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Sbarco in Normandia. La foto di Robert Capa diventa graphic novel

Lo sbarco in Normandia fu una straordinaria impresa anfibia messa in atto dalle forze alleate durante la seconda guerra mondiale per aprire un secondo fronte in Europa, per poter andare  contro la Germania nazista  e allo stesso tempo alleggerire il fronte orientale.

Robert Capa scattò una delle foto più celebri dello sbarco in Normandia nel 1944. Ritrae un soldato americano steso nell’acqua sul bagnasciuga di Omaha Beach. A quello storico e drammatico scatto Contrasto dedica il graphic novel Robert Capa, Normandia 6 giugno 1944.  Capa, uno dei padri del fotogiornalismo moderno, fu il solo fotoreporter che riuscì a sbarcare in Normandia con le truppe alleate il giorno del D-Day, come ricorda la sceneggiatura di Jean-David Morvan & Séverine Tréfouël, animata dai disegni di Dominique Bertail.


Disegni originali che raccontano della straordinaria capacità che Robert Capa aveva di riprendere nel vivo dell’azione, ricreandone lo sguardo acuto e insieme umano,  raccontando la sua volontà di essere vicino ai soggetti da fotografare, la capacità di costruire e raccontare una storia in immagini per le riviste del tempo lo hanno reso un pioniere e allo stesso tempo un maestro riconosciuto della fotografia internazionale.

Tra fotografia e graphic novel, questo volume racconta l’affascinante storia di un’immagine che è diventata un’icona e ci mostra il fotoreporter dietro l’obiettivo. Scatti e disegni, storia del mondo e storia della fotografia si intrecciano, accompagnati da oltre trenta pagine di dossier (curato dal giornalista e corrispondente di guerra Bernard Lebrun), che con testi e immagini tratte dagli archivi di Magnum Photos delineano in modo ancora più completo la figura leggendaria di Robert Capa e il suo reportage in Europa al seguito delle truppe alleate durante la Seconda guerra mondiale.

Robert Capa, Normandia 6 giugno 1944 – Graphic novel from contrasto video on Vimeo.

Falcone e Montanari lanciano un appello per la sinistra unita

Anna Falcone, vice presidente del Comitato per il 'No' al referendum di Ottobre durante un' iniziativa organizzata a Napoli, 15 Giugno 2016. ANSA/CIRO FUSCO

«Siamo di fronte ad una decisione urgente», sottolineano Anna Falcone e Tomaso Montanari lanciando oggi un appello per l’unità della Sinistra. «Che non è decidere quale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, ma come far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragile di questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sono scivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuro e di prospettive. La parte di tutti coloro che da anni non votano perché non credono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana: coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario; coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti o pensioni da fame».
Al centro del documento della giurista e dello storico dell’arte dell’Università Federico II di Napoli c’è la grande questione della diseguaglianza.
«Pensiamo che il primo passo di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloro che vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità».
Da qui la proposta politica: «È necessario aprire uno spazio politico nuovo, in cui il voto delle persone torni a contare. Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesima legge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”. Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e il Partito Democratico, purtroppo indistinguibili nelle politiche e nell’ispirazione neoliberista, e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almeno non mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale».
Ci vuole, dunque, scrivono i due firmatari dell’appello «una Sinistra unita, in un progetto condiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Un progetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso è andato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quella Costituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e non limitarsi più a difenderla». La rincorsa al centro e la via maggioritaria, si legge ancora nel documento, hanno fatto sì che «una classe politica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politiche di destra». Urge un nuovo corso con «un progetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioni innovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e non controllato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia, anzi, la continuazione. Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership e metta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o a un reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione. Un progetto che costruisca il futuro sull’economia della conoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, non sull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone. Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonio culturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti i problemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendo equità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive».
Con una precisazione di metodo: «un simile progetto, e una lista unitaria, non si costruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto, che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, e che si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico, programmi e candidati». Quanto al programma è già nei principi fondamentali della Costituzione, affermano Montanari e Falcone che sono stati protagonisti di una fortissima campagna per il no alla riforma costituzionale Renzi-Boschi. In primo piano è l’articolo 3 della Carta: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
«È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra – concludono Montanari e Falcone – che vogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma che vogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare… lo facciamo a titolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitati di cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unica adeguata a questo momento cruciale. Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dal popolo. Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutti coloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questo processo».

Un africano salva un bimbo cinese travolto da una calca di italiani spaventati dai musulmani

Falso allarme bomba tra i tifosi della Juventus che seguivano la finale di Champions League, Torino, 3 Giugno 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

A Torino un africano salva un bimbo cinese travolto da una calca di italiani spaventati dai musulmani (che invece erano italiani).

Si potrebbe già mettere il punto qui per un episodio che ancora una volta ci mette di fronte a quella complessità che qualcuno si ostina a banalizzare per qualche consenso in più. Un uomo salva un bambino travolto da altri uomini: si sarebbe dovuto scrivere così se smettessimo di fare titoli per nazionalità. No?

«Eravamo quasi attaccati al maxi schermo all’angolo con una via – racconta  la sorella del piccolo Kelvin che in piazza a Torino ha rischiato la vita–. Volevamo già allontanarci perché c’era troppa confusione. Ma poi all’improvviso si sono messi tutti a correre, gridavano. Ci siamo trovati ammassati. Mi ha aiutato a tirare fuori il mio fratellino dalla calca un uomo di colore e vorrei rintracciarlo per ringraziarlo. Quando si è accorto di quello che stava succedendo ha urlato c’è un bambino, c’è un bambino. Poi ha cominciato a spostare la gente, tutta quella che poteva, e altri gli hanno dato una mano. Lo ha salvato lui».

Lui si chiama Mohamed e ieri è andato in ospedale per trovare il piccolo Kelvin.

Chissà ai categorizzatori xenofobi professionisti se non gli è esploso il cervello con tutte queste nazionalità così “insieme” nel terrore.

Intanto Kelvin, 7 anni, si è risvegliato dal coma. E questa è la notizia più bella di tutte.

Buon martedì.

Trump persona sgradita, i londinesi si schierano con il sindaco Khan

Un sindaco contro un presidente. Un musulmano liberal contro l’autore del Muslim Ban. Se ne parla fino alla press room della Casa Bianca, dove Sarah Sanders, portavoce del presidente americano, nega che Trump stia ingaggiando una battaglia contro il sindaco di Londra Sadiq Khan. “Ma i tweet del presidente matters, contano?” chiede una giornalista in conferenza stampa. La risposta è: “Sono uno strumento di comunicazione non filtrato dai pregiudizi dei media” che, aggiunge, comunque li enfatizzano troppo.

Tutto per colpa di alcuni degli ultimi due cinguettii degli oltre 35mila del presidente. Trump dopo gli attacchi terroristici nella capitale inglese ha scritto: “Scuse patetiche del sindaco, i MSM stanno facendo fatica a venderle”. La parola che scrive a lettere capitali sono i main stream media.

“Non ho tempo per i tweet di Trump” ha detto Khan in diretta alla CNN, “sono al lavoro”, si dovrebbe cancellare la visita di Trump, “non dovremmo srotolare il tappeto rosso per l’arrivo del presidente, la sua politica va contro tutto quello in cui crediamo”. Da quando la visita del Capo di Stato americano è stata annunciata, in concomitanza con l’invito di Theresa May, sono quasi due milioni gli inglesi che hanno chiesto, attraverso una petizione on line, che venga cancellata.

Congiunture non inconsuete. A due giorni dalle elezioni, insieme a Corbyn, Sadiq Khan si unisce all’accusa del laburista per i tagli applicati da Theresa May alla polizia e ai servizi segreti britannici che la premier, durante il suo mandato da ministro degli Interni, applicò a Scotland Yard. Corbyn ha chiesto le dimissioni del Primo Ministro che ha parlato in diretta alla BBC, schierandosi con Khan dopo gli attacchi digitali di Trump e dicendo che contro il terrorismo “va cercata una nuova strategia”.

Marianne Mirage nella fucina dei Baustelle

Le basta una chitarra per riempire la scena, insieme a una folta chioma nera, un timbro vocale soul, anche blues, chissà magari un giorno rap. Lei è Marianne Mirage, all’anagrafe Giovanna Cardelli, ma desiderava avere un nome magico, onirico, sottolinea. Come i grandi, i suoi idoli, e che idoli. Bob Dylan, a esempio, che in realtà ha un nome impronunciabile, ma anche Édith Piaf: «La Marianne, simbolo di libertà, quella della Francia, poi il mirage, come qualcosa che non esiste, ma che si palesa sul palco». Mi sembra di essere accanto a lei, in viaggio verso Bergamo, per suonare stasera. È contenta come una ragazzina, quando si esibisce in pubblico, le permette di raccontare di sé, dei suoi viaggi, e poi le lingue, le sue mille passioni. Classe 1989, l’anno della caduta del muro. Nasce a Cesena, per tanti anni vive a Forlì, da due anni si trova a Milano. In casa sua, un padre pittore per diletto, che amava dipingere mentre ascoltava musica di tutti i tipi: dal jazz, alla musica greca a quella turca: «Generi differenti, che sono entrati nella mia testa fin da piccola e hanno fatto sì che mi sentissi sempre a mio agio e a casa in qualunque posto del mondo». Per questo la musica che le piace, che fa, non ha confini e non è solo in lingua italiana. Cresce con due genitori che viaggiano, vanno per mare, in barca a vela, per isole esattamente, anche se lei poi tende a fare l’isola: «Sono amante della solitudine, della solitudine produttiva, quella che ti fa amare le piccole cose e quindi la musica è entrata nel mio linguaggio. Da piccola andavo a scuola, ma tenevo sempre la mia chitarra nell’armadietto, all’intervallo suonavo. Ho cominciato a suonare i Nirvana, la prima canzone l’ho scritta a 12 anni in inglese, poi ho avuto il primo complesso a scuola, di musica jazz». Cresce e continua a viaggiare da sola: cattura il mondo e lo tramuta in canzoni; la valigia è sempre pronta. Poi un giorno la chiamano alla Sugar e lei si presenta con la sua chitarra e con una sessantina di canzoni, per non sbagliare: “Pensavo fosse andata malissimo, pensavo già di andarmene a vivere in Francia, come se nulla fosse, poi invece dopo una settimana Caterina Caselli mi ha chiesto di lavorare insieme”. Qualche tempo dopo, in casa discografica gira un pezzo interessante, l’ha scritto Francesco Bianconi (insieme a Kaballà ndr), si intitola Le canzoni fanno male. A Sanremo giovani viene eliminata subito, ma il pezzo è bello e dà il titolo al suo nuovo album ancora acerbo nei testi, ma godibile. Marianne non ostenta, non osa, la sua voce, già convincente in Quelli come me, il precedente lavoro, è sincera, profonda, emozionante. Un’artista poliedrica, che cura interamente la sua immagine e le coreografie, come quella del video per il brano sanremese. Il viaggio in auto è ancora lungo e parliamo, parliamo.
Sei sempre in viaggio, che poi è un po’ la costante, il segreto, della tua formazione sia umana sia artistica.
Più umana, direi, ma anche artistica. Diciamo entrambi, io sono molto autobiografica. Tutte quelle che sono le mie esperienze le metto nella musica, anche l’idea di cantare in diverse lingue non deriva dalla mia esperienza, ma dalla mia sensibilità nei confronti della musica.
Sei autrice di tutte le canzoni che canti, che però non sono solo in italiano.
In realtà, tutte le mie canzoni nascono in inglese e poi le traduco in italiano, anche Corri, la canzone che ha scelto Pupi Avati per il film della Rai per la tv che uscirà tra poco, Il fulgore di Dony, è nata in lingua inglese. La mia scrittura è in inglese, traduco ogni sillaba nello stesso modo e sono arrivata anche ad amare molto anche il francese perché ho amato artisti come Édith Piaf, Yves Montand;
Però per Sanremo avevi un brano scritto dal “leader” dei Baustelle.
La canzone girava negli studi, non era per me. Appena l’ho sentita, l’ho voluta subito cantare, provinare e far sentire a Bianconi. Lui mi ha voluto conoscere e per me era già un enorme piacere; sono contenta che me l’abbia affidata e che sia rimasto colpito dal mio modo di cantarla. Da lì è nata anche un’amicizia, stiamo scrivendo delle cose insieme.
Canti che le canzoni fanno male, soprattutto quelle con la rima “cuore, amore”, ma le altre che formano l’EP in fondo sono canzoni che parlano anche di amore.
Premetto che con questo album ho voluto raccontare la mia crescita artistica, che è anche un po’ una ricerca del suono. Ne “L’ultima notte”, che sembra la classica canzone pop, in realtà ci sono voce e pianoforte e un’elettronica bit intesa come quasi rap che sostiene il ritornello, dico che ogni storia d’amore ha una scadenza. In Tutte le cose ci sono il graffio e la carezza di ogni storia d’amore. Un’altra estate parla di tutte le contraddizioni dell’amore.
Insomma, poco “cuore e amore”.
Sono note agrodolci quelle che ritrovo nelle storie d’amore che racconto, non c’è mai un lieto fine, in fondo sono sempre stata lasciata, non ho mai vissuto la “beatitudine” dell’amore.
Quali sono le canzoni che ti hanno fatto male?

Sono tantissime, per questo ho scelto di parlarne. Se faccio questo mestiere è perché ho sempre sentito tanta musica che mi ha sempre condizionato.
Musicalmente a chi ti senti vicina?
Idealmente ai Doors, a Jim Morrison, ai cantanti maschi o alle cantanti donne che avevano una grande personalità come Billie Holiday, Nina Simone, ancora la Piaf.
I gusti più attuali?
Mi piace molto la musica di Sampha, degli XX; ascolto molto rap, per esempio Action Bronson. Ho gusti diversi, credo anche che la mia musica sia una contaminazione di generi, non affronto mai un genere solo.
Una canzone d’amore che ti piace?
(sospiro)…Tantissime, mi piace molto Tac, di Franco Califano, perché dice “…io mi accorgo che ci sei proprio quando non ci sei e allora ti vorrei”, ci ritrovo, appunto, quella nota agrodolce di cui non potrei mai fare a meno.
Ti potremo vedere live?
Quest’estate sarò sempre in tour, in tutta Italia (in agosto, in provincia di Messina, anche con Brunori Sas! ndr). La dimensione live è quella che preferisco, mi piace stare con il pubblico: sui miei social ci sono tutte le info! Io sono molto social e mi piace condividere i momenti sui palchi con le immagini.
Stai pensando a un prossimo lavoro?
Sono nella scrittura del nuovo album, ho già tante canzoni che avevo scritto e che sto lavorando.
Cadeva il muro di Berlino e tu nascevi, che racconti hai di quel momento?
Molti! Io poi ho abituato a Berlino per alcuni anni: è bellissimo vedere quella città completamente rinata. Vorrei che la stessa cosa accadesse a Istanbul, adesso.

Oggi è il giorno dell’ambiente, la grande questione politica

epa05892418 A Chinese tourist with an umbrella visits the Bund with the Pudong skyline towers seen through heavy smog during a rainy and polluted day in Shanghai, China, 06 April 2017. EPA/ROMAN PILIPEY

Oggi è la giornata mondiale dell’ambiente e l’Onu ha scelto come tema “Riconnettersi con la natura” per recuperare un rapporto con l’ambiente più sano, consapevole, e contribuire a non sprecarne le risorse. Ma non si tratta di un tema “esistenziale” né tantomeno di una tendenza new age. No, difendere l’ambiente diventa una precisa scelta politica dalle conseguenze fondamentali non solo per l’economia, ma anche per la convivenza pacifica tra i popoli. È ormai dimostrato che tra le cause delle migrazioni vi sono anche i cambiamenti climatici che causano desertificazione e quindi, carestie e povertà. Un tema che dopo l’annuncio del presidente Usa Donald Trump di uscire dall’accordo di Parigi, risulta ancora più scottante.

Trudeau l’anti Trump
Ed è per questo che colpisce il fatto che sia il Canada di Justin Trudeau, il leader che si è distinto anche per le politiche a favore dei migranti, a ospitare il World Environnement Day, il principale evento dell’Onu su “azioni positive a difesa dell’ambiente”. Il Canada ha deciso di rispettare gli accordi di Parigi sul controllo delle emissioni e pur essendo un Paese che si basa sulle energie fossili, ha investito su quelle rinnovabili.
In tutto il mondo sono previste centinaia di iniziative, dalla pulizia delle spiagge alle escursioni guidate nella natura. Quella “simbolo” è l’illuminazione di verde, lunedì sera, degli edifici e monumenti iconici delle città: tra questi l’Empire State Building di New York, il Cristo Redentor di Rio de Janeiro, il Burj Khalifa di Dubai.
Sui social gli utenti sono invitati a condividere immagini della natura, con l’hashtag #WithNature per la creazione dell'”album fotografico sulla natura più grande al mondo”. Gli scatti migliori saranno esposti al Palazzo di Vetro dell’Onu a New York. Possibilità di condivisione anche tramite un’app, iNaturalist, per catturare, ma solo con lo smartphone, ogni creatura che abita nel proprio giardino, nei parchi o nelle riserve naturali.

In Italia la protesta per salvare l’Ispra
In questi giorni, come abbiamo raccontato anche nell’ultimo numero di Left adesso in edicola, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale che sta per diventare un soggetto fondamentale per il Sistema Nazionale di protezione ambientale istituito dalla legge 132 del 2016, vive un momento travagliato. Sono 93 i ricercatori precari che rischiano il licenziamento perché mancano ormai i fondi ordinari. Dal 2008 a oggi infatti sono stati persi 13 milioni di euro di finanziamenti e si è creata una situazione di impasse, a detta dello stesso direttore, che rischia anche di compromettere le attività normali dell’ente di ricerca.

L’Usb ha organizzato per oggi alle 16 un presidio al Pantheon a Roma. «Davanti all’albergo del sole e vicino al tempio di Nettuno, viene riproposta la messa in scena di due famosi “corti”, realizzati dagli stessi ricercatori: “Non sparate alla Ricerca (ambientale)” e ”La Ricerca pubblica solleva lo Stato”», si legge nel comunicato del sindacato di base. «La trama è chiara: lo Stato sopprime la Ricerca pubblica nazionale, in questo caso un Ente terzo e indipendente a tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini, negando risorse economiche e continuando a far finta di non sapere che gli investimenti nella Ricerca pubblica hanno un ritorno positivo in termini di sviluppo e di benessere dei cittadini, al contrario di quella privata che si limita nel migliore dei casi alla commercializzazione di brevetti, o peggio, all’ideazione di armi sempre più micidiali».

Da Kabul a Kandahar, in Afghanistan il terrorismo uccide ogni giorno

Londra ha tremato per la terza volta in un mese, il Medio Oriente continua a farlo quasi ogni giorno. In Afghanistan dopo gli attentati a Jalalabad e Kabul della settimana scorsa, tra cui quello devastante nella Zona Verde – dove si trovano tutte le ambasciate e le sedi delle istituzioni -, una nuova scia di sangue copre la mappa del Paese in guerra.

E si continua a morire mentre si piangono altri morti. Sarebbero quasi venti gli uomini che nella capitale hanno perso la vita mentre il mullah pronunciava i versi del Corano alle esequie per seppellire il figlio del vicepresidente del Senato, Mohamed Salem Izadyar. Il giovane che aveva preso parte alle proteste per l’attentato alla Zona Verde qualche giorno prima, è stato colpito dai proiettili dell’esercito insieme ad altri quattro ragazzi che erano scesi in strada dopo l’attentato. In piedi per lui, intorno alla sua bara, c’erano gli alti ranghi dell’esercito, ministro degli esteri Rabbani compreso.

Anche se i talebani negano ogni coinvolgimento, per il padre del ragazzo, Alam Izedyar, è opera del network di Haqqani. Solo poche ore fa invece nella provincia meridionale di Kandahar, sei membri delle forze dell’ordine che hanno perso la vita in uno scontro a fuoco.

Fermiano l’apartheid imposto da Israele

Israeli people jubilantly greet their soldiers as they return from the Six-Day War. By June 10, 1967, when the fighting was halted, Israel controlled the entire Sinai Peninsula and all Jordanian territory west of the River Jordan, as well as the strategic Golan Heights of Syria. It had won territory four times the area of its territory in 1949, with an Arab population of 1.5 million. (Photo by �� Vittoriano Rastelli/CORBIS/Corbis via Getty Images)

Quella Guerra cambiò il volto d’Israele. Forgiò una nuova identità nazionale, dette corpo al disegno di “Eretz Israel”. Una guerra di difesa che viene rielaborata in chiave messianicadettando una narrazione per la quale la riconquista di Gerusalemme e del Muro del Pianto, la disfatta inflitta alle armate arabe di Egitto, Giordania, Siria, non era merito delle forze di Tsahal guidate da Yitzhak Rabin, capo di stato maggiore, e dall’allora ministro della Difesa, Moshe Dayan ma della volontà di Dio che aveva guidato il “popolo eletto” a riappropriarsi in toto di Yerushalayim e della Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania). È la Guerra dei Sei giorni. Da quel 10 giugno 1967 inizia un’altra storia. Nel segno di un colonialismo forzato che fa leva sul tema della sicurezza per alimentare disegni di possesso assoluto. Annota Ugo Tramballi, nel suo libro Il sogno incompiuto. Uomini e storie d’Israele: «Da subito, quando i combattimenti cessarono il 10 giugno 1967, una sensazione di miracolo avvenuto e di onnipotenza si diffusero nel Paese. ‘Quale magnifica nazione abbiamo. In sei giorni un nuovo Stato d’Israele è stato creato’, diceva Abba Eban (ministro degli Esteri nel governo laburista, ndr), alla Knesset. ‘E’ bello essere al potere’, osservava Dayan. ‘Quello che ha fatto fino ad ora l’esercito è un miracolo dei miracoli’ concludeva il premier Levi Eshkol. I nazionalisti e i religiosi approfittarono dell’atmosfera nel Paese e dell’incertezza nel governo per trasformare in realtà una tentazione…». Che le cose sarebbe cambiate nel profondo, lo intuì lo stesso eroe di quella guerra, il mitico generale con la benda sull’occhio, Moshe Dayan, che proibì ai suoi soldati di issare la bandiera d’Israele sul Monte del Tempio, cioè la Spianata delle Moschee. Riflette Zeev Sternhell, il più grande storico israeliano: «Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa, da risposta di difesa in un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele». Il 1967 come svolta, un passaggio epocale, segnato dalla predominanza, politico-ideologica, della Nazione (ebraica) sullo Stato. La Guerra dei Sei giorni – annota Jean Daniel, scrittore e fondatore de Le Nouvel Observateur, nel suo libro ‘La prigione ebraica. Umori e meditazioni di un testimone’ – determina «una vera e propria trasformazione dell’“anima ebraica”» e questo fenomeno avrà «ripercussioni incalcolabili sul giovane Stato ebraico, sui Palestinesi, sugli Arabi e su tutto il Medio Oriente. Ma anche sugli Ebrei ai quattro angoli del mondo, soprattutto in Europa, in Francia, e di fatto sul mondo stesso».

E vedrai che le elezioni bloccheranno il nuovo codice antimafia

C’è un provvedimento fermo da tre anni che non è mai riuscito a ritagliarsi il giusto spazio nel dibattito pubblico: il nuovo Codice antimafia rischia di rimanere bloccato, praticamente perso, per la fregola delle elezioni imminenti. Chiariamo subito: non sono certo le elezioni a rendere vano l’impegno solo simulato per una serie di leggi che rischierebbero davvero di rendere più forte la lotta alle mafie e alla corruzione. Questo governo (anche questo) ha reso l’antimafia un lacrimevole spettacolo da mandare in diretta su Rai Uno in memoria di Giovanni Falcone dimenticandosi di avere a disposizione un Parlamento che dovrebbe occuparsi di leggi e non di twittare elogi funebri.

«Le novità introdotte – ha detto Franco Roberti, Procuratore nazionale antimafia – sono fondamentali. Cito, di seguito, le più importanti per capire cosa rischiamo di perdere se la legge non dovesse essere approvata: la nuova struttura e i nuovi poteri dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati; la disciplina degli amministratori giudiziari; il divieto di giustificare la provenienza dei beni come reimpiego di somme frutto di evasione fiscale; il controllo giudiziario delle aziende che consente a quelle sospette di andare comunque avanti anche se sotto controllo; la previsione di strumenti finanziari per gestire e valorizzare le imprese sequestrate; i tribunali distrettuali per le misure di prevenzione».

Dentro il nuovo Codice ci sarebbe anche, per dire, quella liberalizzazione della cannabis che toglierebbe alle mafie un importante mercato. Ma niente. Perché da noi funziona così: il Parlamento si coagula intorno agli interessi personali e per la propria sopravvivenza ma poi si rammollisce quando si tratta di fare sul serio.

Allora facciamo un patto: quando fra qualche mese tutti ci prometteranno di avere il tema dell’antimafia come primo punto della propria agenda elettorale chiedetegliene conto di questa occasione persa. E se tutti vi diranno di averci provato potrete notare che la maggioranza quasi unanime in tempi di campagna elettorale poi diventa freno una volta eletti. Tocca solo capire chi mente.

Buon lunedì.

Renzi ha messo in ginocchio la Rai

Pope Francis meets with Italian Premier Matteo Renzi during a private audience at the Vatican, Saturday, Dec. 13, 2014. ANSA/OSSERVATORE ROMANO PRESS OFFICE ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Uno Stato nello Stato, una televisione nella televisione. In Italia, l’intrusione della Chiesa nella vita dei cittadini non accenna a diminuire nonostante le chiese vuote e dismesse, il calo inesorabile dei battesimi e dei matrimoni concordatari, l’aumento dei divorzi e delle convivenze, gli esoneri crescenti dall’ora di Insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica e così via. Basti pensare al recente discorso ai lavoratori dell’Ilva di Genova durante il quale papa Francesco ha detto che «l’obiettivo da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti». Entrando così a gamba tesa nella dialettica politica rivelando una sintonia con il segretario del Pd, Matteo Renzi, notoriamente avverso al reddito di cittadinanza, e contro Grillo che invece ne è fautore. Gli osanna dei media per la “sensibilità” del papa verso gli operai si son sprecati mentre non un sopracciglio si è alzato per l’ingerenza di un capo di Stato estero negli affari italiani. È questa la prassi da quando il gesuita Bergoglio ha dato il suo «buonasera» ai fedeli di tutto il mondo dal balcone di piazza San Pietro il 13 marzo 2013. Qualunque cosa dica o faccia il pontefice, ci viene proposto in maniera acritica e senza alcun contraddittorio. Complici i politici trasversalmente genuflessi e complici i media, dove le notizie sono filtrate dai vaticanisti che raccontano in maniera, cioè solo attraverso il punto di osservazione della Chiesa, quello che ruota intonro al mondo dei cattolici. E complice soprattutto la Rai che nega il ruolo di servizio pubblico di uno Stato laico ingolfando di ecclesiastici i suoi programmi di intrattenimento e informazione. Per di più lasciando ai rappresentanti delle altre confessioni, quando va bene, spazi infinitesimali a orari in cui lo share è prossimo allo zero. E a tal proposito va detto che anche i canali generalisti privati non sono da meno.
Questo è in sintesi lo scenario che emerge dal VI Rapporto sulla presenza delle confessioni religiose in tv e dal VII Dossier sui telegiornali editi dalla Fondazione Critica Liberale insieme al XII Rapporto sulla secolarizzazione. Il progetto, pubblicato dal periodico Critica liberale diretto da Enzo Marzo, si avvale del lavoro di ricerca della Società Geca Italia ed è sostenuto con i fondi dell’otto per mille della Chiesa valdese – Unione delle chiese metodiste…..

L’editoriale è tratto dal numero di Left in edicola

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