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Siete poveri? Restituite gli 80 euro

Lex presidente del consiglio Matteo Renzi durante l'assemblea nazionale del Pd all'Hotel Parco dei Principi, Roma, 19 febbraio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Eppure l’avevamo scritto in tempi non sospetti che gli 80 euro di Renzi sarebbero stati utili come un paio di doposcì in un fine settimana nel mezzo del Sahara: oggi i dati (ufficiali, eh) dicono che nel 2016 438000 italiani hanno dovuto restituire il “bonus” che il governo Renzi ci aveva rivenduto come “motore di uguaglianza”. E sapete perché li hanno dovuti restituire? Perché sono troppo poveri.

Sembra una barzelletta, lo so, ma in realtà è il risultato di un provvedimento che non solo tradisce il principio costituzionale della progressività fiscale ma soprattutto che escludeva tutti coloro che guadagnavano meno 7.500 euro considerandoli probabilmente poco interessanti per la mancetta elettorale.

Anche il meccanismo di restituzione è curioso: il ministro Padoan aveva promesso che “modalità per alleviare la restituzione”. Promessa mancata: gli 80 euro vanno ridato allo Stato in un’unica soluzione. Punto.

Chissà se ora qualcuno reciterà il mea culpa riconoscendo che i “bonus” in qualunque forma sono un brutto modo di fare politica puntando sul rastrellamento del consenso a breve termine rilasciando poi scorie nel tempo. Chissà se Renzi, ad esempio, comincerà a capire che il problema non è nella sua “antipatia” ma in una considerevole serie di riforme che puntualmente si sono rivelate sbagliate.

Chissà se davvero gli elettori smetteranno di lamentarsi di non avere una classe dirigente con lo sguardo lungo e proveranno ad allenare il proprio sguardo lungo, per cominciare.

Perché la foto dei troppo poveri in coda per restituire i soldi alle casse dello Stato, ecco, dovrebbe bastare per raccontare dove siamo arrivati.

Buon mercoledì.

Scuola, 3 insegnanti su 10 stressatissimi. «È la sindrome del burnout»

Studenti davanti ad una lavagna con la scritta ''anno scolastico 2010-2011'' durante il primo giorno di scuola in un'aula del liceo linguistico a Quarto Miglio, Roma, 13 settembre 2010. ANSA/MARIO DE RENZIS

Non stanno proprio bene gli insegnanti italiani. Tre su dieci denunciano uno stress fortissimo, a livello personale, sul lavoro e con gli studenti (31%). Una sindrome da burnout, come la definisce Luisa Vianello, che nel suo dottorato di ricerca in Psicologia dello sviluppo per la sapienza di Roma ha svolto un’indagine su 1451 docenti italiani. «Una sindrome che coinvolge l’intera psicologia dell’individuo, una rottura nell’equilibrio tra la persona e la sua professione», l’aveva definita nel 2014 a Orizzonti della scuola nel momento in cui stava iniziando a inviare il questionario online ai docenti contattati tramite il portale della scuola. «Burnout significa stress molto alto, depersonalizzazione, spaesamento, il sentirsi completamente estraneo al lavoro, per cui uno fa quello che deve fare senza essere coinvolto», spiega a Left la ricercatrice, che è anche insegnante della scuola primaria e proprio per questa sua esperienza ha sentito ancora di più l’urgenza di indagare sullo stato di salute dei suoi colleghi. «Questa sorta di maschera che un docente stressato si mette al lavoro è un problema perché se sei davanti al pc è un conto, se hai davanti dei ragazzi o dei bambini, questo può creare un disagio»

Se 3 su 10 sono molto stressati, solo 4 su 10 stanno benissimo (42%). Gli altri hanno problemi a livelli più bassi. La ricerca di Vianello, che si avvale di un questionario pubblico – il Copenaghen Burnout Inventory – arriva dopo molti anni di silenzio. In precedenza uno studio della Cisl e la ricerca del dottor Vittorio Lodolo D’Oria si erano interessati del burnout dei docenti. «Ma lui lo aveva fatto da medico, sentendo coloro che avevano fatto richiesta di inidoneità per motivi di salute. Allora venne fuori che erano quasi tutte malattie psichiatriche». Il campione dell’ultimo studio è rappresentativo di tutta Italia, anche se si tratta di autocandidati.

L’80 per cento sono donne, docenti di ruolo ma anche precari, molti professori delle scuole superiori e un numero minimo di maestre della scuola dell’infanzia. Insomma, la fotografia “tipo” dell’insegnante italiano. Le domande, spiega Vianello, hanno seguito tre filoni: «Il burnout per quanto riguarda la parte personale – perché non è detto che sia sempre il lavoro a determinare lo stress – poi domande invece specifiche sul lavoro, e poi una parte legata all’utenza. In base a queste tre scale ho valutato i vari livelli». Domande poi sul “clima di scuola”, il materiale a disposizione, il rapporto con il dirigente e con i colleghi. Ma non ci sono solo situazioni da stress nelle risposte fornite dagli insegnanti. «Le ultime domande aperte, anzi, forniscono risposte da cui si evince che il mondo degli insegnanti non è per niente rinunciatario e vorrebbe cambiare le cose. Ci sarebbe da scrivere un libro». Che cosa chiedono i maestri e i professori italiani? «Principalmente meno alunni in classe, perché questo è un elemento per poter lavorare meglio e poi un maggior rispetto per il loro lavoro», sottolinea Luisa Vianello. «Ma non c’è negatività, molte critiche sì. Soltanto due o tre hanno detto di voler abbandonare il lavoro e nessuno chiede più soldi, anche se è un fatto che siamo pagati meno del resto d’Europa».

Il questionario è stato inviato prima della Buona scuola, però. Nel 2014 c’era il sondaggio online ma la legge ancora non aveva preso forma. «Il sentore che qualcosa stava cambiando però già c’era come il fatto di essere valutati, così come la formazione obbligatoria. Io ipotizzo che se lo facessi adesso forse le cose risulterebbero peggiorate. Sia per la valutazione, che per la mobilità oltre la propria provincia di residenza e la nuova figura del docente di potenziamento», dice la docente. Ma quale potrebbe essere una soluzione? Uno sportello salute con psicologi potrebbe davvero costituire un aiuto, afferma la ricercatrice. «Finora in alcune scuole lo sportello salute è previsto per gli studenti, ma sarebbe importante anche per gli insegnanti parlare con qualcuno». Prof e maestri che poi dovrebbero comunicare di più anche con i colleghi, anche se a volte, parte dei problemi nascono proprio con questi ultimi.

Scatti di un carnevale spietato. Come la politica

epa05818684 A float referring to US President Donald J. Trump and the Statue of Liberty prior to the annual Rose Monday parade in Duesseldorf, Germany, 27 February 2017. Rose Monday is the traditional highlight of the carnival season in many German cities. EPA/FRIEDEMANN VOGEL

È spietato quest’anno il carnevale, come in fondo lo è la realtà che rappresenta. Una realtà politica, specialmente, sempre più aggressiva nei confronti della democrazia, avvilente nei confronti dei diritti e delle persone, minacciosa nei confronti di equilibri e libertà.

Ecco quindi gli scatti più rappresentativi del carnevale tedesco, in particolare quello di Düsseldorf, nel quale la satira politica ha uno spazio dedicato. L’ascesa di Trump, l’aumento del populismo di estrema destra in tutta Europa (e non solo) e le prossime elezioni politiche in Germania, sono solo alcuni dei temi che hanno fornito ampi spunti ai designer dei carri.

I leader della destra mondiale sono rappresentati come larve che rosicchiano la democrazia.

“Il biondo è il nuovo bruno”, recita lo striscione sotto ai leader xenofobi e violenti

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan calpesta i valori democratici: dalla libertà di stampa a quella di espressione a quella di opinione, fino alla democrazia stessa.

Un membro del AfD (Alternative für Deutschland), il partito della destra tedesca, con il suo frastuono anti-musulmano, viene rappresentato come un “utile idiota” a servizio dell’Is.

epa05818925 A float referring to German Chancellor Merkel and Social Democratic (SPD) politician Schulz during the annual Rose Monday parade in Dusseldorf, Germany, 27 February 2017. Rose Monday is the traditional highlight of the carnival season in many German cities. EPA/FRIEDEMANN VOGEL

epa05818690 A float referring to Turkish President Recep Tayyip Erdogan prior to the annual Rose Monday parade in Duesseldorf, Germany, 27 February 2017. Rose Monday is the traditional highlight of the carnival season in many German cities. EPA/FRIEDEMANN VOGEL

epa05818771 A carnival float depicting a dog reading ‘Polish government’ prior the Rose Monday parade in Cologne, Germany, 27 February 2017. Rose Monday is the traditional highlight of the carnival season in many German cities. EPA/SASCHA STEINBACH

epa05818677 A float referring to British Premier Theresa May and Brexit prior to the annual Rose Monday parade in Duesseldorf, Germany, 27 February 2017. Rose Monday is the traditional highlight of the carnival season in many German cities. EPA/FRIEDEMANN VOGEL

 

A float referring to US President Donald J. Trump and the Statue of Liberty prior to the annual Rose Monday parade in Duesseldorf, Germany, 27 February 2017. Rose Monday is the traditional highlight of the carnival season in many German cities. EPA/FRIEDEMANN VOGEL

Bambine ribelli si diventa (grazie a delle buone storie)

C’era una volta una bambina che sognava il principe azzurro. No! C’era una volta una bambina che sognava di volare, un’altra che amava le macchine, una che voleva diventare campionessa mondiale di tennis, un’altra che scoprì la metamorfosi delle farfalle. Sono queste le Storie della buonanotte per bambine ribelli (Mondadori) raccontate nel libro di Elena Favilli e Francesca Cavallo. Cento biografie di donne straordinarie che hanno cambiato il mondo, favole rivoluzionarie per sognare in grande, illustrate da 60 artiste provenienti dai Paesi più disparati.

Ipazia, illustrazione tratta da Storie della buonanotte per bambine ribelli

Da Rita Levi Montalcini a Frida Kahlo e Michelle Obama, per puntare poi alle stelle come Margherita Hack o al Nobel come Malala Yousafzai, l’attivista pakistana per i diritti civili, sono questi i nomi e le vite che affollano le pagine del libro di Favilli e Cavallo. Favole vere, in carne e ossa, che hanno l’ambizione di dire alle bambine: «sognate più in grande, puntate più in alto, lottate con più energia. E, nel dubbio, ricordate: avete ragione voi». Ma il messaggio è diretto anche ai genitori, ai quali le due autrici dicono: «Leggete queste storie ai vostri figli. È fondamentale che imparino a sviluppare empatia anche con eroi di sesso femminile. Le storie che abbiamo raccontato sono una grande fonte di ispirazione per chiunque, maschio o femmina, bambino o adulto».

Rita Levi Montalcini, illustrazione tratta da Storie della buonanotte per bambine ribelli

Anche questo libro in realtà è frutto di sogni e di determinazione, quelli di Elena e di Francesca che nella vita si occupano di prodotti mediali per bambini ed educazione già da un po’. Tutto infatti è iniziato qualche anno fa con Timbuktù, il primo magazine per iPad per bambini (talmente bello da affascinare anche i grandi, scaricare per credere), che ha suscitato reazioni entusiastiche in patria e all’estero. E proprio dall’estero, dagli Stati Uniti per la precisione, sono arrivati anche i finanziamenti per mettere in piedi una startup. È nata così Timbuktu Labs una media company che si occupa di realizzare prodotti culturali innovativi per i più piccoli. All’interno di questo progetto, ha poi preso vita anche Storie della buonanotte per bambine ribelli. Il libro, pubblicato nei mesi scorsi in molti Paesi stranieri e diventato ben presto un best-seller, ora è arrivato anche in Italia, dove, dopo un solo giorno dalla pubblicazione, è già in vetta alle vendite online su ibs.

Maria Callas, illustrazione tratta da Storie della buonanotte per bambine ribelli

Se poi si tratta di insegnare alle bambine a puntare in alto, Storie della buonanotte sembra essere perfetto visto che ha segnato un vero e proprio record: è il libro più finanziato di sempre attraverso il crowdfunding. Su Indiegogo infatti il volume in soli 28 giorni ha raccolto oltre un milione di dollari provenienti da 70 nazioni diverse raggiungendo un totale di 1.278.543 dollari.

Elena Favilli e Francesca Cavallo

«Ma perché pubblicare un libro per ragazze? Beh prima di tutto perché siamo ragazze» spiegano le due autrici presentando il progetto «Il nostro percorso imprenditoriale ci ha fatto capire quanto sia importante per le bambine crescere circondate da un certo tipo di modelli femminili. Le aiuta ad essere più fiduciose a prefissarsi obiettivi più grandi. Ci siamo rese conto che nel 95% dei libri e degli spettacoli televisivi con cui siamo cresciute, mancavano delle protagoniste che occupavano posizioni di rilievo. Abbiamo fatto qualche ricerca e abbiamo scoperto che nel corso degli ultimi 20 anni le cose non erano cambiate poi tanto (anche se in effetti i modelli femminili proposti anche nei cartoni animati mainstream stanno cambiando moltissimo ndr), così abbiamo deciso di fare qualcosa».

 

Eutanasia, suicidio assistito, testamento biologico. Le differenze e il nostro ritardo

Fabiano, Dj Fabo, è stato costretto ad andare in Svizzera per ottenere il suicidio assistito, dopo che un incidente l’ha obbligato a letto, cieco, tetraplegico, e perennemente assistito dai familiari.  In Italia è divampato un dibattito in cui i termini di eutanasia, suicidio assistito e biotestamento vengono spesso usati in maniera intercambiabile.  Che differenza c’è? Qual è il quadro normativo in Europa e nel mondo? Ecco uno scenario  sintentico:

Eutanasia è porre fine alla vita di un paziente, consenziente, che ne ha fatto richiesta, per il quale non si attestano possibilità di guarigione o di condurre una vita in modo dignitoso, secondo il suo personale intendimento. Attualmente in Italia l’eutanasia costituisce reato e rientra nelle ipotesi previste e punite dall’articolo 579 (Omicidio del consenziente) o dall’articolo 580 (Istigazione o aiuto al suicidio) del Codice Penale. Al contrario, la sospensione delle cure – intesa come eutanasia passiva – costituisce un diritto inviolabile in base all’articolo 32 della Costituzione in base al quale: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.  Grazie alla campagna “Eutanasia Legale” promossa dall’associazione Luca Coscioni, il 3 marzo 2016, per la prima volta nella storia del Parlamento italiano è iniziato il dibattito sull’ eutanasia. Ma è fermo da allora nelle commissioni congiunte Giustizia e Affari sociali della Camera, bloccato dopo una sola seduta. Nell’ordinamento italiano l’eutanasia e il suicidio assistito sono atti entrambi punibili dagli articoli 575, 579, 580 e 593 del codice penale. Nel mondo: l’eutanasia è permessa per uno stato di “costante ed insopportabile sofferenza fisica e psichica del paziente”, in Belgio, Lussemburgo, Olanda, e in Oregon, negli Stati Uniti. In Cina, dal 1998, gli ospedali sono autorizzati dalla legge a praticare l’eutanasia ai malati terminali. E qui si apre una questione importante: la situazione di un malato terminale è completamente diversa da quella di una persona affetta da depressione che invece va curata con interventi  psicoterapeutici adeguati.

Eustanasia passiva: si tratta di interruzione di terapie ormai inutili e di farmaci, avviene come sedazione profonda con antidolorifici potenti che agiscono sul cuore. Per esempio la morfina che accelera la morte. Nel mondo: Negli Stati Uniti, la Corte suprema ritiene legittima l’eutanasia passiva e il governo federale ha autorizzato i singoli stati a regolamentare questa materia. In Canada, l’eutanasia è vietata ma, in alcune province, è tollerata la forma passiva. In Finlandia, in Ungheria e in Norvegia l’eutanasia passiva è legale, a condizione che l’interessato presenti un’apposita istanza. In Portogallo si possono autorizzare atti per l’interruzione dei trattamenti terapeutici. In Svezia e in Germania l’eutanasia attiva è vietata, ma è accettato il suicidio assistito.

Suicidio assistito:  Avviene con un aiuto medico ma senza intervenire nella somministrazione delle sostanze, che la persona assume da sé.  Si tratta di sostanze che portano ad addormentarsi e rapidamente a morire. In questi casi per esempio, la morfina causa, come effetto secondario, la diminuzione dei tempi di vita.  In Italia oltre al coraggioso lavoro di Marco Cappato e della Associazione Luca Cosciooni, c’è anche quello di  Exit Italia che ha base a Torino e conta 3.800 iscritti in Italia. Riceve in media 40 email di richiesta a settimana Nel mondo: In Svizzera, è tollerato il suicidio assistito. In Francia la legge relativa ai diritti dei malati terminali riconosce loro la possibilità di richiedere una “degna morte”: sono praticabili le cure palliative e l’eutanasia passiva.

Testamento biologico (o direttive anticipate, volontà previe di trattamento), è l’espressione della volontà da parte di una persona in pieno possesso delle sue facoltà mentali, in merito alle terapie che intende o non intende accettare nell’eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte. In Italia, come è noto non c’è ancora una legge. Nel mondo: Quasi tutti i Paesi europei hanno una legge sul fine vita. In Inghilterra e Galles per esempio una persona può fare una dichiarazione anticipata di trattamento o nominare un curatore in base al Mental Capacity Act del 2005.  Il Bundestag tedesco ha approvato il 18 giugno 2009 una legge sul testamento biologico. Negli Usa la maggior parte degli stati  riconoscono le volontà anticipate o la designazione di un curatore sanitario.

Benoît Hamon contro la Tav Torino-Lione. Ma il secondo turno rimane lontano

epa05818458 Benoit Hamon (C), Socialist Party candidate for 2017 presidential election, discusses precariousness and tax evasion with McDonald's trade unionists in Paris, France, 27 February 2017. France holds the first round of the 2017 presidential elections on 23 April 2017. EPA/ETIENNE LAURENT

Il candidato alle Presidenziali del Partito socialista francese (Ps), Benoît Hamon ha trovato un’intesa elettorale con il leader del Partito ecologista (Eelv), Yannick Jadot. L’accordo tra le due formazioni sancisce una risposta all’alleanza consolidatasi soltanto qualche giorno prima tra Emmanuel Macron, candidato del movimento “En Marche” (“In marcia”, tdr.), e Francois Bayrou, presidente del Modem, un movimento liberale, centrista ed europeista.

Cosa implica l’accordo Hamon-Jadot? Come spiegano Desmoulières e Bonnefous su Le Monde, Hamon potrà legittimamente presentarsi come il candidato “verde” di queste Presidenziali. Inoltre, sono sicuramente importanti i tempi di risposta a Macron. La base ecologista ha approvato l’alleanza con i socialisti e anche il leader storico, Daniel Cohn-Bendit, ha dato un giudizio positivo. Peccato che quest’ultimo abbia reso noto, allo stesso tempo, il suo appoggio a Macron, il candidato «migliore per battere le Pen al secondo turno». In ultimo, piccolo dettaglio per il pubblico italiano: Hamon si schiera per una revisione profonda del progetto della Tav Torino-Lione.

Difficile invece che l’alleanza possa permettere ad Hamon di arrivare al secondo turno. Secondo l’ultimo sondaggio realizzato per Les Echos, Hamon si posiziona al quarto posto con il 15 per cento e a ben 9 punti di distanza da Macron. Insomma, la sfida è quasi impossibile. Per poter arrivare al secondo turno, la sinistra francese avrebbe bisogno di un’alleanza fra il Partito socialista e Jean-Luc Mélenchon, Ma tutto indica che il patto non ci sarà. Anzi.

Secondo le ultime indiscrezioni, Hamon e Mélenchon si sarebbero semplicemente accordati in merito a un “codice di rispetto reciproco durante la campagna elettorale”. Cosa vuol dire? Che probabilmente eviteranno di attaccarsi a vicenda. Né più, né meno. Ma ciò non ha impedito ad Hamon di chiedere al popolo della sinistra di riunirsi intorno a lui.

Intanto continua il tour di Marine Le Pen, la candidata del Front National (Fn) che si conferma in prima posizione nelle intenzioni di voto dei francesi al primo turno. Domenica, Le Pen ha fatto tappa a Nantes, presso il noto Castello di San Michele (“Mont-Saint-Michel”). Come riporta Olivier Faye, la leader della destra radicale francese ha posto l’accento sull’identità francese e messo sotto accusa «i totalitarismi dell’islamismo e della mondializzazione finanziaria».

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In Libia abusi sistematici sui bambini migranti. La denuncia Unicef

epa05773174 A Libyran coast guard officer escorts a boy at Tripoli port, Libya, 04 February 2017 (Issued 05 February 2017). An inflatable boat was found off the coast of Tripoli by the Libyan Coast Guard carrying some 120 migrants, including four children, 10 women, and a 20 days old newborn. They were supposedly going from Sabratha to Italy. According to immigrants they were on the boat for about 20 hours before they were founded by the Libyan Coast Guard. EPA/STR

Il governo italiano, nella persona del ministro degli Interni Minniti e con il beneplacito dell’Unione europea, sembra aver scelto la strada della Libia come soluzione alla questioe migratoria. Fermiamo i flussi in entrata nel Paese africano in preda a una guerra civile, cooperiamo con quel poco di infrastrutture statuali esistenti e rispediamoli a casa loro. Poi, se riusciremo, cercheremo di umanizzare il trattamento ricevuto e magari di creare dei luoghi in cui sarà possibile fare domanda di asilo in Europa senza prima mettere piede sui nostri sacri confini. Bene.

Se non fosse che in Libia non ci sono istituzioni funzionanti, che il confine è un colabrodo, che la guardia costiera è spesso corrotta o complice dei trafficanti di esseri umani. E se non fosse che durante la permanenza nel Paese, uomini, donne e bambini vengono abusati e malrattati. Le ultime notizie le ha raccolte l’Unicef, che ha pubblicato un rapporto dal titolo significativo: “Un viaggio mortale per bambini”.

L’agenzia Onu per l’infanzia sostiene che lo scorso anno quasi 26.000 bambini – la maggior parte di loro non accompagnati – abbia attraversato il Mediterraneo.Tra questi, molti patiscono violenze e abusi sessuali per mano di contrabbandieri e trafficanti.

Ma raramente li denunciano (a chi, poi) per paura di essere arrestati o rispediti indietro. L’agenzia denuncia inoltre mancanza di cibo, acqua e cure mediche nei centri di detenzione libici. Di pericoloso, insomma, nel viaggio per l’Europa, non ci sono soli il mare e il deserto, ma anche la Libia.

Il rapporto riporta molte testimonianze: storie di schiavitù, violenza e abusi sessuali, uccisioni. Ad esempio Kamis, partita con la madre dalla Nigeria, giunta in Libia dopo il deserto e un naufragio e finita in un centro di detenzione nella città di Sabratha. «Ci picchiavano ogni giorno senza motivo, non c’era acqua, non c’era nulla. Era un posto molto triste» ha raccontato al personale Unicef.

«Quasi la metà delle donne e dei bambini intervistati dal personale che ha redatto il rapporto ha subito abusi sessuali durante la migrazione. Spesso più di una volta e in luoghi diversi», si legge nel testo Unicef il rapporto. Queste violenze capitano nei luighi di detenzione, ma anche nei posti di blocco e molti dei violentatori vestivano l’uniforme.

Eppure, pensano Minniti e il governo italiano, è in Libia che bisogna tenere i migranti. A inseguire Salvini, si finisce con il farlo vincere.

Dopo il nucleare il Pentagono: Per Trump, far tornare l’America grande passa per le spese militari

epa05819157 US President Donald J. Trump stops by the National Governors Association meeting in the State Dining Room of the White House, Washington, DC, February 27, 2017. EPA/AUDE GUERRUCCI/ POOL

Donald Trump stanotte parlerà al Congresso riunito. È la prima volta che accade dalle elezioni. Si tratta dell’equivalente del discorso sullo Stato dell’Unione, ma non si chiama così perché il primo anno il presidente non ha esattamente qualcosa da raccontare su quanto da lui fatto. Questa almeno è la normalità, nel senso che Trump ha già detto in più di un’occasione che «nessun presidente ha mai fatto tante cose in così poco tempo, ridotto il deficit e creato lavoro». Chissà se in un’occasione tanto ufficiale, il presidente deciderà di proseguire con i toni belligeranti e insulterà di nuovo i media o, finalmente, comincerà a elencare quale sia la sua agenda legislativa, quali leggi chiede che vengano approvate dal Parlamento americano.

Probabilmente parlerà molto di immigrazione, Isis e legge di bilancio. Lo ha già fatto nei giorni passati e, ieri ha annunciato che chiederà un aumento di spesa di 54 miliardi per il Pentagono. Si tratta più o meno del 10% del totale e non è chiaro se i piani sul rinnovamento dell’arsenale nucleare – che a dire il vero è già in corso – rientrano in questo aumento di spesa. Per pagare questa spesa Trump propone tagli per tutte le altre spese discrezionali delle altre agenzie, a cominciare da quella per la protezione dell’ambiente, la Environmental Protection Agency e il Dipartimento di Stato. Il primo taglio significa meno regole e meno applicazione di quelle esistenti relative a limiti per le emissioni, inquinamento delle acque e così via. I secondi, solo l’1% del budget federale, sono tagli alle spese per l’aiuto allo sviluppo e a fondi internazionali come quelli per la protezione e assistenza dei rifugiati e, forse, i contributi alle agenzie Onu, che dipendono in buona parte da dollari americani. Nessun taglio, almeno in teoria, ai programmi di welfare pubblico – che beneficiano soprattutto gli anziani poveri, la parte centrale dell’elettorato repubblicano. Su questo Trump entrerà in conflito con il suo partito, la cui posizione, sostenuta da anni contro Obama, è che ogni legge di bilancio che si rispetti deve prevedere tagli al welfare.

Vedremo, non si tratta di un piano dettagliato e neppure di una cosa fatta, ma di una direzione indicata: il presidente vuole aumentare le spese militari, scese del 15% tra il 2011 e lo scorso anno. Il bilancio del Pentagono è diminuito a causa di tagli, di un risparmio dovuto al ritiro delle truppe dall’Iraq e anche per una riorganizzazone dell’esercito e dell’idea del suo ruolo – meno guerre a tutto campo, più attività di controinsurrezione, che richiedono meno mezzi e capacità di mobilitazione di grandi numeri di uomini e infrastrutture militari. Il nuovo presidente ritiene che quella sia stata una scelta sbagliata. Oppure pensa che mostrare agli americani che l’America spende di più per il proprio esercito faccia parte del far tornare l’America grande, il suo slogan elettorale vincente.

A oggi gli Usa spendono più delle altre otto potenze militari comparate – ma i dati sono difficili da confrontare, che il bilancio del Pentagono e quello degli altri ministeri della guerra non sono gli unici capitoli di spesa legata a guerre ed eserciti. Non solo, in una lettera pubblica, 120 generali e alti ufficiali tra ci più importanti e rispettati (ex capi dello staff dell’esercito, della Cia, delle truppe in Iraq e Afghanistan, della Nato), chiedono di non tagliare i fondi per la diplomazia e gli aiuti allo sviluppo, altrettanto vitali che non la spesa militare per garantire la sicurezza degli Stati Uniti. Spendere meno in aiuti e diplomazia, è ovvio, significa anche perdere peso a livello mondiale. Non è solo sui missili che si regge l’autorevolezza di un Paese.

La spesa militare Usa comparata a quella dei Paesi che spendono di più

Le promesse alla classe media possono aspettare: a guadagnare da meno regole ambientali e più spesa per gli armamenti saranno i giganti del petrolio e il complesso militare industriale – le azioni in Borsa delle imprese di questi settori vanno a gonfie vele da quando Trump si è insediato. Eppure Trump aveva promesso un enorme piano di infrastrutture. Di queste è tornato a parlare, ma su queste lo scontro con il partito potrebbe essere ancora più aspro. Per ora il piano è stato ridimensionato dal punto di vista della entità e si parla molto di Private Financial Initiative, ovvero il privato ci mette i soldi e poi ha diritti di sfruttamento dell’opera stessa. Per molte opere infrastrutturali non funziona e le perdite sono a carico del pubblico.

Per ottenere i tagli Trump dovrà negoziare con le agenzie, alle quali chiederà di dettagliare i potenziali tagli e con il Congresso. Una trattativa lunga che i repubblicani sperano di poter terminare prima della chiusura estiva. In questi mesi le agenzie federali obietteranno alle idee di Trump – nessun ministro, neppure quello più contrario alla spesa pubblica – vuole che i tagli avvengano proprio nel campo in cui è lui ad agire e dover rispondere all’opinione pubblica. E poi ci sono i tetti di spesa imposti dal Congresso a Obama nel 2011, durante una crisi che ha portato lo Stato federale sull’orlo del default. Quei tetti prevedono che senza una fonte di entrata, non si possano aumentare le spese di una determinata agenzia. Trump potrebbe chiedere al Congresso di eliminare o alzare il tetto per il Pentagono e le spese militari.

L’attesa, per ora, è per il discorso al Congresso, lo spettacolo va in onda nella notte fonda italiana. Staremo a vedere se si tratterà dell’ennesimo show senza dettagli pensato per parlare direttamente al popolo americano o se cominceremo a scoprire qual’è l’agenda Trump. Nei giorni scorsi lo stratega Steve Bannon ha ribadito che l’idea è quella di distruggere il sistema di regole attraverso la «decostruzione dello Stato amministrativo». Un’agenda radicale alla quale i democratici, che hanno appena eletto l’obamiano Tom Perez a capo della loro organizzazione, dovranno contrapporre idee, strategia parlamentare intelligente e capacità di mobilitazione.

Il fatto è che i diritti sono quasi sempre degli altri

Un frame tratto dal Videoappello di Fabiano Antoniani (dj Fabo) al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per EutanaSiaLegale.it pubblicato il 18 gennaio 2017. ANSA/EUTANASIALEGALE.IT +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

C’è una frase di Pier Paolo Pasolini che ho sempre tenuto piegata in tasca. Dice che i diritti sostanzialmente riguardano quasi sempre i diritti “degli altri” e condensa in una manciata di parole tutto il dirupo che bisogna percorrere per essere legittimati a parlare di diritti.

Sia che si tratti di un tetraplegico a causa di un incidente stradale o di uno studente fuori sede al Cairo l’empatia è l’elemento essenziale per riuscire a indossare panni che risultano quasi sempre lontani dalla quotidianità dei commentatori: pontificare sulla vita degli altri spesso è la scorciatoia più semplice per chi ha l’ossessione di farcire la propria. Adinolfi, ad esempio, non esisterebbe senza gli omosessuali, i laici o coloro che lottano per un fine vita dignitoso: Adinolfi è i suoi nemici. Solo quelli. Come un Salvini qualsiasi con la differenza che la religione è il suo bordo di etnia.

L’empatia è l’elemento essenziale per un giudizio intellettualmente onesto. Tutto il resto è solo una misera pisciatina per definire i confini del proprio cortile. Per questo forse sarebbe il caso di scindere il chiassoso dibattito su DJ Fabo (che ha scelto, semplicemente) tra i commenti egoriferiti di chi cavalca il caso di cronaca per rastrellare consenso (minuscoli trump che anelano alla coccarda del bulletto) e chi almeno riesce a immaginare cosa significhi imbarcarsi in una gita fuori porta per “uscire da un corpo che è diventato una prigione”.

E chissà che la politica non impari che essendo i diritti quasi sempre degli altri o candidi tutti i diritti oppure di buona lena impari a rappresentarli.

Buon martedì.