.

Vent’anni senza Grace. Indimenticabile Jeff Buckley

eff Buckley

Jeff Buckley, la voce più bella della scena musicale degli anni Novanta (e non solo) finiva vent’anni fa nelle acque del Wolf River Harbor, un affluente del Mississipi, un incidente, si disse, ma la dinamica non è mai stata chiarita, l’autopsia non rilevò tracce di alcool o droga.Non aveva ancora trent’anni. Ci restano i suoi capolavori. In primo luogo Grace lo straordinario disco del 1994. Figlio di un grande musicista come Tim Buckley (morto di overdose a ventotto anni), e della violoncellista Mary Guiber, Buckley aveva una voce espressiva, intensa, che toccava corde segrete, tanto da essere amatissima anche da Bob Dylan, Bono Vox e Robert Plant, che parlavano di Jeff come il miglior artista della sua generazione.
Il suo corpo fu ritrovato solo il 4 giugno: l’autopsia stabilì che la morte fu accidentale, poiché non furono rinvenute tracce di alcool e di droga nel sangue.
Oltre a Grace, di Jeff Buckley restano alcuni live, il disco doppio di inediti Sketches for My Sweetheart the Drunk, e le cover di You and I.
A noi piace ricordarlo con una delle sue canzoni che amiamo di più.
Grace (1994).

Garattini: L’omeopatia? Un bluff di Stato

Potere della suggestione ma non solo. Come purtroppo è stato confermato dalla tragica vicenda del bimbo marchigiano morto a 7 anni per un’otite trattata con omeopatici, pur essendo dimostrata l’inefficacia clinica dell’omeopatia e che l’inesistenza di effetti collaterali non è sinonimo di terapia efficace, la schiera dei suoi fautori non accenna a diminuire. Grazie a un ambiguo atteggiamento dello Stato e al sostegno di alcune università e di qualche Ordine dei medici, i “rimedi” omeopatici occupano oggi in Italia una nicchia del vivace mercato della salute niente affatto irrilevante. Complice anche il fatto che nella discussione pubblica si sono accumulati negli anni luoghi comuni, false convinzioni e fallacie logiche che rendono complicata una riflessione basata su argomentazioni scientifiche. «Per questo motivo – racconta a Left Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri (Irccs) – con alcuni colleghi abbiamo pensato di riportare il dibattito nell’alveo della scienza e della corretta divulgazione raccogliendo il nostro lavoro in un libro». Uscito per Sironi e curato da Garattini, Acqua fresca? Tutto quello che bisogna sapere sull’omeopatia contiene i contributi di alcuni tra i più noti ricercatori ricercatori dell’Irccs: Vittorio Bertelé, Giorgio Dobrilla, Emilio Benfenati, Luigi Cervo e Lorenzo Moja. Servendosi di tutti gli strumenti dell’indagine scientifica (dati sperimentali, informazioni, considerazioni di metodo e di merito, analisi della letteratura) il volume porta alla luce con un linguaggio semplice ed efficace l’infondatezza scientifica dell’omeopatia distinguendo l’opinione dall’ipotesi scientifica, l’efficacia dalla suggestione.

Il libro si rivolge prevalentemente alle persone dubbiose, racconta Garattini: «Non vogliamo convincere chi produce o prescrive questi prodotti a cambiare idea. Ma vogliamo chiarire a chi è interessato che si tratta di prodotti che non contengono alcun principio attivo e per questa ragione non possono curare». Questa caratteristica, sebbene sia poco noto, è evidenziata anche dalla legge che regola il commercio dei rimedi omeopatici. «Si tratta di una norma contraddittoria che alimenta la confusione. Vi si prescrive che sulla documentazione di accompagnamento deve “essere stampigliata in modo visibile” che non vi è “evidenza scientificamente provata dell’efficacia del medicinale omeopatico”. Poi però allo stesso tempo si stabilisce che i prodotti omeopatici possono essere venduti solo in farmacia, su prescrizione medica o su indicazione del farmacista, consentendo in tal modo l’affermarsi di una convinzione di efficacia, salvo poi negarne il rimborso da parte del Servizio Sanitario Nazionale, ma al contempo permettendone la deducibilità fiscale del costo».

E tra le maglie di queste contraddizioni si è insinuato il business. Ecco alcune cifre riportate nel libro da Lorenzo Moja. Il mercato omeopatico oscillerebbe tra i 250 e i 400 milioni di euro, poca cosa se confrontata con la spesa farmaceutica complessiva (26,6 miliardi di euro nel 2014), che però risulta vicino al 5% in proporzione alla spesa per i farmaci non rimborsabili pagati direttamente dai cittadini (8,16 miliardi di euro).

«È chiaro che ci sono interessi economici con cui chi governa deve fare i conti, ma non dovrebbero prevalere quando parliamo di salute pubblica» osserva Garattini. Ma la responsabilità non è da imputare tutta a una legge dello Stato. «Ci sono corsi universitari che hanno per oggetto i prodotti omeopatici. Se le università sono alla base della conoscenza, certamente non stano facendo il loro mestiere. E poi ci sono Ordini dei medici che per varie ragioni accettano nella loro organizzazione professionisti che prescrivono certi prodotti. Anche questo va contro un principio fondamentale e cioè che la medicina si basa sull’evidenza. E l’evidenza è che i prodotti omeopatici non contengono nulla di terapeutico quindi non dovrebbero essere prescritti». Infine il direttore del Mario Negri pone l’accento su un altro dibattito molto attuale che riguarda la sulla salute pubblica trovando un nesso tra la campagna contro le vaccinazioni e il fenomeno dell’omeopatia. «Io so che molti di coloro che praticano l’omeopatia sono contrari ai vaccini. Chi propone questo tipo di rimedi ha una mentalità antiscientifica. È probabile che si ripercuota nel puntare il dito contro i vaccini, e ad essere per esempio a favore di Di Bella o di Stamina. È il profilo di una mentalità antiscientifica che si sta ben delineando nel nostro Paese. La discussione con cui si mette in dubbio l’efficacia delle vaccinazioni nega che queste hanno cambiato la vita della nostra società debellando un gran numero di malattie. Vaiolo, poliomielite, difterite, oggi possiamo prevenirle grazie ai vaccini. Si tratta di farmaci realizzati e testati su base scientifica, proprio il contrario dei prodotti omeopatici».

Da Left del 20 ottobre 2015

La dignità dell’errore. E delle scuse

Filippo Chiarello aveva 38 anni, due bambini piccoli e un intervento da fare alla colecisti in laparoscopia. Nell’ospedale Santa Sofia di Palermo ci è entrato con l’idea di doverne uscire in pochi giorni, pronto ad affrontare una di quelle operazioni che di questi tempi sono routine. E invece è morto. E fino a qui sembrerebbe l’ennesima storia di malasanità pronta a finire sui giornali (locali, perché la sanità è sempre argomento molto poco pop) e ad aprire una sequela giudiziaria tra cartelle cliniche, scarichi di responsabilità e assicurazioni trincerate in difesa.

Invece qui le porte della sala operatoria si sono aperte davanti alla faccia addolorata di un medico che si è dichiarato colpevole di un errore: «Ho spalancato le porte della sala operatoria, ho allargato le braccia e ho detto che era colpa mia. Mi sono sentito morire dentro, sulle facce dei parenti ho visto la disperazione – racconta il medico che ha fatto l’intervento – e mi assumo la responsabilità ma ci tengo a far sapere che non ero distratto, ero concentrato. La verità è che può capitare e i rischi degli interventi in laparoscopia sono dietro l’angolo».

Il medico ha cancellato i propri profili social, ha chiesto di rimanere anonimo e ora attende l’inevitabile indagine a suo carico. Niente ospitate, nessuna ipotesi di complotto e nulla del solito vittimismo puntando il dito contro qualcuno o contro il sistema.

Scuse, semplicemente. E presa di responsabilità.

Buon lunedì.

Il Cutting non è una moda

Young girl scratching arm in frustration self abusing.

Il ragazzo è cambiato, non è più lo stesso, è svogliato, ha crisi incontrollabili di rabbia, non gli importa più di nulla, non studia, fa casino, è chiuso in se stesso, si droga e poi…si taglia. Così lo psicoterapeuta sente dire ai genitori che hanno portato il giovane nel suo studio. Negli ultimi anni la psichiatria ha assistito allo sviluppo di un inquietante fenomeno clinico, per lo più giovanile: il Cutting, termine inglese che deriva dal verbo to Cut (tagliare, ferire). Ragazzi giovanissimi, a volte ancora bambini, si feriscono la pelle delle braccia o di altre parti del corpo come se questo gesto li aiutasse a sopportare una disperazione insostenibile. Utilizzano per lo più lamette, nel 57 per cento dei casi, ma anche forbicine, lame del temperino, coltelli e altri oggetti taglienti. Non è una moda, come spessissimo si sente dire, né un modo per attirare l’attenzione. Infatti, nella maggior parte dei casi, i Cutters, sono ben attenti a nascondere i tagli con maglie a maniche lunghe anche quando il caldo dell’estate porterebbe a scoprirsi. Non siamo di fronte a capricci adolescenziali ma ad una vera e propria patologia mentale.

Psichiatri e psicologi psicoterapeuti hanno sempre dovuto confrontarsi con la violenza presente nella patologia psichica, violenza che può rimanere un aspetto psicologico espresso in termini di freddezza, anaffettività, aggressività verbale, odio o con gesti e comportamenti distruttivi contro se stessi o contro gli altri. Se parliamo di autodistruttività pensiamo subito all’uso e all’abuso di alcool e droghe, a comportamenti alimentari patologici, al gioco d’azzardo, alla guida spericolata, ai tentativi di suicidio e così via. 

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Cosa si nasconde dietro Blue Whale

Mentre si indaga su un caso  a Ravenna, ecco cosa sta accadendo in Russia dove l’inqueitante fenomeno Blue Whale ha preso avvio. Parliamo di un rituale che spinge a fare gesti “trasgressivi” e autolesionisti come  andare in luoghi isolati, pericolosi o in cimiteri sempre di notte, facendosi selfie su tetti di palazzi o binari della ferrovia, per poi compiere un gesto estremo.

 

Boris, che succede con il sinij kit, la balena blu? «Vorrei poterti rispondere, ma non so di cosa parliamo, chiedo domani a Daria». Pasha, e la balena blu? È vera questa storia? «Non ne so molto, se vuoi, cerco qualche articolo su internet». Più o meno le risposte erano uguali e l’argomento non all’ordine del giorno, nelle redazioni contattate a Mosca. Tra balene blu o bufale di un altro colore, solo una notizia è certa: il tasso di suicidio tra i bambini russi è altissimo. I dati parlano di una Russia che, dopo Suriname e Kazakistan, è terza per numero di minori che ogni anno scelgono di togliersi la vita, scrive il quotidiano Kommersant. Nel mondo, nel 2020, il suicidio diventerà la prima causa di morte dopo cancro e malattie cardiovascolari, mentre adesso rientra tra le prime dieci, dice l’Unicef. Sono cifre impressionanti, a seconda degli istituti i dati cambiano, ma la Russia c’è sempre.
Se c’è adesso un “effetto Werther” digitale è troppo presto per capirlo. Per le condizioni sociali, per povertà, per violenza domestica, per depressione, per l’alcolismo di un genitore o di entrambi. Di fatto, però, l’alta incidenza di suicidi fra i minori russi è tutta da indagare. La colonna dei motivi è vasta. Sono vite non sempre storte, che non sempre rasentano gli abissi, ma tutte, secondo i giornalisti, avrebbero in comune un passaggio nel circuito digitale di quelli che hanno cominciato a chiamare «gruppi della morte». In Russia i gruppi della morte su internet sono tanti, non c’è solo sinij kit, la balena blu.

«La Russia è dura con i suoi bambini»: comincia così un articolo del Washington Post del 2012 che titola «i teenager che scelgono la morte in Russia». La vicenda di allora riguardava Yelizaveta Petsylya e Anastasia Korolyova, stessa età, 14 anni, stessa scuola, la numero 8, stesso paese, Lobnya, 40 minuti da Mosca. Le due erano amiche e, scrive l’autrice, «hanno fatto quello che migliaia di teenager russi hanno fatto». In comune con le vicende di oggi c’era l’ultimo salto dal tetto ma non ancora internet.

I bambini muoiono da un capo dall’altro del Paese, da Chelyabinsk, a Krasnodar, a Tula, a Ussurijsk e nelle due capitali, Mosca e Pietroburgo. E se non tutti i giornali hanno seguito la questione, lo hanno fatto le autorità. Il 19 aprile, grazie alle pressioni della deputata della Duma Irina Jarovaja, è stato approvata una modifica al disegno di legge del codice penale e codice di procedura penale, all’articolo 110, comma 1, per promozione del suicidio, e comma 2, per “attività che coinvolgono e danno impulso a commettere suicidio”. La punizione da scontare può arrivare anche a sei anni di reclusione, se viene riconosciuta la responsabilità penale per “istigazione al suicidio”. Delle indagini ad essi collegate se ne occupa e indaga adesso il Roskomnadazor, il servizio federale per la sorveglianza del diritto dei consumatori e benessere della persona. L’ultima notizia che riguarda il caso è che il 4 aprile scorso a Stavropol hanno punito degli studenti per aver giocato alla balena blu e hanno sanzionato il personale della scuola per responsabilità disciplinare e mancata prevenzione adeguata.

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Cannes, Palma d’oro a The Square. Ecco tutti i premi della 70esima edizione

Festival di Cannes numero 70,  la palma d’oro va a The Square, a Joaquin Phoenix il premio come migliore attore e a Sofia Coppola quello per la miglior regia.  I rumors sono stati smentiti. Almeno quelli che guardavano alla terza stagione di Twin Peaks di David Lynch. Il regista ha serenamente dichiarato di voler smettere di fare cinema, perché i film “buoni sulla carta non vanno bene al box office” e quelli che al box office vanno bene sono distanti anni luce dalla sua prospettiva. E mentre la serie-cult con i suoi sottili misteri continua ad intrigare,  si tirano le somme del Festival.

The square alla fine ha messo d’accordo il presidente della Giuria Pedro Almodovar e giurati come Will Smith e Paolo Sorrentino, la regista tedesca Maren Ade e la regista e attrice francese Agnès Jaoui, l’interprete cinese Fan Bingbing e il regista coreano Park Chan-Wook, tra gli altri. Malgrado sulla stampa internazionale si riconoscano ad alcune opere in concorso qualità come coerenza formale, eleganza stilistica, libertà narrativa, la sensazione prevalente è che non abbia davvero brillato alcun film, che nessuna opera sia riuscita ad emozionare tout court il pubblico e convincere a pieno la critica, e in generale sia prevalso un clima di medietà leggermente sottotono. In corsa per la Palma d’oro c’era Loveless, il film di Andrej Zvjagintsev, noto per Il ritorno – Leone d’oro a Venezia – ma anche il superbo Leviathan, molto discusso in patria, attaccato dai vertici istituzionali, severamente critico nei confronti della grande madre Russia, per i suoi giochi di potere, la corruzione scellerata, l’aria stagnante che vi si respira. Autore non allineato, schivo e tagliente, e film nato da una produzione indipendente, sul vissuto di un ragazzino i cui genitori stanno divorziando. Si faceva anche il  nome di Todd Haynes con la favola dark Wonderstruck, ma è stato battuto dallo svedese Ruben Östlund con il triste, visionario, apologo The Square– satira al vetriolo sull’arte contemporanea. Non ce l’ha fatta nenache la giapponese Kawase, Hikari, che in Francia non è stato apprezzato. Haneke è stato giudicato deludente e Hazanavicius ha lasciato assai freddi critica e pubblico. Nel premio per la miglior interpretazione maschile è rimasto fuori il “francesissimo Louis Garrel nei panni di Godard, insidiato da un convincente Robert Pattinson, che, smessi gli abiti del vampiro, interpreta in Good Times dei fratelli Safdie, il ruolo di un piccolo delinquente bello e maledetto. Per la migliore interpretazione femminile avevamo scommesso proprio sul nome della vincitrice, l’attrice tedesca Diane Kruger, protagonista del film di Fatih Akin, In the fade. Ha scavalcato Mariana Spivak di Loveless o la protagonista dell’impietoso Krotkaja del regista ucraino Sergej Loznitsa, altra produzione indipendente e anti-establishment dalla ex Unione sovietica, ispirato alla mite di Dostoevskij.  Onore anche The Killing of a Sacred Deer, con Nicole Kidman, del greco Yorgos Lanthimios.  C’è un premio anche per l’Italia: Jasmine Trinca  ha vinto come migliore attrice nella sezione Un certain regard. La giuria ha deciso di premiare la protagonista di Fortunata, il film di Castellitto
Dal 19 al 23 giugno 2017 i film di Cannes a Firenze
Per il quarto anno consecutivo Firenze sarà tra le poche città europee a presentare, a pochi giorni dalla sua conclusione, una selezione dei film del 70° festival del cinema di Cannes (svoltosi dal 17 al 28 maggio al Palais de Festival) al Cinema la Compagnia.

Trump e Russia, si fa presto a dire impeachment

Nixon alla tv sovietica

«Lock her up, Lock her up!». Così gridava la folla repubblicana durante i comizi della campagna elettorale del 2016 riferendosi a Hillary Clinton. Per giustificare l’idea di “sbattere in cella” l’ex Segretario di Stato ci si riferiva al caso dell’account di posta elettronica privato utilizzato al posto di quello ufficiale e all’attacco terroristico contro l’ambasciata Usa a Bengasi dove perse la vita l’ambasciatore Stevens. In entrambi i casi, dicevano i repubblicani, Hillary e il suo staff avevano sbagliato e fornito una versione che cancellava le tracce dei propri errori. Cinque inchieste parlamentari e un interrogatorio di 8 ore in diretta Tv dopo, i repubblicani non sono riusciti a trovare traccia delle loro accuse. Niente arresti, carcere, condanne, ma certo una macchia sulla credibilità della candidata Clinton. Quel che cercavano i repubblicani quando aprivano le loro commissioni di inchiesta su Bengasi.

I casi contro Hillary erano frutto di un disegno politico e sarà bene ricordarselo oggi, mentre in molti invocano l’impeachment per Donald Trump. Indubbiamente le informazioni sugli intrecci tra la campagna elettorale del presidente Usa e le autorità russe sono più di quanto non immaginassimo e le rivelazioni del Washington Post sulle note prese dall’ex direttore della Cia, James Comey, per registrare il contenuto dei suoi incontri privati con Trump, sono una bomba. Come è ormai arcinoto il presidente avrebbe chiesto di interrompere l’inchiesta del Federal bureau su quegli intrecci e, in particolare sull’ex Consigliere alla sicurezza nazionale Michael Flynn.
Ma si fa presto a dire impeachment. Il processo di estromissione dal potere di un presidente degli Stati Uniti viene spesso nominato dai suoi avversari ma raramente utilizzato dal Congresso, che è l’istituzione incaricata, nel disegno costituzionale americano, di decidere se l’inquilino della Casa Bianca abbia commesso “tradimento, sia stato corrotto o abbia compiuto altri gravi crimini o misfatti”, come si legge nell’articolo 2 del testo redatto alla Covention di Philadelphia nel 1787. Nella vita vera i processi di impeachment sono stati solo due e non hanno portato alla deposizione del presidente. Il terzo non è mai cominciato perché Richard “Tricky Dick” Nixon si è dimesso per evitarlo.

Che lezioni possiamo trarre dai casi precedenti? Molte: la prima è che nei due casi in cui il meccanismo è stato messo in moto, la scelta di avviare l’impeachment è stata molto politica e poco legata alla gravità degli accadimenti. L’unico caso in cui il processo aveva senso e avrebbe forse avuto avuto delle conseguenze è proprio quello collegato al Watergate. Ma non ci fu bisogno di farlo.

Il presidente Johnson arrivò al potere a causa dell’assassinio di Abraham Lincoln, essendo il suo vice, ma provenendo dalle fila del partito democratico, allora potente al Sud. Il suo piano per il post-seccessione e sulla schiavitù non piaceva ai repubblicani, che prima votarono una una regola sul licenziamento del Segretario alla guerra e poi la usarono per sostenere che il presidente aveva infranto gravemente la legge. Il processo durò tre mesi e si concluse con il proscioglimento del presidente.

La storia degli impeachment e il caso contro Trump continuano su Left in edicola

 

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Dimmi dove vivi, ti dirò chi sarai

PALERMO, ITALY AUGUST 14: A scooter car for tourist service in Corso Vittorio Emanuele on the center of the city on August 14, 2016 in Palermo, Italy. (Photo by Stefano Montesi/Corbis via Getty Images)

Nelle pagine finali del rapporto Istat 2017 (quello con le nuove categorie sociali di cui tanto si è scritto) c’è una cosa che ha colpito il nostro interesse: un dettaglio, nella più vasta ricerca. Una sorta di appendice dedicata alla geodemografia che, come scrivono i ricercatori, «si fonda sull’osservazione che le popolazioni e i luoghi di residenza sono inestricabilmente legati».

«Sapere dove una persona risiede», spiega il rapporto, «fornisce informazioni sulle sue caratteristiche, dal momento che le persone e le famiglie con tratti simili tendono ad aggregarsi sotto il profilo spaziale». Ad esempio «emerge nettamente», continua l’Istat, «una differenza nelle distribuzioni del Centro-Nord e di quelle meridionali. Nei sistemi locali settentrionali circa la metà della popolazione risiede in unità territoriali connotate da un profilo medio». Al Sud, meno.

E noi di queste differenze scriviamo sul numero di Left in edicola da sabato 27 maggio. Dandovi dati e mappe, indicando gli effetti sulla vita delle persone della struttura urbana, e suggerendovi la lettura dell’ultimo saggio di Salvatore Settis, Architettura e democrazia, uscito recentemente per Einaudi. «Una gran quantità della popolazione residente in Italia (secondo alcune valutazioni, già intorno al 50 per cento) vive in periferie che divorano non solo la preziosa cesura città-campagna, ma la stessa idea di città», scrive lì Settis, «trasformandola radicalmente con un drammatico gioco al ribasso in cui lo sprawl urbano, l’assenza di servizi, l’abusivismo, il degrado, l’abbandono di edifici fatiscenti creano un paesaggio di assenze e di rovine: un processo che genera profitti ai detentori della rendita fondiaria, ai progettisti e ai costruttori, ma comporta solo perdite a chi abita quelle periferie, e soprattutto alla società nel suo insieme».

Ed ecco dunque spiegato il nostro titolo. Dimmi dove nasci, ti dirò chi sei, ma soprattutto chi sarai: «Chi in tali periferie nasce e trascorre infanzia e giovinezza finirà con il considerare “normale” quel desolato orizzonte», continua Settis, «e se avrà occasione di visitare un centro storico lo vedrà come estraneo, residuale, bizzarro, disfunzionale, residuale. Questo sarà il punto di vista di moltissimi italiani di domani». Italiani che somiglieranno alle nostre periferie: «Nuove ricerche di sociologi, psicologi, antropologi definiscono lo spazio in cui viviamo come un formidabile “capitale cognitivo”, che fornisce coordinate di vita, di comportamento e di memoria, costruisce l’identità individuale e quella, collettiva, delle comunità».

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Ne parliamo sul numero di Left in edicola e in digitale

 

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