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Dopo la sconfitta di Copeland, Corbyn rischia grosso

epa05812052 Labour Party leader Jeremy Corbyn (R) looks on ahead of a speech on Brexit in London, Britain, 24 February 2017. Corbyn outlined his party's policy on Brexit. EPA/ANDY RAIN

Intorno a Corbyn, l’aria si è fatta sottile. Non sono più soltanto i moderati infatti a tirare per la giacchetta il leader del Labour, bensì anche chi, finora, ha rappresentato l’appoggio più solido di “Jez” nel mondo della stampa e della politica. Perché?

Circa due settimane fa, il Labour ha perso la così detta “by-election” a Copeland e consegnato il seggio parlamentare al partito conservatore di Theresa May. Nello stesso fine settimana si è votato anche a Stoke, dove il partito laburista è invece riuscito ad arginare il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip).

Ma visto che entrambe le circoscrizioni rappresentavano delle vere e proprie roccaforti del Labour, il risultato, ha lasciato comunque l’amaro in bocca. Subito dopo il voto sul The Spectator, Isabel Hardman ha sottolinea che Copeland rappresenta, aritmeticamente, la peggior sconfitta di un’opposizione in una “by-election”, dal 1945 a questa parte; senza contare che il seggio in questione era “rosso” dal 1935.

Inevitabili quindi, nei giorni a seguire, le critiche nei confronti di Corbyn da parte degli “alleati” politici.

Tom Watson, ha sostenuto che la leadership del partito «debba analizzare criticamente la propria strategia». Gerard Coyne – candidato alla guida di Unite e avversario dell’uomo di Corbyn dentro al sindacato,  McCluskey – ha affermato: «Unite ha messo a disposizione risorse per sostenere un leader che sembra fuori traiettoria rispetto alle nostre politiche industriali e ai bisogni degli iscritti». Keir Stramer, Ministro ombra per la Brexit, non ha usato mezzi termini: «Il Labour non ha chance di vincere le elezioni del 2020». Una posizione, questa ultima, che è stata condivisa addirittura dai portavoce dello stesso Corbyn. Dal canto suo, David Milliband ha messo sotto processo la linea «di sinistra» del partito, affermando che il problema non sta tanto – o almeno, non solo – nelle ricadute elettorali negative: «Sono convinto che ci siano strategie migliori per ottenere cambiamenti radicali e di sostanza».

L’unica voce fuori dal coro è stata quella di John McDonnell. Sulla scorta delle polemiche, McDonnell ha denunciato che, dopo l’attacco fallito alla leadership nel 2016, sarebbe in corso un nuovo tentativo “morbido” (“soft coup”) di delegittimazione del leader di Chippenham.

E Corbyn? Dopo la sconfitta, il leader del Labour si è assunto alcune responsabilità, ma ha anche provato a difendere il successo di Stoke. Inoltre, ha chiesto più tempo per sviluppare politiche avvincenti. Corbyn ha spiegato quanto sia difficile emergere in un Paese in cui i media sono schierati soprattutto a destra.

Ma il problema è che di tempo a disposizione non ce n’è più molto. Anche perché non sono soltanto gli opinionisti di destra ad andare contro il leader del Labour a questo punto.

Il giorno dopo il voto, Jonathan Freedland – un’opinionista laburista, ma da sempre avverso a Corbyn – ha scritto: «Corbyn se ne deve andare» e che «spetta al movimento “Momentum” e alla rappresentanza dei sindacati, più vicini a Corbyn, far scendere dal podio il proprio leader». Di ieri invece, l’intervento di Martin Kettle, che denuncia un partito «in fiamme». In particolare, Kettle ha denunciato l’appiattimento del Labour su immigrazione e Brexit, temi rispetto ai quali il partito “scimmiotterebbe” i Tories: «[In questo atteggiamento], non c’è traccia di socialismo, socialdemocrazia, liberalismo; non c’è moralità, né ottimismo o immaginazione. Non appare alcun obiettivo, se non quello della mera sopravvivenza […] ».

Ma la botta più dura è arrivata da Owen Jones, storicamente una colonna del movimento che ha portato Corbyn alla testa del Labour: «Corbyn è un politico esemplare e fatto di sani principi. Ma deve prendere una decisione, così come i suoi oppositori. A prescindere da ciò che accadrà alla leadership del partito, Corbyn deve delineare una strategia chiara e coerente per superare la crisi esistenziale del Labour […] Se non dovesse essere in grado, è arrivata l’ora per un accordo che faccia spazio a un giovane del partito, rappresentativo delle nuove generazioni, e che dia sostanza all’entusiasmo della base».

 

 

Anti casta? Non basta più. Il nemico di Podemos adesso si chiama “trama”

epa05144737 Leader of Podemos Party Pablo Iglesias during a press conference after his meeting with Socialist Party leader Pedro Sanchez (not at the image) in Madrid, Spain on 05 February 2016 in order to tyring to reach an agreement for a coalition Government after the 20 December's general election in Madrid, Spain, 05 February 2016. EPA/BALLESTEROS

Dalla casta alla trama. Dopo il congresso di Vistalegre2 – che vi abbiamo raccontato ampiamente su Left – in Podemos si apre una nuova fase con una nuova strategia ma soprattutto un nuovo linguaggio. Il concetto di casta, usato dall’origine del movimento, è entrato infatti in crisi: non basta più. Con l’ingresso nelle istituzioni – locali, nazionali ed europee – la nuova elaborazione politica ruota allora intorno al concetto di “trama”. Un termine che Pablo Iglesias mutua dal deputato Manolo Monereo, suo padre politico, e che sintetizza in termini meno populisti la nuova diagnosi del nemico e, insieme, i nuovi obiettivi politici e le nuove strategie per raggiungerli. Capire a cosa si riferisce Podemos, a noi interessa anche per comprendere meglio – laddove ce ne fosse bisogno – la differenza tra gli spagnoli e il Movimento 5 stelle. Che vengono spesso associati, nonostante il Movimento non sembri volersi (e forse potersi) spostare dalla più populistica critica alla “casta”.

Da casta a trama

«Casta è una definizione sociologica diretta ai soli politici. Io invece uso “trama” come qualcosa di più cosciente. Rende l’idea di una struttura organizzata in modo permanente, dove risiedono i poteri economici, alcuni poteri mediatici, politici e la classe politica», aggiunge Monereo – che adesso è entrato a far parte del nucleo dirigente del partito, il “governo ombra” di Podemos. Il concetto di trama, secondo lo studioso, è molto più potente e supera i limiti del concetto di casta, dunque, troppo limitata «alla semplicistica divisione tra corrotti e non corrotti». Adesso, invece, «per indicare cosa sta succedendo», diagnosi e soluzione vanno riferite al concetto di trama che diventa in parte sinonimo di oligarchia impregnata di capitalismo clientelare.

Dopo Vistalegre, dunque, Podemos prosegue sulla logica podemista di sempre: loro e noi, l’alto e il basso, continuando a richiamare il motto di Occupy Wall Street, “Siamo il 99%”. Ma si evolve e ricerca complessità. Perché l’1 per cento non è la casta ma quel potere che mantiene il controllo a prescindere dal cambio di vertici nell’industrie, nei media e nelle istituzioni. Un potere che è spesso trasversale anche in politica: «Alcune volte sta nel Psoe, altre nel Pp, altre ancora in entrambe».

Il deficit democratico e l’egemonia

Le conseguenze di questa trama, nel nuovo ragionamento podemista, è un deficit democratico che punta a evitare l’esplosione del conflitto. Anestetizza. «Ecco perché – spiega Monereo – ogni volta che la Spagna sembra avviarsi a una transizione democratica si finisce in una restaurazione». E l’antitesi a questa trama, ancora secondo il teorico, è il “blocco storico”, lo stesso che Podemos vuole costruire insieme a Izquierda unida e ai movimenti sociali, in opposizione alla “tripla alleanza” – Psoe, Pp e Ciudadanos – e il cui orizzonte passa attraverso un processo costituente in chiave di rottura.

Per “dettare la nuova linea” Pablo Iglesias ha scelto la presentazione di un libro – Ibex 35. Una historia herética del poder en España‘ (Capitán Swing), del sociologo e giornalista Rubén Juste – di martedì scorso. In quelle pagine, dice, si condensa alla perfezione la nuova idea del partito. «Esiste una trama, una trama corrotta che, attraverso meccanismi legali e illegali, è stata capace di mantenere il potere negli ultimi anni, e ha raggiunto fette fondamentali del potere, ma che allo stesso tempo è in crisi. Mai come adesso si presenta davanti a noi la sfida a questa trama per l’egemonia», spiega Iglesias convinto com’è che la trama sia giunta al suo «epilogo».

Lotti dice basta. Ma esattamente, basta a cosa?

Il sottosegretario Luca Lotti, in occasione della cerimonia per i 100 anni dalla nascita di Aldo Moro al Quirinale, Roma, 23 settembre 2016. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Il ministro Luca Lotti (diventato ministro per il merito di essere amico d’infanzia di Renzi) perde la pazienza come suo solito lanciando una dura invettiva attraverso il suo profilo facebook.

«Se non fosse una cosa seria, ci sarebbe da ridere. Oggi – scrive Luca Lotti – il Movimento 5 Stelle ha presentato nei miei confronti la mozione di sfiducia. Si parla di tangenti, di arresti, di appalti. Tutte cose dalle quali sono totalmente estraneo.
Per essere ancora più chiaro: non mi occupo e non mi sono mai occupato di gare Consip, non conosco e non ho mai conosciuto il dottor Romeo.
La verità è che due mesi fa mi hanno interrogato su una presunta rivelazione di segreto d’ufficio. Si tratta di un reato che si ripete tutti i giorni in alcune redazioni ma che io non ho mai commesso. Lo ripeto con forza e sfido chiunque oggi dica il contrario ad attendere la conclusione di questa vicenda così paradossale.»

In questi anni abbiamo assistito alle reazioni più disparate e scomposte di fronte alle indagini della magistratura e talvolta anche alle giuste dichiarazioni di innocenza poi corroborate dalle sentenze. Resta da capire però perché (e in base a quale criterio) Lotti dovrebbe pretendere che non si parli di un’inchiesta che, se confermata, risulterebbe essere forse una delle più “alte” e gravi della Seconda Repubblica.

Il ministro Lotti è lo stesso che nel giorno in cui uscì la notizia dell’indagine a suo carico dichiarò (testuale) «non c’è nessuna indagine a mio carico»; è la stessa persona che promise di chiarire in breve tempo la sua posizione e invece dopo il suo incontro con i magistrati rimane indagato; è lo stesso ministro che apostrofò come bufala un’indagine che evidentemente è poi cresciuta.

Non sfuggirà a Lotti (e ai renziani) che una questione di queste proporzioni (che tocca la “politica alta”, come si legge nelle carte della Procura) non possa essere superata con una scrollata di spalle. Si preoccupi di dimostrare la propria innocenza e estraneità ai fatti, si renda conto che le accuse non sono di Travaglio e compagnia ma di alti funzionari pubblici.

Stia al gioco, insomma. Perché il gioco alla demolizione, del resto, l’hanno usato abbondantemente anche loro.

Buon venerdì.

Questo è il tempo di “essere” un tesoro

Questo è il tempo in cui scopriremo la differenza che corre tra l’“avere” un tesoro ed “esserlo”. È il tempo in cui dovremo imparare ad “essere” un tesoro. Un tesoro che sarà casa e carta. Fatto di pensiero e parole. È il tempo in cui dovremo uscire e cercarci. In cui dovremo offrire ciò che siamo. Non c’è più nulla da difendere, né da resistere, c’è da essere tesori. Di pensiero e parole. In un mondo che ha perso tempo e modo. Lo stesso mondo che le donne di 40 Paesi LOTTO marzo rifiuteranno.

Perché questo mondo matto, «questo capitalismo pazzo perché si crede eterno, ed accumula ricchezze che non potrà mai consumare, e si autodistrugge perché distrugge il pianeta che lo ospita… il cancro della terra e dell’umanità» come scrive su questo numero la filosofa Profeti, merita uno sciopero mondiale e merita anche che siano milioni di donne a farlo. Per dirci a tutti che così non va. Non va per niente. Sulle pagine di Left abbiamo scritto centinaia di volte di ingiustizie e violenze, di religione e ragione e dei loro danni perpetrati sulla pelle e sulla mente delle donne, subumane creature da sempre, diaboliche porte del male o, alla peggio, fattrici più o meno fertili. Centinaia di volte abbiamo scritto di Storia e di quale e quanta discriminazione umana siano state oggetto le donne in Occidente. Ed anche il perché.

Perché, ad esempio, non fosse solo e soltanto una questione di diritti mancati. Convinti che il punto fosse proprio quello. La realizzazione delle donne e della loro uguaglianza. Convinti che la Sinistra, quella del futuro, debba passare di lì o non sarà. Perché per ora non è. Oggi le donne continuano a morire di fatica, Chiara Saraceno lo denuncia e accusa la politica. Quella di Sinistra in special modo. E il mondo risponde. Non una di meno. E noi aggiungiamo, semmai sempre Una di più. Una di più libera e indipendente. Libera di incrociare le braccia e sdraiarsi su un prato «per godersi la primavera» come scrive Tiziana Barillà. Mercoledì LOTTO marzo noi lo facciamo. Cerchiamo un prato insieme e “rifiutiamo” questo mondo dove la violenza visibile e invisibile ci viene propinata come destino ineluttabile o caso isolato. O ancor peggio, colpa originaria. Così non è. È un sistema che si è fatto violento nutrito di una cultura violenta che va stoppato. E allora incrociate le braccia con noi, andate per il mondo e raccontate che tesoro possiamo essere.

#LottoMarzo. C’è un tempo per piangere, uno per indignarsi e uno per scioperare

Niente feste, niente spogliarelli e niente cene tra donne con centrotavola di mimose. C’è un tempo per piangere, un tempo per indignarsi e, poi, arriva il tempo di scioperare. Quest’anno l’8 marzo è lo sciopero di tutte, è lo sciopero globale. In 40 Paesi del mondo, lavoratrici dipendenti, precarie, autonome, intermittenti, disoccupate, studentesse, pensionate e casalinghe incrociano le braccia nei luoghi, tradizionali e non, di lavoro. Anche in Italia, come annunciato all’indomani della Marea di #NonUnaDiMeno: in 250mila hanno sfilato per le strade di Roma. Si può scioperare in molti modi: astensione, sciopero bianco, vestendosi simbolicamente di nero e fucsia, astenendosi dai lavori di cura quotidiani e dai consumi (spesa, acquisti e uso di elettrodomestici). E si potrà aderire anche per via “social”, con un post in cui spiegare: #ScioperoPerché e #ScioperoCome. Sul prossimo numero di Left, in edicola il 4 marzo, abbiamo preparato un’accurata guida per trovare ognuna il suo modo e il suo perché.

Il racconto della violenza sulle donne come raptus è per sempre rigettato. Quello che si denuncia è un problema strutturale della società, italiana e globale. Perché «la situazione delle donne non è migliorata ma si è aggravata», scrive l’eurodeputata Marisa Matias che sottolinea le «battute d’arresto e la persecuzione delle donne in Polonia, o la legittimazione della violenza sulle donne in Russia, o l’escalation brutale della violenza contro le donne nel mondo, senza dimenticare quanto si sia fatta ancora più difficile la situazione delle donne rifugiate, il cui numero non cessa di crescere». E in Italia? In Italia le donne continuano a morire di fatica, ci ricorda Chiara Saraceno che dalle nostre pagine lancia un j’accuse alla politica: «Il lavoro remunerato manca, soprattutto per le donne e soprattutto se sono a bassa qualifica e se vivono nel Mezzogiorno. E il lavoro può anche uccidere “semplicemente” per troppa fatica», come nel caso di Paola Clemente, bracciante tarantina. E, ancora, la difficile riforma del cognome materno, un esempio di quanto «la lunga storia delle riforme dei diritti civili e dei diritti all’eguaglianza tra uomini e donne in Italia rappresenta una profonda contraddizione tra il livello più maturo della società civile e la lentezza della politica», dice la professoressa Angiolina Arru.

«Mercoledì LOTTO marzo noi lo facciamo. Cerchiamo un prato insieme e “rifiutiamo” questo mondo dove la violenza visibile e invisibile ci viene propinata come destino ineluttabile o caso isolato. O ancor peggio, colpa originaria. Così non è. è un sistema che si è fatto violento nutrito di una cultura violenta che va stoppato. E allora incrociate le braccia con noi, andate per il mondo e raccontate che tesoro possiamo essere», scrive il nostro direttore Ilaria Bonaccorsi. Buono sciopero a tutte. E tutti, perché «Per la cronaca, la definizione di femminismo è: “Il credere che uomini e donne debbano avere uguali diritti e opportunità. È la teoria della parità dei sessi in politica, economia e nella società”», spiega Giulio Cavalli che su questo numero, con un racconto inedito, racconta la storia “Il signor M. e il femminismo”: «Uomini, vorrei sfruttare questa opportunità per farvi un invito formale. La parità di genere è anche un vostro problema».

COSA TROVATE NEL NUMERO DI LEFT IN EDICOLA

Il signor M. e il femminismo.

Una storia al contrario e un discorso per la parità. Il racconto inedito
di Giulio Cavalli

Ci piacciono i fiori ma vogliamo diritti.

L’8 marzo visto dal Parlamento europeo
di Marisa Matias

La guida di Left per aderire allo sciopero delle donne.

«Se delle nostre vite si può disporre (fino a provocarne la morte) perché ritenute di poco valore, vi sfidiamo a vivere, produrre, organizzare le vostre vite senza di noi». L’8 marzo, in 40 Paesi del mondo, milioni di donne scioperano
di Tiziana Barillà

Questa politica che dimentica le donne.

Scarse, ormai da almeno due legislature, le politiche di pari opportunità. Nonostante in Parlamento siedano più donne e più donne siano ministre, mai come oggi mancano “avvocate” forti. Anche, se non soprattutto, a sinistra
di Chiara Saraceno

Popolo di navigatori, di santi e di obiettori!

L’aborto è un diritto. Dal ‘78, nonostante il referendum del 1981 e i continui tentativi di affossare, se non in Parlamento nella pratica, la 194 che lo riconosce, disciplina e regolamenta
di Adele Orioli

Un padre eterno. La difficile riforma del cognome materno.

Il potere legato alla partecipazione alla vita pubblica, in quanto maschi, ha lasciato tracce forti
di Angiolina Arru

Leggi il numero di Left dedicato all’8 marzo

 

SOMMARIO ACQUISTA

«Non è ammissibile che siano intere strutture ad obiettare». La denuncia della ginecologa Anna Pompili di Amica

L’odissea di una signora di 41 anni che per abortire ha dovuto girare ben 23 ospedali  fra Veneto, Trentino, e regioni limitrofe  è purtroppo paradigmatica della violazione dei diritti delle donne in Italia, dove la legge 194 è in larghissima parte disapplicata, lasciando il campo aperto a casi di vera e propria omissione di servizio. Nel caso in questione, solo dopo un intervento della Cgil, la situazione si è sbloccata: «La stragrande maggioranza dei medici si dichiara ‘obiettore di coscienza’ le liste d’attesa per l’interruzione volontaria di gravidanza diventano pericolosamente lunghe costringendo le donne a rivolgersi quando va bene, alle strutture private, o peggio a fare ricorso all’aborto clandestino, una vergogna sociale che la Legge 194 era nata proprio per contrastare», si legge in una nota, la Cgil regionale del Veneto che chiede,  com’è successo nella Regione Lazio, l’assunzione di “medici non obiettori anche in Veneto”. Il caso del San Camillo di Roma dove è stato fatto un concorso ad hoc per coprire il servizio medico di interruzione di gravidanza  non è il solo.  Un percorso nascita a Triggiano  in provincia di Bari  è attivo grazie a un concorso simile. Ma deve rispondere a tutte le donne del barese e oltre che chiedono di fare un’interruzione volontaria di gravidanza, «con carichi di lavoro e difficoltà logistiche sempre maggiori. All’Unità lavorano due ginecologhe: «l’unica non obiettrice dell’ospedale “Di Venere” di Bari, Giulia Caradonna, porta avanti il servizio insieme ad una collega territoriale, assunta in seguito ad un bando ad hoc per 30 ore settimanali per l’interruzione di gravidanza». Lo raccontaEleonora Cirant sul blog Un’inchiesta sull’aborto.

Indire concorsi per medici non obiettori di coscienza ovviamente un modo per tamponare, non è la soluzione  del problema. Perché viste le percentuali altrissime di obiettori di coscienza nei reparti di ginecologia ciò che accade è che intere strutture ospedaliere non fanno interruzioni di gravidanza, perché manca del tutto il personale.  «Non è ammissibile l’obiezione di struttura», sottolinea con passione la ginecologa Anna Pomili. «Il ministro della Salute Lorenzin ha detto candidamente che più del 35 per cento delle strutture che sarebbero tenute a rispettare la legge, la ignorano completamente. Non si può accettare che quando non c’è un servizio si dia la mano alla signora  augurandole tante care cose. Quelle  stesse strutture dovrebbero farsi carico dell’iter per l’espletamento della procedura. Nel caso accaduto a Padova la signora è dovuta andare vagando per tutto il Nord Italia per poter avere risposta alla sua domanda di salute. Non è ammissibile» ribadisce la ginecologa  che con Amica ( associazione medici italiani contraccezione e aborto) ha scritto una indignata lettera al presidente dell’Ordine dei medici  del Lazio per la sua presa di posizione contro il concorso al San Camillo. «L’articolo 9 della legge 194  salavaguarda il diritto a sollevare l’obiezione di coscienza, ma la seconda parte di quell’articolo afferma che le strutture sanitarie devono espletare le procedure sanitarie». La  ginecologa Anna Pompili punta il dito sulla responsabilità delle Regioni «perché la legge prevede che controllino e sorveglino sull’applicazione della 194». Ma le Regioni latitano. E intanto «si grida allo scandalo quando timidamente, come ha fatto la Regione Lazio, si cerca di risolvere il problema dell’uso strumentale dell’obiezione di coscienza» . Perché, sottolinea Pompili, «Il problema è l’uso strumentale  dell’obiezione di coscienza per motivi di comodo, ideologici. Il periodo di prova dura sei mesi e se il medico assunto a sei mesi e un giorno viene folgorato dalla crisi mistica non credo sia così facile licenziarlo».  Anche per questo con l’onorevole Marisa Nicchi, la ginecologa romana ha lavorato ad una proposta di legge che cerca di ovviare al problema creando dei centri di fisio-patologia della riproduzione, che si occupino  sia alla diagnostica prenatale sia delle interruzioni di gravidanza.

«Il punto cruciale è ridare alle donne la possibilità di decidere,  lo si può fare garantendo l’accesso all’interruzione di gravidanza per via farmacologica,  che implica un minore impegno medico che in questo modo può rispondere a  più persone». dice Anna Pompili ribadendo che la battaglia  non è solo  per garantire la piena applicazione della legge, ma è anche una battaglia culturale.

Capita ogni giorno infatti che i media italiani diano spazio a interventi di ginecologi cattolici che parlano di depressione come conseguenza inevitabile di un aborto. Il retro pensiero nenache tanto nascosto è che l’aborto sia un omicidio e le donne siano assassine. Quando invece la moderna neonatologia dice che il feto è completamente diverso dal bambinio  e che la nascita è una grande cesura.

«La grossa battaglia culturale è la costruzione di un’etica  che sia libera da legacci ideologici e religiosi c’è chi crede che l’aborto sia un piccolo omicidio, per il quale l’effetto salvifico  sarebbe il grande dolore della donna, pernsare che una donma possa scegliere liberamente, senza questa epica del dolore , è  per i cattolici inammissibile.  In questo modo sono proprio i medici obiettori a fare un danno alle donne, che fanno venire loro la depressione.  In radio ho sentito un collega, medico obiettore del Molise , dire per lui l’obiettivo è convincere una donna a non abortire. Io invece sono felice quando riesco a permettere a una donna di esercitare la propria volontà e decisione».

 

«Una scuola materna sfrattata come fosse un ristorante». A Roma il Celio Azzurro si ribella

«Siamo stati equiparati a un ristorante, ma questa è una scuola materna, non si può dire che è la stessa cosa. E così dobbiamo sgomberare». Massimo Guidotti è direttore e uno dei fondatori del Celio Azzurro, l’asilo multiculturale nel parco del Celio a Roma. Nella trappola della delibera 140/2015 della giunta Marino che riordina il patrimonio immobiliare del Comune è incappato anche la scuola materna che esiste da 25 anni. Un fiore all’occhiello di quelle esperienze di “intercultura”, parola molto facile da scrivere nei programmi elettorali ma così difficile da mettere in pratica. Al Celio Azzurro così come ad altri spazi sociali gestiti da associazioni è stato chiesto un aumento del canone d’affitto che è improponibile per la cooperativa omonima che gestisce la scuola. «Oltre cinquemila euro e 242mila euro di arretrati», specifica Guidotti. La Corte dei Conti ha utilizzato il censimento fatto fare dalla giunta Marino e ha decretato che tutte le concessioni del Comune dovessero essere rivalutate a prezzi di mercato, indipendentemente dalla loro finalità e dalla natura delle associazioni. I metri quadrati sono quelli, punto e basta. Sono previsti 113 sgomberi che metteranno in ginocchio una rete vivace che anima la cultura e la società a Roma. Lo sfratto del Celio Azzurro è previsto il 20 marzo. Il 10 marzo alle 15 tutte le associazioni del socio-culturale si sono date appuntamento al Campidoglio. Ma oggi davanti al Celio Azzurro si protesta: maestri, bambini, genitori, amici. «Qua ci sono 60 bambini, di 20 nazionalità diverse, dai 3 ai 6 anni, stranieri e anche italiani naturalmente, in primo luogo bambini socialmente fragili. Il comune ci dà un finanziamento che purtroppo declina sempre di più, le famiglie ci danno una mano, cerchiamo di fare rette calmierate per venire incontro anche ai più disagiati, noi non vogliamo essere una scuola privata», continua Guidotti.

E adesso, che tipo di mobilitazione aspetta il popolo del Celio Azzurro? «Un po’ di rete l’abbiamo fatta, con le altre associazioni, ma siamo stati abbandonati da forze politiche che pure dovevano presagire quello che sta accadendo, siamo soli, solo un coordinamento di volontari. Per onestà dobbiamo dire che questa cosa è stata perpetrata dalla giunta Marino – sottolinea Guidotti – che all’inizio con una buona intenzione, voleva censire le varie concessioni ma poi tu Comune dovevi determinare con una delibera la differenza degli spazi del patrimonio comunale, cercando di supportare tutta la rete socio-culturale che è la spina dorsale dell’etica e della democrazia di una città come Roma. Noi abbiamo fatto naturalmente ricorso, ma dobbiamo sgomberare il 20 marzo, e gli arretrati sono di 242mila euro. Dal 2010 ci hanno messo a regime di mercato, dovremmo pagare 5mila euro e passa per una struttura che nel 90 abbiamo trovato in mezzo a una giungla e che noi a spese nostre abbiamo reso adeguata per i bambini». Gli operatori della scuola materna lamentano soprattutto l’assenza dell’amministrazione: «Quella M5s è in perfetta continuità con la giunta Marino». Sarebbe bastata un’altra delibera, invece tutto è stato lasciato nelle mani della Corte dei Conti che fa il suo mestiere e che ovviamente non distingue come dovrebbe fare un’amministrazione comunale vicina ai bisogni dei cittadini. «Così si fa la città dei ricchi e dei poveri, così si creano i muri», dice ancora Guidotti.
Il quale sottolinea la particolarità dell’esperienza del Celio Azzurro. «Dispiace che non possiamo parlare di contenuti, perché dobbiamo pensare alla sopravvivenza, ma questa è una scuola materna particolare. Il documentario di Edoardo Winspeare (Sotto il Celio Azzurro del 2009 Ndr) ha fatto il giro di tutti gli Istituti di Cultura italiani del mondo. È un peccato perché davvero in questo Paese i valori sono rovesciati».

Viktor Orbàn: “Ci vuole omogeneità etnica”

il premier ungherese Viktor Orban
Hungarian Premier Viktor Orban looks at supporters before delivering a speech in Budapest, Hungary, Sunday, Oct. 2, 2016. Hungarians overwhelmingly supported the government in a referendum on Sunday called to oppose any future, mandatory European Union quotas for accepting relocated asylum seekers but nearly complete official results showed the ballot was invalid due to low voter turnout. (AP Photo/Vadim Ghirda)

Prima di tutto, «ci vuole omogeneità etnica». Sono le parole utilizzate qualche giorno fa dal Primo ministro ungherese, Viktor Orbàn, durante un incontro presso la Camera di commercio ungherese a Budapest.

Orbàn, consapevole della “problematicità” dell’espressione utilizzata, ha addirittura sottolineato: «Non sarebbe stato possibile dire tanto qualche anno fa», ma il corso degli eventi «ha dimostrato che troppa disomogeneità crea problemi»Come riporta Euractiv, il Primo ministro ha poi suggerito che la crescita economica non dipende esclusivamente dalla “competitività”.

Durante il suo intervento,Orbàn ha fatto riferimento alle così dette “società parallele”, «poco desiderabili», e alla necessità – confermata dalla carenza di manodopera nel Paese – di favorire l’immigrazione: «Non voglio che l’Ungheria scivoli verso una situazione in cui i lavori di scarsa qualità vengano eseguiti soltanto dagli stranieri», prima di concludere: «Dobbiamo cavarcela da soli, dalla pulizia dei sanitari, fino alla scienza nucleare».

Intanto, lungo il confine meridionale del Paese, continuano i lavori per la costruzione di una seconda barriera con la Serbia. Ieri, Die Welt ha nuovamente denunciato trattamenti disumani nei confronti dei migranti che cercano di arrivare nel Paese.

Ma l’estrema rigidità nei confronti dei richiedenti asilo non è di casa soltanto a Budapest. Due giorni fa, durante una conferenza stampa che faceva seguito a un incontro fra diplomatici tedeschi e austriaci, il Ministro degli interni austriaco, Sebastian Kurz, ha ribadito la linea dura di Vienna contro i migranti.

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«Giustizia per Berta Cáceres». A un anno dall’omicidio, sit-in e arresti nell’esercito

epa05823710 A group of women of the Garifuna ethnicity participate in a protest with members of the Council of Indigenous and Popular Organizations of Honduras in Tegucigalpa, Honduras, 01 March 2017. The women are demanding justice for the murder of Honduran activist Berta Caceres who was killed in March 2016. EPA/Gustavo Amador

È trascorso un anno dall’assassinio dell’attivista indigena Berta Cáceres, la coordinatrice del Copinh morta il 2 marzo 2016 nella sua casa di La Esperanza (Honduras Occidentale), per le sue battaglie al fianco della comunità nativa di Rio Blanco contro la costruzione dell’impianto idroelettrico Agua Zarca, sul fiume sacro Gualcarque. Oggi, dalla Germania a Puerto Rico, dall’Ecuador a San Francisco passando per Londra, Madrid, Bilbao, San Salvador e Cile, sono tante le capitali del mondo che hanno risposto all’appello lanciato dall’organizzazione indigena e dalla famiglia di Càceres. A Roma l’appuntamento è previsto nel tardo pomeriggio di fronte all’ambasciata dell’Honduras in via Giambattista Vico 40 (metro Flaminio), per rendere omaggio alla memoria dell’attivista, premio Goldman per l’ambiente 2015 per essere riuscita a bloccare la costruzione della diga in territorio Lenca, una delle etnie più numerose del Continente. Il presidio è anche una richiesta di verità e giustizia su quello che l’organizzazione indigena non esita a definire “omicidio di Stato”, oltre che di uno stop definitivo ai progetti estrattivisti e alle speculazioni che distruggono e privano le comunità native dell’Honduras di risorse vitali.

«Un anno fa hanno assassinato Berta perché non sopportavano che una donna, un’indigena, si potesse opporre con il suo popolo allo sfruttamento dei nostri territori, uscendone vittoriosa», ha dichiarato il Copinh in un comunicato, diffuso durante la conferenza stampa tenutasi lo scorso 28 febbraio nel Dipartimento di Intibucà. «La assassinarono perché in questo Paese si preferisce ammazzare, invece che dialogare. E si pensa che uccidendo persone si uccidano le idee».
Una morte annunciata la sua, già prima del Colpo di Stato del 2009 operato dalla destra ultra-nazionalista, tanto che il suo nome era in cima alla black list delle persone “da eliminare” ad opera degli squadroni della morte, perché minacciava gli interessi corporativi. Un omicidio, che non è riuscito a scongiurare neanche la Commissione interamericana dei diritti umani, che le aveva assegnato una scorta, mal garantita dal governo dell’Honduras.

Lo stesso Governo che ha secretato le indagini, impedendo l’accesso agli atti anche alla famiglia, contravvenendo alle procedure internazionali. E ha rifiutato di riconoscere il Gaipe (Gruppo consultivo internazionale di esperti), la commissione d’indagine indipendente istituita lo scorso novembre dalla famiglia e dal Copinh, sul modello di quella dei 43 di Ayotzinapa assassinati in Messico, per vigilare sullo svolgimento delle indagini. Soprattutto dopo lo scandaloso furto dell’unica copia degli atti del processo, indebitamente portati fuori dai pubblici uffici dal pubblico ministero, lo scorso settembre.

Finora, sono otto le persone arrestate per l’omicidio. Fra questi, stando alle rivelazioni pubblicate dal quotidiano britannico The Guardian lo scorso 28 febbraio, il maggiore Mariano Díaz Chávez, veterano decorato nelle forze speciali e l’ex tenenete Douglas Giovanny Bustillo, addestrati nel 1997 nella Scuola delle Americhe che, per decenni, formò le forze militari latinoamericane nella zona del Canale di Panama (dal 1984 con sede presso Fort Benning, Georgia, sotto il nome di Istituto dell’emisfero occidentale per la cooperazione e la sicurezza). Dal maggio 2006, entrambi i militari sono detenuti insieme a Sergio Rodrigues e Edilson Antonio Duarte, considerato l’esecutore materiale dell’omicidio di Berta Cáceres. Colui che armato di fucile aprì il fuoco sulla leader indigena, strappandole la vita con quattro proiettili alle 23.30. Duarte, che da tempo svolgeva “lavori” da sicario, ha dichiarato di essere stato contattato da Sergio Rodríguez, esecutivo del progetto idroeléctrico Agua Zarca, spinto dall’impresa Desarrollos Energéticos SA (in sigla Desa). La stessa che annovera nel suo consiglio direttivo figure come l’amministratore delegato David Castillo, formatosi nell’accademia militare di West Point ed esperto di intelligence militare, legato all’élite governativa del Paese.

L’ultimo arrestato è l’ex militare Henry Javier Hernandez Rodriguez, un ex cecchino delle forze speciali, che aveva lavorato sotto il comando diretto di Diaz, catturato in Messico qualche settimana fa. Colui che ha ferito al braccio l’attivista ambientale messicano Castro Soto, unico testimone dell’omicidio di Berta Cáceres. E l’unico ad aver ammesso il proprio coinvolgimento nell’omicidio e di aver agito sotto costrizione.
Agli atti giudiziari ci sono anche i tabulati telefonici e i messaggi, che secondo i pubblici ministeri contengono riferimenti codificati per l’omicidio. «Alla luce di queste rivelazioni, riteniamo responsabili le strutture delle forze armate, dove prolifera e si sviluppa il sicariato, che formano gli squadroni della morte, che per pochi spiccioli uccidono popoli e comunità. Le autorità honduregne, però, tentano ancora di giustificare la loro incapacità di catturare i mandanti dell’omicidio», ribadiscono gli attivisti del Copinh.

«Legittimare l’impunità, metterebbe a rischio la vita di tanti altri membri delle comunità e degli attivisti per i diritti umani che in Honduras continuano a lavorare fra enormi difficoltà e a morire come mosche», spiega Berta Zuniga Càceres, figlia della coordinatrice indigena. Dalla morte della Càceres sono stati cinque gli attivisti uccisi nel Paese. Portando, secondo l’Ong Global Witness, il bilancio delle vittime a 120 dal 2010, rendendo l’Honduras la nazione più pericolosa al mondo per gli attivisti ambientali.

Il vuoto lasciato dalla leader del Consiglio civico popolare degli indigeni dell’Honduras non ha fermato però le sue battaglie, né il movimento indigeno, nonostante le continue minacce. “Berta vive! Copinh Sigue” non è solo lo slogan scelto dall’organizzazione per commemorare la sua scomparsa. È anche una campagna che sta dando forma ad una piattaforma di solidarietà internazionale, decisa a continuare a contrapporsi al sistema capitalista, razzista, patriarcale e colonialista che vige in Honduras dal golpe del 2009.
«Credevano che uccidendola, avrebbero segnato la fine non solo di una guida riconosciuta nel Latino America e nel mondo. Ma anche di un’idea, di un progetto politico, dell’organizzazione della quale fu fondatrice nel 1993 e parte allo stesso tempo. In questi giorni – concludono gli attivisti – non solo ricordiamo con dolore quell’orrendo crimine, ma celebriamo la vita. Quella di Berta, che nacque il 4 marzo. E quella del Copinh, che il 27 Marzo 2017 compirà 24 anni dalla sua fondazione”, rinnovando l’impegno a costruire alternative nel rispetto delle comunità indigene, dei territori ancestrali e dell’identità di un popolo fra i più antichi del Mesoamerica.