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Marramao: «Il suo è un pensiero rivoluzionario»

Massimo Fagioli Università di Chieti

«C’è un aspetto della ricerca originalissima di Massimo Fagioli che fa rivivere una tradizione italiana radicale e profonda che è stata sempre emarginata dal sapere ufficiale, penso in particolare al filone che viene da figure come Giordano Bruno», dice il filosofo Giacomo Marramao, che è sempre stato vicino allo psichiatra dell’Analisi collettiva, partecipando a numerosi dibattiti pubblici e convegni come quello, storico, che ha richiamato migliaia di persone Aula magna dell’Università La Sapienza nel 2015 in occasione dei quarant’anni dell’analisi collettiva. «Per Giordano Bruno – approfondisce Marramao – l’unica cosa “divina” che esiste è il mondo stesso nella sua espressione vitale. Nessuno ha mai colto che c’era in Massimo la linfa di questa antica tradizione italiana».
C’è un radicale ateismo nel pensiero dello psichiatra Massimo Fagioli…
La sua scoperta che il pensiero emerge dalla realtà biologica, questo è il punto. C’è un momento in cui il biologico si trasforma in quello straordinario miracolo della natura che è l’umano. Questo rivoluzionario pensiero di Fagioli mi colpisce. Così come il suo mettere al centro il rapporto interumano. In questo quadro la malattia mentale è rottura della relazione umana. È scissione fra lo psichico e il corporeo, tra inconscio e coscienza. Questo è un tema che in nuce era nella filosofia e nella scienza di alcuni grandi autori del Rinascimento italiano. Massimo mi ha sempre fatto pensare a una figura di questo tipo, come se fosse uscito fuori da una sorta di fucina creativa di pensieri ribelli come quelli di cui l’Italia era piena all’epoca del Rinascimento…..

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Roma assomiglia sempre più a Mumbai. Si allarga il gap sociale

Sul Battello turistico lungo il Tevere - fotografo: Benvegnù - Guaitoli

Roma come Mumbai, con migliaia di persone povere costrette a vivere nei canneti lungo il Tevere. Dopo aver lavorato nella metropoli indiana, tornando a Roma è questa la dura realtà che si è trovato davanti Giorgio De Finis, antropologo, film-maker e curatore indipendente una volta rientrato nella capitale. Dove ha dato vita a uno degli spazi culturali più vivi e innovativi: il MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz città meticcia.  Una fucina d’arte, spazio di incontri e di convegni, all’interno di una ex fabbrica occupata sulla Prenestina. Un crocevia dei linguaggi dove hanno presentato il proprio lavoro molti artisti emergenti e hanno tenuto conferenze artisti come Michelangelo Pistoletto e intellettuali come Marc Augé. Su questo spazio unico e originalissimo sono stati pubblicati già libri e cataloghi, ma Giorgio de Finis ha anche cercato di stimolare una più ampia riflessione sulla città di Roma chiamando urbanisti, architetti, sociologi, attivisti di base a fare il punto sui gravissimi problemi che affliggono la Capitale, proponendo soluzioni più democratiche. Il risultato è Rome nome plurale di città un volume ricchissimo di spunti e di dati per chi voglia studiare la realtà romana di recente pubblicato dall’editore Bordeaux. Left ha incontrato Giorgio de Finis mentre ancora divampava la polemica sulla costruzione dello stadio della Roma. E oggi, dopo che la giunta Raggi ha detto sì alle pressioni dei costruttori, l’antropologo commenta: «Mi dispiace soprattutto che Roma non possa più contare su una figura di rilievo come l’urbanista Paolo Berdini». Anche perché quello dello stadio è solo uno dei tantissimi fronti aperti a Roma dove imperversano la speculazione edilizia, la deregulation e si acuisce la crisi abitativa.

Roma sempre più simile a Mumbai, cosa sta accadendo?

È un problema che riguarda molte grandi città, la globalizzazione ormai sempre più chiaramente mostra il volto peggiore. La massa degli esclusi aumenta a vista d’occhio, perché chi detiene gli strumenti del potere risponde ai poteri forti dell’economia, alle multinazionali che ormai fanno il buono e cattivo tempo nel pianeta. Da un lato la finanza dall’altra gli esclusi. Non avviene solo tra Nord e Sud del mondo, ma anche dentro le città.

Proprio di questo ha parlato l’antropologo Marc Augé intervenendo a Metropoliz?

Augé ha parlato di «città mondo e mondo città»,un binomio che in certo modo sostituisce oggi la sua storica differenziazione fra luoghi e «non luoghi». Le città sono metropoli globali, standardizzate, un po’ tutte uguali delle boutique, delle stazioni degli aeroporti, delle grandi marche. Sono le città della finanziarizzazione degli immobili, che si fanno concorrenza alzando il prezzo delle case al metro quadro. Dall’altra parte, c’è tutto ciò che resta fuori, la «città mondo», le periferie, quella parte del tessuto urbano che sorprende, quella culturalmente più effervescente. Ci avviciniamo a Mumbai perché il mondo continua ad allargare questa forbice. Si stima che il 50 per cento degli immobili  della Capitale non siano abitati.  A fronte di tutto questo sono moltissime le persone che non hanno un reddito sufficiente a comprasi una casa. Quando Stalker fece una sorta di censimento camminando lungo le sponde del Tevere contò circa 12mila persone che  dormivano lì. Certo non sono gli 11 milioni che a Mumbai vivono negli slums, ma il problema è serio. Pensiamo anche, su un altro piano, ai due milioni di persone che abitano fuori città e intasano le consolari in entrata e in uscita. Sarebbe più giusto poter abitare in una città dove la speculazione finanziaria non ti obbliga ad allontanarti così tanto dal luogo di lavoro.

Quale soluzione proporrebbe?

Per fermare tutto questo, basterebbe una tassa dalla terza casa in su. Non sono operazioni da grande urbanista, basterebbe per interrompere a monte il meccanismo perverso. Che a ben vedere torna utile anche ai Comuni, perché su quegli immobili valutano il Pil, chiudendo gli occhi di fronte al fatto  che tutto ciò è la causa prima del malessere delle nostre città.

 Rom e Sinti, intanto, sono stati confinati ai margini di Roma. È un’altra questione irrisolta?

I villaggi della solidarietà sono stati  inventati per espellere Rom e Sinti, per spingerli a 20/30 km di distanza, fuori dal Gra. Sono campi di concentramento. La  Comunità europea ci ha contestato questa operazione.

L’articolo 5 del decreto Renzi -Lupi in che modo aggrava la condizione di chi è senza casa?

Le persone che vivono in spazi occupati, grazie al decreto Renzi Lupi, non hanno diritto alla residenza, dunque  sono senza cure mediche, non possono iscrivere i figli a scuola. È una situazione che riguarda gli abitanti di Metrolpoliz e di molti altri spazi occupati. Non possono rinnovare la patente, non possono votare pur essendo cittadini italiani.  Mi stupisce che in un anno e mezzo ancora nessun politico abbia alzato una vera obiezione, anche se è una evidente dscriminazione: se sei povero non hai nessun diritto, se sei un turista puoi fare come ti pare. Sul pianeta possono camminare solo i più facoltosi . L’Europa ha sottoscritto gli accordi di Dublino che di fatto sono una violazione dei diritti universali. L’articolo 5 pare fatto apposta contro i poveri, lì obbliga a sparire in silenzio, senza darci fastidio. Al tempo stesso sono stati colpiti i movimenti di lotta per la casa, che fanno rete con i No Tav, si cerca di azzittire i movimenti non allineati ai dettami di Bruxelles. Di più, l’articolo 5 è un provvedimento vigliacco, nascosto in un provvedimento tecnico come il piano casa. Ma le maschere stanno cadendo e si vede il lupo sotto il vello dell’agnello. La domanda è se potremo ancora sperare in istituzioni che si pongano al servizio di tutti (e dei più deboli in primis) e non solo di una parte di cittadini.

L’origine naturale dell’uguaglianza

Foto di Stefano D’Amadio

Negli sviluppi delle società a capitalismo maturo sembra realizzarsi l’assunto fondamentale del neoliberismo – che ha trovato la massima espressione nella teoria economica di Milton Friedman e nelle politiche di Ronald Reagan e di Margareth Thatcher – secondo il quale “non esiste la società, ma solo i singoli individui”. Si assiste, infatti, allo sgretolarsi di tutti quei legami sociali che consentirono lo sviluppo civile del secolo passato, e in ogni campo prevalgono frammentazione, isolamento, ricerca delle soluzioni ai problemi della vita sul piano individuale, in assenza di ogni legame relazionale. Il dibattito politico è anch’esso pervaso da fenomeni di concorrenza e contrapposizione, che hanno soppiantato il confronto e la dialettica. Anche quando, nella migliore delle ipotesi, la politica si orienta verso la ricerca di buone soluzioni sul piano tecnico e amministrativo, l’esito risulta alla fine compromesso dalla mancanza di ogni idea sulla collettività cui le politiche dovrebbero rivolgersi. Il fenomeno ha corroso dall’interno le stesse forze di sinistra, che una volta affondavano le proprie radici nel terreno della socialità e dell’uguaglianza. Gruppi e partiti sono infatti lacerati, a sinistra, da divisioni che si consumano dietro singole personalità politiche, mentre manca ciò che dovrebbe conferire un senso alla politica, cioè il confronto tra visioni, idee, programmi.

L’eredità più pesante del neoliberismo è questa diffusa perdita di consapevolezza della centralità della socialità, che ha reso peraltro possibili le devastanti politiche economiche poste in essere in questi anni. Ma è, al contempo, la più bruciante sconfitta dell’idea di socialismo. Questa parola, infatti, secondo Franco Venturi, nasce alla metà del Settecento e deriva dal termine latino socialitas, dunque porta in sé il richiamo alla natura sociale dell’essere umano e alla possibilità di costruire una società basata, appunto, sulla naturale socialità umana.

L’attuale stato di cose è il risultato delle sconfitte di portata storica subite dalle forze del movimento operaio. Esso, oltre che sul piano storico e politico, va indagato nei suoi aspetti antropologici e culturali. La questione fondamentale è se davvero l’uomo sia, per sua natura, un essere sociale. Se la risposta è positiva, allora le storiche rivendicazioni di uguaglianza e di giustizia troverebbero una loro ragion d’essere, oltre il calcolo di convenienza di questo o di quel gruppo sociale. La necessità è dunque individuare in che cosa consista esattamente la natura sociale dell’essere umano. Massimo Fagioli ha fornito una risposta precisa a questa domanda, e l’ha fatto guardando dove nessuno aveva mai guardato: la dinamica della nascita dell’essere umano e la formazione della realtà psichica.

Riprendiamo le sue parole dal penultimo articolo scritto per Left (n. 5/2017): E la parola pulsione indica un fenomeno assurdo e paradossale perché simultaneamente alla realizzazione dell’indifferenza nei confronti del mondo non umano, realizza la memoria della sensazione del contatto della pelle del feto con il liquido amniotico che fa la sapienza senza parola che è “la certezza dell’esistenza di un altro essere umano”. Certezza che non è pensiero verbale ma che è … essere.

L’essere umano è dunque per natura essere sociale, perché, nella dinamica che fa seguito alla nascita, trova la certezza dell’esistenza di un essere umano simile a se stesso: egli, venendo al mondo, non vede, ma sa e sente tale esistenza.

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All’estero i voucheristi sono occasionali ma tutelati

Al lavoro precario e gratuito pare non esserci alternativa. In Italia, il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro è stato negli ultimi vent’anni caratterizzato da una forte aggressività, in grado di spogliare di qualsiasi diritto i lavoratori. Una dinamica non isolata nel panorama europeo, a partire dal grande compromesso tedesco delle riforme Harz, per continuare con le riforme spagnole e i contratti a zero ore del Regno Unito. L’alibi per ogni nuova riforma è il così fan tutti, poi usato come giustificazione perfetta per affermare l’ineluttabilità delle scelte politiche, e non economiche, alla base della svalutazione del lavoro. Un simile ragionamento è stato adottato anche riguardo la regolamentazione del lavoro accessorio, i voucher o buoni lavoro per intenderci. I casi francese e belga vengono spesso citati come simili al nostro sistema, ma la realtà, come ormai spesso avviene, risiede da tutt’altra parte.

Il lavoro occasionale, in Francia, è gestito tramite gli chèque emploi service universel (CESU) limitati esclusivamente alle prestazioni di lavoro a domicilio per un massimo di otto ore settimanali o quattro settimane consecutive. Il lavoratore occasionale è riconosciuto come lavoratore subordinato (salarié) a tutti gli effetti e non un lavoratore senza vincolo di dipendenza come nel caso italiano. Soprattutto, al lavoratore sono riconosciuti tutti i diritti propri di un lavoratore subordinato. A partire dalla remunerazione, che in nessun caso può essere inferiore al salario minimo (lo Smic) cioè 8,2 euro orari (circa 1400 euro mensili), fino al riconoscimento dei diritti quali la malattia, le ferie pagate, il cumulo per il diritto all’assegno di disoccupazione. Inoltre, le disposizioni contenute nel decreto sulla tracciabilità, erette dal governo italiano come strumento salvifico contro gli abusi, fanno intrinsecamente parte del dispositivo del CESU, il pezzo di un ingranaggio, niente di più. Accanto al CESU generico, esiste una variante assimilabile ai voucher corrisposti dalle aziende sotto forma di welfare aziendale per i propri dipendenti, il Cesu “prefinanziato”. In questo caso, il datore di lavoro compila in favore di un proprio dipendente il buono lavoro che quest’ultimo potrà poi utilizzare per retribuire a sua volta il lavoratore a domicilio. Rimangono tutti i diritti menzionati sopra e la retribuzione minima (lo Smic), che in ogni caso può essere integrata dall’utilizzatore con un Cesu generico. In breve, il diritto francese attribuisce anche ai lavoratori occasionali pieni diritti sociali e li equipara ai lavoratori subordinati, secondo un principio non più in voga in Italia: il lavoratore che, anche per brevissimi periodi, presta la sua forza lavoro a terzi che ne determinano le condizioni e tempi di lavoro, è un lavoratore subordinato, non un imprenditore di se stesso o un collaboratore.

Anche il modello belga, denominato titres-services appare ben distante da quello italiano, sebbene la sua introduzione segue la stessa idea del legislatore italiano: far emergere dal nero i lavoretti domestici. Innanzitutto, per la rigidità sui campi oggettivi di applicazione: i titres-servics sono utilizzabili esclusivamente per i servizi di pulizia e stiratura. Inoltre, il committente privato e il lavoratore non entrano in contatto diretto bensì tramite una agenzia convenzionata. Un sistema, quindi, che assomiglia più a un mix tra il lavoro in somministrazione italiano. Anche in questo caso, il lavoratore è un subordinato dell’agenzia o impresa con la quale stipula un “contrat de titres-service”, che può essere a tempo determinato o indeterminato. In ogni caso, il contratto a termine non può superare i tre mesi, pena l’automatica conversione a tempo indeterminato. Per quanto concerne il valore, ogni titolo costa all’utilizzatore, cioè il committente, 9 euro e può acquistarne un minimo di dieci e un massimo di 500 per ogni anno solare. A livello familiare, una coppia potrà acquistarne massimo di 1.000. Un’eccezione si applica alle famiglie monoparentali, alle persone disabili e ai genitori con figli disabili i quali possono acquistare fino a un massimo di 2.000 titolo per anno solare. La remunerazione oraria minima del lavoratore è 10,34 euro, superiore ai 9 euro pagati dal committente e al salario minimo (attualmente di 8,94 euro per ora lavorata). In particolare, la regione di appartenenza versa all’agenzia 22 euro, di cui 9 sono quelli versati dall’utilizzatore. Con questa somma, l’agenzia paga la retribuzione al lavoratore più tutti i costi sociali e previdenziali. Anche in questo caso i voucher nel sistema belga costituiscono un contratto subordinato di fatto, seppure gestito attraverso dei ticket per le prestazioni effettuate. Come per il caso francese, il lavoro occasionale è equiparato a quello subordinato in termini di diritti assistenziali come la disoccupazione, la malattia, le ferie ecc.
Poche affinità e molte divergenze tra il sistema dei voucher italiano e il lavoro pagato attraverso ticket in

Francia e Belgio. Soprattutto, sebbene la tendenza europea, ma non solo, alla precarizzazione del mercato del lavoro sembra ormai prassi egemonica, bisogna riconoscere che le categorie giuridiche utilizzate dai nostri vicini non hanno subito il fascino, tutto italiano, di escludere ad ogni costo il lavoro dal suo carattere di subordinazione solo perché svolto per un esiguo (in teoria) numero di ore. Come si diceva all’inizio, l’intenzione del legislatore italiano di ridurre il costo del lavoro per le imprese, o anche per i privati non imprenditori, è stata portata avanti con una dose massiccia di aggressività che ha in ultima istanza prodotto un segmento del mercato del lavoro spogliato di qualsiasi diritto presente e futuro. Una realtà ben lontana da chi, proponendo e poi approvando il Jobs Act, sosteneva di voler eliminare le discriminazioni interne al mercato del lavoro. La reale apartheid creata nel orso degli anni e avallata dal Jobs Act non può essere mascherata o sottratta a un principio di realtà, quello che quotidianamente sempre più lavoratori vivono.

L’eroina non basta più. Il regista di Trainspotting racconta le droghe di oggi

«Dopo la premiere ho messo su il vinile dei Pink Floyd, The Wall. Un album affascinante, uno dei migliori in assoluto». Inizia così la nostra intervista al regista Danny Boyle, che in questi giorni presenta T2 Trainspotting, sequel atteso per più di vent’anni, in cui al centro permangono gli effetti delle droghe e delle dipendenze, e le conseguenti evoluzioni delle stesse. «La ricerca del passato è diventata la dipendenza più forte per Renton e compagni», ci confida Boyle. E forse la citazione del vinile è un effetto di quella dipendenza, dello spasmodico bisogno di un ritorno a un passato idealizzato, in cui si è certi di vivere meglio rispetto al presente.
Trainspotting affrontava con cinismo e razionalità la questione dell’abuso delle sostanze stupefacenti, in particolare dell’eroina, nelle giovani generazioni. Come sono cambiate quelle dipendenze?
Si può intuire già dal trailer del film, in cui il celebre discorso del protagonista, Mark Renton, interpretato da Ewan McGregor, cambia rispetto a Trainspotting: stila un elenco delle nuove dipendenze moderne, diverse da quelle che potevamo avere negli anni 90.
Sì, «Scegliete facebook, twitter, instagram, e sperate che, da qualche parte, a qualcuno, freghi qualcosa», dice Renton, i tempi sono cambiati. Ma la dipendenza consumistica del 1996 era diversa, per esempio spappolarsi il cervello davanti ai quiz in tv ingozzandosi di schifezze…
In T2 Trainspotting il passaggio a nuove dipendenze è rilevante ed evidente, non solo nel discorso motivazionale del protagonista, è qualcosa che percepiamo senza neanche accorgercene. Ci sono scene in cui vediamo gente seduta al ristorante che si comporta esattamente come noi, che non schiodiamo gli occhi dal cellulare neanche quando attraversiamo la strada, dipendenti da tutte queste informazioni che viaggiano veloci, e di cui non riusciamo a fare a meno.
Nel film l’eroina e gli effetti devastanti dell’Aids lasciano il posto a twitter e facebook, ok. Però c’è la cocaina, Sick Boy (Jonny Lee Miller) se ne fa ambasciatore anche se non è più lo stesso. Adesso la sua attenzione è canalizzata sul porno e, salvo una ricaduta in nome dei “bei vecchi tempi”, la droga della sua adolescenza, l’eroina, lascia il posto alla polvere bianca. Cosa è cambiato?
Il primo film è incentrato sulla sfida che rappresenta l’adolescenza, sullo sbeffeggiare le scelte che la vita apparentemente impone, in contrasto con la ricerca del piacere e dell’evasione che invece la droga, specialmente l’eroina, comporta per i protagonisti. A distanza di vent’anni, nel pieno di un periodo che dovrebbe comportare consapevolezza e responsabilità, quel discorso assume un ruolo diverso.
Uno dei protagonisti, Mark, si è apparentemente disintossicato, ha «scelto la vita». È fuggito ad Amsterdam e sfoga le sue frustrazioni nella corsa. Mens sana in corpore sano. Ma davvero abbandona le dipendenze?
Il monologo di Mark in T2 segna un passaggio ancor più disperato dell’esistenza, di chi ha compreso quanto poco ha da offrire questo mondo sempre in bilico. Contano poco le intenzioni di voler vivere secondo le regole che la società impone. Il suo è un discorso disperato, pieno di frustrazione e pentimento.
Trainspotting ha ispirato un’intera generazione negli anni 90. Come pensa di parlare alle nuove generazioni?
I tempi sono cambiati, le droghe sono quasi marginali e sono molto poche in questo nuovo capitolo rispetto al precedente. In molti sostengono che una dipendenza, a volte più forte della droga stessa, sia sfuggire alle proprie responsabilità, evitando gli ostacoli che la vita ci mette davanti. In questo il film parla alle nuove generazioni, più frenetiche e stimolate delle precedenti, sottoposte a un bombardamento mediatico e social molto più frammentato e articolato, che offre vie di fuga infinitamente maggiori. I protagonisti sono invecchiati, non sono necessariamente maturati, e anche se sono diventati adulti sono costantemente alla ricerca di una dipendenza diversa per sfuggire ai loro oneri. Il passato in questo film, insieme ai social network, rappresenta la droga che i protagonisti ricercano con più forza.
Il vero scopo del film è dunque vedere come gli uomini siano, o non siano, cambiati nel tempo?
T2 è ovviamente collegato al primo film, che rappresentava l’incarnazione della spericolatezza e dell’incoscienza della giovinezza, in cui ti crogiolavi fregandotene degli altri e concentrandoti solo su te stesso. Anzi, spesso non ti interessava neanche di te stesso, altrimenti come potevi assumere tutte quelle droghe? Apparentemente niente ti preoccupava, e di sicuro lo scorrere del tempo non rientrava nei tuoi pensieri, perché il piacere era l’unico obiettivo. Un piacere che poteva essere sesso, violenza o droga.
Cos’è cambiato dunque?
Il tempo. Ti fa cambiare il modo in cui ti rapporti alla ricerca del piacere, soprattutto quando dovresti essere nel pieno della vita adulta, e della consapevolezza che, tecnicamente, dovrebbe dipenderne. Credo che gli uomini non siano bravi nel gestire questo aspetto della loro vita, i protagonisti del film sicuramente non lo sono, perché vogliono rivivere il loro passato, o vendicarsi di esso. Sono ossessionati dalla ricerca di quel piacere, quasi fosse una forma di dipendenza, quasi come fosse diventata la loro nuova droga al posto dell’eroina.
A segnare il passaggio personale poi ci sono i figli…
Certo, i protagonisti vivono il passare del tempo anche attraverso i loro figli, delusi dal loro comportamento e dalle loro azioni, così come le loro mogli o compagne. Sembrano bloccati in una bolla, si sforzano di andare avanti, di rispondere a logiche che la società gli impone, nonostante le abbiano ignorati durante l’adolescenza. Si sforzano di diventare adulti insomma, ma chi di loro ci riesce veramente? T2 fa riflettere su questo: fino a che punto le dipendenze bloccano l’evoluzione in adulti responsabili?
Chi sembra esserci riuscito, a diventare adulto, sembra proprio lei. Una brillante carriera, culminata con l’Oscar nel 2009 per The Millionaire. Com’è cambiato lei in questi vent’anni?
Sono felice, mi sento fortunato nel poter fare i film che voglio e nel poter prendere consapevolmente ogni decisione a riguardo. Come girare il sequel di un film così iconico, a distanza di vent’anni, e farlo a Edimburgo. Per il primo film, per questioni economiche, abbiamo girato principalmente a Glasgow con qualche puntatina a Edimburgo, per T2 invece abbiamo fatto il contrario. Il film è girato quasi interamente nella capitale scozzese. Tornarci è stato molto affascinante, la città è cambiata drasticamente, e quei cambiamenti sono evidenti in questo nuovo capitolo».
E poi avevate solo una stagione a disposizione. Vale a dire l’estate scozzese, che si sa, non dura esattamente come quella mediterranea.
Abbiamo ricevuto il supporto di tutta la popolazione. Trainspotting ha significato molto per gli scozzesi, entrando perfino nella Top 10 dei 100 film britannici più importanti di sempre, e non è cosa da poco. Sentire l’entusiasmo dei cittadini, che ci hanno aiutato nella realizzazione delle sequenze, soprattutto in esterna, è stato emozionante. Abbiamo una grande responsabilità nei loro confronti e nei confronti dei fan, spero di non deluderli.

Non resta che andare al cinema questo weekend. E tenere bene a mente le parole di Mark Renton: «Fate un respiro profondo. Siete dei tossici! Allora fatevi! Ma fatevi di qualcos’altro. Scegliete le persone che amate. Scegliete il futuro. Scegliete la vita».

Breve guida per orientarsi nella sinistra a sinistra del Pd

Da sinistra, Nicola Fratoianni, Maurizio Landini, e Pippo Civati, nel corso del convegno di Sinistra Italiana a Roma, 23 febbraio 2017. ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

Prossimamente su Left vi racconteremo del grande valzer delle alleanze, un ballo che si aprirà molto presto, al ritmo delle trattative sulla legge elettorale, e che vedrà al centro della pista Bersani e Pisapia, che faranno probabilmente coppia fissa, come Nicola Fratoianni e Pippo Civati. Ora che, dopo quella nel Pd, si è però consumata anche la scissione in Sinistra Italiana – con 17 parlamentari, tra cui Scotto e D’Attorre, salpati verso gli ex dem – utile è prima fare un punto, una breve guida per capire la sinistra a sinistra del Pd.

Cominciamo allora proprio dalla scissione di Arturo Scotto, per un momento candidato alla segreteria di Sinistra italiana (di cui era già capogruppo alla Camera) e ora guida di una pattuglia di parlamentari (la maggioranza del gruppo, in realtà) che daranno vita a un nuovo gruppo insieme ai bersaniani. «Con Speranza, Pisapia, con tutte le forze che puntano a unire i progressisti italiani, vogliamo dare vita a un percorso costituente», ha detto infatti Scotto in conferenza stampa: un percorso «che dia una ‘casa’ ai progressisti».

I deputati che vanno con Scotto e D’Attorre sono Francesco “Ciccio” Ferrara, Donatella Duranti, Arcangelo Sannicandro, Carlo Galli, Florian Kronblicher, Lara Ricciatti,Gianni Melilla, Vincenzo Folino, Giovanna Martelli, Franco Bordo, Claudio Fava, Marisa Nicchi, Michele Piras, Filiberto Zaratti e Stefano Quaranta. Sono tanti, più di quanti sperasse Nicola Fratoianni, che giusto domenica scorsa è stato eletto segretario della neonata Sinistra italiana (qui alcuni video del congresso), accusata da Scotto&co di esser destinata a una deriva minoritaria. Nel gruppo – ma fuori dal Parlamento – ci sono anche dirigenti come Marco Furfaro, Maria Pia Pizzolante (con la rete Tilt) e soprattutto Massimiliano Smeriglio, vicepresidente della regione Lazio, una vita in Rifondazione: non per nulla Smeriglio ha parlato dopo Michele Emiliano, Roberto Speranza e Enrico Rossi, all’iniziativa del Teatro Vittoria.

Fratoianni (e con lui Stefano Fassina, Vendola, Natalicchio e altri esponenti e fondatori di Si) respinge l’accusa degli ex e cerca di spiegare che prima di pensare al Pd (mentre nelle intenzioni sia di Pisapia che di Bersani c’è quella di mantenere un legame, magari proprio un’alleanza) sarebbe opportuno organizzare il campo della sinistra. Proprio per questo, rimasti solo in 14, alla Camera, i deputati di Sinistra Italiana dovrebbero unirsi ora con i civatiani e alcuni ex 5 stelle, tipo Artini, per ora nel misto. L’unione, peraltro, anticiperebbe quello che è un disegno buono anche per le prossime elezioni. Senza aver l’ambizione di fondare un unico partito, l’idea è quella di organizzare una galassia, un po’ sul modello Podemos, che – come vi abbiamo raccontato su Left del 18 febbraio – governa Barcellona e Madrid con una “coalizione sociale”, liste composte da diversi movimenti e partiti, compreso il partito di Iglesias, tutti autonomi, ma con programmi e processi decisionali condivisi e duraturi.

A sinistra del Pd, così, possiamo individuare per ora due aree. Quella più pronta all’alleanza (e che sosterrà il governo Gentiloni, pur – come dice Scotto – con l’idea di spostarne a sinistra la barra), e quella che alle elezioni vorrebbe andare con una posizione autonoma. Lì ci sono Sinistra Italiana e Possibile di Giuseppe Civati, che proprio questo week end, a Roma, ha organizzato una costituente delle idee, al centro congressi Roma Eventi, in via Alibert. «Tutto il materiale», è l’idea, «sarà messo a disposizione anche di altri soggetti associativi, sociali e politici interessati. Senza alcuna esclusività, senza alcuna proprietà, se non quella di tutti».

E se Civati sta ultimamente interpretando il ruolo di collante per l’area più radicale, stessa vocazione ha da tempo Rifondazione Comunista di Paolo Ferrero e Eleonora Forenza, europarlamentare (l’unica che ancora si vede di quelli eletti con la lista Tsipras: che fine ha fatto Barbara Spinelli?). Rifondazione farà il suo congresso a Spoleto dal 31 marzo al 2 aprile. Ferrero non sarà più segretario ma la linea resterà la stessa: nessuno si scioglie ma tutti si impegnano a cedere una quota di sovranità al soggetto unitario. Dentro cui dovrebbe esserci anche DemA, il movimento (dal nome velatamente autobiografico) di Luigi De Magistris. Prima prova, i referendum della Cgil.

Trump e Bannon ai conservatori: «Siamo in guerra, faremo la rivoluzione»

epa05812792 US President Donald Trump delivers a speech at the 44th Annual Conservative Political Action Conference (CPAC) at the Gaylord National Resort & Convention Center in National Harbor, Maryland, USA, 24 February 2017. EPA/Olivier Douliery / POOL

«Questo è un movimento, ce ne sono stati altri, ma questo è nuovo, speciale e così non ce n’è stato mai un altro. E questo movimento cambierà il partito repubblicano, che da ora sarà il partito del lavoratore americano. Milioni si sono raccolti durante le primarie e questo grazie a me. L’America tornerà grande più presto di quando pensate, servendo i cittadini e non i lobbisti e sebbene coopereremo con altri Paesi, non c’è una bandiera o una moneta mondiale, io rappresento il vostro Paese». A parlare è Donald Trump e il suo discorso alla conferenza del CPAC è un manifesto politico populista. Un popolo, un nemico (i media, i messicani cattivi, i Paesi che si fanno proteggere da noi), un capo, degli slogan facili e improbabili, uno spettacolo permanente che più che pensare a governare pensa a radicare il consenso.

Il circo Trump ha fatto una doppia tappa a Washington in questi giorni. C’era la Cpac, la conferenza annuale dei conservatori, un appuntamento in cui le figure nazionali del movimento anti tasse, anti aborto, dei falchi in politica estera si riuniscono, discutono, lanciano nuove figure nazionali. Una conferenza che è diventata progressivamente più di destra e improbabile, ma l’anno scorso, quando molti candidati conservatori correvano alle primarie contro di lui, Trump l’aveva evitata per evitare fischi. Non stavolta. Non lui e nemmeno Reince Priebus e Steve Bannon, le due figure più importanti dell’amministrazione, figure che fanno la politica e che vanno molto più d’accordo di come ci si sarebbe potuti aspettare: uno è l’ala destra della destra americana, l’altro era, in teoria, la figura rassicurante che il partito infilava nella squadra del presidente per tenere calme le acque. I discorsi di Trump e Bannon sono di quelli che meritano di essere riportati, parola per parola. Lasciano a bocca aperta, ma ricordano due cose: Trump sta mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale e non ha nessuna intenzione di moderarsi o normalizzarsi, la strategia la fa Bannon e una delle scelte è quella di fare guerra senza quartiere ai media.

I due sono andati assieme alla CPAC e Bannon ha fatto notizia – lo si vede poco in giro – per aver detto: «Se credete di aver visto un brutto momento, non è niente, questa è una guerra totale dei media contro di noi ed è destinata a peggiorare.

«Sono corporation globliste che si oppongono all’agenda nazionale economica di Donald Trump e se pensate che si arrenderanno senza combattere vi sbagliate. Ogni giorno sarà una battaglia e per questo sono fiero di Trump, che agli inviti alla moderazione risponde: ho promesso questo al popolo americano e non cambierò».

Anche Trump se la prende con i media all’inizio del suo discorso. Ribadendo il concetto dei dispensatori di fake news e aggiungendo: «Mi dicono c’è un sondaggio che non va. Chiedo, chi l’ha fatto? No, non li nominerò», poi aggiunge «Clinton News Network?» e poi elenca tutti i suoi nemici. Poi aggiunge: «Ci sono file enormi per venire qui, ma non ve lo diranno, lo dico perché non ve lo faranno sapere». Falso, i reporter hanno fotografato l’esterno, non c’erano file.

Nel complesso quello di Trump è un comizio uguale a quelli della campagna elettorale, ma persino più aggressivo, più populista e più di destra, «Siamo un Paese che mette e metterà i propri cittadini prima degli altri (grida del pubblico: U-S-A, U-S-A), per troppi anni abiamo mandato posti di lavoro altrove, difeso i confini di altri e non difeso i nostri (grida del pubblico: build the wall, build the wall)…siamo in anticipo sui tempi…Ma badate: cacceremo i cattivi (the baaaad ones), gli assassini, gli spacciatori. Abbiamo speso miliardi all’estero e le nostre infrastrutture sono un disastro. Attacca Bush e Obama per il Medio Oriente: se fossero andati al mare per 20 anni staremmo meglio».

Poi attacca i suoi predecessori: «Ho ereditato un disastro, un sistema sanitario catastrofico, una politica estera disastrosa. Quand’è l’ultima volta che abbiamo vinto? Abbiamo mai vinto? Vinceremo, vinceremo alla grande ragazzi!»

Poi riprende da capo l’elenco, ripartendo dal muro: «È finita l’era delle chiacchiere, è tempo di azione. Vi dico cosa stiamo facendo per mantenere fede alle promesse: stiamo lavorando a un grande, grande muro. Sto lavorando con il Dipartimento di Giustizia per fermare il crimine violento: sosterremo gli uomini e le donne che lavorano in polizia. Ci siamo ritirati dal TTP per proteggere gli interessi americani e faremo accordi bilaterali e se si comportano male li stracceremo. Cancelleremo Obamacare, abbiamo autorizzato la costruzione della Keystone pipeline e useremo acciaio americano perché quando ho chiesto “da dove viene l’acciaio” e mi hanno risposto da tutto il mondo ho detto No, se vogliono l’oleodotto lo fanno con l’acciaio americano».
Trump promette anche di eliminare le regole che impediscono alle miniere di estrarre carbone: «Rimetteremo i minatori al lavoro» ma anche «proteggeremo l’ambiente». Infine, riformeremo il sistema fiscale e taglieremo le tasse.

«E grazie a tutte queste cose che faremo i posti di lavoro stanno tornando a frotte e le multinazionali stanno assumendo, investendo. Nessuno ha mai fatto più di me».

I voucher rendono precario il lavoro stabile. Lo dimostra la lista Inps delle grandi che li usano

McDonald’s, Sisal, Manpower, Adecco, Chef Express, Juventus. Ecco chi sono i maggiori utilizzatori di voucher in Italia. Grandi gruppi nei settori del commercio, della ristorazione, dell’organizzazione di eventi culturali e sportivi. Si apprende da una lista che l’Inps ha consegnato alla Cgil, nero su bianco riporta i primi duecento utilizzatori di voucher. La lista fornita dall’Inps è coperta dalla legge sulla privacy. Ma, questa notte, il Manifesto ha pubblicato 15 nomi, le prime 15 aziende per utilizzo di voucher nel 2016, l’anno della tracciabilità in cui sono stati staccati circa 135 milioni di buoni: un +24% rispetto ai 115 del 2015.

Oltre ai 15 che leggete nell’immagina. Troviamo: Burger King, Rinascente, Bottega verde e ancopra squadre di calcio: Lazio, Fiorentina e Chievo Verona. Troviamo anche enti pubblici, come il Comune di Benevento, e, tante aziende nel mondo dell’organizzazione di eventi, che arruolano con buoni steward, hostess, addetti alla sicurezza, camerieri.

In testa la Best Union Company, società specializzata nella biglietteria e nell’organizzazione di eventi. Come la quinta per ordine, la Winch srl, che opera nel campo del security steward e welcoming.

Alcune delle società di lavoro interinale, poi, generano altre piccole ditte che “affittano” a loro volta lavoratori. Un esempio: Adecco Professional Solutions ha fornito una ventina di imbustatori di prosciutto alla Fratelli Beretta, nel periodo natalizio, in uno stabilimento di Varese, permettendo di applicare il meno costoso contratto del commercio.

Da tempo la Cgil insiste nel sostenere che una parte rilevante del lavoro prestato attraverso i voucher fa capo a grosse aziende e al pubblico. E che, quindi, i voucher sostituiscono lavoro stabile con precarietà. La lista consegnata dall’Inps Tito Boeri, adesso, è una buona prova per le tesi del sindacato di Camusso.

Dalla California a Giacarta. Il mondo tra manifestazioni e alluvioni

Manila. Foto di NOEL CELIS/AFP/Getty Images

Un ragazzo e il suo cane chiedono l’elemosina lungo una strada a Manila. Foto di NOEL CELIS/AFP/Getty Images

19 febbraio 2017. Puerto Anapra, Chihuahua. Veduta aerea della recinzione metallica tra il Messico (s) e Stati Uniti (d). Foto di YURI CORTEZ/AFP/Getty Images

Bambini palestinesi all’interno della loro casa nella città meridionale della Striscia di Gaza di Khan Yunis. Foto di SAID KHATIB/AFP/Getty Images

Lungo una strada di campagna, New Mexico. Foto di JIM WATSON/AFP/Getty Images

21 febbraio 2017. Conakry, capitale della Guinea. Numerose e violente proteste hanno scosso la città nelle ultime settimane. Proteste e scioperi degli insegnanti hanno causato la chiusura delle scuole per tre settimane. Secondo fonti governative sono almeno 6 i morti e 30 le persone rimaste ferite, compresi agenti della polizia. Foto di CELLOU BINANI/AFP/Getty Images

Shanghai, Cina. Un pescatore lungo il fiume Huangpu nei pressi della Centrale a carbone Wujing. Foto di JOHANNES EISELE/AFP/Getty Images

Giacarta, Indonesia. La città è stata colpita da diverse inondazioni seguite alle pioggie torrenziali. Foto di STR/AFP/Getty Images

Pyongyang, Corea. Un operaia trasporta secchi contenenti larve di baco da seta al Silk Mill Kim Jong Suk, la fabbrica che impiega circa 1.600 persone, e prende il nome dalla nonna dell’attuale leader della Corea del Nord, Kim Jong-un. Foto di ED JONES/AFP/Getty Images

22 febbraio 2017. San José, California. Piogge alluvionali hanno inondato i quartieri e molte persone sono state evacuate dalle loro case. Foto di NOAH BERGER/AFP/Getty Images

Eminonu, cuore del centro di Istanbul, Turchia. Foto di BULENT KILIC/AFP/Getty Images

Villaggio di al-Buseif, a sud di Mosul, Iraq. Forze di sicurezza irachene. Foto di AHMAD AL-RUBAYE/AFP/Getty Images

Cannon Ball, Dakota del Nord. Dopo mesi di occupazione, attivisti e manifestanti si preparano a lasciare il campo Standing Rock Sioux. Foto di Stephen Yang/Getty Images

23 febbraio 2017. San Paolo, Brasile. Scontri tra la polizia e gli abitanti della zona conosciuta come “Cracolandia”, dove l’abuso di droga e la violenza invadono i quartiere. Il governo ha introdotto operazioni di bonifica delle strade da parte della polizia per arrestare i consumatori di crack.
Foto di Victor Moriyama/Getty Images

Un venditore ambulante nel quartiere Eminonu in Istanbul. Foto di YASIN AKGUL/AFP/Getty Images

Un momento della carica della polizia antisommossa contro i manifestanti durante una delle proteste di studenti contro la brutalità della polizia, in seguito al presunto stupro di Theo a Parigi. Foto di LIONEL BONAVENTURE/AFP/Getty Images

Un uomo cammina con il suo cammello attraverso il deserto di Hameem, circa 170 chilometri a ovest del Golfo di Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti. Foto di KARIM SAHIB/AFP/Getty Images

Il Business del bailout. Chi guadagna dal salvataggio delle banche in Europa

La sede del Monte dei Paschi di Siena in via Manzoni, a Milano, dove si è riunito il cda della banca, 19 dicembre 2016. ANSA/MATTEO BAZZI

“The Bail Out Business” è il nome del nuovo rapporto pubblicato dal Transnational Institute (Tni) di Amsterdam, un’organizzazione non governativa che promuove politiche progressiste e democratiche per risolvere problemi di dimensione globale, attraverso attività di ricerca e analisi che mettano in contatto accademia, decisori politici e movimenti sociali.

La domanda al centro del rapporto è semplice, ma non banale: chi guadagna dai piani di salvataggio delle banche nell’Unione europea? Come ricordano gli autori, Sol Trumbo Vila e Matthijs Peters, tra il 2008 e il 2015, gli Stati membri dell’Unione europea, «hanno speso quasi 750 miliardi di euro in differenti programmi di salvataggio». Inoltre, 213 miliardi da attribuire al “contribuente europeo”, sarebbero «state persi definitivamente» nel corso di queste operazioni. L’ultimo caso noto, citato anche nel rapporto, è legato al salvataggio del Monte dei Paschi di Siena.

Innanzitutto, Vila e Peters sottolineano come il salvataggio delle banche nell’Ue sia stato spesso finanziato dall’emissione di nuovo debito pubblico. Quest’ultimo in molti casi ha raggiunto un peso insostenibile per Paesi come Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, forzando la richiesta di aiuto da parte degli stessi Stati alla così detta Troika.

Ma “The Bail Out of Business” pone l’accento su un altro costo, “nascosto”, delle operazioni di stabilizzazione finanziaria: quello legato ai servizi di consulenza commissionati a società private.

I risultati principali del rapporto indicano infatti che «istituzioni nazionali ed europee hanno speso centinaia di milioni di euro per ricevere “consigli” su “come” salvare le banche fallite». Chi sono stati (e sono tutt’ora) i fortunati consulenti coinvolti?

Vila e Peters spiegano che Ernest Young, Deloitte, KPMG e PWC, insieme a un gruppo di  società di consulenza minori, «costituiscono di fatto un “oligopolio”» . Queste multinazionali da un lato validano i conti degli istituti di credito e, dall’altro, designano i piani di salvataggio per il settore pubblico.

Ma è soprattutto nel merito delle attività svolte da queste “4 grandi sorelle” della consulenza mondiale, che l’accusa del Tni diventa pesante: «Le società a cui era stato chiesto [prima della crisi] di garantire a investitori e regolatori che le banche europee fossero stabili, continuano a esercitare un dominio di mercato; [ciò avviene] nonostante ci siano stati gravi fallimenti nella valutazione [da parte di queste società] dei rischi legati alle attività di credito del sistema bancario europeo».

Lungi dal rappresentare una mera analisi del passato, il rapporto sottolinea che ci si trova di fronte a un vero e proprio meccanismo consolidato che con tutta probabilità si ripeterebbe anche nel caso dovessero verificarsi nuovi salvataggi bancari. Per questo motivo, in un certo senso, è difficile separare ciò che è stato fatto male in passato, dai rischi futuri.

Ma qual è il meccanismo al centro del business dei bailout? Illustrandro quattro casi specifici, legati ai salvataggi di Bankia (Spagna), Eurobank (Grecia), ABN AMRO (Paesi Bassi), Royal Bank of Scotland (Scozia), Irish Bank Resolution Corporation (Irlanda), Vila e Peters spiegano che, le “4 grandi sorelle di cui sopra” si sono spartite sistematicamente sia gli audit dell’istituto prima del fallimento, nonché l’audit della stessa banca, una volta “risanata”, creando le condizioni per un evidente «conflitto di interessi».

Allo stesso tempo, un gruppo consolidato di società più piccole, come Lazard, Rothschild e Merril Lynch, si spartivano i servizi di consulenza legati al disegno dei piani di salvataggio pubblici, e che spesso si sono rivelati «di scarsa qualità».

Un caso esemplare? Quello del salvataggio della olandese ABN AMRO. Nell’ottobre del 2008, lo Stato spese circa 22 miliardi di euro nel quadro di un piano di bailout disegnato da Lazard. Nel novembre del 2015, 7 anni dopo il salvataggio, l’offerta pubblica iniziale (Ipo) valutava l’istituto a 16,7 miliardi di euro; lo Stato olandese ha successivamente proceduto alla ri-privatizzazione (ancora in corso), generando una «perdita pari a 5 miliardi per il contribuente olandese». Nel rapporto si specifica quindi che, nel 2008, al momento della consulenza svolta per il pubblico, Lazard avrebbe «omesso di indicare la presenza di debiti ingenti in pancia alla banca». Questi sarebbero dovuti essere sottratti al valore di acquisto. Al contrario, il pubblico, «a causa dell’omissione, ha dovuto iniettare altri 6 miliardi di euro per tenere in vita l’istituto». In tutto ciò, Lazard avrebbe «ricevuto 5 milioni di euro per tre giorni di lavoro».

Dopo la crisi, le istituzioni europee hanno preso misure per arginare il fenomeno, ma le attività di lobbying da parte delle società di audit e di consulenza, hanno di fatto indebolito la forza delle norme previste inizialmente. Nel 2012, fu la stessa Commissione europea a lamentarsi dell’eccessivo lobbying da parte delle multinazionali coinvolte. I regolamenti e le direttive finali prevedono dei meccanismi di rotazione obbligata per evitare che attività di auditing e consulenza siano svolte dalla stessa azienda. Ma, come sottolineato da Vilo e Peters, «lo sforzo delle istituzioni rischia di essere vano, a causa della natura oligopolistica del mercato».

Il rapporto conclude che «si deve affrontare la dipendenza da un mercato finanziario, dominato da società private […] nel settore dell’audit devono essere sviluppate alternative pubbliche che operino in parallelo agli oligopoli. La creazione di banche pubbliche può costituire un primo passo verso un rafforzamento della capacità delle istituzioni di gestire i problemi legati al settore bancario e di rispondere alle crisi finanziarie».