Home Blog Pagina 925

Dalla Russia con amore, le bugie del Segretario alla Giustizia sui contatti Trump-Mosca

In origine fu Paul Manafort. Poi venne Michael Flynn. Il capo della campagna elettorale di Donald Trump e il Consigliere per la sicurezza nazionale sono stati costretti alle dimissioni a causa delle loro relazioni nascoste con il governo russo. Che stavolta tocchi al Segretario alla Giustizia Jeff Sessions? La campagna presidenziale di Donald Trump era evidentemente ossessionata dalle relazioni con la Russia. O viceversa. Fatto sta che i contatti tra figure di primo piano della cerchia ristretta del presidente degli Stati Uniti e uomini del Cremlino hanno avuto contatti continui durante la campagna elettorale. Ad oggi sono sei le figure di cui abbiamo saputo.

L’ultimo in ordine di tempo è appunto Jeff Sessions, neo Segretario alla Giustizia, ovvero la figura che dovrebbe sovraintendere alle indagini relative all’hackeraggio, da parte russa, dei siti della campagna Clinton e del Democratic National Commitee nel corso della campagna elettorale. La novità, grave per Sessions, è che, oltre ad aver avuto quei contatti, non ne ha parlato durante le audizioni per la sua conferma in Senato. Di più, ha mentito. Nel video qui sotto il senatore democratico Al Franken chiede a Sessions: «Se nel suo nuovo incarico venisse a conoscenza di contatti tra il governo russo e la campagna Trump nel corso della scorsa campagna elettorale, cosa farebbe?». La risposta, con un fortissimo accento del Sud, è secca: «Senatore, come sa sono stato spesso definito un sostituto di Trump e non ho avuto alcuna notizia di contatti». Nel gennaio scorso a domanda scritta del senatore del Vermont Patrick J. Leahy «Ha avuto contatti, prima, dopo o durante la campagna elettorale con funzionari russi?». La risposta scritta è stata un inequivocabile «No».

Gli incontri sono avvenuti tra luglio e settembre e in un’occasione Kislyak, l’ambasciatore, e Sessions, si sono visti nello studio dell’allora senatore dell’Alabama. Le settimane sono quelle in cui la vicenda dell’hackeraggio era al suo culmine. La difesa dell’ufficio di Sessions è la seguente: il senatore, in quanto membro di una commissione che si occupa di sicurezza nazionale e Difesa ha spesso incontri con ambasciatori stranieri. Il Washington Post, che ha fatto lo scoop sui meeting tra il Segretario alla Giustizia e l’ambasciatore di Mosca, ha inviato una richiesta a tutti i senatori della stessa commissione per chiedere loro se hanno avuto incontri con Kislyak. Dei 25 membri, 20 hanno risposto per dire che no, loro l’ambasciatore non lo hanno visto.

[divider]Leggi anche:[/divider]

L’internazionale nera: tutti i legami tra Trump, Putin e la destra populista europea

 

 

 


La vicenda è importante per due ragioni. La prima riguarda la bugia detta in sede di audizione. Sessions ha mentito davanti alle telecamere e sotto giuramento. È un fatto molto grave. La seconda è più pratica: i democratici chiedono un procuratore speciale nominato apposta per indagare sulla vicenda, che ritengono essere di sicurezza nazionale. L’amministrazione e molti senatori, fino a ieri, hanno sostenuto che non c’è bisogno di nessuna indagine speciale e che l’Fbi può benissimo occuparsene. La cosa aveva già suscitato polemiche perché, a undici giorni dal voto dello scorso novembre, il Federal Bureau of Investigation aveva comunicato al Congresso con una lettera pubblica di aver riaperto le indagini sulle email di Hillary Clinton – allora ne erano state trovate nel computer di proprietà di Anthony Weiner, ex marito della aiutante di Hillary, Huma Abedin.

La cosa aveva destato scandalo perché la lettera sembrava chiaramente un missile terra-aria contro la candidata democratica. Probabilmente lo era. In queste settimane l’agenzia sta indagando sui contatti tra l’organizzazione di Trump e Mosca e non solo non trapela nulla, ma, in un’altra rottura con la prassi, il capo dello staff della Casa Bianca, Reince Priebus, è andato in televisione a smentire un articolo del New York Times nel quale si sosteneva che membri della campagna Trump avevano incontrato funzionari russi prima delle elezioni: «Sono stato autorizzato a dire che l’Fbi sa che quella storia non contiene dati veri, non c’è niente del genere». In questi giorni sono anche circolate voci secondo le quali l’amministrazione avrebbe fatto pressioni sull’agenzia federale affinché smentisse l’articolo del Times. Il caso è clamoroso anche perché l’Agenzia è indipendente e non deve e non può comunicare con l’amministrazione su indagini aperte. Specie se l’amministrazione stessa è coinvolta.

Non è la prima volta che Trump e il suo staff mentono sui contatti con la Russia.  «Non ho niente a che fare con la Russia», aveva detto il 16 febbraio in conferenza stampa. Il Wall Street Journal aveva invece scritto di contatti con l’ambasciatore durante un ricevimento privato (il giorno dopo Trump propose la distensione con Mosca).  A novembre, il vice ministro degli Esteri russo confermò che «c’erano stati contatti» tra la Russia e la squadra di Trump durante la campagna. E in una conferenza immobiliare del 2008, Donald Trump Jr. il figlio del presidente aveva parlato degli affari russi  della Trump Organization. Poi, nelle settimane successive, molti membri dell’amministrazione hanno negato contatti venendo poi smentiti.

I democratici a questo punto, come fecero i repubblicani dopo l’attacco all’ambasciata libica a Benghazi. Diversi senatori e la leader alla Camera Nancy Pelosi ne hanno chiesto le dimissioni. Il senatore repubblicano Graham – che con McCain è quasi all’opposizione – ha detto che se ci fossero elementi sospetti in quegli incontri Sessions deve dimettersi.


Chi è Jeff Sessions, il senatore con simpatie per i suprematisti bianchi

Il primo nome era di quelli quasi certi di entrare nella futura amministrazione Trump: il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, destinato al Dipartimento di Giustizia, è infatti tra i primi eletti a schierarsi con il miliardario durante le primarie. Tra i sostenitori del neo eletto presidente, Sessions è tra i pochi a poter dire di avere una qualche esperienza di governo e gestione delle cose a Washington, pur essendo un razzista.

Veterano dell’esercito, Sessions è un membro anziano del Comitato dei servizi armati del Senato. Da venti anni in Congresso, sappiamo già che l’audizione per la sua conferma in Senato sarà furiosa. Nel 1986, il senatore dell’Alabama, forse lo Stato più razzista di tutti, è diventato il secondo candidato giudice federale a non essere confermato del Senato a causa dei suoi commenti razzisti. Aveva chiamato “boy”, ragazzo, un procuratore afroamericano e dichiarato che «quelli del Ku Klux Klan mi andavano bene fino a quando non ho scoperto che fumavano marijuana».

Sessions ha sempre negato – ovviamente – di essere un razzista. Ma ha sostenuto che l’NAACP, la associazione che si batte per i diritti dei neri e la American Civil Liberties Union si possono definire “anti-americane”. Nel complesso un membro dell’estrema destra repubblicana delle peggiori in un posto delicato dopo che i democratici si erano impegnati a una riforma della polizia ed avevano aperto diverse inchieste federali sui casi di afroamericani uccisi da poliziotti.

L’Europarlamento lavora alle modifiche del Regolamento Dublino. Tre domande a Elly Schlein

Il regolamento Dublino sta per essere nuovamente – e per la quarta volta – riformato. Da anni l’Unione europea cerca, senza riuscirci, di armonizzare le politiche d’asilo dei diversi Stati membri, ma un equilibrio tra le legislazioni nazionali ancora non è stato trovato. Il principale dei documenti in materia di diritto d’asilo è il regolamento di Dublino, sottoscritto e adottato dall’Ue e anche da Paaesi non membri, come la Svizzera. Secondo il regolamento la domanda deve essere esaminata nel primo Paese di ingresso, impedendo quindi di presentare una domanda di asilo in più di uno Stato membro. Per verificare che sia effettivamente così, poi, l’Ue ha adottato il sistema Eurodac: un archivio comune delle impronte digitali dei richiedenti asilo tramite il quale la polizia può controllare che non siano state presentate diverse domande. E se i richiedenti hanno il diritto a rimanere nel Paese di arrivo finché non hanno ottenuto una risposta – che in Italia può richiedere un’attesa in media di 18 mesi – hanno anche il divieto di lasciare quel Paese. Secondo la legge, poi, se la richiesta d’asilo viene respinta il richiedente può fare appello. In Italia ancora per poco. Il piano Minniti già annunciato dal Viminlae, infatti, come leggerete nello sfoglio di primo piano del prossimo numero di Left, prevede che i gradi di giudizio vengano ridotti da tre a due, in barba alla Costituzione repubblicana. In definitiva, né il Consiglio europeo né l’Unhcr si dicono soddisfati di questo sistema, anzi lamentano da tempo che non sia in grado di fornire una protezione equa ed efficiente ai richiedenti asilo, non tiene conto del ricongiungimento familiare e produce una pressione sugli Stati membri del Sud, in testa Grecia e Italia. In vista della discussione parlamentare, ormai alle porte, abbiamo fatto tre domande alla eurodeputata di Possibile Elly Schlein che partecipa al team negoziale del Parlamento europeo. In merito, sabato 4 marzo, a Bologna, si terrà un incontro con le istituzioni, gli esperti e le principali organizzazioni attive sul tema dell’asilo.

Italia e la Grecia sono ormai diventate una sorta di gabbia per esseri umani. In Parlamento state lavorando alle modifiche del Regolamento Dublino, cosa possiamo aspettarci?
Di solito sono un’ottimista, ma su questo mi riesce difficile. La distanza tra la discussione in Parlamento e in Consiglio è siderale. I governi non stanno nemmeno discutendo la già debole e insufficiente proposta di riforma della Commissione, ma stanno immaginando fantasiose soluzioni di “solidarietà effettiva” che evitino qualsiasi obbligo di condivisione delle responsabilità sulle richieste d’asilo, e che mantengano in capo al Consiglio europeo l’ultima parola su qualsiasi intervento. Che vuole dire condannarsi all’inazione.
È la quarta volta che si riforma Dublino, quale modifica sarebbe davvero necessaria?
Sarebbe l’ora di correggere l’ipocrisia originaria, superando il criterio del primo Paese d’accesso, verso un meccanismo automatico e permanente di condivisione delle responsabilità tra Stati membri, come il Parlamento ha già chiesto a più riprese e con larghe maggioranze.
E invece si costruiscono i muri…
A quelli che in Italia plaudono la costruzione di nuovi muri, bisognerebbe segnalare che noi siamo dalla parte sbagliata del muro, come si è visto bene nel 2016 con la chiusura di Ventimiglia, Brennero e Chiasso. L’unico modo per evitare i movimenti secondari, sarebbe sviluppare un sistema basato sulla fiducia reciproca, che fornisca procedure rapide e prospettive chiare per il futuro delle persone, e che tenga in conto il più possibile delle preferenze espresse e dei legami esistenti dei richiedenti asilo, dando prevalenza assoluta al ricongiungimento familiare (specialmente per i minori non accompagnati). Se partiamo dagli art. 78 e 80 dei Trattati, che già chiedono solidarietà ed equa condivisone delle responsabilità, ne deriva che ogni Stato membro deve fare la sua parte. Noi insisteremo per ascoltare chi esprime una preferenza per quello Stato: per motivi di lingua, legami culturali, presenza precedente in uno Stato membro, opportunità di lavoro in quello Stato, presenza di famiglia allargata. Ne abbiamo tutto l’interesse, aiuterebbe anche le prospettive di inserimento sociale.

 

Il problema del PD non sono le tessere ma i favori

Il responsabile nazionale del PD Emanuele Fiano durante la conferenza stampa nella sede del Partito Democratico, Napoli 1 Marzo 2017. ANSA/CESARE ABBATE/

Chissà se Emanuele Fiano (spedito di gran carriera a Napoli nel ruolo di pezza) capirà in fretta che il problema non è l’impennata di iscrizione (come continua blandamente a ripetere il flebile Orfini, con la solita energia da trovarobe di bottega) ma piuttosto il “modo” in cui quelle iscrizioni sono state coltivate.

Ma davvero crediamo che lo scandalo delle tessere PD sia nell’impennata dei tesserati (a proposito: è successo qualche settimana fa per il congresso di Sinistra Italiana, per dire) e non nelle frasi terrificanti registrate nel video di Repubblica? L’anziana signora registrata dice di tesserarsi «per far salire un’altra volta a lui quando ci saranno le elezioni» riferendosi al capobastone del PD Michel Di Prisco, ex presidente della municipalità già caduto in uno scandalo simile nel 2011 in occasione delle primarie poi annullate.

Un’altra dice: «per esempio io voglio un piacere da Ciruzzo? Mi devo fare la tessera per lui». e l’altra risponde: «me lo fa Michel? mi devo fare la tessera per Michel», Quindi per favore non ci prenda in giro Orfini dicendoci che “le tessere sospette sono state bloccate” evitando di parlare piuttosto di una politica che si basa sul favore personale.

Se in un quartiere di una città qualsiasi la tessera di un partito viene vista come il passepartout per avere il diritto di chiedere un favore è il progetto politico che fallisce, mica la banale regolarità di un congresso. E l’ex segretario (candidato in pectore) dovrebbe fare qualche sforzo in più per dirci cosa ne pensa. Perché la simulata sommersione non è credibile. E, anzi, c’è anche papà Renzi indagato qui fuori a pelo d’acqua.

Il resto sono liturgie. Le solite.

Buon giovedì.

All’Opera di Roma “Il trovatore” di Giuseppe Verdi firmato da Alex Ollé

Fino al 10 marzo il Teatro dell’Opera di Roma mette in scena Il trovatore di Giuseppe Verdi firmato da Alex Ollé (La Fura dels Baus), con la collaborazione di Valentina Carrasco. Sul podio, Jader Bignamini. Già chiamato a Roma per la Traviata di Sofia Coppola, il giovane e talentuoso direttore d’orchestra debutta ora nella direzione del Trovatore. Tra gli interpreti, Tatiana Serjan e Vittoria Yeo si alternano nel ruolo di Leonora, Stefano Secco e Fabio Sartori in quello di Manrico.
Il trovatore di Giuseppe Verdi è uno dei titoli più popolari nel panorama del melodramma. Alex Ollé è garanzia di regie innovative di straordinaria potenza visiva. Nessuna sorpresa quindi se il Teatro dell’Opera ha dovuto prevedere una replica supplementare per questo nuovo allestimento in prima italiana (dopo la co-produzione di Amsterdam e Parigi) che sta attirando un gran numero di spettatori.
Ollé torna a Roma dopo la sua sorprendente Madama Butterfly di Caracalla (estate 2015, ripresa l’anno successivo).
«Non è facile mettere in scena Il trovatore» afferma «non a torto la vicenda è definita assurda da molti critici». In effetti, nonostante l’immediato e clamoroso successo popolare, i giudizi negativi accompagnano quest’opera fin dalla prima rappresentazione, nel 1853. Dalla sua tenuta a Sant’Agata, Verdi scrive all’amica Clara Maffei: «Dicono che quest’opera è troppo triste, che ci sono troppi morti». Indubbiamente è una strage, ma il marchio distintivo del Trovatore non è tanto il numero delle vittime (il melodramma è sempre generoso sotto questo aspetto), quanto l’orrore e l’insensatezza dei sentimenti che lo attraversano.
 È una storia truce e improbabile, a partire dall’antefatto: la zingara Azucena per vendicare la madre rapisce uno dei due figli del Conte di Luna, decisa a gettarlo nel fuoco, ma per un fatale errore vi getta il suo stesso figlio. Tutto si regge sull’orribile segreto della zingara; sullo sfondo la guerra civile spagnola del 1400, in primo piano l’odio tra fratelli (che non sanno di esserlo), il duello, l’inutile sacrificio d’amore di una donna, l’immancabile vendetta finale.
Impulsi violenti e primitivi, gesti inconsulti, sentimenti inconciliabili. Ma nel 1852 è Verdi stesso a scegliere questo tema, nel testo originale di Antonio García Gutiérrez, “El trovador”. È la prima opera che compone di sua iniziativa e non su commissione, collabora con Cammarano alla stesura del libretto (tra l’altro il librettista muore proprio in quell’anno e Verdi scrive di suo pugno gli ultimi versi), e se alla fine la critica non è del tutto favorevole, il pubblico gli dà ragione: la prima è un trionfo.
«Bisogna cercare la risposta nello spirito dell’epoca – spiega Ollé – Il trovatore è un ritratto dell’ideale di uomo alla metà del XIX secolo, in pieno Romanticismo: passionale, eroico, ribelle, trascinato dalle oscure forze della notte e dell’amore, pronto al sacrificio estremo. Nel Trovatore, sotto l’estetica del medio evo, pulsava, focoso e attualissimo, lo spirito del tempo».
È il Risorgimento, e si combatte su due piani: quello pubblico dei moti di insurrezione mazziniani, e quello privato del duello: i patrioti italiani e i giovani in divisa austriaca si sfidano ovunque, al minimo pretesto.
Ma come affrontare Il trovatore oggi?
Ollé punta a rendere plausibili le violente passioni di quest’opera portando in primo piano l’elemento della guerra. L’idea in sé non è nuova, l’aveva già fatto il regista Elijah Moshinsky nel 1983 all’Opera di Sidney, trasportando la vicenda agli anni di genesi dell’opera, in pieni moti insurrezionali. La messa in scena richiamava il film di Visconti, “Senso”, le cui scene iniziali si svolgono alla Fenice, proprio durante una rappresentazione del Trovatore.
Ollé però si spinge oltre. «Cerchiamo nella guerra un’ispirazione per quest’incubo che è Il trovatore» spiega «non si tratta di un conflitto concreto, la nostra messa in scena contiene sicuramente elementi della Prima Guerra Mondiale, ma anche di altre guerre, passate o future, medievali e futuristiche. (…) Pensiamo a una guerra di trincea, lunga, estenuante, con centinaia di morti, sporcizia, fango, fossati scavati nella terra, attraverso cui i quattro protagonisti si muovono nella loro appassionata storia d’amore e di vendetta. (…) Si configura un paesaggio umano che tocca un grado di fantasmagoria tale che qualsiasi storia di amore e odio alla fine diventa possibile».
Nell’insensatezza della guerra, quindi – di tutte le guerre – nel regno della barbarie per antonomasia, ogni atrocità diventa plausibile. Solo così Il trovatore trova una collocazione, che se non è realistica, è almeno simbolica.
«In realtà quest’opera potrebbe essere ambientata anche ai nostri giorni» – aggiunge Ollé – «senza che fosse nelle intenzioni iniziali, durante i lavori sono emersi naturalmente riferimenti ai temi dell’esodo e dei rifugiati».
Con la collaborazione di Alfons Flores per le scene e di Urs Schönebaum per le luci, Ollé crea atmosfere allucinate, suggestive, allegoriche. Alcune scene sono disegnate da parallelepipedi che si alzano e si abbassano, e che, a tratti, ricordano il “Memoriale dell’Olocausto” di Eisenman.
Tornando al Trovatore e ai giudizi della critica, quello di oscurità del testo non è neanche il più severo. A quest’opera si è imputato di ospitare “molta brutta musica” e una struttura che segna un passo indietro anche rispetto al recente Rigoletto (1851), riproponendo le tradizionali “forme chiuse” dell’opera: aria, cabaletta, concertato. Sotto accusa, in particolare, la scelta di ricorrere ai ritmi del valzer per la parte di Azucena. Si è detto che il valzer non era adatto al personaggio, che il risultato era di scarso valore musicale. Ma come in molti rilevano, quando si tratta di Verdi, la chiave è sempre “il teatro”. Le sue scelte, calate nella macchina teatrale, rivelano tutta la loro coerenza. Il valzer di Azucena non ha nessuna connotazione mondana o straniante (come, invece, in Strauss), ma tutta l’energia della danza popolare. Nella sua cupa circolarità, nella sua volgarità, anche, la musica risponde perfettamente al ruolo della zingara. Insomma, nell’ottica del teatro il giudizio sul valore artistico cambia diametralmente: Verdi sa quello che fa, anche in quest’opera dall’intreccio oscuro, dall’impianto tradizionale, dalla musica popolare. Si racconta che dopo ogni opera Verdi piantasse un albero nel giardino della sua villa a Sant’Agata. Per ricordare Il trovatore scelse la quercia, pianta maestosa, emblema di forza e solidità, ma anche contorta, dai molti rami intricati.

50 anni fa la rivoluzione dei Velvet Underground

La Cité de la Musique di Parigi dà vita, dal 30 Marzo al 31 Agosto, ad una mostra multimediale, audiovisiva e interattiva, che mescola ispirazioni beat, provocazioni pop e suoni rock per raccontare la 'New York extravaganza' di quegli anni di grande fermento ed in particolare la band dei Velvet Underground, 29 Marzo 2016. ANSA/ UFFICIO STAMPA +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

Il 1967 è un anno d’oro per la musica rock. Anno di dischi storici che adesso compiono 50 anni. L’anno in cui muovono i primi passi al pubblico alcune tra le più grandi band della nostra storia. A Londra i Pink Floyd, a Los Angeles i Doors. Di questi album ne abbiamo scelto uno, quello che nel 2006 The Observer ha inserito al primo posto nella lista dei “50 album che hanno cambiato la musica”: The Velvet Underground & Nico. Prodotto da Andy Warhol, che ne disegna la celebre copertina: una banana gialla sbucciabile con la scritta Peel slowly and see (sbuccia lentamente e guarda) e, sbucciando la banana adesiva, un’allusiva banana di colore rosa. La decima tra le “100 migliori copertine della storia”, secondo Rolling Stone).

L’esordio. The Velvet Underground & Nico è l’album di debutto del gruppo rock statunitense, registrato in due giorni – con la voce della cantante tedesca Nico e sotto l’egida di Tom Wilson – negli Scepter Studios di New York durante l’aprile del 1966 e pubblicato dalla Verve Records nel marzo del 1967. Con i suoi poco meno di 50 minuti, è «il più grande album di debutto di tutti i tempi», ha sentenziato Uncut. E, oltre ad arare il terreno a punk, new wave, rock alternativo e post-rock, introduce forti innovazioni nei testi. Mai prima di loro la vita metropolitana e solitudine, perversione e deviazione sessuale, alienazione e uso di droga erano stati trattati in maniera così esplicita. Insomma, un’opera da preservare per i posteri e per questo motivo la troviamo nel National Recording Registry dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

 

L’album viene pubblicato il 12 marzo 1967, e si posiziona al numero 171 della classifica di Billboard. Il debutto viene sprecato per via di alcune complicazioni legali: la foto sul retro del disco mostra il gruppo mentre suona con un’immagine proiettata alle loro spalle, l’immagine è tratta da un film di Warhol, Chelsea Girls, ma l’attore del film il cui volto campeggia nello scatto, Eric Emerson – che era stato arrestato per possesso di droga e aveva un disperato bisogno di soldi – denuncia che quella foto è stata usata senza il suo permesso. La Mgm records è costretta a ritirare dal mercato tutte le copie dell’album fino a quando la disputa legale venne risolta con l’eliminazione dell’immagine incriminata. L’ascesa commerciale, però, è ormai fallita. E questo spiega le parole di Brian Eno: «Soltanto cento persone acquistarono il primo disco dei Velvet Underground, ma ognuno di quei cento oggi è un critico musicale o un musicista rock». Ma la storia ci dice che i Velvet Underground sono con ogni probabilità la band più influente della musica rock. Hanno contrapposto una sana psichedelia pessimista al dilagante ottimismo di San Francisco. Hanno segnato l’ascesa del rock decadente – figlio illegittimo della poesia decadente – della distorsione, della musica orientale e delle scale mediorientali, di mantra e raga-rock, improvvisazioni in stile free-jazz e ritmi tribali. Indipendenti, eversivi, a tratti nichilisti. Tutto ciò che molto tempo tempo abbiamo marchiato come Punk.

Prima della voce di Nico. Fu Andy Warhol a insistere affinché Nico cantasse tre delle undici canzoni sul disco d’esordio della band: “Femme Fatale”, “I’ll Be Your Mirror” e “All Tomorrow’s Parties”. Christa Paffgen, ovvero Nico, è una pallida chanteuse mitteleuropea che evoca la Berlino anni 30 misto alla New York anni 60. La sua voce si fonde al sound versatile e camaleontico: dalla violenza di “I’m Waiting for the Man” all’ipnosi di “Venus in Furs”, che si fa anche un po’ perversa in “Heroin”, quando la band prova a rappresentare le sensazioni di un tossicodipendente. Ma ci sono anche la tenerezza sognante di “Sunday Morning”, la pace estatica di Femme Fatale e la solenne All Tomorrow’s Parties. Infine, la sperimentazione: “The Black Angel’s Death Song” ed “European Son”, dedicata al poeta Delmore Schwartz.

Quella che Andy Warhol tira fuori dai sottoscala newyorkesi e inserisce nei suoi spettacoli totali, è una strampalata band di “ragazzini”. Innanzitutto c’è lo studente ribelle Lewis “Lou” Reed, viene da una famiglia ebrea di Brooklyn, a 14 anni suona già in un complessino, gli Shades, e all’università studia letteratura inglese con il poeta Delmore Schwarz. Quando, a vent’anni, lascia gli studi per scrivere canzoni del Pickwick International (produttori di dischi per supermercati) scrive “The Ostrich” per i Primitives, sua band dell’epoca. Poi, nel 1965 incontra Sterling Morrison – un ragazzo con una chitarra e due miti Chuck Berry e Bo Diddley – a New York e formarono i Warlocks con loro anche il gallese John Cale, che aveva studiato musica d’avanguardia a Londra ed era arrivato da un paio d’anni a New York e il batterista Angus MacLise che viene sostituito quasi subito dalla sorella di Jim, Maureen “Moe” Tucker.

Cosa ci lasciano i Velvet Underground. Tre artisti che hanno dato alla musica un contributo indiscutibile. La “Sacerdotessa delle Tenebre da solista si fa apprezzare soprattutto per Desertshore (1970) che per qualcuno anticipa il gothic rock. Oggi Nico riposa nel cimitero Grunewald-Forst di Berlino. «Nella tarda mattinata del 17 luglio 1988, mia madre mi ha detto che aveva bisogno di andare in centro a comprare della marijuana. Si sedette davanti allo specchio con una sciarpa nera avvolta intorno alla testa. Si fissò allo specchio ed ebbe molta cura nell’assicurarsi che la sciarpa fosse avvolta bene. Mentre scendeva la collina sulla sua bici, mi disse: “Tornerò presto”. Ci ha lasciato nel primo pomeriggio, il giorno più caldo di quell’anno», ha raccontato il figlio.
Lou Reed, come il suo amico David Bowie ha trasformato molte volte la sua immagine – rocker glam, artista noise d’avanguardia, star del rock & roll – ma con i suoi testi ha contribuito per sempre ad allargare il vocabolario del rock. Il 30 giugno 2013 il New York Post scrive che l’artista è stato ricoverato d’urgenza in un ospedale di Long Island, a New York, per una acuta forma di disidratazione. Il suo nuovo fegato non gli dà pace e il 27 ottobre del 2013 viene annunciata la notizia della sua morte, aveva di 71 anni.
John Cale, padre della new wave, è ancora in piena attività. Dopo aver lasciato i Velvet Underground ha continuato a spaziare tra gli infiniti stili musicali. Diventando un prezioso produttore discografico: The Stooges, Nico, Patti Smith, Nick Drake e Jonathan Richman.

Quando Dalla incontrò il poeta Roversi. Memorie e percorsi bolognesi

Automobili di Lucio Dalla

A cinque anni dalla scomparsa di Lucio Dalla, cantante, scrittore, gallerista, attore, regista teatrale, compositore e pilota, il primo marzo si rincorrono le occasioni per ricordarlo. A Bologna, la sua città natale, le iniziative continuano fino a quel 4 di marzo che era la sua data di nascita con “A Casa di Lucio va in città”, una serie di percorsi attraverso alcuni dei luoghi del cantautore guidate da critici musicali, attori cantanti che danno appuntamento nelle trattorie che amava frequentare per racconti e concerti all’improvviso, che invitano in sale di registrazione, a pellegrinaggi sentimentali fino a via D’Azeglio 15. Già nella giornata di oggi, primo marzo, è il Teatro Comunale di Bologna ad offrire cantautore bolognese, che ha saputo unire la musica colta e quella popolare grazie al suo eclettismo e alla sua passione. Gino alle 20 la musica di Dalla verrà diffusa dal Teatro e risuonerà in Piazza Verdi per ricordare l’artista scomparso in quello stesso giorno del 2012. proprio in rapporto con il Comunale di Bologna erano nati i suoi Pierino e il Lupo di Sergej Prokofiev del 2005, con Dalla voce recitante e Aldo Sisillo direttore; Pulcinella di Stravinskij e Arlecchino di Busoni del 2007, con la regia di Dalla, che ha operato un intervento scenografico su tutte e due le opere, spostandone l’azione a New York, per Pulcinella, e in un paesino delle colline tosco-emiliane, per Arlecchino; The Beggar’s Opera di John Gay del 2008, ancora con la regia di Lucio Dalla.
Ma Bologna è anche e soprattutto la città dove el 1972, Roberto Roversi e Lucio Dalla s’incontrarono e cominciarono a collaborare: lo scrittore e poeta era già molto noto, era amico di Calvino di Sciascia frequentava intellettuali impegnati, Dalla invece era il cantante di Sanremo aveva fatto il botto con il suo 4 marzo 1943, inaspettatamente dopo dieci anni in cui nessuno se l’era filato. A farli incontrare era stato il manager di Dalla, Renzo Cremonini. Così il  poeta anomalo che dalla sua libreria antiquaria di Bologna distribuiva versi  in ciclostile, cominciò a scrivere testi di canzoni. «Essendo io completamente sprovveduto in questo campo specifico, scrissi alcune canzoni con dei linguaggi diversi: populista, d’amore, epico. Le consegnai aspettando di avere un giudizio critico circa l’opportunità che questi testi, eventualmente corretti, o altri simili potessero poi diventare testi di canzoni» racconta lui stesso in un libro. Dalla cominciò subito a metterli in musica: «Fu una chiave che mosse tutto, per cui mi decisi a lavorare con Roversi e lo decisi seriamente».  A sedurlo fu il verso “Nevica sulla mia mano”. Ne nacque un disco, Il giorno aveva cinque teste:  bello e difficile,che il pubblicò non capì. Un paio di anni dopo venne Anidride solforosa, un album con brani ispirati dalla cronaca nera e dalla storia del Risorgimento, dall’esplosione del problema ambientale e dal boom della finanza. Ma entrambi stavano già pensando e lavorando al loro gioiellino, uno spettacolo che raccontava le trasformazioni dell’Italia degli ultimi cinquant’anni guardando il mondo dall’automobile. Ad accendere la fantasia di Roversi fu lo sciopero del 1921 alla Fiat, per arrivare poi al Motore del 2000. Dalle Mille Miglia e Nuvolari alla fatuità dell’avvocato Agnelli che blaterava sulle condizioni del lavoro in fabbrica e sullo stato della società. Con un colpo di scena finale, quando arrivò il momento di pubblicare il disco scattò la censura su metà delle canzoni, giudicate politicamente scorrette

Qui l’omaggio di Tutta la città ne parla su Radio 3 a  Lucio Dalla E poi l’omaggio di Toffolo dei Tre allegri ragazzi morti, proprio per questa giornata.

Roma, nasce l’Accademia antimafia. Arte, periferia e giovani al centro

Studenti e docenti di una scuola della periferia romana, le associazioni del territorio e un gruppo di artisti sensibili e “impegnati”. Sono questi gli ingredienti di ÀP, l’Accademia popolare dell’antimafia e dei diritti, un esperimento sociale che apre i battenti giovedì 2 marzo alle 20.30, negli spazi dell’Istituto Enzo Ferrari di Via Contardo Ferrini 83, in zona Cinecittà, a due passi dalla Basilica di Don Bosco dove nell’agosto 2015 si svolgevano i funerali shock di Vittorio Casamonica.

«Musica, teatro, letteratura e stop motion per raccontare quanto fatto finora e per continuare a costruire l’Accademiainsieme ad associazioni, cittadini e studenti». Le tre realtà promotrici – le associazioni daSud e Officina Culturale Via Libera e la cooperativa Diversamente – presentano così ufficialmente il laboratorio permanente di cultura e diritti di cittadinanza aperto al territorio per attività formative, performace artistiche e creative, con una bilioteca e una mediateca dedicata alle mafie e all’antimafia.

Tra gli attori e artisti ospiti della serata inaugurale intitolata “Fino a qui tutto bene”, ci saranno il Libanese di “Romanzo Criminale”, il chimico precario che sperimenta nuove droghe in “Smetto quando voglio”, il capitano dei carabinieri di “Don Matteo”, e la poliziotta di “Squadra Antimafia”. Si alterneranno sul palco Francesco Montanari, Stefano Fresi, Simone Montedoro e Daniele Marra, Valerio Boni, Giulio Cavallini, Gaia Messerklinger, Juan Pablo Etcheverry, Ilaria Migliaccio, Emiliano Valente e Alessandro Pera. «Volti che – spiegano gli organizzatori – insieme a tanti altri professionisti del mondo della cultura hanno scommesso sul futuro di ÀP, un progetto che ha l’ambizione di trasformare la periferia in creative city partendo dalla riqualificazione della scuola. Il luogo ideale per chi ha idee originali e buone pratiche da proporre ma non trova spazi per sperimentarle in una città che sempre più spesso sgombera e chiude presidi culturali».

Angela Merkel cambia rotta sulla Grecia

Angela Merkel e Alexis Tsipras Ansa/RAINER JENSEN epa04676157 German Chancellor Angela Merkel (R) welcomes Greek Prime Minister Alexis Tsipras (L) with military honours for his inaugural visit in front of the Federal Chancellery in Berlin, Germany, 23 March 2015. Tsipras is expected to present a list of reforms, hoping to unlock bailout funds to prevent Greece from running out of cash next month, Greek government sources said. EPA/RAINER JENSEN

Angela Merkel sarebbe disposta (il condizionale è d’obbligo) «a tutto pur di concludere la seconda revisione del terzo programma di bailout greco», in modo da garantire il finanziamento del debito ellenico «attraverso il programma di “quantitative easing” (Qe) della Banca centrale europea (Bce)».

Lo scrive stamani Ekathimerini, il quotidiano greco che segue con particolare attenzione le evoluzioni del rapporto fra Atene e i creditori internazionali.

Cosa chiede in cambio Merkel? «Un correttivo su pensioni e tassazione pari al 2 per cento del pil. Secondo alcune fonti anonime citate da Ekathimerini, Merkel avrebbe «già discusso a riguardo con il presidente della Bce, Mario Draghi».

La Cancelliera vorrebbe anche accelerare sulla definizione di misure di alleggerimento del debito nel medio periodo. È proprio quest’ultima una delle condizioni per cui la Bce sarebbe disposta a estendere il programma di Qe comprendendo anche Atene.

E Wolfgang Schäuble? Secondo Ekathimerini, Merkel «sarebbe disposta ad andare oltre» l’opposizione del Ministro delle finanze.

In ogni caso dovrebbe essere il Parlamento greco a fare il primo passo per poi poter usufruire del sostegno della Bce.

Se confermate, le indiscrezioni rivelerebbero un cambio di strategia da parte del Cancelliere tedesco. Un avanzamento sulla questione “alleggerimento del debito” sembrava infatti fuori portata, visti gli scontri tra il Fondo monetario internazionale e le istituzioni europee (in particolare l’Eurogruppo e, al suo interno, la Germania) degli ultimi mesi.

Leggi anche:

EuropaHandelsblattLe banche europee hanno bisogno di ulteriori 159 miliardi di euro per rispettare i criteri di stabilità imposti da Basilea III per il 2018. Ma la solidità degli istituti aumenta

PoloniaEuractivIl governo polacco non sostiene il  proprio connazionale Donald Tusk per il rinnovamento della presidenza del Consiglio europeo

FranciaLe Monde Manuel Valls attacca Hamon e mette in dubbio la strategia del candidato del Partito socialista di fronte al successo di Le Pen

No, il discorso di Trump al Congresso non ha nulla di moderato

epa05821910 US President Donald J. Trump reacts after delivering his first address to a joint session of Congress from the floor of the House of Representatives in Washington, DC, USA, 28 February 2017. Traditionally the first address to a joint session of Congress by a newly-elected president is not referred to as a State of the Union. EPA/JIM LO SCALZO / POOL

Se vi capiterà di leggere più di un articolo sul discorso di Donald Trump davanti al Congresso degli Stati Uniti, probabilmente leggerete che il presidente ha finalmente fatto il presidente, mostrando una faccia moderata. Non è così. Certo, una notizia è che Donald Trump si è finalmente comportato bene, non ha insultato nessuno, non ha attaccato i media, né gli avversari politici. L’altra notizia è che, sebbene con toni meno aggressivi del solito, la sostanza politica, nella sua prima performance istituzionale – dopo il discorso inaugurale – non cambia: il suo è un programma nazionalista e populista di destra. E il partito repubblicano, che sembrava preoccupato dalla sua presidenza, è con lui. (qui il discorso completo)

La prima volta davanti alle camere riunite del Congresso era una grande occasione per uscire finalmente dal campaign mode e per mostrare la volontà di lavorare con il Parlamento per produrre leggi. In teoria lo ha fatto. In pratica meno. Su immigrazione, tasse, scuola, riforma sanitaria, spese militari, Trump non cambia di una virgola, salvo dire: «Chiedo a democratici e repubblicani di lavorare con me». Per poi aggiungere «per eliminare e sostituire quel disastro che è Obamacare». Certo, Trump ha cominciato ricordando l’importanza del Black History Month, il mese che celebra la storia degli afroamericani, condannato gli attacchi ai cimiteri ebraici – che si sono moltiplicati da quando è stato eletto – e l’uccisione di un ingegnere indiano da parte di un estremista che sparando ha gridato «torna al tuo Paese». Ci mancherebbe, Trump non è Hitler e non vuole diventarlo. Ma se ha cominciato il discorso così è per riparare ai silenzi e alle gaffe dei giorni scorsi, non perché quei temi gli stiano davvero a cuore.

Trump parla di riforma dell’immigrazione fatta in Congresso, sostenendo di voler incentivare quella qualificata e chiudere agli altri. Sarebbe già un passo avanti, ma sull’idea di cacciare i clandestini (11 milioni di persone) non si muove di un millimetro. Quel che gli sta a cuore è costruire il muro con il Messico, chiudere le frontiere all’immigrazione e applicare in maniera restrittiva la legge: «L’America deve mettere prima i suoi cittadini, perché solo così possiamo farla ridiventare grande, Chiunque in Congresso dica che le leggi non vanno applicate chiedo: cosa direte alle famiglie che perdono il reddito, il lavoro, i loro cari?». Ovvero: ci rubano il lavoro, le donne, sono criminali. Solo detto senza parlare di bad hombres, canaglie.

Se ci fossero dubbi sulla retorica pericolosa del presidente, l’esempio perfetto che nulla è cambiato è l’annuncio della creazione di un ufficio, denominato Voice, che pubblicherà le liste di tutti i crimini commessi dagli immigrati – anche regolari, probabilmente – una specie di lista nera. Del resto, su Breibart News, il sito diretto da Steve Bannon c’è una sezione che si chiama Black List che elenca i crimini commessi dagli afroamericani. Le liste, nella storia, non sono mai state una buona cosa.

 

Quelli che seguono sono i primi passaggi del discorso, un po’ tagliati. L’agenda è la solita, le promesse non necessariamente coerenti e i dettagli praticamente assenti. Come in tutto il discorso o quasi.

«Non permetterò che gli errori degli ultimi decenni plasmino il corso del nostro futuro. Per troppo tempo, abbiamo guardato inerti la middle class decadere, mentre esportavamo i nostri posti di lavoro e la nostra ricchezza in Paesi stranieri. Abbiamo finanziato e costruito un progetto globale dopo l’altro, ma ignorato il destino dei nostri figli a Chicago, Baltimora, Detroit … Abbiamo difeso i confini di altre nazioni, lasciando i nostri confini aperti a chiunque – e facendo passare droga come mai. E abbiamo speso miliardi e miliardi di dollari all’estero, mentre le nostre infrastrutture si sbriciolavano.
Poi, nel 2016, la terra ha tremato sotto i nostri piedi. La rivolta è cominciata come una protesta silenziosa…poi le voci silenziose divennero un coro rumoroso … infine la gente si è presentata a decine di milioni con un’unica domanda cruciale: l’America deve scegliere i propri cittadini per primi…
le industrie che muoiono torneranno ruggire i veterani avranno le cure di cui hanno disperato bisogno. Ai nostri militari saranno date le risorse che quei valorosi guerrieri meritano. Le infrastrutture fatiscenti saranno sostituite con nuove strade, ponti, gallerie, aeroporti e ferrovie luccicanti…La terribile epidemia di oppiacei finirà …e nei nostri centri urbani trascurati rinasceranno speranza, sicurezza e opportunità».

Più spese militari, più infrastrutture, riforma delle tasse (e loro taglio), taglio delle spese di molte agenzie, meno regole, meno immigrati. Tutto condito con l’ossessiva ripetizione di “America first”, una frase presa di peso dalla retorica suprematista bianca, qualche concessione alle minoranze (i centri città abbandonati sono quelli dove vivono i neri e i latinos, una legge sulla scuola).

 

E poi la solita serie di inesattezze e bugie quando si parla di numeri: «tutti gli attentati terroristici dopo l’11 settembre sono stati compiuti da gente che veniva da fuori del Paese». Non è vero. «Le imprese hanno ripreso a investire grazie a me», falso, alcune multinazionali hanno grandi piani economici, ma erano già stati scritti. «Il flusso di droga è senza precedenti». No, cocaina e marijuana sono in calo. «Gli oleodotti che ho autorizzato produrranno decine di migliaia di posti di lavoro». Le stime dicono meno di 5mila. L’elenco di cifre inesatte è lungo e il Washington Post lo fa tutto.

In politica estera Trump ha moderato i toni, placato le polemiche con la Nato («ma devono spendere di più per i loro eserciti») e promesso dialogo e forza. In questo caso, come in quello della celebrazione iniziale del Black History Month, le parole scelte sono necessarie per riparare gaffe fatte in precedenza.

Il nodo centrale della politica di Trump e dei repubblicani è però la riforma fiscale. L’ipotesi è quella di cambiare la corporate tax introducendone una diversa e abbassare le aliquote. La prima parte potrebbe avere senso: la corporate tax non rende gli investimenti deducibili fiscalmente. Abbassare le aliquote sarebbe però un regalo alle corporations. Come del resto le spese militari e l’idea di tornare a incentivare l’uso del petrolio veicolata dalla ripartenza dei due mega progetti di oleodotto. Quanto alla riforma della scuola, Trump parla di risorse e di libertà di scelta: ovvero diamo dei bonus anche ai poveri così da incentivarne le iscrizione a scuole private e religiose.

C’è poco da farsi ingannare, il primo discorso di Trump davanti al Congresso è solo meno incendiario, meno apocalittico di quello fatto per l’inaugurazione. E cerca anche di rimediare a danni fatti dallo stesso presidente in occasioni in cui ha parlato a ruota libera – i suoi Segretari, specie quelli che si occupano di relazioni internazionali hanno spesso dovuto intervenire per smentire quel che Trump aveva dichiarato. Ma la sostanza è tutta la. L’unica vera novità, oltra al tono, è quella di un presidente che sembra aver capito – ma quanto durerà? – che se vuole durare deve cambiare atteggiamento. E che, sebbene lavorare con lui sarà difficile e su tasse e Obamacare ci saranno tensioni, i repubblicani hanno scelto di stare disciplinatamente con il loro presidente. Nemmeno queste, in fondo, sono buone notizie.