Il pubblico che affolla le sale di Palazzo Ducale a Genova, per ammirare l’inarrivabile fascino delle opere di Amedeo Modigliani, potrebbe trovarsi di fronte a più d’un falso. Naturalmente e comprensibilmente senza essere in grado di riconoscerlo. Una beffa, l’ennesima in nome del più imitato tra gli artisti moderni. Dopo essere stata battuta dall’Ansa, la notizia è approdata anche sui telegiornali nazionali. Nell’assordante silenzio degli storici dell’arte, restii a pronunciarsi apertamente dopo lo smacco ricevuto dalla nota vicenda delle teste ripescate nel Fosso Mediceo di Livorno (1984), hanno risuonato forti le voci di Carlo Pepi e di Marc Restellini, autori della denuncia. Il primo è già noto alla cronaca italiana, perché anche 33 anni fa aveva sostenuto con assoluta certezza l’inattendibilità dei manufatti ripescati dalle acque del Fosso; collezionista infaticabile e sensibilissimo conoscitore, Pepi è una personalità le cui doti le università estere non hanno esitato a riconoscere, mentre in Italia – benché fondatore della Casa Natale Modigliani e collaboratore degli Archivi Legali Modigliani per volontà della stessa figlia dell’artista – egli ha potuto far valere le sue posizioni sull’autenticità delle opere del livornese, progressivamente comparse sul mercato dell’arte, solo dando le dimissioni da entrambe le istituzioni e proseguendo una battaglia tanto personale e solitaria quanto piena di successi. Il secondo, invece, è uno storico dell’Arte e curatore francese, uno dei massimi specialisti di Modì; direttore artistico del Museo del Lussemburgo dal 2000 al 2003, ha curato una grande retrospettiva di Modigliani nel 2002, raccogliendo ben 110 opere del maestro. Il suo nome resta però legato all’edizione del catalogo ragionato delle opere di Modigliani, realizzato con criteri del tutto inediti, cui Restellini sta lavorando dal 1997, prima in collaborazione con il Wildenstein Institute, poi in maniera autonoma. Nel 2003 fonda la Pinacothèque de Paris e l’Istituto Restellini: due luoghi importanti nell’attuale panorama culturale francese, dove egli mette in pratica un approccio curatoriale indipendente e interdisciplinare, affrancato dalle richieste del mercato dell’arte, in grado di unire l’analisi stilistica con le più recenti tecnologie diagnostiche e informatiche, fuse all’interno di uno studio comparativo, che il più delle volte recupera con estrema precisione i dati necessari all’autenticazione di un’opera d’arte. Perché, al di là dell’affair Modigliani, il problema è: come riconoscere e godere di un’opera d’arte autentica, soprattutto oggi che le tecniche dei falsari si sono raffinate e i borsini degli artisti determinano vere e proprie fortune? Possiamo rassicurare il cultore d’arte, il pubblico curioso e attento, lo spettatore convinto che l’arte non sia accessoria alla vita: il sistema c’è. È presente innanzi tutto nella nostra tradizione di studi, quella che affida l’attribuzione all’occhio raffinato, esperto e sincero del conoscitore filologo, colui che coglie da un lato il tratto autoriale infalsificabile, anche nelle sfumature apparentemente insignificanti, dall’altro sa e riesce a inserire qualsiasi opera nella giusta serie di relazioni – interne ed esterne – non dimenticando mai che l’opera d’arte è un sistema. Su questa strada incontriamo nomi che dall’ottocentesco Morelli vanno fino a Roberto Longhi, Massimo Previtali, il mai abbastanza citato Giovanni Romano, naturalmente Carlo Pepi e chi ancora crede nel potenziale sensibile e nel rigore metodologico della storia dell’arte. Poi, non meno utile è la scienza: indagini chimiche e radiografiche oggi supportate dalla tecnologia digitale, certo, ma anche qualcosa di più; in questo Marc Restellini è un pioniere. Attraverso il raffronto tra il maggior numero possibile di dati scientifici ottenuti da risonanze magnetiche, sensori a infrarossi, digitalizzazione dei colori contraffatti nelle opere attribuite a un autore, autentiche ma anche dichiaratamente false, egli è stato in grado di stabilire una calibratura di paradigmi attributivi certi, da cui ha desunto un protocollo per l’esame non invasivo dei pigmenti; i risultati, uniti all’analisi stilistica, sono decisamente soddisfacenti. Insomma, in attesa che siano svolte le indagini per il reato di “Violazione dei beni culturali e paesaggistici”, possiamo riflettere su quanto sia in pericolo il nostro patrimonio ma anche la nostra intelligenza, se non volgiamo la nostra attenzione al valore sempre politico e divergente dell’arte, anche quando di questa soltanto si parla. Diffidare dalle celebrazioni.
L’Isis ha ucciso Ayse, la combattente filo-curda raccontata da Zerocalcare
Zerocalcare lo ha scritto su facebook. E’ morta Ayse, la ragazza con il cappuccio rosso e la sciarpa che ha ispirato la sua serie Kobane Calling, un reportage in forma grafica pubblicata nel 2015 su Internazionale.
Il fumettista romano l’aveva conosciuta durante i suoi viaggi in Turchia, Iraq e Siria. Anche attraverso la sua testimonianaza aveva potuto raccontare la resistenza curda. La guerrigliera è morta a Raqqa combattendo l’Isis. Era una ragazza turca, si chiamava Ayse Deniz Karacagil e si era unita ai combattenti curdi dopo essere stata condannata per aver partecipato alle proteste di Gezi Park nel 2013. Il suo nome di battaglia, aveva raccontato Zerocalcare nel suo fumetto, era Cappuccio Rosso. Era questo il suo nome di battaglia. La giovane secondo quanto riportano i canali di informazione curdi e turchi sarebbe morta vicino al confine tra la Turchia e la Siria, martedì mattina.
Ayşe Deniz Karacagil, militante di sinistra, proveniente da Antalya in Turchia, poco più che ventenne era stata arrestata durante le proteste di Gezi Park. Dopo una condanna a 103 anni di carcere nel 2014, “aveva preso la via per le montagne”, come si dice in gergo di chi aderisce alle milizie curde dello Ypg impegnate nella campagna contro Isis. In particolare Deniz si era unita allo Ypj, divisione femminile delle milizie curde, impegnata al pari degli uomini nella liberazione di Raqqa, la capitale dello Stato islamico e nella difesa della regione autonoma del Rojava.
Ancora sangue in Afghanistan, ormai è guerra aperta
Un’enorme nuvola di fumo, urla e sangue. Il giorno dopo l’attentato di Kabul una nuova tragedia si è verificata in Afghanistan, a Jalalabad, nell’est del paese. Il primo bilancio della deflagrazione di un’autobomba all’aeroporto è di una vittima e cinque feriti. L’azione terrorista al momento non risulta rivendicata. Nella capitale, invece, il bilancio cresce di ora in ora. I morti, ad oggi, sono novanta, cinquecento i feriti. Il camion cisterna con due tonnellate di esplosivo che mercoledì ha colpito il cuore di Kabul, ad una manciata di passi dal palazzo presidenziale, più che una notizia, è una conferma: l’Afghanistan è un Paese in guerra. Ora il fungo di polvere e detriti della bomba ha lasciato sul terreno un cratere di quasi dieci metri, mentre si piangono i morti tra i civili. Sul Ramadan che è iniziato il 27 maggio scorso, sventolano di nuovo le bandiere nere.
Dopo quello che Cecilia Strada ha riferito essere «probabilmente il peggior attacco dal 2001», nella capitale afghana si tentano di salvare le centinaia di feriti e gli ospedali sono al collasso. Anche quello di Emergency è stato danneggiato. Era – fino a ieri – il quartiere più calmo della città, sede delle autorità, delle ambasciate di Pakistan, Germania, Iran, Francia, Giappone nella cosiddetta “zona verde”, dove ci sono i palazzi delle istituzioni. Dalle 8.25 di ieri, piazza Zanbaq, verrà ricordata come il teatro di uno dei più feroci attacchi dei radicali islamisti. A rivendicare l’attentato è stato il gruppo Khorasan, vicino allo Stato islamico ed è stato il Daesh stesso a confermare la paternità dell’attacco sul canale Telegram dell’agenzia Aamaq.
Solo un mese fa l’IS aveva colpito le truppe dell’ambasciata americana, ferendo ed uccidendo otto civili. Nel Paese dove il 14 aprile scorso la Moab, la “madre di tutte le bombe”, su ordine del presidente Usa, Donald Trump, è stata sganciata da un C130 ad Achin, uccidendo novantaquattro militari dello Stato Islamico, perfino i talebani hanno condannato l’azione che ha portato alla morte della popolazione di Kabul. L’Afghanistan è un paese in guerra e lo è stato specialmente a maggio, perché lo Stato Islamico che arretra in Siriaq ha compiuto invece in Afghanistan quindici attacchi. L’ultimo è stato registrato pochissime ore fa all’aereoporto di Jalalabad, ad est del paese, dove il bilancio è di una vittima e cinque feriti.
Ieri ha vinto la camorra. Ancora
Può un avvocato condannato in primo grado per concorso esterno in associazione camorristica tornare a fare l’avvocato in attesa di sentenza definitiva? No, dai, sembra uno scherzo. Vero?
Può un avvocato che si fa portavoce delle minacce di un clan mafioso contro uno scrittore e che ne risulta condannato (con una sentenza che, tra l’altro, assolve i camorristi come se l’avvocato avesse minacciato per un’innata simpatia) tornare a fare l’avvocato con il beneplacito dell’Ordine e del ministro e della politica? Sembra una puntata di qualche fiction sui narcos, vero? Non ci crederebbe nessuno, a scriverlo.
L’ha scritto ieri Roberto Saviano:
Michele Santonastaso, l’avvocato dei boss casalesi condannato a 11 anni per aver portato ordini di morte del clan Bidognetti e per aver minacciato in aula, durante il processo Spartacus, me, la giornalista Rosaria Capacchione, i magistrati Raffaele Cantone e Federico Cafiero De Raho, oggi torna a fare l’avvocato.
Il ministro Orlando ha scritto che “Dalle informazioni acquisiste (…) consta che l’avvocato Santonastaso era stato sospeso dall’esercizio della professione in via cautelare”, dopo l’arresto con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa dell’ottobre 2010. Decisione poi confermata nel settembre del 2014. Poi, continua il ministro Orlando, “in seguito all’entrata in vigore del nuovo regolamento del consiglio nazionale forense, (…) il fascicolo è stato tramesso al competente Consiglio distrettuale di disciplina di Napoli che con delibera del 16 marzo 2016, secondo quanto riferito, ha revocato il provvedimento di sospensione cautelare”.
Una volta si diceva che la mafia grattava vittorie nella simbologia. Ieri ha vinto davvero.
Buon giovedì.
Stati Uniti fuori dagli accordi sul clima, parola di Donald Trump
Gli Stati Uniti usciranno dagli accordi sul clima di Parigi. Sarebbe questa l’intenzione del presidente Donald Trump, secondo quanto scrivono alcuni siti Usa che citano fonti vicine alla Casa Bianca. Stando a un tweet ufficiale pubblicato nelle prime ore del pomeriggio (fuso italiano), Trump deciderà nei «prossimi giorni» cosa fare rispetto al Cop21. Ma già da domenica scorsa circolavano voci di una imminente uscita degli Usa dall’accordo che nel 2015 per la prima volta ha unito la maggior parte del mondo sotto un unico protocollo, con l’obiettivo di combattere i cambiamenti climatici. Su 197 Paesi aderenti all’Onu solo Siria e Nicaragua si astennero. Fino ad oggi è stato ratificato da 147 firmatari, inclusi gli Usa, dove l’accordo è entrato in vigore lo scorso novembre.
Trump ha definito più volte la questione dei cambiamenti climatici «una truffa». Già in un tweet del 2012 scriveva che «il concetto di global warming è stato creato da e per la Cina con l’obiettivo di rendere non competitiva l’industria manifatturiera Usa». I suoi sostenitori sono inoltre convinti che il Cop21 limita la capacità degli Usa di fare quello che vogliono con le loro risorse energetiche, un settore chiave dell’economia.
Non è chiaro quando e come Trump annuncerà ufficialmente l’uscita dagli accordi sul clima. E nemmeno come l’amministrazione Usa intende disattivarli. Stando al documento occorrono quattro anni per svincolarsi dagli obblighi previsti ma uscendo dal Comitato per il clima delle Nazioni Unite l’iter può essere molto più veloce e ridursi a un anno. Tuttavia questa eventuale soluzione sarebbe ancor più significativa poiché gli Stati Uniti hanno firmato la relativa Convenzione nel 1992, durante la presidenza di George W. Bush.
Cosa prevedono gli accordi di Parigi > link
Vaccini e malattie: «L’Europa non è più polio free». Lo dice il Commissario Ue per la salute

Dopo le campagne antiscientifiche che hanno investito la prevenzione sanitaria in Italia – dalle bufale sul rapporto vaccini-autismo alla parziale informazione sul vaccino anti- Hpv – arrivano altre notizie dall’Europa. E non sono molto positive. Perché per la prima volta viene pronunciato il nome di una malattia ormai scomparsa. Tra le più temibili, che colpisce i bambini e lascia deficit gravissimi e paralisi alle braccia e alle gambe.
«Per quanto riguarda la polio, la grande Europa è diventata ‘polio free’ nel 2002. Questo status di ‘polio free’ ora è a rischio, a causa della bassa immunità della popolazione e delle lacune di immunizzazione, anche nei paesi Ue». Lo ha affermato il cardiologo lituano Vytenis Andriukaitis, Commissario Ue per la Salute, parlando al Workshop europeo sulla vaccinazione a Bruxelles. Durante il summit sanitario lo stesso Andriukaitis ha tra l’altro osservato che «ogni anno nel mondo le vaccinazioni evitano una cifra stimata in 2,5 milioni di morti». Sono cifre che parlano da sole e che dovrebbero spazzare via ogni dubbio sui vaccini.
Il Commissario Ue ha poi fatto il quadro della vaccinazione in generale. Quella contro l’influenza stagionale salva 37mila persone all’anno. Forse potrebbero essere molte di più se tutti si vaccinassero. Infatti, ha detto, «in realtà solo 80 milioni di persone si vaccinano dei 180 milioni di europei per i quali è prescritta la vaccinazione».«So che la vaccinazione antinfluenzale – afferma Andriukaitis – non è efficace al 100%, ma già col 60% abbiamo ottenuto risultati importanti», aggiungendo che «hanno immenso impatto in termini economici». Il Commissario Ue ha ribadito come le epidemie di influenza abbiano un effetto economico negativo, «sulla spesa per la salute degli stati membri, sulle entrate delle persone e sulle economie nel loro insieme per epidemie che potrebbero semplicemente evitate». Alla fine, ha anche detto che «per avere alti livelli di Pil abbiamo bisogno di alti tassi di vaccinazione, in modo da mantenere in salute la nostra forza lavoro». Una frase decisamente infelice, come se il diritto alla salute passasse in secondo piano rispetto al diktat della produzione.
Andriukaitis ha fatto il punto anche sul morbillo, per la cui presenza ancora in Italia siamo stati bacchettati dai giornali esteri. In questo caso il Commissario Ue si è dispiaciuto del fatto che
«l’investimento globale per il controllo del morbillo, che è insufficiente, non paghi pienamente». Ha fatto notare poi che «ancora subiamo vaste epidemie nel mondo, compresi molti stati membri Ue». L’input quindi è quello di aumentare l’investimento per la prevenzione del morbillo perché «sebbene i casi di morbillo siano diminuiti del 94% dal 1980, ci sono stati limitati progressi verso l’eliminazione globale del morbillo negli ultimi cinque anni».
Infine, due parole sulla poliomielite: è una malattia infettiva che si trasmette per via orale, causata da tre distinti ceppi virali e colpisce i bambini al di sotto dei cinque anni di età. La malattia è stata debellata – negli Usa venne combattuta una grande battaglia sanitaria nel dopoguerra – grazie a due vaccini messi a punto da due grandi medici-filantropi: Salk e Sabin tra gli anni 50 e 60. In Italia, il vaccino contro la poliomelite è tra quelli obbligatori insieme a difterite, tetano, poliomelite ed epatite B, somministrate nell’esavalente insieme a pertosse ed haemophilus.
Sui vaccini vedi anche su Left, qui
Re Sole Emanuel Macron incontra lo Zar Vladimir Putin
Non all’Eliseo. Hanno passeggiato insieme nella reggia di Versailles, tra marmi e dipinti, tappeti rossi ed ori, in una sala il cui nome potrebbe ricordare le mappe d’Europa oggi, dall’Ucraina alla Siria: la “Galerie des Batailles”. Appena terminato il G7 a Taormina, il primo incontro del presidente francese è stato con il Capo del Cremlino. Emmanuel Macron ha stretto per la prima volta la mano a Vladimir Putin.
Hanno parlato di Cecenia, gay, propaganda, fake news e lotta al terrorismo. Le armi chimiche come nuova linea rossa tracciata di nuovo, questa volta dal giovane Capo di Stato neoeletto: “qualsiasi uso se ne farà, sarà oggetto della nostra rappresaglia immediata”. Le Pen come fantasma del passato: “ l’incontro al Cremlino? Non c’è alcun motivo per cui non avrei dovuto riceverla” ha detto Vladimir Putin, che si è detto impressionato dall’accoglienza celebrativa nei saloni del Re Sole, e sulla campagna mediatica durante quella elettorale delle scorse elezioni presidenziali, ha dichiarato: “non abbiamo mai tentato di influenzare il risultato del voto francese”.
Accadeva esattamente tre secoli fa. Nel 1717 Pietro il Grande, lo zar di Russia che fondò Pietroburgo, instaurò il primo canale di comunicazione diplomatica tra Mosca e Parigi. È in occasione dell’apertura di una mostra a lui dedicata in Francia che i due leader si sono incontrati, lui che fu “il simbolo di quella Russia che voleva aprirsi all’Europa, da trecento anni Russia e Francia non hanno mai interrotto la loro reciproca amicizia”. Da quel passato lontano al presente immediato: ciò che la Francia vuole dalla Russia è ben riassunto dalle parole che hanno accompagnato l’arrivo del presidente russo tweettato in diretta da Macron. Due parole, che riassumono la nuova strategia di Parigi verso Mosca: “dialogo ed esigenza”.
“Dobbiamo liberarci dalla scimmia Berlusconi che è sulla nostra spalla”, diceva Renzi
Renzi dixit:
- “Dopo il governo Berlusconi anche un governo guidato dal pulcino pio sarebbe in grado di fare meglio.”
- “Un leader è chi, leggendo i sondaggi, prova a cambiarli, non a contestarli.” (Dal libro: Oltre la rottamazione: nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare)
- “Voglio cambiare l’Italia, non cambiare il governo.”
- “Berlusconi da solo non ce la farebbe. Ha bisogno di qualcuno che cada nel suo trappolone. Ha bisogno che ogni sua dichiarazione – lungamente studiata – sia accolta da un coro di critiche, che i suoi avversari si lancino sul primo cronista Ansa per manifestare tutto il loro sdegno: ma come, proprio lui adesso dice che dobbiamo tagliare le tasse?” (Dal libro: Oltre la rottamazione: nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare )
- “Dobbiamo abituarci a pensare che le scelte per un Paese non si fanno per le elezioni successive, ma si fanno per le generazioni successive.” (Dal libro: Oltre la rottamazione: nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare )
- “Prima di fare dichiarazioni sulle ultime frasi di Silvio Berlusconi, contiamo fino a dieci. E poi, nel dubbio, è comunque meglio tacere. Nove volte su dieci le uscite del Cavaliere ottengono il proprio scopo solo se qualcuno, rispondendogli, cade nel suo gioco.” (Dal libro: Oltre la rottamazione: nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare )
- “Nessuna intesa tra Letta, Alfano e me. Non voglio assolutamente essere accomunato a loro, integrato come in uno schema: io sono totalmente diverso, per tanti motivi. Ma non ho alcun interesse a mettere pedine e scambiare caselle.” (era il 29 dicembre 2013)
- “La staffetta Letta-Renzi non è assolutamente all’ordine del giorno. Io, sia chiaro, sto fuori da tutto.” (5 febbraio 2014)
- “Creiamo un hashtag ‘enricostaisereno’, nessuno ti vuole prendere il posto, vai avanti, fai quel che devi fare, fallo.” (18 gennaio 2014)
- “Il governo Letta deve lavorare per tutto il 2014.” (13 gennaio 2014)
- “Per il 2014 il Premier è e sarà Enrico Letta.” (22 dicembre 2013)
- “Punto a far lavorare il governo, non a farlo cadere. Enrico ci ha chiesto un patto di coalizione e io sono d’accordo.” (10 dicembre 2013)
- “Da mesi leggo sui giornali che Renzi vuole il posto di Letta: se avessi ambizioni personali, avrei giocato un’altra partita, non mi sarei messo a candidarmi alla segreteria del Pd.” (3 dicembre 2013)
- ““Il mio partito non ha paura degli altri, è curioso. Il mio partito abbatte i muri, non alza i ponti. Il mio partito accoglie, non respinge gli elettori. Il mio partito si fa giudicare dai cittadini con il voto, non li giudica con moralismo supponente. Il mio partito usa la digitale, non il rullino. Il mio partito non è schizofrenico per cui un giorno vuole arrestare Berlusconi e il giorno dopo lo farebbe presidente della Convenzione costituente. Il mio partito rispetta la magistratura non solo quando manda gli avvisi di garanzia agli avversari. Il mio partito non cambia le regole di una gara perché ha paura di un candidato. Il mio partito prende i voti degli altri. Perché se non prende i voti degli altri, poi gli tocca prendersi i ministri degli altri. Il mio partito difende le donne non una volta l’anno, ma tutti i giorni, con la parità di genere. E sa che le quote rosa sono un sistema grezzo. Ma non ne ha trovato uno migliore. Il mio partito rispetta i referendum. Anche quando dicono che il finanziamento pubblico ai partiti va abolito. Il mio partito crede negli open data. Il mio partito vuole cambiare l’Italia, non gli italiani. Il mio partito non ha la puzza sotto il naso.” (Dal libro: Oltre la rottamazione: nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare)
- “Dobbiamo liberarci dalla scimmia Berlusconi che è sulla nostra spalla, incombente e condizionante. Dobbiamo dimostrare che siamo per il merito, per le capacità individuali. Che non siamo contro la piccola e media impresa o le partite Iva. Arriviamo al governo e cosa scrive Rifondazione sul suo manifesto: “Anche i ricchi piangano”. Anche i ricchi piangano? Il tema della sinistra, deve essere anche i poveri sorridano. È come se avessimo rinunciato a essere il partito delle opportunità.”
- [Al presidente Berlusconi] “Lei ci prova con tutti”, gli ho detto. La sua concezione della politica mi fa parafrasare una pubblicità: “Ci sono cose che non si possono comprare. Per tutto il resto c’è Berlusconi”.
- “La sinistra che non cambia si chiama destra.”
Buon mercoledì.
Tutti pazzi per il jazz, grazie a Crossroads
Cento giorni di musica on the road, quella dell’Emilia Romagna, fino a giugno, da ben diciotto anni. In diverse città della regione, nei teatri, al conservatorio o nei jazz club per quella che è una delle manifestazioni jazz più attese e seguite in Europa e che vanta protagonisti eccellenti del panorama nazionale e internazionale. Un calendario ricchissimo e vario per un pubblico attento e in crescita, anche tra i giovanissimi. Nell’edizione odierna, sui vari palchi del territorio, sono stati già applauditi Fresu, Bosso, Omar Sosa & Seckou Keita, Rava, Gatto e molti altri. Nei prossimi giorni, fino al primo giugno, ultima data per quest’anno, si esibiranno: il 31 maggio, al Teatro Asioli di Correggio, Filippo Vignato Trio, a seguire Roberto Gatto New Quartet; il gran finale sempre a Correggio con Francesco Bearzatti Tinissima Quartet. Della rassegna, dei suoi esordi, dei contenuti e dei progetti per il futuro, ne parliamo con Sandra Costantini, direttrice artistica, ma anche vice-presidente dell’associazione Jazz Network, tra i promotori dell’evento. Ci racconta, con entusiasmo, tra statistiche e aneddoti sorprendenti, questi anni di lavoro e gli splendidi risultati, guardando già alla prossima edizione con un unico intento: diffondere il “virus” del jazz!
Quest’anno il festival è diventato “maggiorenne”, considerato che è il diciottesimo anno: quali erano gli intenti iniziali e quali i risultati?
Quando nacque, nel 2000, Crossroads si delineò subito come festival regionale. Allora, alla sua prima edizione, coinvolgeva quattro città: Bologna, Modena, Ravenna e Reggio Emilia. Poi, anno dopo anno, la rete si è allargata e oggi il circuito tocca ventitré centri, grandi e piccoli, dell’Emilia-Romagna: tutte le nove province vi sono rappresentate, da Piacenza a Rimini. I concerti si tengono in sedi disparate (teatri di varia capienza, dai cento ai novecento posti, club, centri sociali, chiesette sconsacrate, sale da concerto, etc).
Chi sovvenziona tutta questa organizzazione, che vede coinvolta un’intera regione?
Non ha sponsor privati e si regge sul metodo del matching funds: andiamo a investire gran parte del contributo regionale (la Regione Emilia-Romagna è la nostra principale fonte di finanziamento) e del contributo ministeriale laddove troviamo anche sostegno locale da parte di comuni, in specie assessorati alla cultura, o associazioni come la nostra, disposti a investire assieme a noi; unendo le forze, riusciamo a realizzare programmazioni che altrimenti non sarebbero immaginabili.
Come è cambiato Crossroads in questi anni, non solo nei contenuti, ma anche negli obiettivi che si prefigge?
Direi che, crescendo, ha sempre più messo a fuoco le sue caratteristiche e la propria identità, i valori culturali che ne fanno un’esperienza unica di sicuro in Italia, ma crediamo anche in Europa se non nel mondo! Intanto la sua formula è assai originale: un festival itinerante che nell’arco di oltre tre mesi (da fine febbraio ai primi di giugno) viaggia sul territorio regionale, spargendo il fecondo seme del jazz in tutte le sue forme in lungo e in largo, con oltre sessanta concerti in programma. Per estensione territoriale (l’Emilia-Romagna è una delle più vaste regioni d’Italia!), e temporale, mi pare non abbia termini di paragone. Quel che lo rende ancora più speciale sono le parole d’ordine, i contenuti che il festival porta con sé e diffonde: la nostra “missione” è quella di rendere accessibile a tutti la straordinaria ricchezza – musicale, sociale e culturale – del jazz, per cominciare grazie a una politica di prezzi contenuti in generale e scontati ad hoc per le fasce under 25 e over 65, ma poi anche e soprattutto portando concerti e artisti in paesi piccoli e sperduti, di solito trascurati dalle istituzioni culturali, dove si perde perfino il navigatore.
La vostra, quindi, è una missione fondamentale: quella di portare ovunque la cultura.
La cultura è un diritto per tutti, ed è un dovere di chi se ne occupa fare in modo che tutti ne possano usufruire. Non esistono contribuenti di serie A e di serie B: ogni cittadino, pagando le tasse, acquisisce il diritto alla cultura esattamente come quello alla salute. Diciamo che così come anche nei luoghi più remoti c’è un presidio sanitario, noi siamo un presidio culturale.
Cerchiamo di promuovere tutte le attività della nostra associazione Jazz Network al meglio, ottimizzando appunto risorse ed energie: l’una sostiene l’altra e tutte vengono presentate in un gioco di incastri e rimandi, ogni evento si moltiplica in un’eco amplificata di mille tam-tam.
In questo periodo dalle vostre parti c’è anche il celebre Ravenna jazz: come procede questa “convivenza”?
Da alcuni anni, infatti, Crossroads porta incastonato al suo interno, nella prima metà di maggio, anche lo storico festival di Ravenna, il più longevo d’Italia per continuità, il quale a sua volta ospita in programma la serata finale della nostra iniziativa didattica (più unica che rara): Pazzi di Jazz. Dopo mesi e mesi di laboratori e incontri per le scuole e nelle scuole condotti da grandi nomi, il mega-concerto di chiusura vede sul palco 250 ragazzini esibirsi assieme ai propri eccellenti maestri (Paolo Fresu, Ambrogio Sparagna, Alien Dee), in repertori di standard jazz (ogni anno mirati) magnificamente arrangiati per l’imponente organico da Tommaso Vittorini.
L’edizione 2017 sta per terminare: qual è il bilancio di questi cento giorni?
Direi più che positivo. Soprattutto, abbiamo ascoltato concerti bellissimi, incontrato musicisti straordinari, fatto esultare intere platee. Quella della musica che finalmente si libera è di sicuro la parte più emozionante e gratificante di questo lavoro e ti permette di vivere momenti indimenticabili.
Quel sottotitolo che Crossroads si porta appresso sin dalle origini (jazz e altro) dà già l’idea della varietà di proposte artistiche che ne costituiscono ogni anno il programma: dai vecchi leoni, sempre in grado di rinnovarsi, come il grande chitarrista John Scofield col suo nuovo progetto sulla musica country, davvero splendido, o il leggendario Pat Metheny, tornato sulle scene a capo di un quartetto coi fiocchi, o la Sun Ra Arkestra, sempre sfavillante e irriverente, ai giovani o giovanissimi artisti sconosciuti ai più, ma già superstar nei propri paesi, come gli Snarky Puppy, Jacob Collier, Grace Kelly, Banda Madga, Leyla McCalla.
Che tipo di pubblico è quello della rassegna?
Assai variegato! Intanto c’è uno stuolo di fan di Crossroads, giovani e vecchi appassionati, che segue il festival fedelmente, tappa dopo tappa, senza perdersi una data. Costituiscono lo “zoccolo duro”, le “facce amiche” che rivedi a ogni appuntamento, in un luogo diverso. A livello di età, si incontrano tutte le generazioni, e il più delle volte li vedi assieme, giovanissimi e anziani. Certo alcune proposte richiamano un pubblico più adulto, altre un pubblico di ragazzi (come i già citati Snarky Puppy, fenomeno esploso tra gli adolescenti). Facemmo un’indagine approfondita sul pubblico del jazz in regione, alcuni anni fa, e ne risultò un quadro incoraggiante, secondo me tuttora attuale: quello del jazz è un pubblico colto (40% laureati, 4 volte la media nazionale); indipendente e autonomo (18,6% di liberi professionisti, imprenditori, artisti; 35% impiegati di livello medio-alto, studi e formazione avanzati: docenti, ricercatori, insegnanti, musicisti, medici, giornalisti); teso alla socialità (il 72,1% si muove in compagnia); eclettico e curioso (interessi culturali a 360%; per un concerto, il 35,1% è disposto a percorrere più di 100 km); critico e propositivo. Non è certo il tipo di pubblico che si nutre solo di televisione.
Una cosa che ho notato è che le donne, le ragazze, sono sempre di più: spesso abbiamo platee con prevalenza femminile. Mi pare una buona cosa. Si riteneva che il jazz fosse un campo di dominio maschile, specie tra i musicisti: ebbene, la storia ha smentito questo pregiudizio, non solo nel jazz sono cresciute artiste donne che eccellono in ogni strumento, ma anche dalla parte di chi ascolta, il gentil sesso è sempre più presente.

La lista degli artisti, davvero, è lo specchio di quanto di meglio offra il panorama jazzistico italiano e internazionale: da Paolo Fresu, Fabrizio Bosso, Enrico Rava ad Avishai Cohen, ma anche Carmen Souza, come del resto quelli fin qui menzionati. Con quali criteri organizzate il programma, riferendoci anche a questa edizione?
Il criterio base, irrinunciabile, è l’alta qualità artistica; si cerca poi di offrire un variegato panorama della migliore scena attuale, con un occhio alla storia e alla tradizione e l’altro all’attualità, alle novità provenienti da ogni dove, Italia compresa, per far conoscere il più possibile quanto merita di essere conosciuto. Le proposte arrivano a centinaia, da ogni parte del mondo, da musicisti come da agenzie: cerco di ascoltare il più possibile questi materiali, di curiosare tra le novità e poi sulla carta scelgo quel che mi pare interessante. Tutto poi si deve forzatamente incastrare con mille circostanze di varia tipologia: la disponibilità economica (sempre scarsa), la disponibilità degli artisti, la disponibilità dei luoghi di spettacolo (non abbiamo uno spazio “nostro” in cui programmare), la “ricettività” del tal luogo per la tal proposta, le esigenze dei partner locali e via dicendo. Non è mai semplice mettere assieme i pezzi del puzzle e raggiungere il quadro finale. Ma alla fine ce l’abbiamo sempre fatta, e con soddisfazione. Laddove si può, si cercano anche trame e fili conduttori, magari molteplici, da seguire e approfondire (per esempio, la vocalità è un tema sempre caro, così come la musica orchestrale), si perseguono differenti tipi di convivenze, stilistiche, generazionali, geografiche, culturali, e laddove se ne intravede la fattibilità, ci si diverte a mettere in piedi soluzioni e incontri inediti.
Da qualche anno a questa parte, inoltre, protagonisti di ogni edizione sono alcuni artists in residence, presenti più volte in programma alla guida di diversi progetti: si tratta dei tre trombettisti più rappresentativi del jazz italiano, Enrico Rava, Paolo Fresu e Fabrizio Bosso. Quest’anno anche il nostro batterista Roberto Gatto era artist in residence!
Lei è vice-presidente dell’associazione culturale promotrice della manifestazione. Qual è la vostra storia e quando è nata l’idea di organizzare il festival?
Jazz Network, associazione di festival e promoter europei, prima rete telematica in campo culturale al mondo, venne fondata nel 1987 a Ravenna su idea e spinta di Filippo Bianchi. Nel 2001 abbiamo dato vita a un’associazione gemella europea, con sede a Parigi, che si occupa del versante internazionale, mentre noi ci siamo concentrati su quello regionale. Le parole d’ordine di Jazz Network sono sempre le stesse: pur in un mondo ormai fondato sulla competizione forsennata, noi crediamo ancora al valore della condivisione, della cooperazione, dello scambio, della coproduzione; la promozione e diffusione del jazz e delle musiche affini rientrano in questa visione. L’intento è di diffondere il benefico virus del jazz, “un virus di libertà”, per dirla con il grande Steve Lacy.
Come conciliare le peculiarità del jazz con la nostra società, con un mondo in frenetica evoluzione?
Si dice che il jazz sia sempre stato “troppo avanti al suo tempo”, e perciò poco compreso. Oggi si parla di “globalizzazione”, si temono gli effetti economici, ma anche culturali, di questo processo. Se studiassimo un po’ di più le vicende del jazz, e allargassimo la visuale, vedremmo che proprio questo è stato in assoluto il primo fenomeno culturale “globale”, e “popolare”, fondato sulla molteplicità culturale, sulla disposizione a “intendere l’altro”, sull’inclusione. Mi piace ripetere che il jazz dovrebbe governare il mondo: non ci sarebbero più guerre, né razzismi, né ingiustizie.
È vero quello che a volte si dice, che il pubblico italiano non è così avvezzo alla musica dal vivo?
Alcuni decenni fa, il sindacato dei musicisti inglesi lanciò lo slogan “keep music live”, che è bello perché vuol dire al tempo stesso “tenete viva la musica”, ma anche “fate musica dal vivo”. È chiaro che nell’epoca dell’interconnessione globale tutti hanno ormai accesso, attraverso la tv e internet, alla cultura “mediata”, ma le zone svantaggiate non hanno accesso alla “vita culturale”, che non è mediata ma avviene “in praesentia”. Quindi se è vero che il pubblico italiano non è così avvezzo alla musica dal vivo, trattasi di processo di denutrizione culturale: noi esistiamo per portare musica dal vivo ovunque!
Il festival itinerante terminerà il primo giugno a Correggio, è già prevista la prossima edizione?
Sì, è già prevista: si terrà come sempre da fine febbraio ai primi di giugno. E ogni anno, come sempre, si ricomincerà da capo, a tessere le fila della rete, dei rapporti con i singoli partner: nulla è garantito, nulla è assicurato, bisogna ricostruire tutto ogni volta da zero. Qualche nome è già nella lista dei desiderata, ma lavorerò all’intero calendario a partire da settembre. Entro novembre il programma dovrà essere pronto. Il primo lancio alla stampa, con le anticipazioni del festival 2018, sarà dato i primi di dicembre.
Da direttrice artistica, può dire qual è stata la più grande soddisfazione di questi anni e anche di quest’anno?
Negli anni, la soddisfazione è soprattutto quella di incontrare artisti che sono anche persone incredibili. Ricordo con affetto Elvin Jones, un grande in ogni senso: quando il gigante nero ti abbracciava dopo il concerto, ti sollevava e ti inzuppava di sudore da capo a piedi! Sono anche debitrice alla potenza creativa di Archie Shepp, il guerriero del sax: lo immagino mentre nella tempesta punta il suo strumento contro i guerrafondai della terra e li sbaraglia; è sua la frase ispiratrice: «Suono per far sì che scenda la pioggia; per abolire le guerre». Fu lui a farmi conoscere uno dei miei film preferiti: Amistad, di Spielberg. Archie dice che bisognerebbe proiettarlo in tutte le scuole del mondo, io aggiungo in tutte le case.
Quest’anno, anche se il Comune continua a latitare, abbiamo avuto la soddisfazione di trovare finalmente un partner di qualità anche a Bologna. Era infatti ben strano il caso di un festival regionale in cui fosse assente il capoluogo.
Ma non tutti i comuni latitano…
Alcuni di quelli coinvolti partecipano, quello di Bologna affatto anche se abbiamo cercato, negli anni, di coinvolgerlo, chiedendo un incontro, ma non c’è stato concesso, purtroppo.
Auspici per il futuro?
Di avere la metà dei finanziamenti che hanno festival affini a Crossroads, come Banlieues Bleues a esempio, che però è più semplice da organizzare perché si tiene solo nei comuni della periferia parigina, cioè un ambito geografico ben più ristretto del nostro. Più in generale, sarebbe auspicabile che gli enti finanziatori iniziassero ad adottare anche parametri oggettivi, oltre a quelli in vigore. Al Mibact l’hanno fatto, e noi abbiamo triplicato i finanziamenti, automaticamente, per decisione di un algoritmo!
Il consumo di suolo a Roma galoppa più che nelle città della camorra
Roma capitale della deregulation urbanistica, preda dei palazzinari. E’ questo il drammatico quadro che fotografa il rapporto sul consumo di suolo redatto dall’Ispra. Dal 2012 al 2016, a Roma, è passato da 31.064 ettari a 31.594 (pari al 24,58%); proiettandoci al 2030, anno ipotizzato per l’attuazione delle previsioni del Piano Regolatore Generale – PRG), sarà di 33.959 ettari (26,42%) (tre volte il consumo di suolo a Napoli). Lo scenario previsto dal 2012 al 2030 è dunque un incremento di 2.895 ettari (161 l’anno; come dire 3 mq al minuto, pari ad un +9,32%. In un solo anno (tra 2015 e 2016) la trasformazione dei suoli nel Comune di Roma è stata pari a 54 ettari, la più alta tra le grandi città metropolitane d’Italia (Torino 22 ettari, Bologna 17 ettari).
Per ciò che riguarda il suolo destinato all’edilizia della Capitale, in otto anni (2008-2016) risultano già consumati 3.300 ettari, oltre la metà di quelli che erano disponibili in base al PRG per questa destinazione d’uso (quasi 6000). La previsione al 2030 , mostra un incremento di questa tipologia di suolo consumato di ulteriori 1.434 ettari (una volta e mezzo la pineta di Castel Fusano). Ciò porterebbe la percentuale di consumo di queste aree a circa l’80 % di quanto reso disponibile dal PRG.
Oggi a Roma, grazie ai modelli definiti nell’ambito del Progetto Soil Administration Models 4 Community Profit (SAM4CP), finanziato dal programma europeo LIFE+ , con capofila la Città metropolitana di Torino, ISPRA e Roma Capitale, hanno presentato lo scenario previsto per gli incrementi futuri di suolo consumato nell’Urbe. Ipotizzando una piena applicazione del PRG al 2030, è stata confrontata la cartografia del rapporto ISPRA 2016 “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”, – riferita agli anni 2012 e 2015 e aggiornata al 2016, in previsione del prossimo rapporto ISPRA-SNPA sul consumo di suolo – con quella vettoriale del Piano Regolatore Generale di Roma. Le informazioni sono state poi completate con la cartografia nazionale della copertura del suolo elaborata tramite un’integrazione dei dati satellitari ottenuti dal Programma europeo Copernicus 2012. Le stime sono comunque cautelative, poiché non sono considerate le previsioni sulle aree destinate a servizi, pubblici e privati, sulle infrastrutture tecnologiche, sugli interventi relativi alla città da ristrutturare.
Le stime si sono concentrate, oltre che sulle aree edificabili già descritte, anche sulle strade, dove la stima di incremento di suolo consumato è prevista al 2030 pari a 581 ettari e l’Agro romano, dove si consumerà suolo per 350 ettari.
Anche se il consumo di suolo ha subito un rallentamento nel 2016 (ma il periodo considerato è in realtà da novembre 2015 a maggio 2016), le previsioni del PRG sottolineano come l’aumento costante di copertura artificiale che ha interessato la Capitale, dal dopoguerra ad oggi, non sia destinato a diminuire.
Tra gli effetti di queste perdite di suolo per la città di Roma, sicuramente l’aumento della temperatura: la perdita di suolo influirà infatti sull’aumento della temperatura media estiva in città pari a 0,09 gradi. L’eliminazione delle aree naturali a scapito di quelle urbane porterà all’emissione in atmosfera di circa 650 mila tonnellate di CO2, a causa del mancato stoccaggio di circa 175 mila tonnellate di carbonio. I Comuni dovranno quindi dotarsi e presentare piani di contenimento delle emissioni.












