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I ricchi sono meno empatici e attenti agli altri dei poveri?

«Noi non vediamo le cose nel modo in cui sono. Le vediamo nel modo in cui siamo». La frase è tratta da uno dei testi sacri dell’ebraismo, il Talmud, ma potrebbe essere anche il sunto di molte ricerche sociali che cercano di tracciare i differenti modi in cui vediamo il mondo.
Esistono differenze fra la cultura Occidentale e quella Orientale (ce lo hanno spiegato libri come The Geography of Thought di Richard E. Nisbett o Il trattato dell’efficacia del filosofo Francois Jullien dove vengono messi a confronto due concetti di strategia, uno basato sul pensiero greco, l’altro su quello cinese), fra quella cristiana e quella musulmana, fra uomini e donne e addirittura all’interno dei diversi ceti di uno stesso Paese. L’ecosistema sociale in cui siamo inseriti determina infatti fortemente il modo in cui siamo abituati a vedere e pensare il mondo e, addirittura, le cose che ci colpiscono o meno quando vediamo una stessa scena. Secondo una recente ricerca riportata dal New York Magazine tutto questo accade anche tra persone che, pur condividendo la stessa cittadinanza, appartengono a classi sociali diverse. La tesi che porta avanti lo studio è questa: i ricchi e la classe lavoratrice vivono in sistemi culturali differenti, per questo è molto probabile che vedano il mondo in modi altrettanto differenti.


«le persone con uno status socioeconomico più elevato avevano una risposta neuronale inferiore di fronte alle manifestazioni di dolore altrui».


Non è certo la scoperta del secolo e in molti potremmo dire di averlo già intuito, ma è interessante che qualcuno si sia preso la briga di dimostrare in modo scientifico e analizzando una serie di tematiche una credenza diffusa e spesso ridotta al solo stereotipo. A farlo è stato Micheal Varnum, neuoroscienziato dell’Università dell’Arizona, che nel 2015 ha pubblicato un paper su come la classe sociale di appartenenza porti a sviluppare livelli di empatia diversi fra le persone. Varnum, con la scusa di far cercare loro qualcos’altro, ha mostrato ai 58 partecipanti alla sua ricerca una serie di volti, sereni o sofferenti, registrando l’immagine cerebrale che queste foto scatenavano. I risultati hanno mostrato che, nonostante dichiarassero di essere persone molto empatiche, «le persone con uno status socioeconomico più elevato avevano una risposta neuronale inferiore di fronte alle manifestazioni di dolore altrui». «Quello che abbiamo scoperto», ha spiegato Varnum al New York Magazine, «suggerisce che l’empatia, o alcune delle sue componenti emotive, sono ridotte in chi viene da un ceto sociale più abbiente. In ulteriore studio del 2016 il ricercatore ha constatato che le persone che appartengono a classi sociali più basse tendono a sviluppare una maggior sintonia interpersonale. Il lavoro, specifica Varnum, non è dimostrato da misure neuronali, ma studiando l’encefalogramma sono state ritrovate delle coincidenze che portano a credere che effettivamente ci possano essere delle forti correlazioni fra la risposta del sistema neuronale e la classe sociale di appartenenza.

L’empatia è solo uno degli elementi che verrebbero vissuti in maniera diversa da persone di ceti differenti, secondo un altro studio effettuato da Pia Deietze, una dottoranda della New York University, pubblicato sulla rivista Psychological Science lo scorso ottobre, a cambiare sarebbe sostanzialmente il livello di attenzione che si presta alle cose e alle persone che abbiamo attorno.


Lo status di appartenenza infatti modella l’ambiente in cui cresciamo, e definisce l’ ”ecologia” con cui guardiamo al mondo definendo le nostre abitudini di attenzione


Dopo aver coinvolto circa una sessantina di persone con background culturali ed economici differenti e aver effettuato tre diversi esperimenti utilizzando dei Google Glass, per tracciare per quanto tempo e su cosa si soffermasse l’attenzione dei partecipanti, Deietze ha concluso che «la classe sociale ha buona probabilità di influenzare quella che in sociologia è definita attenzione sociale, cioè l’attenzione che prestiamo agli altri esseri umani, in modo profondo e pervasivo. Lo status di appartenenza infatti modella l’ambiente in cui cresciamo, e definisce l’ ”ecologia” con cui guardiamo al mondo definendo le nostre abitudini di attenzione». Anche in questo caso, le persone che appartengono a ceti meno abbienti hanno livelli di attenzione verso gli altri e verso l’ambiente circostante più elevati. Le ragioni, secondo gli studiosi, potrebbero derivare da vari fattori: vivere in quartieri meno sicuri e quindi che richiedono maggiore allerta; maggiore necessità di fare affidamento sugli altri per sopravvivere perché si dispone di minori risorse. «Se hai potere e uno status – ha spiegato infatti Micheal Varnum al cronista del New York Magazine commentando la ricerca di Deietze – puoi disinteressarti di più di quello che le persone attorno a te pensano o sentono, allo stesso modo, se vivi in un ambiente dove le risorse sono scarse, sei costretto ad essere più attento, ad adattarti di più a chi ti sta intorno e quindi tenere in considerazione gli altri, come si sentono e che cosa hanno intenzione di fare». L’abito insomma non farà il monaco, ma in qualche modo contribuisce ad influenzare il modo in cui guarda al mondo.

Valerio, suicida in carcere. L’avvocato: «Era malato dall’infanzia, com’è possibile che sia finito in cella?»

Una veduta interna del carcere romano di Regina Coeli in una foto tratta dal sito del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa Penitenziaria. ANSA/ UILPA PENITENZIARIA ++HO - NO SALES EDITORIAL USE ONLY- NO ARCHIVE++

Una notizia che ormai non è più notizia nella stampa mainstream. Oggi solo due colonne nella cronaca locale di Repubblica, qualche riga sui siti, nulla più. L’ennesimo suicidio in carcere, stavolta a Regina Coeli, il 25 febbraio. Dall’inizio dell’anno sono 10 i detenuti che si sono tolti la vita. Un’agghiacciante escalation. Ma il ragazzo di 21 anni che si è impiccato con un lenzuolo nella casa circondariale della Capitale aveva una storia particolare. Aveva problemi conclamati di malattia mentale e veniva seguito dai servizi psichiatrici da quando aveva 10 anni.

Valerio, questo il suo nome, il 16 febbraio aveva scritto una lettera al fratello in cui raccontava il dramma che stava vivendo. Parole commoventi, drammatiche, scolpite in un italiano incerto su quel foglio che la madre ha consegnato all’associazione Antigone che l’ha resa pubblica. Com’è possibile che un ragazzo con evidenti problemi di malattia psichica finisca in una casa circondariale e non venga affidato invece a un dipartimento di salute mentale di una Asl oppure a una Rems, le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza che hanno sostituito gli Opg?

La «sintesi fredda di un episodio gravissimo»: così ieri Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti ha raccontato la vicenda di Valerio in un post su facebook. «Collocazione in Rems (Ceccano) – scrive – nel settembre dell’anno scorso. Due episodi di allontanamento dalla Rems e irreperibilità; ritrovamento da parte dei Carabinieri. Il magistrato stabilisce l’aggravamento della misura e, quindi, la custodia cautelare in carcere: siamo alla vigilia di Natale. Solo nove giorni fa assegnazione a un’altra Rems (Subiaco), ma questa dichiara che non ha posto. Resta in carcere sotto “grande sorveglianza”. Ieri si è ucciso. Una storia di rinvii, di incapacità a gestire la difficoltà. Una vita finita. A ventidue anni».

Sulla morte di Valerio il pm Pisani ha aperto le indagini. «Ma bisogna andare oltre il fatto di cronaca, occorre dare un senso alla vicenda per cercar di capire come sia potuto accadere, perché non sia stato curato e invece sia finito in carcere» dice Simona Filippi, difensore civico di Antigone e legale della madre di Valerio. «Il ragazzo aveva una storia documentata sui suoi problemi mentali, gravi, e che si portava dietro dall’infanzia. Dinanzi a questo quadro il carcere deve mettere in atto una serie di azioni: il servizio nuovi giunti, le Rems, la sorveglianza a vista», dice l’avvocata. «Come è possibile che alla luce di tutto quello che è stato fatto, anche in tema di sensibilizzazione su questi temi, con il superamento degli Opg, chi ha una storia come la sua finisca in carcere dove può accadere anche quello che è accaduto a lui? Ci sono stati due passaggi, dal punto di vista giuridico – continua l’avvocata Filippi – a dicembre 2016 per oltraggio a un pubblico ufficiale finisce a Regina Coeli con un provvedimento di un giudice che applica la misura cautelare in carcere.  Dopo di che, il fascicolo passa ad un altro giudice il quale revoca la misura cautelare in carcere e applica la misura di sicurezza all’interno di una Rems. Ma nella Rems non c’è posto e il ragazzo – e questo è il punto – rimane a Regina Coeli».

Valerio, racconta l’avvocata Filippi, ha vissuto quel momento come «una regressione nel suo percorso che con grande sofferenza sua e della famiglia stava portando avanti». StopOpg che proprio qualche giorno fa ricordava la chiusura definitiva degli ex manicomi giudiziari, interviene a proposito della vicenda e chiede di «rafforzare e riqualificare i programmi di tutela della salute mentale in carcere da parte delle Asl, mentre il Dap deve istituire, senza ulteriori ritardi, le sezioni di Osservazione psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche, spazi adeguati per le attività di cura e riabilitazione».

Il caso di Valerio dimostra ancora una volta come occorra potenziare in generale una ricerca psichiatrica che consideri la malattia di mente una malattia da curare e non uno stigma, un destino né tantomeno una colpa. Quello che conta è la cura e non le mura, sosteneva a Left due anni fa lo psichiatra Massimo Fagioli nell’ambito di una inchiesta sulla chiusura degli Opg. Non basta abolire gli ospedali psichiatrici giudiziari se poi «c’è l’eliminazione di qualsiasi possibilità e idea di fare una ricerca sulla mente umana, sulla malattia mentale», diceva.
E infine, come auspicava sempre nell’inchiesta di Left il giudice Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, in questi casi in cui sono protagonisti i cosiddetti “folli rei” tra psichiatria e magistratura occorrerebbe «una collaborazione virtuosa in modo che nessuno resti nel proprio orticello». Parole e azioni comuni tra magistrati, psichiatri e operatori sociali.

La Linke apre a Schulz, in Germania accordo a sinistra meno lontano?

epa05786989 Martin Schulz, the newly appointed leader of the German Social Democratic Party (SPD) and candidate for chancellor, arrives to the Federal Assembly (Bundesversammlung) at the German 'Bundestag' parliament in Berlin, Germany, 12 February 2017. The German Federal Assembly is a special political institution that only convenes to elect the Head of State. The constitutional body gathers all members of the German 'Bundestag' Parliament and the same number of representatives of all fields of society delegated by the 16 German Federal states. EPA/FILIP SINGER

Sahra Wagenknecht, vice-presidente del partito tedesco “Die Linke”, ha rilasciato un’intervista al settimanale “Der Spiegel” in cui apre a una possibile alleanza con la Spd, dopo le elezioni di settembre.

Wagenknecht rappresenta l’ala radicale del partito di sinistra tedesco e, finora, non aveva mai lasciato spiragli per un’alleanza del genere. Ma qual è allora il motivo del cambio di strategia?

L’uscita di Wagenknecht è da collegare alla critica che Martin Schulz, ex presidente del Parlamento europeo e neo candidato della Spd, ha espresso recentemente nei confronti della riforma sociale “Agenda2010”, introdotta dal governo Schröder negli anni Duemila. Secondo l’ex Presidente del Parlamento europeo, “Agenda2010” andrebbe corretta, garantendo una maggiore tutela per lavoratori e disoccupati.

«Se la Spd è decisa a intraprendere una politica più sociale, non troverà certo un ostacolo nella Die Linke», ha affermato Wagenknecht. Ma si va ben oltre le allusioni: nel caso di una ricostruzione dello stato sociale e di un una politica estera pacifica, «una coalizione tra le forze di sinistra è possibile».

Infine, la leader della Die Linke ha detto che Schulz è diventato l’emblema di una volontà di cambiamento, ma che «il mantenimento delle sue promesse sociali, dipenderà comunque dalla forza della Die Linke» nel Parlamento.

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Caso tangenti Eni-Nigeria. Oggi l’udienza sulla sospensione della licenza petrolifera

epa05281730 A photograph made available 28 April 2016 shows a motorcyclist riding in front of the Ivorien Society of Refinage facility (Société Ivoirienne de Refinage (SIR) in Abidjan, Ivory Coast 26 April 2016. According to global energy consultancy group Wood Mackenzie Africa's place as a significant producer and net exporter of oil in the world is forecast to grow to 15 per cent by 2020 due to new discoveries in West Africa. Substantial growth potential exists in West Africa with 40 billion barrels of discovered but undeveloped reserves and 55 billion barrels of yet-to-find oil. Since Jubilee discovery in 2007 companies are exploring other parts of the region between Ghana to Mauritania looking for analogous Cretaceous turbidite prospects. Offshore explorations in Sierra Leone and the Ivory Coast are high potential areas for investment beyond that of Nigeria and Angola. EPA/LEGNAN KOULA

È in programma per oggi l’udienza presso l’Alta Corte Federale in merito al ricorso dell’Eni sulla sospensione della licenza per il blocco Opl245, decisa lo scorso gennaio. L’Alta Corte è quella nigeriana, e il caso di cui si deve occupare è intricato: tocca Londra, Roma e il Paese africano, ed ha mille ramificazioni giudiziarie. Proviamo a ricostruirlo.

Rischia di essere uno dei più grandi casi di corruzione della storia: la vicenda legata all’acquisizione da parte delle multinazionali petrolifere Eni e Shell del mega giacimento Opl 245 al largo delle coste nigeriane, sembra essere seriamente in corsa per centrare questo record tutt’altro che invidiabile. Nelle ultime settimane i magistrati milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno comunicato l’avvenuta chiusura delle indagini, ma soprattutto chiesto il processo con l’accusa di concorso in corruzione internazionale per Claudio Descalzi, attuale ad dell’Eni, il suo predecessore Paolo Scaroni ed altri nove tra manager e mediatori vari. In quest’ultima categoria spicca il nome di Luigi Bisignani. Anche Eni e Shell potrebbero finire a processo per avere violato la legge 231 del 2001 sulla responsabilità delle società per presunti reati commessi dai propri dipendenti.

Tecnicamente la mazzetta ammonterebbe a un miliardo e 300 milioni di dollari – 200 milioni versati dalla Shell, il resto dall’Eni. In teoria questa immensa quantità di danaro sarebbe dovuta andare al governo nigeriano, come stabilisce la normativa del Paese africano. Qui arriviamo a uno dei punti nodali del caso. Perché i bonifici dei due colossi petroliferi sono solo transitati per un conto fiduciario londinese dello Stato nigeriano, per poi finire tramite mille artifizi bancari alla Malabu, società cui facevano capo i diritti di sfruttamento del più grande giacimento petrolifero della Nigeria (9,23 miliardi di barili stimati).

Piccolo inciso, nel 1998 il ministro del Petrolio del dittatore Sani Abacha, il potentissimo Dan Etete, si era auto-assegnato il giacimento Opl 245, pagando una cifra ridicola (20 milioni di dollari). Da quel momento in poi il proprietario occulto della Malabu è sempre stato lo stesso Etete, personaggio a dir poco controverso. Di questo passaggio fanno menzione anche due rapporti commissionati da Eni alla Risk Advisory Group nel 2007 e nel 2010, quando il colosso italiano ancora non faceva parte della partita.

Fino al 2010 Shell aveva provato ad acquisire il blocco, senza successo. Poi lo stallo inizia a sbloccarsi anche grazie al lavoro di mediatori quali gli italiani Luigi Bisignani e Gianluca Di Nardo, il nigeriano Emeka Obi e il russo Ednan Agaev. L’affare si sblocca definitivamente grazie all’intervento del ministro della Giustizia Mohammed Adoke, che vuole che il nuovo governo in Nigeria svolga un ruolo più centrale nel negoziato. Le firme sui contratti si materializzano nell’aprile del 2011 e nell’arco di pochi giorni i pagamenti iniziali si disperdono in mille rivoli per andare a ingrossare, si ipotizza, i conti correnti di politici nigeriani di alto livello, dei già citati faccendieri e di manager dello stesso Cane a Sei Zampe.

Vale la pena rammentare che nel settembre 2014, su richiesta della procura di Milano, una corte inglese aveva riconosciuto che 523 milioni di dollari del pagamento effettuato da Shell ed Eni erano andati a presunti “sodali dell’ex Presidente nigeriano Goodluck Jonathan” tramite società del “Signor Corruzione” Aliyu Abubakar. La stessa corte aveva quindi sequestrato 84 milioni di dollari rimasti sul conto della Malabu presso la sede della JP Morgan a Londra. Altri 112 milioni di dollari versati all’intermediario nigeriano Emeka Obi sono stati successivamente bloccati su diversi conti in Svizzera. Insomma, la popolazione nigeriana non ha beneficiato nemmeno di un centesimo delle centinaia di milioni pagati per la licenza.

Torniamo un attimo agli 84 milioni londinesi. Nel 2013 il mediatore nigeriano Obi fa causa alla Malabu, che a suo dire non gli aveva riconosciuto il compenso per i suoi “servigi”. Obi deposita sms ed e-mail scambiati con Descalzi, oltre a documentare vari incontri, come per esempio una cena avuta con Agaev, Etete e lo stesso Descalzi all’Hotel Principe di Savoia di Milano. Quasi per caso viene così scoperchiato il vaso di Pandora dell’Opl 245. Senza quella causa, infatti, non si sarebbe mai saputo delle pesanti irregolarità che avvolgono questo affare miliardario.

L’Eni si è sempre difesa affermando di aver trattato e siglato il contratto con il governo nigeriano. Che il denaro sia finito “altrove”, dice il Cane a Sei Zampe, è questione che non ci riguardava più. «La Società – si legge in un comunicato stampa del 22 dicembre scorso – non appena è venuta a conoscenza dell’esistenza di una indagine avente ad oggetto la procedura di acquisizione del blocco Opl 245, ha incaricato uno studio legale americano (Pepper Hamilton, ndr), di rinomata esperienza internazionale, del tutto indipendente, di condurre le più ampie verifiche sulla correttezza e la regolarità della predetta procedura. Dall’approfondita indagine indipendente è emersa la regolarità della procedura di acquisizione del blocco Opl 245, avvenuta nel rispetto delle normative vigenti».

Sul suo blog il giornalista del Sole 24 Ore Claudio Gatti ha pubblicato email riservate e altri documenti che farebbero pensare a due accordi transattivi distinti – uno con il governo, l’altro con la Malabu.

La compagnia nega risolutamente che una fetta della mega-mazzetta sia subito tornata indietro. Le carte dell’indagine, come scritto dal Fatto Quotidiano che è riuscito a ottenerle, racconterebbero invece di trasferimenti di valige con milioni di dollari in contanti tramite jet privati.

Un ruolo tutt’altro che risibile in questa storia così intricata lo hanno giocato alcune organizzazioni della società civile italiana e britannica. A cominciare da Global Witness, che ha “pizzicato” la causa inglese, il vero elemento scatenante di questa vicenda. Per continuare con l’italiana Re:Common, che nel settembre del 2013 ha presentato l’esposto alla Procura di Milano che ha dato il là alle indagini. In questi anni insieme all’inglese Corner House e alla Fondazione Culturale Responsabilità Etica le associazioni hanno incalzato l’Eni durante le assemblee degli azionisti tramite la pratica, molto diffusa nel Nord Europa, dell’azionariato critico.

Attualmente il fronte caldo è però principalmente in Nigeria. A gennaio l’Alta Corte Federale ha sospeso la licenza per Opl 245 fino a quando l’unità anti-corruzione avrà completato le sue indagini. A fine 2016, intanto, la stessa unità anti-corruzione aveva avanzato l’accusa di frode nei confronti del già citato Adoke, ministro della Giustizia del governo Jonathan, e di Etete. In un momento di vacche magre, causa il calo vertiginoso del prezzo del petrolio, per l’Eni il rischio di perdere un’Eldorado petrolifera quale Opl 245 si fa molto concreto. Non va dimenticato che già nel 2010 un caso di corruzione che la vide coinvolta per l’aggiudicazione di licenze per la realizzazione di impianti di liquefazione del gas a Bonny Island, nel Delta del Niger, costò alla multinazionale italiana 365 milioni di dollari, ovvero l’importo della mega-multa comminata dalla Sec americana. L’Eni è quotata a Wall Street e anche sul capitolo Opl245 l’equivalente della nostra Consob potrebbe intervenire, specialmente se le cose si dovessero mettere male per Descalzi & co.

A proposito di Descalzi, fu l’ex premier Matteo Renzi a sceglierlo nella primavera del 2014 come successore di Paolo Scaroni. Una decisione difesa con fermezza poche settimane dopo la nomina formale di Descalzi, quando il caso Opl245 scoppiò in tutta la sua virulenza.

Non bisogna infatti dimenticare che la più grande multinazionale italiana è controllata per poco più del 30% dallo Stato italiano tramite il ministero dell’Economia e la Cassa Depositi e Prestiti. Chissà che cosa pensano i grossi investitori stranieri (tra cui la statunitense Blackrock, il più grande fondo del Pianeta) che dall’inizio dell’anno si sono trovati a leggere sul Financial Times o sul New York Times articoli non proprio rassicuranti sull’esito finale della saga Opl245.

Il board dell’Eni ha ribadito la fiducia a Descalzi, ma entro il 19 marzo, ovvero 25 giorni prima dell’assemblea degli azionisti in programma il 13 aprile, sapremo se l’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni vorrà confermare un ad a rischio processo per corruzione internazionale oppure sostituirlo con Francesco Starace. L’attuale amministratore delegato dell’Enel, renziano di ferro, ha manifestato poca voglia di trasferirsi da viale Regina Margherita all’Eur. Dichiarazioni di facciata o dubbi reali sull’accomodarsi su una poltrona al momento scomoda come quella di amministratore delegato dell’Eni? Basta pazientare ancora qualche giorno e lo sapremo.

Dj Fabo e la vigliaccheria di chi decide di non decidere

L’ultimo è Fabiano Antoniani (dj Fabo, nell’ambiente musicale in cui ha lavorato per una vita prima dell’incidente che l’ha spezzato) e già il fatto di inserirlo in una lista di morituri vegetali per legge fotografo la desolazione di un dibattito in cui le persone sono appigli per scalare la propaganda: il giovane musicista, ora tetraplegico, aveva chiesto al Presidente Mattarella di velocizzare l’iter parlamentare della legge sul fine vita ed è rimasto inascoltato.

“Il 13 giugno 2014 sono diventato cieco e tetraplegico a causa di un incidente in macchina. Non ho perso subito la speranza però. In questi anni ho provato a curarmi, anche sperimentando nuove terapie. Purtroppo senza risultati. Da allora mi sento in gabbia. Non sono depresso, ma non vedo più e non mi muovo più”, raccontava Fabo, con la voce della fidanzata Valeria, nel video realizzato con l’Associazione Luca Coscioni.

Risposte: nessuna. Dibattito pubblico foltissimo ma nessun vagito dal governo. Ancora. Come sempre. L’onda che si alza ai lati di qualcuno che vorrebbe smettere di soffrire (che sia solidale, pietista o anche contraria) non produce nessuno schizzo nella responsabilità di chi governa perché la decisione non detta è quella di non decidere: un governo (che sia questo o le ultime fotocopie precedenti) tutto trafelato a mediare sulle posizioni economiche e di potere che è incapace anche solo di provare a trovare una quadra sui temi etici è un governo che non ha nulla di politico. È un comitato d’affari, il consiglio di amministrazione di un Paese, una rete di comitati elettorali permanenti.

E il fatto che Fabo oggi sia partito per la Svizzera dove l’eutanasia è regolamentata per legge è, a suo modo, l’ennesima fuga di cervelli: qualcuno che cerca risposte altrove perché vive in un Paese vigliacco che galleggia sull’abitudine di non prendere posizione. Perché è una virtù, qui da noi, riuscire a non rispondere. Pensa te.

Buon lunedì.

Italiani stranieri in Italia: “Dov’è la legge sulla cittadinanza? Il Pd blocca la riforma”

Un momento del sit-in per la legge di cittadinanza, in Piazza del Pantheon, Roma, 7 febbrario 2017. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

“Sono compagni di classe, tifano per la stessa squadra, vanno a ballare insieme, però a 18 anni sai che succede? L’italiano va alla Motorizzazione a farsi la patente e il suo amico coetaneo va in Questura a farsi il permesso di soggiorno”. Kwanza Musi Dos Santos sorride amaramente mentre racconta la condizione di vita dei ragazzi nati o trasferiti in Italia da piccoli ma che non sono considerati cittadini italiani. Kwanza, di padre brasiliano e madre italiana, è la coordinatrice di Italiani senza cittadinanza (Isc) e dell’associazione Questa è Roma.

Il suo nome in Swahili significa “il primo raccolto, la primogenita”, ma poi negli anni Kwanza ha scoperto che è anche il nome della moneta e di un fiume dell’Angola e pure  di una festa degli afroamericani in America. Il nome è importante così come la carta d’identità. Lei non ha avuto problemi per ottenere la cittadinanza italiana, perché la madre è italiana. Ma circa un milione di giovani, non solo minori, vive in una sorta di incubo kafkiano. Sentirsi italiani, vivere da italiani e non essere riconosciuti come italiani.

Il disegno di legge “Disposizioni in materia di cittadinanza”, che prevede la modifica della l. 92 del 1991, è fermo al Senato, in Commissione Affari costituzionali, dopo che nell’ottobre 2015 era stato votato alla Camera. Così, dopo mesi di silenzio la mobilitazione torna a farsi sentire, insieme alle voci dei giovani italiani non riconosciuti come cittadini. Domani, 28 febbraio, al Pantheon a Roma dalle 15,30 si terrà la manifestazione nazionale promossa dalle associazioni e da L’Italia sono anch’io.

“E’ un evento storico, è la prima volta che si scende in piazza su questo tema. Siamo riusciti a unire sia la società civile rappresentata da Italiani senza cittadinanza, sia l’Italia sono anch’io con tutti i partiti, sindacati e associazioni”, dice Kwanza. Sì, in passato c’era stata la grande campagna che aveva portato alla raccolta delle firme, una campagna, ricordiamo, che aveva visto in prima fila esponenti del Partito democratico come il ministro Graziano Delrio. Da quel fronte ora però tutto tace, dice Kwanza.
“Ma ora c’è un movimento di risveglio. A ottobre avevamo organizzato un flashmob , adesso la manifestazione. Vogliamo cercare di rompere questo immobilismo”. E dire appunto che Graziano Delrio, quando era all’Anci si era speso tantissimo per la legge sulla cittadinanza che era tra le norme da realizzare nei primi cento giorni di Italia bene comune, il programma del Pd guidato da Pierluigi Bersani.

“Pensavamo di essere in dirittura d’arrivo invece siamo solo all’inizio della battaglia. Adesso se non spingiamo, se non ci facciamo sentire c’è il rischio che non l’approvino, nonostante siamo a metà percorso”. Intanto sono state ideate varie iniziative, dal video con il rapper o le cartoline da inviare ai politici.


La situazione di stallo è dovuta principalmente al Pd che “sta paradossalmente oscurando e bloccando la riforma. E’ il Pd il responsabile dell’immobilismo”, sottolinea Kwanza. Il disegno di legge infatti non è ancora calendarizzato, si trova in Commissione Affari costituzionali senza che si conoscano, continua Kwanza, nemmeno il contenuto degli emendamenti – 8mila presentati dalla Lega -. La relatrice Lo Moro, aggiunge, si è espressa a favore della legge sui minori non accompagnati “e della nostra riforma non ha detto niente”. A ottobre la senatrice Finocchiaro, allora presidente della Commissione Affari costituzionali, aveva assicurato che subito dopo il referendum la legge sarebbe andata al voto. “E invece nulla, Finocchiaro è diventata ministro, manca il presidente della Commissione e utilizzano anche questo come alibi per non fare nulla”.

I giovani italiani senza cittadinanza attendono da 24 anni, la legge attualmente in vigore, che è appunto del ’92, ormai è obsoleta, non corrisponde più ai tempi, ai rapporti sociali dell’Italia del 2017. Adesso, ricordiamo, il figlio nato da genitori stranieri in Italia può richiedere – non ottenere – la cittadinanza al compimento del diciottesimo anno d’età. “Una cosa assurda, perché 18 anni sono tanti, in più durante l’adolescenza e l’infanzia sei uno straniero in Paese di cui ti senti parte”.

I problemi possono nascere da un momento all’altro e hanno ripercussioni anche a livello psicologico. Per esempio, può accadere che non si possa partecipare ai campi scuola all’estero. “Dipende dai rapporti del tuo Paese d’origine con i Paesi stranieri. Se i genitori vengono dalla Palestina e il ragazzo vuole fare il campo scuola a Londra, ecco, visto che le relazioni diplomatiche tra i due Paesi non sono buone, se non hai il permesso di soggiorno non parti. Nonostante sia italiano”, spiega Kwanza. “Già è un trauma non partire e poi non sai perché e comunque non ti senti uguale agli altri”. La stessa cosa vale per Erasmus, mentre le discriminazioni ci sono anche per le tasse universitarie che in alcuni Paesi per i non Ue sono il triplo più alte.
La coordinatrice di Isc racconta i normali intoppi burocratici che però pesano quando si tratta di un problema delicato come quello della cittadinanza. Intanto, dopo la richiesta, bisogna subito recarsi in Questura per fare il permesso di soggiorno, da rinnovare poi nel caso di un’attesa lunga. “Io non capisco come non ci si renda conto dell’assurdità di questa legge. Ti ritrovi catapultato in una realtà paradossale. Il problema poi è che c’è gente che aspetta per 4 anni e non sai perché. Ci sono requisiti da possedere che non tengono conto della realtà, come il reddito dei genitori, o la residenza, che deve essere continuata. Se per caso anche solo per un mese i genitori hanno perso il lavoro e quindi anche la casa, non risulta dove stavi in quel mese. E nonostante tu andassi a scuola, testimonato dalle pagelle, dai documenti…, hai un buco e quindi salta la residenza continuata e ininterrotta”, spiega Kwanza. La residenza continuata è richiesta anche nella nuova legge ma gli anni considerati sono la metà di quelli attuali: dai 10 ai 5-6 a seconda dell’età. “C’è un tetto al reddito, i genitori devono aver versato i contributi. A una mia amica è successo che mancava un documento del reddito del padre e quindi lei ha dovuto aspettare 4 anni, ignara, tra l’altro, del fatto che mancasse”. Poi, una volta arrivata la tanto attesa lettera di convocazione per il giuramento, è come una festa, come fosse una laurea.

Una legge che sancisca il diritto alla cittadinanza in questo momento storico ha un significato enorme, e forse, proprio per questo motivo, stenta a decollare. In tempi di populismi e di ricorsi frettolosi alla chiusura potrebbe far cambiare il pensiero comune sul fenomeno dell’immigrazione e non solo rispetto ai deliri dei razzisti di turno. Potrebbe contribuire ad allargare la mente anche a quei settori “progressisti” che sull’arrivo dei migranti talvolta si mostrano troppo prudenti o addirittura propongono operazioni securitarie e di chiusura, rincorrendo i vari Salvini. C’è dunque un lavoro soprattutto culturale da fare, lento, sotterraneo, ma che può dare dei frutti. L’associazione Questa è Roma, racconta Kwanza, “apartitica ma molto politica”, ha invitato qualche tempo fa a un incontro pubblico i rappresentanti delle sezioni giovanili di tutti i partiti, scoprendo così che sono molto più avanti dei politici “adulti”. Il pensiero nuovo sugli stranieri parte anche da qui.

Oscar2017 vince Moonlight alla faccia di Trump e della gaffe di Beatty

epa05818124 A handout photo made available by the Academy of Motion Picture Arts and Science (AMPAS) on 26 February 2017 shows the cast of 'La La Land' mistakenly awarded the Oscar for Best Picture from presenters Faye Dunaway and Warren Beatty during the 89th annual Academy Awards ceremony at the Dolby Theatre in Hollywood, California, USA, 26 February 2017. The Oscars were presented for outstanding individual or collective efforts in 24 categories in filmmaking. EPA/AARON POOLE / AMPAS THE IMAGE MAY NOT BE ALTERED AND IS FREE FOR EDITORIAL USE ONY IN REPORTING ABOUT THE EVENT. ONE TIME USE ONLY. MANDATORY CREDIT. HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

«La repubblica comunista di Hollywood non è nemmeno in grado di organizzare la sua cerimonia annuale e si permette di criticarmi? Triste!». Il tweet di Donald Trump sugli Oscar 2017 è inventato, ma dopo la terribile gaffe fatta durante la cerimonia di premiazione, ci starebbe: una delle icone liberal per eccellenza, il ricco e sinistrorso Warren Beatty, regista e protagonista, nel 1981, di Reds (film su un comunista americano mandato nelle sale negli anni in cui imperversava un furioso conflitto ideologico con l’Urss) sbaglia imbarazzato il nome del vincitore. Il resto lo sapete: il premio per il miglior film non lo ha vinto il favorito e super nominato La la land, ma  Moonlight, romanzo di formazione che segue le vite di due giovani neri dall’infanzia all’età adulte –  compreso un breve momento di relazione omosessuale (ci si scusi la sintesi brutale della trama).

Il momento in cui Jordan Horowitz, produttore di La la land, chiama sul palco il cast di Moonlight

I premi sono nel complesso molto politici, nonostante tra i film che hanno vinto le statuette non  ci siano documentari di Michael Moore o film di denuncia sociale. I premi sono molto contro Donald Trump e quel tipo di ideologia dell’altro come nemico che lo ha portato a vincere le elezioni. Ogni statuetta o quasi è attribuita a una categoria, a un gruppo contro il quale il presidente Usa si accanisce a colpi di ordini esecutivi e tweet: musulmani, iraniani, arabi, neri omosessuali. Tutto quel che non piace all’america bianca e di destra che lo ha votato. Moonlight è infatti la storia di due giovani neri, diretta da un nero e ha vinto anche una statuetta – miglior attore non protagonista – facendo vincere il primo attore musulmano della storia: Mahershala Ali.

Che altro? Il premio per il miglior film straniero lo vince per la seconda volta il regista iraniano Asghar Fahradi, che ha battuto il film austro-tedesco Toni Erdmann, probabilmente per consentire la lettura del messaggio di Fahradi: «La mia assenza è dovuta al rispetto per la gente del mio Paese, e quelle degli altri Sei a cui si è scelto di mancare di rispetto con la legge disumana che vieta loro l’ingresso negli Stati Uniti» è il passaggio cruciale. Lo stesso Asghar Fahradi, nelle stesse ore, era a Londra, dove il sindaco Sadiq Khan, aveva organizzato la prima del film a Trafalgar Square, invitava a rifiutare l’odio e le divisioni: «Questa solidarietà è un grande inizio. Spero che questo movimento continui, si diffonda perché ha in sé la forza di resistere al fascismo, battere gli estremismi e e fermare i regimi oppressivi ovunque». Il sindaco Khan ha detto: «Questo è il momento di costruire ponti, non muri». E un’orchestra di musicisti siriani ha suonato assieme a Damon Albarn, storico frontman dei Blur, ideatore dei Gorillaz e protagonista di mille progetti musicali.

Il video-messaggio di Fahradi ai londinesi

Poi ci sono le statuette nere, a Viola Davis, miglior attrice non protagonista, oltre che il film diretto da Barry Jenkins e Mahershala Ali. E infine il miglior documentario breve, vinto a White Helmets, un altro dispetto al presidente. Non tanto per la volontà di riaprire i canali con la Russia e la scelta probabile di lasciare Assad alla guida della Siria, ma perché il giovane direttore della fotografia Khaled Khateeb si è visto negare l’ingresso negli Stati Uniti nonostante un visto valido e aver passato tre giorni in aeroporto.

Poi c’è Donald Trump, che ieri non ha parlato di Oscar, ma che nel 2015 aveva twittato una frase premonitrice: «Gli Oscar sono una barzelletta triste, proprio come il nostro presidente. Quante cose sbagliate!».

Tap e dintorni, l’alleato azero Aliyev nomina sua moglie vicepresidente

epa05579771 Russian President Vladimir Putin (C), Turkey's President Recep Tayyip Erdogan (L) and Azerbaijan's President Ilham Aliyev (R) during the group photo at the World Energy Congress, in Istanbul, Turkey, 10 October 2016. EPA/ALEXEY DRUZHINYN /SPUTNIK / KREM

“Amore è… cambiare la costituzione per lei!”. Il vignettista azero Gunduz Agayev ha ripreso lo slogan di una famosa marca di chewingum per burlarsi di quella che di primo acchito sembra l’archetipo della notizia-bufala: la nomina a vice-presidentessa dell’Azerbaigian di Mehriban Aliyeva da parte di suo marito Ilham Aliyev. Quando si dice una coppia presidenziale! D’altronde la signora Aliyeva aveva già un ruolo di primo piano nella politica del Paese del Caspio: vice-presidentessa del New Azerbaijan Party, parlamentare da tre mandati e alla guida della Fondazione Heydar Aliyev. Da oggi può anche prendere ufficialmente il posto del marito nel caso questi sia forzato a dimettersi o sia temporaneamente impossibilitato a governare.

“Se lo merita e chi lo nega è cieco e serve gli interessi di paesi stranieri”, ha tuonato Malahat Ibrahimgizi, uno dei maggiorenti del partito di governo, interpellato dal network di giornalisti OCCRP. Amen.

Lungi da noi stare troppo a cavillare sul fatto che la first lady, ora vice del presidente Aliyev, sia veramente una campionessa di umanità e lealtà alla nazione, come sostengono in maniera appassionata i suoi sostenitori, però gesti del genere ci sembrano un favore servito su un piatto d’argento a coloro che sostengono che in Azerbaigian al potere ci sia una dinastia che tutto controlla e tutto decide. Insomma, una mossa del genere stride e non poco con il concetto e l’essenza stessa di democrazia. Specialmente in un Paese dove il risultato delle elezioni viene sistematicamente contestato dai partiti d’opposizione e dall’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), in prigione ci sono oltre 100 prigionieri politici e la stessa famiglia Aliyev – che, è bene ricordarlo, governa dal 1993, anno in cui fu eletto presidente il babbo di Ilham, Heydar – è stata pesantemente toccata dallo scandalo dei Panama Papers.

Non ce ne vogliano gli attivissimi esponenti della lobby pro-Azerbaigian, presenti un po’ ovunque, e quindi anche dalle nostre parti, ma anche noi ci accodiamo a tutti coloro – e non sono pochi – che hanno criticato aspramente le modifiche costituzionali introdotte sei mesi fa a Baku. La mossa di Aliyev è stata bollata come un tentativo assolutamente riuscito di rafforzare il regime, non certo a fornire quei giusti contrappesi che dovrebbero essere gli elementi fondamentali di ogni sana democrazia.

Chissà se il nostro silente presidente del Consiglio Paolo Gentiloni avrà mandato due righe di congratulazioni agli amici di Baku. Sì, perché all’Italia la dinastia Aliyev non dispiace affatto. Anzi, tra il petrolio che importiamo e il gas che vorremmo far arrivare in Salento tramite il TAP (se mai vedrà la luce, visto che i lavori languono e gli intoppi di natura amministrativa aumentano) siamo proprio ottimi alleati dell’Azerbaigian e della sua scintillante coppia presidenziale.