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Nazareno due e un metodo Frankenstein per la legge elettorale

Nella loquace ondata di sdegno che ha accolto la sentenza del Tar del Lazio sul concorso con cui Franceschini ha espiantato i supermusei dal patrimonio culturale della nazione non è difficile riconoscere una delle più durevoli eredità del berlusconismo, e del renzismo che ne è derivato diretto: la sovrana indifferenza per la legge, il fastidio e l’insofferenza per coloro che sono chiamati ad applicarla, l’idea di una insindacabilità assoluta del potere politico. Una mirabile frase attribuita a Giorgio Gaber ammoniva a non temere «Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me»: ed è proprio una berlusconizzazione strisciante della cultura politica italiana il male che oggi ci affligge.
Tutto, d’altra parte, sembra riportare le lancette dell’orologio all’‘età d’oro’ di Berlusconi: il discorso pubblico che si polarizza non sugli scandali della politica ma sull’inopportunutà che i cittadini conoscano questi scandali (vedi intercettazioni); il partito personale fondato sulla fedeltà al capo (quasi tutti); il controllo ferreo dell’informazione (la Rai lottizzata bestialmente).
Frattanto, un inesauribile, prodigioso cinismo sta spingendo Matteo Renzi a far di tutto per far cadere il governo Gentiloni: con la stessa tattica, la stessa pulsione fratricida che lo condusse a far cadere quello di Enrico Letta. Per carità: governi non memorabili. Ma il dubbio fondato è che, come dopo quello Letta, ciò che verrà dopo sia peggio. Ed il mezzo che è stato scelto per aprire di fatto la crisi appare la quintessenza del cinismo politico: reintrodurre i voucher. Una mossa dal triplice significato: riaffermare una precisa visione del lavoro e dei diritti; ostentare disprezzo per l’istituto referendario e per il sindacato; esporre deliberatamente il governo all’accusa di slealtà e scorrettezza.
Tutto questo in perfetto accordo con il “Berlusconi in sé”: cioè proprio con Silvio, redivivo e consegnato all’eternità. Un Nazareno due, che deve apparire un matrimonio naturale agli elettori del Pd che hanno rieletto Renzi alla segreteria.
Tanto che è facile intravedere che alle prossime elezioni si sarà chiamati a scegliere tra due blocchi: Pd-Forza Italia (da tempo, di fatto, indistinguibili in gran parte delle posizioni politiche, e nello stile) e Movimento 5 Stelle. Una prospettiva anticipata dall’accordo sulla legge elettorale: che sembra cadere su un sistema tedesco “aggiustato”. Laddove i dubbi si addensano proprio sull’aggiustamento: non solo perché con un simile metodo Frankenstein, che cuce pezzi di ordinamenti diversi in un nuovo corpo, si rischia di ottenere un risultato mostruoso. Ma anche perché è fin troppo evidente che la partita si gioca sulla soglia di sbarramento in basso, e sull’introduzione di un vero “premio di governabilità” (dove il premio sono i cittadini, legati e mani e piedi, e la Costituzione) per il primo arrivato. In questa prospettiva diventa vitale costruire un’unica lista a sinistra del Pd. Una lista che riesca a rappresentare in Parlamento tutti coloro che da anni non votano perché non credono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana: coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario; coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti o pensioni da fame. Una lista che accolga tutti i partiti attuali, ma sia molto più ampia della loro somma. Una grande lista civica nazionale di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, società civile. Una lista capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso è andato in massa a votare No al referendum costituzionale. Una simile lista non si costruisce dall’alto, ma dal basso. E il momento è ora.

Doppio attacco a Londra. Terroristi investono passanti e li accoltellano

Doppio attacco terroristico di notte a Londra, mentre mancano solo quattro giorni dal voto. E’ avvenuto sul London Bridge, ponte simbolo della capitale britannica, dove un pulmino ha investito diversi pedoni. Ne sono poi usciti tre aggressori che hanno accoltellato altri passanti.

L’attacco è continuato nella zona di Borough Market, dove lo stesso commando ha proseguito la sua azione di morte prima di  finire sotto il fuoco della polizia. Secondo l’antiterrorismo di Scotland Yard le persone uccise dai terroristi sono sette,  48 i feriti, che sono stati prortati in vari ospedali londinesi; alcuni sono molto gravi.

Scotland Yard  ha parlato di un un attacco prolungato iniziato a London Bridge e concluso a Borough Market, aggiungendo in un primo momento che non risultavano altri assalitori e smentendo che vi fossero sospetti in fuga. Nel corso della mattinata le indagini della polizia londinese sui fiancheggiatori esterni hanno portato all’arresto di 12 persone. In serata sono state rese note le nazionalità di due attentatori: si tratta di un giovane di nazionalità britannica di origine pachistana  e uno di nazionalità marocchina. I loro nomi sono  Khuram Butt e Rachid Redouane. Del terzo non sono state invece ancora fornite le generalità.

I terroristi vogliono impedirci di esercitare la nostra libertà, vogliono che blocchiamo le elezioni generali previste per giovedì… non possiamo permettere loro di farci questo. L’8 giugno dobbiamo andare a votare per difendere la civiltà, i diritti umani e la democrazia”, ha detto il sindaco di Londra Sadiq Khan.

Quello avvenuto ieri verso le 23 è il terzo attentato compiuto nel Regno Unito negli ultimi tre mesi. Il 22 marzo Khalid Masood  investì  passanti sul ponte di Westminister di fronte al Parlamento britannico, uccidendo cinque persone.  Il 22 maggio Salman Abedi, ha messo una bomba al concerto di Ariana Grande, uccidendo  22 ragazzini. Anche questo attentato era stato rivendicato dallo Stato Islamico.

La tecnica di attacco terroristico con un veicolo lanciato a tutta velocità che non può essere fermato è stata già utilizzata a Nizza dove furono uccide 80 persone e lo scorso dicembre a Berlino dove sono morte 12 persone che stavano camminando in un mercatino.

Da leggere l’approfondimento L’origine del terrore

Il fisico Giorgio Parisi: «La carenza di risorse per la ricerca ormai è strutturale»

20081024 - ROMA - PIAZZA MONTECITORIO. Lezione di fisica del prof. Giorgio Parisi. ALESSANDRO DI MEO

Il fisico Giorgio Parisi è uno degli scienziati italiani più conosciuti nel mondo e per le sue ricerche nella fisica teorica e nella meccanica quantistica ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali. Negli ultimi anni si è battuto per far conoscere lo stato della ricerca in Italia, oppressa da tagli e da una politica miope rispetto al sapere e allo sviluppo. Nel 2016, sia nell’appello su Nature che nella petizione “Salviamo la ricerca italiana”, Parisi è sempre stato in prima fila con il suo generoso impegno. A distanza di un anno dalla raccolta di firme – ne sono state raggiunte 75mila – le cose sono cambiate? «Sono rimaste praticamente uguali», risponde amareggiato. «È un problema di carenza strutturale di fondi, quindi se non ci sono aumenti sostanziali di risorse, non cambia nulla. L’ultima erogazione per i Prin, i fondi a progetto per la ricerca, è stata di 90 milioni nel 2015, ma poi non si è visto più niente». L’anno scorso ci sono state mille assunzioni di ricercatori, «utili, certo, ma quest’anno non sono state seguite da altre mille assunzioni». Sono piccoli provvedimenti una tantum, continua Parisi, con i quali non si risolve la situazione. «Il numero di ricercatori che manca alle università e agli enti di ricerca rispetto a quella che è sempre stata una programmazione naturale a partire dal 2000, sarebbe di 15-20mila unità».
L’ideale, afferma Parisi, sarebbero stati 50 milioni di euro fissi ogni anno per i ricercatori e 100 milioni all’anno per i fondi a progetto. E se questo non è possibile, almeno si progetti per il futuro. «Sarebbe stato utile dire, magari con un piano scritto: “facciamo come i debitori, un programma di rientro, in maniera che dopo 5 o 10 anni sappiamo cosa vogliamo fare dei finanziamenti e i posti da ricercatori portarli sopra l’organico». Ma questo presuppone una cabina di regia, l’Agenzia nazionale della ricerca, ipotesi caldeggiata da molti scienziati, è ormai un’ipotesi sfumata? «Un’agenzia nazionale a fondo zero non serve a nulla – continua -. Avrebbe avuto un senso se fosse stato uno strumento nuovo, dotata di almeno 200 milioni l’anno. Che è però una cifra piccola se paragonata ai 4-500 milioni dell’agenzia francese o ai 6-700 milioni di quella svizzera».

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L’origine del terrore

TOPSHOT - A woman lights candles set up in front of floral tributes in Albert Square in Manchester, northwest England on May 23, 2017, in solidarity with those killed and injured in the May 22 terror attack at the Ariana Grande concert at the Manchester Arena. Twenty two people have been killed and dozens injured in Britain's deadliest terror attack in over a decade after a suspected suicide bomber targeted fans leaving a concert of US singer Ariana Grande in Manchester. British police on Tuesday named the suspected attacker behind the Manchester concert bombing as Salman Abedi, but declined to give any further details. / AFP PHOTO / Ben STANSALL (Photo credit should read BEN STANSALL/AFP/Getty Images)

L’attentatore libico di Manchester apparteneva a una famiglia “radicalizzata”, ha scritto la stampa in questi giorni dando per scontato che tutti comprendano: l’emergenza mondiale della Jihad ha fatto sì che tutti riconoscano nella “radicalizzazione” la genesi universale del terrorismo. La penetrazione progressiva del concetto di radicalizzazione nell’ambito delle scienze sociali, a partire dal 2001, anno dell’attentato alle Torri Gemelle, ha segnato un cambiamento di prospettiva. Da uno studio dei gruppi considerati nel loro insieme che hanno usato la violenza ideologica-religiosa dando a essa un significato politico si è passati a considerare gli individui, la loro soggettività, i loro percorsi e le interazioni all’interno delle “cellule” a cui aderiscono: si tratta di cogliere delle traiettorie, dei cambiamenti che si effettuano in un tempo più a meno lungo per poi sfociare eventualmente nell’attentato. La radicalizzazione si situa nel punto d’incontro di tre coordinate: il contesto socio-culturale, la situazione personale, l’adesione a un gruppo “estremista” facilitata da Internet o dalla permanenza in strutture carcerarie nelle quali operano dei “reclutatori”.

Il termine radicalizzazione pertanto da una parte implica l’adesione a idee estremistiche dall’altra il rischio del passaggio all’atto violento. Naturalmente giustificare verbalmente la violenza è altra cosa dal metterla in atto. Secondo uno studio del 2015 del deputato Sébastien Pietrasanta in Francia la popolazione dei i radicalizzati è costituita per il 25 per cento da minori, il 35 da donne, il 40 da convertiti all’Islam (la metà dei quali si reca in una zona di combattimento). I due terzi di quest’insieme hanno un’età compresa fra i 15 e i 25 anni: si tratta di soggetti nei quali il passaggio dall’adolescenza all’età adulta espone, in particolari condizioni familiari e ambientali, al rischio di una crisi di identità prolungata. In Italia, come testimoniano gli studi del settore, il fenomeno radicalizzazione è sicuramente molto meno rilevante che in Francia, ma interessa ugualmente persone molto giovani, in prevalenza di sesso maschile, concentrate per lo più nelle regioni del nord est e del Nord ovest. Anche nel nostro Paese le carceri sono il luogo in cui più facilmente si struttura una visione estremista dell’Islam.

Com’è che si passa da una visione radicale a un’azione terroristica ? Chi è veramente il terrorista e perché soprattutto giunge a compiere stragi così sconcertanti e brutali? È un criminale o un malato di mente?

Definire il termine “terrorismo” in una maniera univoca è quanto mai difficile perché esso rischia di diventare una categoria al di fuori della storia utilizzato con riferimento a fenomeni molto diversi da loro: prima di essere l’oggetto di una definizione esso è un’ accusa, carica di valenze polemiche e passionali che serve a squalificare e depoliticizzare. Nella contemporaneità la parola per effetto di una mutazione semantica, ha assunto il significato di strategia violenta diretta contro lo stato. Originariamente invece “Il terrore” a partire dal governo giacobino del 1793, indicava una forma di violenza interna allo stato moderno, una forma di coercizione politica esercitato contro le opposizioni, che si distingueva dalla guerra cioè dall’esercizio della forza rivolta all’esterno. Il diplomatico e storico Chateaubriand scrisse che il regno del terrore di Robespierre non era stato l’invenzione di pochi giganti, ma una malattia mentale sotto forma di pestilenza.

Il fatto di connettere terrore e malattia mentale è una vecchia storia. Nella Francia del XIX secolo gli psichiatri e i politici furono particolarmente solerti nel mettere in relazione il terrore rivoluzionario e la pazzia. Furono create nuove diagnosi come monomania politica, nevrosi rivoluzionaria, o paranoia riformatoria. Ma il nesso fra violenza politica e malattia mentale non può essere stabilito in modo semplicistico. E’ quanto afferma Laure Murat che ha scritto saggi sul rapporto fra psichiatria e politica nell’epoca d’oro dell’alienistica in Francia. Alla femminista e rivoluzionaria Théroigne de Mericourt, leader di un gruppo armato durante la rivoluzione francese, per esempio, fu diagnosticata da Jean Etienne Esquirol una demenza dovuta alle sue idee politiche. La sua pazzia era strettamente in relazione con i suoi convincimenti, si chiede la studiosa francese, o le idee politiche dei medici, opposte alle sue, orientarono la diagnosi?

Anche lo psichiatra americano Marc Sageman riporta il convincimento di molti suoi colleghi secondo i quali i terroristi, nella stragrande maggioranza dei casi non rivelano sintomi delle maggiori patologie psichiatriche. Come si sa però fin dagli albori della psichiatria esistono patologie molto gravi che decorrono, per lunghi periodi, in modo pressoché asintomatico. Per lo psicopatologo parigino Fethi Benslama invece non si può escludere l’importanza dell’alterazione della vita psichica nel processo di militanza estremista senza cadere in una forma di negazionismo. Secondo lo studioso la radicalizzazione islamica, dopo la sua diffusione su internet, ha cambiato natura. Divenendo un prodotto di massa è andata incontro a un depauperamento ideologico e ha lasciato spazio all’imprevedibilità e all’incoerenza di individui alla deriva.

Nel terrorismo delle Brigate rosse, che erano un gruppo paramilitare clandestino che colpiva in base a precise risoluzioni strategiche, prevaleva la paranoia ideologica di persone all’apparenza coese, mentre i terroristi islamici attuali passano dalla “normalità” alla pazzia dell’omicidio di massa per motivazioni religiose, togliendo la vita a chi si trova nel punto sbagliato nel momento sbagliato. Le vittime sono uccise, assurdamente, per quello che sono non per quello che fanno, come accadeva nell’olocausto. L’atto terroristico subisce lo svuotamento di ogni senso umano che è in qualche modo funzionale alla strategia dell’Isis: si vuole colpire su scala globale ma soprattutto in modo imprevedibile. Lo stato islamico esibisce una volontà distruttiva che è messa in atto da giovani caduti per un’improvvisa frattura, per una percezione delirante, un annullamento catastrofico che si determina all’interno della loro realtà psichica, in una condizione di totale anaffettività e onnipotenza.

A proposito di Anders Breivik, uno schizofrenico paranoide che si credeva terrorista, Massimo Fagioli scrisse che per il norvegese ammazzare 88 persone era come aver schiacciato altrettante formiche. Gli attentatori compiono esecuzioni, sgozzano, crocifiggono, amputano, bruciano, lapidano senza pietà, talvolta ridendo o cantando come al Bataclan a Parigi. Il grido di Allah akbar significa che essi credono che è Dio stesso che agisce tramite il loro braccio e pertanto niente è per loro impossibile. Le vittime non sono persone, ma solo numeri di potenziali cadaveri. La diagnosi di schizofrenia o psicosi indotta, riferita a tali individui, servirebbe soltanto a confrontare semplicemente la politica terroristica con gli schemi della psicopatologia classica: essa non ci aiuta da sola a comprendere la complessità dell’atto terroristico spesso non inquadrabile nella sintomatologia usuale.

All’attentato si arriva comunque tramite un percorso scandito da vari momenti: si ha una prima fase che è la radicalizzazione che mira a creare una vulnerabilità, un terreno predisponente, poi subentra l’adesione al piccolo gruppo che crea un rinforzo motivazionale e logistico e infine si giunge l’acting out violento che irrompe in modo imprevedibile per effetto di una sommatoria di stimoli, di contatti veicolati da internet e di inputs occasionali provenienti dall’ambiente circostante. Il futuro martire entra in un gioco d’identificazioni speculari ed eroiche che, agendo come un imbuto lo spingono a un comportamento imitativo.

Noi non sappiamo qual è il punto di rottura di ciascun soggetto radicalizzato per cui l’azione terroristica quando esplode si diffonde in modo epidemico ma nello stesso tempo a macchia di leopardo senza che fra i vari attentati ci sia una continuità logica. Dietro tutto questo c’è però una programmazione, una strategia razionale nascosta dietro un guscio mistico-religioso: essa utilizza in modo altamente efficace gli strumenti della propaganda. La malattia mentale e il suo potenziale distruttivo è alimentata lucidamente per destabilizzare gli apparati dello stato e creare il panico.

Il punto di debolezza dei paesi occidentali, rispetto all’attacco dell’Isis, consiste anche nella presenza di una psichiatria che non ha abbandonato i suoi presupposti illuministici. Gli stessi che giustificando la violenza politica avevano portato al terrore nel 1793 in Francia. Nel 1794 Philippe Pinel stesso, come riporta Laure Murat, teorizzava che per tenere a freno e sottomettere i pazienti «clamorosi» così denominati nell’archivio del Manicomio di Siena, si poteva ricorrere a «un formidabile spettacolo di terrore». La psichiatria filantropica e illuministica degli esordi aveva un fondo antiumano che fu il motivo di una sua progressiva degenerazione che raggiunse il parossismo con lo sterminio dei malati di mente durante il nazismo in Germania. Oggi, in alcuni suoi settori essa deve ancora superare i sensi di colpa per l’infamia di aver anticipato l’olocausto e, nella maggior parte dei casi, non è assolutamente in grado di affrontare e comprendere il nuovo volto del terrorismo islamico che ripropone una logica simile a quella del genocidio e una patologia mentale che può rimanere a lungo nascosta dietro un’apparente asintomaticità.

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Ispra, il paradosso: un ruolo decisivo per l’ambiente e meno soldi di prima

GIAN LUCA GIANLUCA GALLETTI

«Come si suol dire, il re è nudo. Qui non è in gioco il singolo precario, qui ci sono 1200 dipendenti a tempo indeterminato che fra un mese o due non sapranno cosa fare». Stefano Laporta, direttore, nonché a breve presidente dell’Ispra, parla davanti a decine di delegati sindacali e lavoratori dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. È venerdì 26 maggio e l’incontro, in diretta streaming, è stato organizzato perché 90 precari dell’ente pubblico di ricerca rischiano di essere licenziati. Chi arriva alla sede generale di Roma, all’Eur, nota subito gli striscioni dell’Usb che ha occupato alcuni locali. Ma le parole del dirigente, che ricopre l’incarico all’Ispra dal 2010, vanno oltre la situazione contingente dei 90 precari. Il quadro che viene dipinto è allarmante. Un «disavanzo strutturale esistente», «una situazione economica che pregiudica il funzionamento dell’ente», soldi che non bastano a coprire le missioni, salvo quelle pagate con fondi esterni. «Sembra che l’unico problema sia tenere dentro le persone, ma non è questo il problema – sottolinea il direttore -. Non abbiamo i reagenti nei laboratori e se accade un evento come l’incendio di Pomezia io devo chiedere di fare subito degli interventi, ma per i reagenti occorre un milione all’anno». Naturalmente i sindacati hanno fatto notare che «non si può scaricare sul precariato una faccenda che non è nuova», spiega Fabrizio Stocchi, responsabile della Cgil per gli enti di ricerca, ricordando anche che Laporta è lì da anni e che se non si riesce ad andare avanti nella gestione ordinaria ora che l’Ispra è chiamato a nuovi compiti «è proprio una follia». I precari dell’Ispra, come di altri Epr, sono “storici”, persone cioè specializzate che lavorano anche da oltre dieci anni. Con contratti a tempo determinato, sempre appesi a un filo. Adesso chi si trova a lavorare per progetti europei può stare tranquillo finché rientra nei 5 anni consentiti e finché partecipa a nuovi bandi, ma chi invece viene pagato con fondi ordinari, rischia di non vedersi rinnovato il contratto alla sua naturale scadenza. E il problema delle risorse, dicono all’Ispra, si trascina sin dalla nascita dell’ente stesso, nel 2008. Allora furono accorpati tre istituti che dipendevano direttamente dal Ministero dell’Ambiente: l’Apat per la protezione dell’ambiente, l’Icram che si occupava di mare e l’Infs, l’Istituto per la fauna selvatica. Solo che alla fusione non corrispose un adeguato finanziamento. Il ministro Prestigiacomo aveva previsto 100 milioni, ma nella finanziaria ne arrivarono 93 e poi da lì, un continuo sgretolamento, fino agli 81 attuali. Da allora sono stati persi circa 13 milioni cui l’Ispra fino a oggi era riuscito a sopperire attingendo a un “tesoretto” accantonato negli anni. Oggi è scomparso anche questo.

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L’essere e il tempo

La scorsa settimana un lettore mi ha chiesto conto del mio editoriale su religione e sinistra in cui sostenevo, in verità rubando a piene mani da Massimo Fagioli, che l’alienazione religiosa, problema irrisolto da Marx, è causata dalla pulsione di annullamento, ossia dalla capacità solo umana di annullare come pensiero l’esistenza della realtà e il suo senso. Il lettore sosteneva che la religiosità, anche risolvendo il problema dell’annullamento, esisterebbe comunque, perché l’uomo ha paura della morte e quindi succede che si inventi un dio e una vita dopo la morte. Sempre rubando a Fagioli, gli ho risposto che il problema del non essere non sta nella paura della morte, ma sta nella non comprensione della nascita e nel suo annullamento.
La fantasia di non esistenza del mondo alla nascita è una fantasia perché la realtà del mondo continua ad esistere malgrado la pulsione di annullamento del nuovo venuto al mondo. Si potrebbe dire che è un delirio nel senso che è un non rapporto con il mondo. Come scritto in Istinto di morte e conoscenza, si tratta del primo rapporto con il mondo come non-rapporto con esso.
Essendo un rapporto che è non-rapporto, in esso è la matrice della creatività dell’essere umano. Il poter creare cose nuove, cose che prima di essere pensate e create, non esistono. Ma come è possibile che un non-rapporto sia, in verità, rapporto? Per due motivi. Perché esso è una reazione a qualcosa, e quindi rapporto, con ciò che non c’era prima della nascita: la luce.
E poi perché la pulsione è una reazione espressa dalla realtà biologica del corpo umano. È dal corpo che emerge il primo pensiero che si configura come fantasia di non esistenza del mondo e, allo stesso tempo, per la vitalità della realtà biologica che contrasta la pulsione di annullamento, la certezza dell’esistenza di un altro essere umano con cui avere rapporto. Compare quella che Fagioli ha chiamato la fantasia di sparizione. L’accostamento delle due parole mette insieme due opposti assoluti: fantasia ossia la creazione di qualcosa e sparizione ossia fare il non-essere.
È fondamentale comprendere che senza biologia del corpo non ci sarebbe, ovviamente, nessuna reazione e nessuna pulsione. Il pensiero umano non esiste in astratto. Esiste perché esiste la biologia del corpo umano.
Allora la paura della morte non esiste. Perché essa è la paura del non-essere per aver annullato che l’origine del proprio pensiero è nella realtà biologica ed è indissolubilmente legato ad essa. E l’origine del pensiero è anche l’origine del tempo che è finito per ogni essere umano perché compreso tra la nascita e la morte.
Il fisico Carlo Rovelli è uno studioso del tempo. Ne studia le caratteristiche. Vuole capirne l’essenza. È famoso per aver detto che il tempo, in realtà, non esiste.
Qualunque formula della fisica che rappresenti una dinamica di modificazione di qualche tipo, comprende necessariamente la variabile t (che indica la misura del tempo), perché la formula rappresenta il prima e il poi di quel sistema fisico.
Rovelli ci dice una cosa per certi versi sconvolgente, ossia che è possibile rappresentare la fisica in un modo in cui non ci sia più lo svolgimento del tempo come fosse una linea continua. Possiamo invece pensare il mondo come formato da un’infinità di eventi “prima e poi” senza quindi che ci sia una separazione temporale tra il prima e poi di ogni evento. È l’insieme di questi infiniti eventi “prima e poi” che “creano” il tempo, o meglio l’illusione di esso. La cosa è affascinante perché Fagioli, nel corso del 2016, in una serie di articoli pubblicati su questo giornale, ha creato una sequenza di parole che indicano la successione degli eventi che si verificano alla nascita e che però non sono separati uno dall’altro “nel tempo”. Essi sono eventi simultanei l’uno con l’altro, pur essendo, tutti, in una relazione “prima-poi” con il successivo.
Reazione, pulsione, vitalità, creazione, esistenza, tempo, capacità di immaginare. Forza, movimento, suono, memoria, certezza che esiste un seno.
L’essere e il tempo dell’essere umano si creano con la nascita e scompaiono con la morte. La paura della morte non esiste. Esiste la volontà di non morire. Ma essa non è paura. È capacità di amare, espressione dell’essere esseri umani, che è voler stare con gli altri, esseri umani diversi da se stessi.

L’editoriale è tratto dal numero di Left in edicola

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Voucher, schiaffo alla democrazia: l’appello Cgil e la manifestazione il 17 giugno

Il presidio della Cgil al Pantheon in occasione della votazione al Senato per la conversione in legge del decreto per l'abolizione dei voucher e la reintroduzione della responsabilita' solidale negli appalti, Roma, 19 aprile 2017. ANSA/ ETTORE FERRARI

Capita anche questo, in quello che ormai è diventato il magico mondo delle larghe intese. Il referendum abrogativo dei voucher richiesto da milioni di cittadini viene annullato dalla Corte di Cassazione perché il Governo il 21 aprile con un decreto legge ad hoc aveva eliminato i provvedimenti oggetto del referendum abrogativo. E che fa il governo in questione? Reintroduce, nella sostanza, con l’escamotage di un emendamento alla legge di correzione di bilancio, lo stesso sistema. Uscito dalla porta rientra dalla finestra.

Giustamente la Cgil parla di Schiaffo alla democrazia. E’ questo il titolo dell’appello che i cittadini possono firmare. E che è diretto alla Corte di Cassazione perché valuti come illegittima la novità del “rientro” del sistema dei voucher con un voltafaccia che avrebbe, secondo la Cgil, tutte le caratteristiche dell’incostizionalità. Si va contro infatti all’articolo 75 . E allo stesso tempo l’appello è diretto al Presidente della Repubblica Mattarella affinché non firmi la legge che promulga il ripristino dei voucher. Una introduzione, si legge nell’appello “sotto le mentite spoglie di un “Libretto di Famiglia” per il lavoro occasionale in ambito domestico e del “Contratto PrestO” (che contratto proprio non è, e comunque gli hanno cambiato nome per dimostrare di aver raccolto suggerimenti e osservazioni) per ridare i voucher alle imprese fino a 5 dipendenti”.

Intanto proprio contro la rentroduzione dei voucher e lo scippo del referendum, è stata fissata per il 17 giugno una manifestazione a Roma, a cui hanno già aderito Sinistra italiana e Possibile.

I voucher sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso alla Camera. Ieri la votazione alla fiducia sulla legge di bilancio – con, appunto, l’emendamento incriminato – ha visto il no di Mdp al governo, con Arturo Scotto che ha parlato di “sfregio costituzionale”, mentre Sinistra italiana di “furto di democrazia”. Alla fine la legge “omnibus” con 67 articoli e tantissimi micromisure è passata con 218 sì, 127 no e 5 astensioni.

Il testo ora va al Senato dove se continuerà l’opposizione di Mdp, il governo Gentiloni rischierà di andare sotto, considerando anche un eventuale no di Udc e degli alfaniani in rotta per lo sbarramento della legge elettorale al 5%.
Pierluigi Bersani intervistato oggi da Repubblica afferma che “qui non hanno abolito i voucher, hanno abolito il referendum”. Il leader di Mdp suggerisce anche la strada da percorrere: “Si tengano per le famiglie e si apra il tavolo per capire cosa fare con le imprese”.
Il 17 giugno si tiene la manifestazione. Due cortei la mattina che partono da Piazza della Repubblica e da Piazza Ostiense con appuntamento alle 12 a piazza San Giovani dove parlerà Susanna Camusso segretario generale della Cgil.

La travolgente Orchestra di Tor Pignattara, a Palazzo Venezia il sound multietnico 2G

Nel giorno della festa della Repubblica italiana, al Giardino Ritrovato di Palazzo Venezia suona la Piccola Orchestra di Tor Pignattara, un’orchestra romana di giovanissimi, i più piccoli delle cosiddette “seconde generazioni” Premio MigrArti 2017, questa band multietnica è composta da una trentina di ragazzi che hanno radici in ben undici diversi paesi del mondo (Filippine, Somalia, Egitto, Nigeria, Senegal, Romania, Francia, Ghana, Ecuador, Australia e Italia). Questa originale formazione è nata da un’idea di Domenico Coduto, per la direzione artistica di Pino Pecorelli, tra i fondatori e musicisti di un’altra realtà artistica interessante, quella dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Un vero e proprio laboratorio, di musica e canto, quella dei ragazzi romani di Tor Pignattara, nato anche per promuovere il dialogo culturale e l’integrazione. Il 2 giugno alle 19 suonano ben dieci brani, di cui sei originali, che prossimamente potrebbero confluire in un’altra produzione discografica, avendo già all’attivo tre album e due videoclip, tra cui il recente Under, che ha ottenuto una grande esposizione mediatica. Il concerto del 2 giugno porta un titolo che fa ben sperare: Better days, la musica dei nuovi italiani. Che siano migliori per il progetto in sé e per quello che le nostre istituzioni potranno offrire a una simile realtà sociale. Proprio Pecorelli, che attualmente è alle prese con un nuovo spettacolo dell’orchestra, diciamo sorella maggiore, di Piazza Vittorio, ci racconta come è nato il progetto e con quali intenti, ma soprattutto qual è il grande sogno da realizzare.

Prima di tutto, complimenti per questo risultato, considerato che al bando hanno preso parte centinaia di associazioni che operano nel settore, giungendo voi al secondo posto. Che cosa presentate il 2 giugno al pubblico romano?
Il frutto di un percorso fatto durante l’anno con i ragazzi, ma anche quello realizzato per l’assegnazione di fondi, in occasione di questo bando, da parte del ministero, sensibile alle strutture culturali simili alla nostra. Un lavoro che, in realtà, è cominciato molto tempo fa e che, per la prima volta a Roma, ci vedrà fare un repertorio composto per la maggior parte di brani originali.

Qual è, dunque, il vostro repertorio?
Fino a oggi abbiamo spesso suonato un repertorio fatto di brani tradizionali o cover, che io portavo ai ragazzi come stimolo per vedere come suonare brani dai generi diversi, invece nel tempo è stato fatto un lavoro sulla creatività e cominciano ad arrivare i primi frutti. Abbiamo realizzato dei brani originali, scritti tutti insieme, per me questa è la maggiore delle conquiste.

Potendo creare loro, i ragazzi quale tipo di genere musicale prediligono?
Quello della musica leggera, declinata il più possibile in quello che è il gusto degli adolescenti. Pur provenendo dai quattro angoli del pianeta, i ragazzi vogliono suonare la musica che ascoltano qui e che li fa sentire simili ai loro coetanei che non suonano.

Quando è nata l’idea di realizzare questa realtà musicale, in un quartiere popolare come quello di Tor Pignattara?
L’idea è di Domenico Coduto, che è un operatore culturale che abita a Tor Pignattara e che nel 2012, guardandosi intorno, si è reso conto che la maggior parte dei ragazzi che frequentavano il quartiere parlavano uno straordinario romanesco pur avendo tratti somatici molto diversi tra di loro. Il progetto è nato anche, e sulla base, di quella che è stata l’esperienza dell’Orchestra di Piazza Vittorio. L’idea è quella di mettere insieme ragazzi di seconda generazione, figli di immigrati nati o cresciuti in Italia, figli di coppie miste presenti nel nostro territorio, insomma minori che abbiano un background culturale molto diverso tra loro. Nel tempo l’idea si è approfondita, abbiamo cominciato anche a coinvolgere i minori richiedenti asilo politico, minori non accompagnati, ed è diventato un laboratorio in cui convergono sia storie di immigrazione riuscita, ma anche ragazzi italiani. Ci sono poi i minori rifugiati, che hanno intrapreso viaggi molto complicati, i soliti barconi che arrivano in Sicilia, che vengono mandati da noi dalle strutture che li ospitano, soprattutto quando si accorgono di qualcuno che ha una certa predisposizione musicale o che manifesta la volontà di cantare e di suonare assieme a noi.

Parlaci della vostra organizzazione: in quale luogo vi incontrate, dove fate le prove?
Non c’è stato assegnato uno spazio dal Comune o dalla Regione, siamo un normale gruppo che paga una sala prove che sta in zona Colli Albani. Attraverso questo affitto facciamo le prove e siamo rigorosi in questo, il nostro è un percorso costante, dobbiamo dare una continuità ai ragazzi, per cui ci vediamo due volte a settimana: il lunedì e il venerdì. L’obiettivo, infatti, non è soltanto quello di formare dei musicisti, ma anche quello di dare consapevolezza che per la riuscita di un progetto, nel campo artistico come in altri, c’è bisogno di costanza, di regole, di attenzione.

Per quale ragione, il Comune, la Regione, o qualsivoglia istituzione pubblica, latitano, non dando uno spazio adeguato a un’iniziativa così importante? Ma voi, lo avete mai chiesto?
Venendo io da quindici anni di esperienza con l’Orchestra di Piazza Vittorio, ho smesso di chiedere perché ho visto, da spettatore per i primi anni, e poi da parte in causa, occupandomi di molti aspetti produttivi dell’orchestra stessa, che era inutile. Ho smesso di chiedere per non sentirmi dire “adesso ve lo diamo!” e poi non averlo; abbiamo ricevuto una serie di promesse, da tanti colori politici, ma l’unica attenzione che abbiamo avuto, e di questo ne siamo grati, è quella del Ministero dei Beni culturali che c’ha sostenuto con il finanziamento di questo bando.

Come fate a esistere, a continuare a fare attività?
Grazie ad alcune fondazioni private che ci alimentano. Ribadisco, questo di MigrArti è stato il primo momento di sensibilità da parte di una struttura pubblica, nella persona di Paolo Masini, che ci tengo a ringraziare particolarmente, perché ha un’attenzione particolare rispetto a progetti di questo tipo, che è un fenomeno raro nel panorama politico italiano/romano.

Perdonami se insisto, ma si parla tanto, soprattutto nella nostra città, dell’attenzione ai temi sociali, alla immigrazione, che non è possibile farsene una ragioneo. Ci sarebbe un luogo che vi potrebbe ospitare, anche a Tor Pignattara?
Sì, certo! Ma è un discorso più grande di noi. Gli spazi a Roma ci sono, ma vengono concepiti soltanto in virtù di quanto profitto producono perché c’è l’idea che anche la cultura deve produrre ricchezza. Invece, un quartiere, come quello di Tor Pignattara a esempio, dove proliferano attività commerciali di tutti i tipi, aperti 24 ore su 24, è surreale che non abbia spazi culturali che possano essere vissuti veramente dalla popolazione. Ci sarebbero spazi idonei, e gli effetti positivi di uno spazio dove i giovani, gli adolescenti possano andare a suonare con una guida artistica sarebbero più che positivi. Non lo dico perché lo facciamo noi, lo potrebbe fare chiunque.

Fate una sorta di selezione per scegliere i ragazzi per l’orchestra?
Cerchiamo di capire se i ragazzi che ci cercano sappiano un minimo suonare uno strumento o sappiano cantare perché non abbiamo i fondi per fare una scuola di musica, ma possiamo soltanto fare attività di musica di insieme. Cerchiamo di non lasciare nessuno fuori della porta, ma, logicamente, abbiamo vari livelli di capacità, abbiamo quello particolarmente bravo, come quello che ovviamente teniamo dentro perché è importante offrirgli un’opportunità. I ragazzi ci conoscono attraverso il sito, o con il passaparola oppure sono le strutture di prima accoglienza a parlargli di noi.

Mi parlavi prima della creatività, del fatto che da un po’ di tempo, rispetto alle scelte iniziali, i brani sono il frutto di un’espressione personale dei ragazzi, che si sentono anche al passo con i tempi. Quali sono i temi che inseriscono nelle canzoni?
Li scegliamo anche insieme e si parla di razzismo, dei ragazzi stranieri in generale, di immigrazione, ma ci sono anche le problematiche degli adolescenti, della difficoltà di confrontarsi con la società, si parla anche di amore. Si parla pure di speranza come nel brano che dà il titolo al concerto della serata del 2 giugno: Better days, la musica dei nuovi italiani. In sostanza, l’idea del testo nasce da un simbolico dialogo tra una mamma e un figlio durante uno dei loro terribili viaggi in mare per arrivare da noi. Il figlio chiede aiuto, chiede risposte alla mamma, che gli promette che senz’altro arriveranno giorni migliori.

Questi adolescenti, a parte quelli italiani, si sentono romani a tutti gli effetti?
Non si sentono, lo sono! È un’orchestra di romani. Ci tengo, sempre, a precisare che sono un gruppo di italiani che suona insieme perché sono stranieri. Sono romani pur non avendo gli stessi diritti, come i figli di genitori entrambi stranieri. Tra di loro ci sono tutte le sfaccettature dell’immigrazione, ma la cosa molto bella è la capacità di vivere tutte queste problematiche (permessi di soggiorno, etc) con grandissima capacità di condivisione: riescono a farsi carico dei problemi altrui con una naturalezza che noi adulti dovremmo imparare.

Le loro famiglie condividono la scelta dei figli di far parte di un’orchestra/band musicale così coinvolgente?
Moltissimo. Una sola cosa, noi ci teniamo che questo percorso non infici la loro carriera scolastica, infatti c’è una persona tra gli organizzatori, che si chiama Daniele Cortese, che si occupa proprio di questo; cerchiamo di essere vigili sul loro percorso scolastico e in questo chiaramente le famiglie ci chiedono un aiuto e c’è una collaborazione molto bella.

Il 2 giugno avete un pubblico ampio e presentate brani inediti.
Sì, ed è emozionante perché (ride) oggi non ci saranno solo i parenti.

A Tor Pignattara vi siete mai esibiti?
Adesso che ci penso, una sola volta, in una scuola.

Dopo questa bella esperienza, qual è il futuro dell’orchestra? Avete dei progetti?
Come prima cosa, speriamo che chi ci sostiene continui a farlo e di poter far crescere questo progetto. Il nostro grande sogno è quello di mettere insieme la Piccola Orchestra con quella di Piazza Vittorio, in un unico grande spazio dove i musicisti di quella di Piazza Vittorio diventino gli insegnanti di quelli di Tor Pignattara. Che si possa creare un posto a Roma, in Italia, dove gli stranieri possano fare musica assieme e restituire un po’ della bellezza di cui hanno goduto, e godono, con l’aver trovato fortuna in questo paese. La voglia di fare qualcosa insieme dipende dal trovare anche qualcuno che ci sostenga economicamente.

A proposito dell’orchestra, diciamo sorella maggiore, quella di Piazza Vittorio: cosa state preparando?
Stiamo preparando un debutto che faremo il 13 giugno a Lione con una rielaborazione del Don Giovanni di Mozart. Lo spettacolo durerà fino al 15 giugno, sul nostro sito ci sono tutte le informazioni. Proprio in questo momento sono a Pomezia per le prove, davanti alla sala dove c’è l’allestimento della nostra opera.

Le donne della Repubblica: da Teresa Mattei a Tina Anselmi storie di coraggio e coerenza

Teresa Mattei alla firma della Costituzione Teresa Mattei, L’approvazione e la firma della Costituzione Teresa Mattei, la più giovane eletta all’Assemblea Costituente, è la prima donna a ricoprire il ruolo di Segretario di Presidenza; si deve a lei la scelta della mimosa come simbolo dell’8 marzo.

Oggi, 2 giugno, festa della Repubblica, ricordiamo una storia silenziosa in Italia, dimenticata. È quella delle donne divise tra Resistenza e politica che hanno contribuito a raggiungere la parità giuridica, con il diritto di voto, per la prima volta esercitato il 10 marzo 1946. Dieci autrici – che fanno parte di Controparola, un collettivo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini – hanno dato vita a una serie di ritratti femminili raccolti nel volume edito da Il Mulino Donne della Repubblica.
Si va da Camilla Ravera, irriducibile rivoluzionaria, a Teresa Noce e Ada Gobetti, la partigiana educatrice, e poi Marisa Ombra, Teresa Mattei. Ancora: Lina Merlin famosa per la legge che aboliva le case chiuse; oppure Nilde Iotti, prima presidente donna della Camera, oltreché compagna “clandestina” di Togliatti e Tina Anselmi prima donna ministro. Tutte donne il cui impegno politico per la conquista dei diritti è stato sempre trascurato.
Nulla o poco si sa poi della partecipazione alla Resistenza delle scrittrici Alba De Céspedes e Fausta Cialente. Così come di Renata Viganò, autrice de L’Agnese va a morire. E Anna Magnani è conosciuta come attrice ma non come antifascista accanita, così come sono state ignorate le scelte coraggiose di Elvira Leonardi, detta “Biki” una delle più celebri stiliste italiane o di Giulia Occhini, la “Dama bianca” di Fausto Coppi. Negli anni Cinquanta il divorzio non esisteva e il reato di adulterio e abbandono del tetto coniugale era punito con il carcere.
«Sono tutte figure trascurate o dimenticate che secondo noi valeva la pena ricordare», racconta la giornalista Eliana Di Caro, che ha scritto il profilo di Ada Gobetti e di Tina Anselmi a due mani con Elena Doni.
Ada Gobetti e Tina Anselmi. Perché le ha scelte?
Tina Anselmi l’ho scelta io ma, per esempio, Ada Gobetti mi è capitata casualmente. E sono stata veramente felice perché è stata una vera scoperta. Pensavo che fosse solo la moglie di Piero Gobetti. Invece ho scoperto un personaggio ricchissimo che non aveva nulla da invidiare al marito dal punto di vista intellettuale, del carisma, della condivisione degli ideali.
Perché la definizione di “partigiana educatrice”?
Ada Prospero – che è il suo cognome da ragazza – non solo diventa partigiana e va in montagna con il figlio, lasciando la testimonianza di questi anni resistenziali in quel testo meraviglioso e avvincente che è Diario partigiano, ma una volta tornata, andrà a dirigere il Giornale dei genitori, in cui esprimerà la sua vocazione sociale e pedagogica. Ada sosteneva che i genitori costruiscono il cittadino di domani e hanno un’enorme responsabilità. Naturalmente non poteva mancare il suo impegno per l’emancipazione femminile: contribuisce a creare i gruppi di difesa della donna, diventa vicepresidente dell’Udi ed è stata la prima vice sindaca di una grande città come Torino, subito dopo la guerra.
Tina Anselmi, scomparsa di recente, l’ha invece definita “una donna da primato”. Perché?
Perché i primati di Tina Anselmi sono tanti. Intanto è stata la prima Ministra donna della nostra Repubblica. Un dicastero davvero importante il suo, perché diventa ministro del Lavoro nel 1976 e, come ripeto in tutte le presentazioni senza stancarmi mai, se oggi, nel settore pubblico, un uomo e una donna hanno la stessa retribuzione, lo dobbiamo alla sua legge sulla parità salariale e di accesso al mondo del lavoro. Come dico sempre, non è un caso che questa legge l’abbia firmata una donna e che si sia aspettato purtroppo il 1977 per farlo. Parliamo di una conquista epocale anche se purtroppo nel settore privato ancora oggi siamo lontani da quella che dovrebbe essere una misura scontata.Tina Anselmi è stata poi ministra della Sanità e come tale ha firmato la legge per il Servizio sanitario nazionale e la legge sull’aborto. Poi un’altra donna, la presidente della Camera Nilde Iotti, le affidò un compito spinosissimo, la Presidenza della Commissione di inchiesta per la P2 e lei se ne occupò in maniera rigorosissima, con la schiena dritta e senza mai abbassare la guardia, in assoluta solitudine. In quel momento, purtroppo, cominciò la sua fase discendente da un punto di vista politico, perché fu lasciata sola anche dal suo partito e nel 1992 fu sconfitta alle elezioni politiche. Tina, fin dal 1968 era stata votata in Parlamento ininterrottamente e fu proprio con la vicenda della P2 – come mi ha raccontato la sorella – che ha cominciato ad ammalarsi. Però la società civile, la gente comune, non l’ha mai abbandonata, le ha sempre tributato grandissima stima, tanto che proprio dai semplici cittadini è partita la richiesta di candidarsi alla Presidenza della Repubblica.
Nella storia di queste donne c’è un denominatore comune che fa riflettere. Tutte hanno combattuto il fascismo, ma tutte hanno dovuto combattere ancora di più i pregiudizi più feroci proprio all’interno dei loro rispettivi partiti, soprattutto a sinistra e soprattutto nel Partito comunista.
Si, questo è assolutamente vero. Sappiamo tutti che il Pci, alla fine, era un partito-chiesa tanto quanto lo era la Dc. Un partito molto conservatore. Lo sappiamo, per esempio, dalla biografia di Nilde Iotti costretta ad una vita da concubina nell’abbaino di Via della Botteghe Oscure. C’è da dire che le donne hanno portato avanti lotte che magari non si sono sempre tradotte immediatamente in successi, che invece sono arrivati con gli anni a venire. Mi viene in mente per esempio la battaglia per l’ingresso in magistratura. Fu Teresa Mattei a proporre subito un emendamento all’art. 51 della Costituzione che recitava le pari opportunità tra uomini e donne. Ma fu bocciato a scrutinio segreto. Si pensava comunemente che le donne non avessero l’equilibrio necessario per poter svolgere questa professione. Ci sono i verbali di quelle sedute, veramente indegni. Si è dovuto aspettare il 1963 per permettere alle donne l’accesso in magistratura.
Scorrendo il libro, ci troviamo di fronte a donne tenaci, coraggiose e intelligenti, ribelli e moderne. Teresa Mattei, che è scomparsa nel 2013, per tutti “Chicchi” durante la Resistenza, ne è un esempio brillante e anche poco conosciuto. La “maledetta anarchica” come la chiamava Togliatti, la si ricorda quasi esclusivamente perché è sua l’invenzione della mimosa come simbolo per la festa delle donne.
Mi è sempre piaciuto e affascinato il suo atteggiamento nei confronti della vita – spiega Chiara Valentini, autrice delle pagine del libro dedicate a Teresa Mattei. L’ho scelta per questo, era una donna che aveva il coraggio di dire “no”. No all’insegnante del liceo che aveva elogiato le leggi razziali. No a Togliatti, di cui non condivideva la politica stalinista. No a un Pci moralista e bigotto: quando scoprirono che era rimasta incinta di un uomo sposato le chiesero di abortire perché quella gravidanza era imbarazzante per il partito. Lei volle tenere il bambino e a Togliatti che le chiedeva cosa pensava di farne della sua vita con un figlio illegittimo, lei rispose che avrebbe rappresentato in parlamento tutte quelle donne che vivevano la sua stessa condizione.

Articolo pubblicato su Left del 27 maggio 2017

 

SOMMARIO ACQUISTA

Dalla “legge che tutti avrebbero dovuto copiare” a quella copiata male (apposta)

Ci avevano promesso di far tornare “il voto ai cittadini”. Destri, sinistri, cinquestelle, tutti d’accordo. Dopo avere scritto una legge incostituzionale (olè) hanno capito che il segreto stava semplicemente nel trovare un nome che sembrasse affidabile. Devono avere pensato a “Mercedes” o “Bmw” ma poi per problemi di marchio registrato si sono accontentati di “tedesco”.

Hanno scritto una legge elettorale che ci viene proposto come modello di rappresentatività e governabilità e invece non lo è. Rubo la spiegazione che mi ha dato, in una ricca conversazione ieri sera, il professore Andrea Pertici:

Saranno i partiti a scegliere gli eletti. Tutti i seggi sono attribuiti con sistema proporzionale sulla base sostanzialmente di una doppia lista bloccata: quella della circoscrizione (che al Senato è la Regione) e quella data dall’insieme dei candidati nei collegi uninominali della stessa circoscrizione (al Senato, Regione). Collegi uninominali dove non vince il candidato più votato ma semmai quello del partito più votato. E per non rischiare proprio nulla comunque il primo che passerà è il capolista del partito nella circoscrizione, dopo il quale si pescheranno i candidati nei collegi arrivati primi, poi gli altri candidati di lista e infine gli altri candidati dei collegi uninominali che hanno perso. Insomma, quello che conta è il partito. Quello che conta assai meno il nostro voto. Si parte da un modello europeo (questa volta il tedesco, si diceva) ma si finisce sempre con un sistema molto italico.

In pratica io voto il candidato che stimo nel mio collegio ma il mio voto premia prima il capolista bloccato.

Evviva.

Buon venerdì.