Reddito minimo garantito? Macché, quella italiana «è solo una legge sui poveri»

«Ma quale reddito minimo garantito, questa sarà una legge sui poveri. Stop. Assistenziale, senza alcuna promozione nei confronti delle scelte di vita e dell’autonomia. Il reddito minimo va pensato invece non solo come sostegno ma per rimettersi in carreggiata». Giuseppe Allegri, sociologo e esperto di reddito minimo garantito (è di Basic Income Italia) commenta così la futura legge tanto decantata dal Governo Renzi che adesso è in discussione in Commissione Lavoro al Senato e che forse ai primi di febbraio andrà in aula. Giuseppe Allegri partecipa domani a un incontro organizzato da Possibile (“Orizzonti minimi per un reddito minimo”, Centro eventi Roma, Via Alibert 5/a, ore 14) a cui prendono parte anche Giuseppe Civati e Enrico Giovannini, ex presidente dell’Istat e ex ministro del Welfare che sotto il governo Letta aveva proposto il Sia, sostegno per l’inclusione attiva, una misura universalistica, aperta anche agli immigrati e con una dote allora prevista di 7-8 miliardi.
L’Italia è rimasta sola in Europa a non avere un reddito minimo garantito. E questo avviene mentre l’altro Paese che ne era privo insieme a noi, la Grecia, sta provvedendo, e mentre in Francia le primarie del partito socialista si infiammano proprio sulla proposta del candidato più radicale e utopista Benoit Hamon, su un reddito universale per tutti.
«L’idea sarebbe quella di confrontarsi su una proposta pragmatica sul reddito minimo in Italia, considerando il fatto che in commissione Lavoro c’è un disegno di legge fermo da tanto tempo», dice Allegri. Il quale boccia nettamente questo testo. Il reddito di inclusione, il cosiddetto Rei, «non è che l’estensione di uno strumento tuttora esistente: la Carta acquisti sperimentale Sia- Sostegno per l’Inclusione Attiva – introdotta a partire dal 2013 nelle 12 città con più di 250 mila abitanti e dal settembre scorso estesa a tutto il Paese» scrive Allegri in un articolo pubblicato su Diritti globali. Cambiano i nomi «ma sempre lì siamo: l’estensione di una carta acquisti elettronica pre-pagata delle Poste italiane, nella quale rientrerà la social card di tremontiana memoria, per confluire nel reddito di inclusione che è l’estensione della Carta acquisti sperimentale Sia», continua Allegri nel suo articolo.
La nuova legge sui poveri, abbraccia pochi cittadini, rispetto al numero di coloro che sono in povertà assoluta: un milione e 400mila rispetto ai 4 milioni e mezzo in difficoltà estrema. Anche le modalità per poter accedere al fondo sono così “ridotte” che risulta ancora una volta evidente come si vada verso l’assistenza fine a se stessa. La fretta del governo per varare la legge, continua Allegri, è data anche dalla «spinta» verso il Reis (reddito di inclusione sociale) delle associazioni dell’Alleanza contro la povertà: 37 sigle tra cui Caritas, ma anche Cgil, Cisl e Uil (un loro appello è uscito il 29 dicembre). Mentre, va detto, una parte della sinistra e di altre associazioni, sta conducendo una battaglia per il reddito di dignità (Libera, Bin Italia, il Cilap a cui ha aderito anche Maurizio Landini).
Il problema è che sull’argomento, continua Allegri, l’opposizione non è molto attiva. Per esempio quando l’esponente di Basic Income insieme agli altri rappresentanti della rete per il reddito di dignità, sono andati all’audizione, «non c’era il senatore di Sel Benedetto Barozzino», mentre i due senatori M5s non si sono dimostrati molto sensibili rispetto al loro progetto. Eppure anche il M5s porta avanti la lotta per il reddito di cittadinanza. Siamo al decimo anno di crisi e l’Italia si limita alle briciole. Sul tappeto ci sono tante proposte di legge, comprese quelle del mondo delle associazioni, ma un tentativo di ampio respiro, magari seguendo esempi europei, sembra alquanto lontano. Vedremo se domani uscirà qualche idea un po’ più concreta dall’incontro di Possibile.
Monito di Grillo ai “suoi ragazzi”: guai ai parlamentari che parleranno liberamente. Il primo avvertimento a Fico

Può esprimere un’opinione politica solo il capo politico, ovvero Beppe Grillo. Per gli altri, al gogna. Questo viene chiarito una volta per tutte oggi, dal post comparso all’una sul blog.
«I portavoce eletti del MoVimento 5 Stelle hanno un compito ben definito: dedicarsi al compimento del programma». Il quale, sarà deciso dagli iscritti: «Sono gli iscritti a dettare la linea politica del MoVimento», precisa: «I portavoce devono semplicemente attuarla.»
La linea politica del MoVimento 5 Stelle la decidono gli iscritti https://t.co/SFCTfqVkQT
— Beppe Grillo (@beppe_grillo) 24 gennaio 2017
Che tradotto, significa: i parlamentari non devono pensare, solo obbedire a quanto compare sul blog. Eventualmente ratificato dagli iscritti. Perché le votazioni sul blog, infatti, ben lungi dall’essere delibere assembleari derivanti da un comune percorso decisionale, non fanno altro che accettare le due o tre possibili linee decise dallo staff.
Ergo, lo staff decide, gli eletti eseguono. Ma c’è di più: il post è una vera e propria minaccia.
«I responsabili della comunicazione del MoVimento 5 Stelle sono Ilaria Loquenzi, Rocco Casalino e Cristina Belotti, rispettivamente alla Camera, al Senato e in Parlamento Europeo, che si coordinano con Beppe Grillo e Davide Casaleggio», precisa. «Tutte le uscite comunicative dei portavoce (partecipazioni a eventi, interviste alla tv, interviste ai giornali, post sui social network riguardanti l’azione politica del MoVimento 5 Stelle e simili)», incluse quindi anche le pagine personali, ndr – «devono essere concordate assieme a loro».
Perché cosa succede se vi arrischiate a pensare con la vostra testa e magari ad avere un’opinione personale? «Si rischia di cadere nelle trappole giornalistiche», è il solito spauracchio, ma soprattutto e più importante: «si rischia di danneggiare l’immagine del MoVimento 5 Stelle con uscite goffe e maldestre». E voi lo sapete, no?, sembra alludere il post, cosa succede a chi danneggia il prodotto della Casaleggio associati? «Chi danneggia l’immagine del MoVimento 5 Stelle può incorrere nelle sanzioni definite dal Regolamento: richiami e sospensioni». E soprattutto, omessa, l’espulsione.
L’orizzontalità e i valori fondanti del movimento – libertà, uguaglianza, dignità, solo per citarne alcuni di quelli scritti nello statuto attuativo – evaporano in un attimo. Almeno quello depositato dal notaio al momento della fondazione della “Associazione Movimento 5 stelle” (e dunque l’unico con valore legame vincolante), che fra i suoi “obiettivi”, ha «la convivenza armoniosa tra gli uomini attraverso lo sviluppo del talento e delle capacità dell’individuo».
Non solo, sempre la “costituzione” del Movimento, riconosce proprio «nella Rete lo strumento di consultazione e partecipazione effettivamente democratico». E invece ecco anche qui la stretta. Se non posso impedire che i giornali scrivano liberamente, posso però impedire che i “miei rgazzi” parlino liberamente, è il sotto-testo.
La reazione del comico è dovuta all’audacia di uno dei membri dell’ormai dismesso direttorio, Roberto Fico. Che ha avuto, una volta di troppo, l’ardire di esprimere la propria opinione. L’ultima, meno di un mese fa rivolta all’arresto del braccio destro del sindaco Virginia Raggi, Raffaele Marra: «Una cosa grave, gravissima». Ieri, gli chiedono di Donald Trump e della possibile alleanza con Matteo Salvini. E lui, a domanda, risponde: «Dio ce ne scampi», ha esclamato. Andando in direzione ostinata e contraria al collega e pari di grado, almeno formalmente, Luigi Di Maio, che aveva twittato il suo personale – ed evidentemente dettato dallo staff – apertura al The Donald, invitandolo a braccia aperte a una cooperazione internazionale. E soprattutto alle dichiarazioni di Grillo su Trump e Putin, ai quali il leader guarda come esempi da seguire; gli “uomini forti” di cui un governo avrebbe bisogno.
Al di là delle questioni di politica nazionale e internazionale però, la questione è ben più profonda. E interna: l’innegabile (nonostante i tentativi) e sempre meno nascosta lotta intestina che si sta consumando nel Movimento in vista della candidatura di uno dei pentastellati come futuro premier.
Fico infatti, potrebbe essere un possibile sfidante dell’incoronato vicepresidente della Camera Di Maio. Candidatura che però potrebbe rischiare di far venire a galla la spaccatura esistente fra le due diverse anime Cinquestelle. Quella del Movimento delle origini, vicino alla base e ai primi meetup (Fico fondò quello partenopeo nel 2005) rappresentato dal Presidente della Commissione di vigilanza Rai – che nei suoi post non fa che ribadire che non esistono leader, e che il movimento va declinato al plurale – e quello invece maggiormente “aziendalista”, legato alla Casaleggio Associati, e alla linea dettata dall’alto, impersonato dal giovane Luigi, sempre più uomo immagine del Movimento.
Per chi conosce la grammatica del blog, tutto lascia supporre che potrebbe essere proprio la testa del quarantatreenne deputato napoletano, la prossima a saltare. E il post di oggi, sono il primo avvertimento di una trappola che ormai è scattata. Stabilire (o ribadire forzandole con lo spauracchio delle espulsioni) regole che prendono le mosse dall’agire dell’eletto in questione. Il cui agire è ristretto a tal punto, che è inevitabile che prima o poi faccia saltare una mina. Basti ricordare come venne gestita dal blog e da Beppe Grillo la lenta e inesorabile delegittimazione di “capitan Pizza”, finita con l’uscita dal Movimento del sindaco di Parma, Federico Pizzarotti.
Fuocoammare agli Oscar tra i documentari. I nomi e i numeri delle nomination 2017
La Academy of Motion Picture Arts & Sciences ha diramato gli elenchi dei nominati in corsa per l’oscar 2017. La la Land fa la parte del leone con 14 nomination, solo Titanic e All about Eve (Eva contro Eva) con Bette Davis avevano collezionato tanto – poi vinsero rispettivamente 11 e 6 Oscar, solo Ben Hur ne ha vinti altrettanti, seguito da Fronte del Porto.
Poi c’è Meryl Streep, più nominata di sempre (19 volte) che potrebbe vincere il quarto Oscar, fare un altro discorso contro Trump ed eguagliare il record di Katreen Hepburn. Dovrà vedersela con Emma Stone, Natalie Portman, Isabel Huppert e Ruth Negga. Gli attori più premiati di sempre le due che abbiamo appena nominato più Jack Nicholson (3 premi, 12 nomination), Bette Davis (2 oscar), Laurence Olivier (2 oscar alla carriera), Paul Newman, Spencer Tracy e, staccati, Marlon Brando e Paul Newman.
Tra i registi ci sono il giovane Dennis Villeneuve (La La Land) e il vecchio conservatore religioso Mel Gibson, non proprio colossi della regia (uno lo diventerà). Nella storia chi ha vinto più statuette dirigendo un film è John Ford (quattro, ma nonimato 5 volte), mentre il più nominato è William Wyler (11 nomination, tre statuette).
Tra i migliori documentari c’è l‘italiano Fuocoammare, mentre tra i documentari corti c’è White Helmets, che tante polemiche ha generato.
L’anno scorso era stato l’anno degli “Oscar so white” e per questo è possibile che a vincere qualcosa siano Viola Davis, che è già stata nominata più di una volta o Denzel Washington (che recitano entrambi in Fences, adattamento di una piece teatrale ambientata negli anni ’50). La notte deglo Oscar sarà, questo è assicurato, un momento in cui si parlerà di politica.
Di seguito i tweet dell’Academy che elencano i nominati per le categorie principali
Congrats to our Best Picture nominees! #Oscars #OscarNoms pic.twitter.com/jdGd62Efkx
— The Academy (@TheAcademy) 24 gennaio 2017
Congrats to our Directing nominees! #Oscars #OscarNoms pic.twitter.com/g207hRtVgo
— The Academy (@TheAcademy) 24 gennaio 2017
Congrats to our Original Screenplay nominees! #Oscars #OscarNoms pic.twitter.com/GmwVgSYUpa
— The Academy (@TheAcademy) 24 gennaio 2017
Congrats to our Leading Actress nominees! #Oscars #OscarNoms pic.twitter.com/xqacBlntQb
— The Academy (@TheAcademy) 24 gennaio 2017
Congrats to our Supporting Actress nominees! #Oscars #OscarNoms pic.twitter.com/lvth7OEgxL
— The Academy (@TheAcademy) 24 gennaio 2017
Congrats to our Animated Feature nominees! #Oscars #OscarNoms pic.twitter.com/6IuymCg6rC
— The Academy (@TheAcademy) 24 gennaio 2017
Congrats to our Original Song nominees! #Oscars #OscarNoms pic.twitter.com/bwJ3Y4PwsR
— The Academy (@TheAcademy) 24 gennaio 2017
Congrats to our Visual Effects nominees! #Oscars #OscarNoms pic.twitter.com/BmejQXKqlj
— The Academy (@TheAcademy) 24 gennaio 2017
Congrats to our Leading Actor nominees! #Oscars #OscarNoms pic.twitter.com/CV3WydKBAe
— The Academy (@TheAcademy) 24 gennaio 2017
Congrats to our Supporting Actor nominees! #Oscars #OscarNoms pic.twitter.com/mF0wmYRqF3
— The Academy (@TheAcademy) 24 gennaio 2017
Gli ordini esecutivi di Trump, l’uomo forte che piace a Grillo e Salvini

Le notizie non vengono mai sole. In quel che ha definito il primo giorno di presidenza (ufficialmente il quarto), Donald Trump ha firmato una serie di ordini esecutivi congelando le assunzioni nel pubblico impiego federale, cancellando i finanziamenti per le Ong che offrono anche l’aborto tra i servizi erogati, portando fuori gli Stati Uniti dalla Trans Pacific Partnership, il trattato commerciale fortemente voluto da Washington che crea una zona di libero scambio nel Pacifico. Misure che avranno effetti negativi sugli Stati Uniti, tutte. Della notizia falsa per cui il presidente eletto avrebbe «vinto il voto popolare nemmeno parliamo, se solo 5 milioni non avessero votato illegalmente», nemmeno parliamo. Non siamo nell’era della post-verità ma delle bugie clamorose.
Come mai? Ciascuna rientra nel disegno populista e di destra conservatrice di Trump. Il taglio delle assunzioni è un modo per dire: «Meno Stato». Peccato che il numero di impiegati federali sia più o meno lo stesso che ai tempi di Clinton, molto più basso che nell’epoca post-bellica e più basso degli anni del campione dello smantellamento del pubblico Ronald Reagan. Le assunzioni pubbliche hanno salvato l’economia dal collasso nel biennio 2009-2010 e poi il numero di impiegati è diminuito a causa dei tagli al bilancio federale voluti dai repubblicani in una serie di showdown con il presidente Obama sul tetto del deficit. Non c’è un’emergenza lavoro pubblico e congelando le assunzioni si rischia di non avere il personale per svolgere adeguatamente i servizi, se e quando fosse necessario.
Veniamo all’aborto. La scelta segnala come Trump sia ostaggio dell’ala religiosa e conservatrice del partito repubblicano. Una politica simile venne già messa in atto da George W. Bush (in quegli anni la prevenzione dell’Aids si faceva predicando l’astinenza) e produsse l’effetto contrario a quello voluto. Come mai? Perché le Ong che lavorano e offrono anche l’aborto sono le stesse che distribuiscono anticoncezionali e fanno educazione e prevenzione. Senza di loro in certi Paesi africani aumentano le gravidanze non volute e gli aborti praticati in condizioni non ottimali. Risultato finale: più aborti, più malattie sessualmente trasmissibili, aumento delle donne morte per parto. L’ordine esecutivo segnala tra l’altro la volontà di aprire un fronte “etico” che è proprio quello che ha portato milioni di donne a marciare nelle strade degli Stati Uniti lo scorso weekend. La preoccupazione è quella che questo sia solo il primo passo di un attacco ai diritti.
(Particolare sottolineato da molti in rete: l’ordine sull’aborto viene firmato in una stanza popolata da maschi bianchi, come mostra la foto qui sopra)
Infine il tema più controverso, quello dei trattati commerciali, una storica battaglia della sinistra divenuta bandiera della destra. Da un lato c’è la retorica isolazionista che sembra piacere molto anche in Italia ed Europa – gli elogi a Trump per il ritiro dal TTP fioccano – dall’altro c’è una mossa strategica che rischia di essere sbagliata. E infine c’è l’idea che Trump sia un campione dei lavoratori, perché punta a frenare l’emorragia di posti di lavoro che vengono trasferiti all’estero. Uscendo dal TTP, gli Stati Uniti fanno un piacere alla Cina, che si trova a essere il vero grande partner commerciale possibile per gli altri Paesi di Asia e Pacifico – Australia compresa. Il TTP sembrava pensato proprio per contenere la voracità dell’economia cinese. Tirandosi indietro, gli Usa di Trump danno un colpo basso ai loro alleati storici e fanno un favore a Pechino. Che al contempo indicano come il nemico numero uno. L’opposizione al TTP era forte tra i lavoratori e la sinistra (Bernie Sanders in testa) per ragioni che riguardano i comportamenti possibili delle multinazionali e l’abolizione delle regole. E non è Trump ad aver costruito le campagne contro quei trattati. Ritirandosi, però, il presidente Usa sceglie il protezionismo, che non equivale a più diritti per i lavoratori e non è affatto detto che sia una buona soluzione economica. Trump, tra l’altro, incontrando una serie di imprenditori ha parlato di dazi commerciali in entrata. Con il rischio di scatenare guerre commerciali con vecchi amici degli Usa (Europa, Giappone, ad esempio). Ora, i lavoratori americani guadagnano poco e spendono grazie al fatto di avere un’ampia offerta di merci a buon mercato.Importate. Senza quelle e una rivoluzione dell’organizzazione economica, le cose rischiano di peggiorare per il lavoratore medio. Infine, Trump finge di non sapere che il taglio dei posti di lavoro industriali, negli ultimi anni e molto di più in futuro, è prodotto dall’automazione e dall’introduzione dei robot. La sua preoccupazione, insomma, non sono le salvaguardie ambientali o i diritti dei lavoratori, ma la retorica patriottica.
Ma, abbiamo detto, le notizie non vengono mai sole. E allora ricordiamo nell’ordine che questa mattina Repubblica ci racconta di un sondaggio che indica come gli italiani vogliano un uomo forte. Che lo scorso weekend, mentre le donne marciavano su Washington, a Coblenza si teneva il raduno a porte chiuse della destra nazional-populista europea (Marine Le Pen, Geert Wilders, Matteo Salvini e Frauke Petry) che chiedono chiusura delle frontiere, ritorno della sovranità nazionale e meno immigrazione. Poi c’è Beppe Grillo: sul Journal de Dimanche ci ha spiegato che Trump è un moderato che ha detto alla Cina quel che doveva e che le imprese non andranno più in Messico. La Cina, il Messico (e la Romania, l’Albania e chissà chi altro in Europa) sono quindi i nemici del popolo. Non l’assenza di regole ambientali e di tutela dei diritti dei lavoratori nei trattati commerciali. E i leader che vogliamo sono forti – anche di questo parla Grillo e la copertina dell’account di Salvini è esplicita, oltre ai capi della destra europea e se stesso, ci sono infatti i ritratti di Trump e Putin. Il problema del Movimento 5 Stelle, meno di Salvini e della destra populista, è che le forze politiche, le idee, hanno un’ispirazione generale.
Facciamo un esempio sciocco: se qualcuno dice che “con Mussolini i treni arrivavano in orario” può darsi che dica una cosa vera. Il problema è che mentre alle stazioni erano tutti contenti e l’autarchia trionfava, l’Italia entrava in guerra, gli strumenti democratici venivano aboliti, gli oppositori finivano in galera, gli ebrei venivano mandati nei campi di sterminio. Per fare un elenco ridotto. Le politiche di un governo sono un po’ come un organismo: gli occhi, le orecchie, le mani e il fegato non lavorano ciascuno per conto proprio. Allo stesso modo l’animosità per il Messico e i suoi immigrati, il disprezzo per le donne e i loro diritti (volete la manicure gratis? ha twittato il figlio del consigliere per la sicurezza nazionale dopo la manifestazione), l’abolizione delle regole ambientali e le notizie false spacciate per vere fanno parte di un modo di concepire il governo e il proprio ruolo da parte di Trump e del suo staff ristretto. L’idea di mettere Prima l’America, America First è alla base di questa idea: nazionale, bianca Per tutte queste ragioni sarebbe più utile preoccuparsi del complesso delle cose che Trump sta facendo e non rallegrarsi del ritiro della firma da un trattato.
La Corte Suprema britannica: «Sulla Brexit voti il Parlamento». May e Corbyn in difficoltà

Secondo la Corte suprema del Regno Unito, il Governo britannico non ha la l’autorità per procedere unilateralmente all’attivazione dell’articolo 50: ne consegue che il Parlamento dovrà esprimersi in merito e decretare l’effettiva uscita del Regno Unito dall’Unione europea.
La Corte suprema si è pronunciata in merito alle procedure legali previste per l’attivazione dell’articolo 50, la clausola del Trattato di Lisbona che disciplina l’uscita dei Paesi membri dall’Ue, questa mattina.
La sentenza rappresenta un colpo durissimo per il Primo ministro, Theresa May, che aveva fatto tutto il possibile per scongiurare una discussione e un voto parlamentare a Westminster.
Siobhan Fenton, su The Independent, riporta le motivazioni dei giudici della Corte suprema: «Il referendum detiene una grande rilevanza politica, ma l’atto parlamentare che ha autorizzato la consultazione popolare non ha definito gli scenari successivi al voto». Sono le parole di Lord Neuberger, il giudice della Corte che ha riportato al pubblico l’esito della riflessione giuridica.
I rappresentanti del Governo britannico che hanno difeso il ricorso dell’esecutivo di fronte alla Corte si sarebbero detti «delusi del risultato», ma avrebbero anche riconosciuto il significato profondo della sentenza: «I cittadini britannici sono fortunati a vivere in uno Stato di diritto, dove chiunque, anche il Governo, deve rispettare in primo luogo la legge».
Cosa accadrà ora? Il Governo dovrà portare in Parlamento un testo di legge che dovrà essere approvato dai deputati. Il primo dubbio riguarderà sicuramente la formulazione del testo stesso da far approvare al Parlamento.
In secondo luogo, si apriranno scenari politici sconosciuti: come voterà il Labour? Si spaccherà ancora di più ora che ha la possibilità di ribaltare l’esito referendario? Jeremy Corbyn ha da poco dato indicazione di votare a favore dell’uscita e quindi dell’attivazione dell’articolo 50. E il partito Conservatore è davvero unito dietro a Theresa May?
Insomma, la Brexit non è ancora scritta.
Europa – EuObserver – Il processo legislativo dell’Unione europea è al livello minimo di trasparenza
Europa – Le Monde – Il candidato della destra francese, Francois Fillon, ha inontrato Angela Merkel per parlare di Europa crisi migratoria
“La sinistra ha senso se non coltiva l’autosufficienza”. Scotto si candida alla segreteria

«Sinistra Italiana ha un senso se non coltiva la presunzione dell’autosufficienza, ma l’ambizione di una comune ricostruzione». La dice così, nero su bianco, Arturo Scotto, andando subito al nocciolo della questione, il rapporto col Pd, che tanto sta facendo discutere a sinistra. Lo scrive nel documento con cui si candida (o «mette a disposizione», come è più elegante dire) alla segreteria di Sinistra italiana, che dal 17 al 19 febbraio terrà a Rimini il suo congresso fondativo. Scotto, con ogni probabilità, si sfiderà con Nicola Fratoianni, ultimo coordinatore di Sel, il partito di Nichi Vendola che si è sciolto proprio per dar vita al nuovo, insieme a ex dem come Cofferati, Fassina e D’Attorre. In un clima, però, piuttosto acceso – avrete notato, anche distrattamente – anche per colpa di “disturbatori” come Giuliano Pisapia, che hanno fatto riesplodere la solita questione del rapporto con i dem.
Scotto, lei dice che nell’ultimo anno c’è stata una «rappresentazione grottesca» del vostro dibattito interno. Poi però nel documento con cui si candida scrive «Sinistra Italiana ha un senso se non coltiva la presunzione dell’autosufficienza, ma l’ambizione di una comune ricostruzione», e va subito al nodo delle alleanze. Ma è veramente quello il punto?
«Lo è insieme ad altri, ovviamente. Ma non perché si debba dire a priori se allearsi o no con il Pd. Lo è perché se è evidente che con Matteo Renzi non sarebbe possibile ricostruire alcunché, coltivare vocazioni pregiudizialmente quartopoliste è invece un errore politico. Un peccato».
Non mi pare siano in molti a dire “col Pd mai e poi mai”. Ho come la sensazione che sia tutto più una questione di posizionamento. Su Matteo Renzi siete d’accordo. Giusto?
«Il giudizio su Renzi, sul suo Pd, sul suo governo e sull’intera stagione politica ci unisce, senza dubbio. Infatti tutti insieme abbiamo fatto in questi anni un’opposizione netta, chiara e sempre sul merito. Forse, però, ci divide il giudizio sul dopo – se vogliamo parlare di alleanze e non dell’organizzazione del partito, della selezione delle classi dirigenti e degli altri temi di cui parleremo al congresso. Per me la sinistra che ci prova, quella che vuole provare a incidere, è quella che riapre le discussioni. Riapre le discussioni che è utile aprire, ovviamente, quelle che possono servire a rimettere al centro di un campo più largo i nostri temi».
Vendola dice che l’analisi e la proposta di Pisapia, con tutto il cascame sul nuovo Ulivo, sono superficiali, non tengono conto di cosa è diventato il Pd, di cosa è adesso. Non tiene conto dei voucher, del jobs act, della riforma costituzionale. Lei pensa che il Pd potrebbe, credibilmente, tornare indietro?
«Io, per cominciare, penso che, come peraltro dice Nichi, Giuliano non è un nemico. Poi però, ovviamente, neanche io condivido le sue posizioni su Matteo Renzi, perché mi pare impensabile ricostruire un centrosinistra nuovo con quello che è stato il suo killer. Invece, però, non penso affatto che il centrosinistra sia destinato a non riformarsi più. E così il Pd. Perché è vero che Renzi non l’ha portato la cicogna e che è figlio degli errori della sinistra progressista, il frutto di troppi anni di accondiscendenza verso una visione ottimistica della globalizzazione, ma è vero anche che in un momento in cui si mette in crisi proprio quella storia, vanno incoraggiate elaborazioni critiche – e autocritiche – come quelle che sta facendo la minoranza Pd. Non serve a molto indicarle come operazioni di maquillage».
«Fondiamo un partito nuovo e non l’ennesimo partito», ha scritto. Mi tocca far notare che Sinistra italiana forse non è l’ennesimo ma non è neanche l’unico né ultimo partito a sinistra. Anche sciolta Sel e unito ciò che ne resta a un po’ di ex Pd, rimane una certa abbondanza di sigle. Non si poteva fare di più, qualcosa di veramente nuovo?
«Si può sempre far meglio, ma io non ho mai pensato che bisognasse costruire una forza politica che unisse tutta la sinistra. Non è quello di cui abbiamo bisogno perché la risposta sarebbe tutta politicista. La sinistra va unita ma anche rinnovata. Noi vogliamo una sinistra popolare, larga, ma anche di governo – anche se in questo momento, ovviamente, convintamente all’opposizione. Riunire, come è successo in passato, per una strana ansia tutta elettorale, identità diverse ci condanna invece all’irrilevanza».
Quando però le elezioni si avvicineranno forse con alcune sigle un discorso converrà farlo. Non sono tutte vocate all’opposizione, no?
«A me sembrerebbe curioso che una forza che a febbraio fa il suo congresso fondativo, con un percorso partecipato, centinaia di delegati, migliaia di militanti, poi non si presenti alle elezioni. Curioso e sbagliato, perché non abbiamo certo bisogno di Arcobaleni bis. Non è questo che ci viene chiesto: ci si chiede invece di rimettere in moto un mondo – che dobbiamo sì allargare, e io mi metto a disposizione per questo – su alcuni temi. Ci si chiede, anche sostenendo i referendum della Cgil, di proporre con forza il reddito minimo garantito; ci si chiede di sostenere la necessità di una stagione di forti investimenti pubblici, la centralità della rivoluzione femminile, di una rivoluzione ecologica».
Investimenti pubblici, reddito, diritti civili. Insisto nel dire che con alcuni si fa fatica a cogliere distanze politiche. L’unica forse rilevante è quella sull’euro, che peraltro è tutta interna a Sinistra Italiana. Cosa pensa dell’emendamento di Fassina?
«Sono contento di poterne discutere ma non lo condivido. Zygmunt Bauman ha scritto che il mondo nel quale viviamo rischia di esser quello delle “retro utopie”, delle utopie del ritorno al passato, che poi sono spesso le utopie del recinto, dello stato nazione. È questo che mi preoccupa e convince, consapevole peraltro che un ritorno così lo gestirebbero le destre. Il nostro impegno, invece, partendo dalla stessa radicale critica, deve esser quello per una riforma dei trattati, facendo leva sulle crepe che si stanno aprendo nell’Europa della grande coalizione, che – anche con l’elezione del presidente dell’europarlamento – mostra la sua insostenibilità».
Non è tanto la post-verità, quanto la coglioneria (la risposta ce la dà Gramsci)
La foto campeggiava ruvida sulla bacheca della pagina facebook “Italiani compatti I” (ebbene sì, sono più d’una e I sta per ‘prima’) e rappresenta una patente con una didascalia da brividi:
«Mentre eravamo tutti distratti dalla tragedia del terremoto, proprio ieri il Senato ha approvato – con ben 303 voti a favore e solo 116 contrari – la modifica dell’articolo 126 ter del cod. della strada che prevede l’ottenimento della patente GRATIS (scritto così, maiuscolo, eh nda) per (minuscolo nda) TUTTI GLI IMMIGRATI (arieccolo il maiuscolo nda) che la richiedono, e con ben 30 punti iniziali anziché 20 come NOI »
e poi sotto il solito «SCRIVI BASTA E CONDIVIDI»
Accanto alla foto l’amministratore commenta a nome della pagina: “Adesso basta siamo stanchi di queste ingiustizie poi dobbiamo vederli ubriachi che fanno le stragi” e il solito invito a condividere.
Sotto il solito proliferare di beceri commenti razzisti. Un’orda di imbecilli pronta a farsi massa alla prima coglionata.
E fa niente che l’articolo 126 ter del Codice della Strada non esista. E fa niente che i voti dei senatori sarebbero 303+116 e quindi 419 quando in Senato sono 315 in tutto (più i Senatori a vita). Fa niente che la didascalia sia scritta con un analfabetismo degno di un discorso di Salvini in inglese. Tutti incazzosi, tutti pronti a indignarsi. Solo ieri pomeriggio erano 58.514 le persone che avevano condiviso sulle proprie bacheche. Un virus. Gente che non si informa perché intende le notizie (e la politica) solo come occasioni di vendetta: se sono funzionali alla bile vanno bene, vere o non vere.
Qui non è questione di post-verità ma di coglioneria. Gente che usa la propria tessera elettorale per affettare i nemici sull’onda di odio indotto.
Se ne conoscete qualcuno, se lo incrociate virtualmente o dal vivo fategli un piacere, leggetegli ciò che scriveva Antonio Gramsci ne “L’Ordine Nuovo” il 26 aprile del 1921:
“Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri.
Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e amministrato”
Ah, specificategli che è morto, Gramsci.
Buon martedì.
Adesso gli eroinomani di Trainspotting si danno al porno
T2 Trainspotting è stato presentato ad Edimburgo. «Fare tutto questo a Londra sarebbe stato più facile, ma era giusto farlo qui a Edimburgo perché le storie raccontate nel film appartengono a questo posto» ha spiegato il regista Danny Boyle. Il sequel, che uscirà nel Regno Unito il 27 gennaio, arriva a 21 anni dal primo film, tratto dal romanzo di Irvine Welsh dove si raccontavano le vicende di un gruppo di eroinomani, e si basa su “Porno” libro scritto sempre da Welsh. Nel cast, come nella prima pellicola, Ewan McGregor, Robert Carlyle, Jonny Lee Miller e Ewen Bremner. «Eravamo un po’ nervosi all’idea di fare il seguito di Trainspotting» ha dichiarato MacGregor alla prima mondiale del film «soprattutto perché dovevamo cercare di farlo senza danneggiare la reputazione della pellicola precedente o lasciando in bocca alla gente un sapore stantio». Qui il video con le interviste al cast realizzate dalla Bbc durante la première. Dove gli attori spiegano di essere soddisfatti del risultato.
Ma cosa stanno facendo a 20 anni (nove nella finzione cinematografica) di distanza i protagonisti della pellicola? Mark Renton è uscito dall’eroina e ritorna a Edinburgo con un divorzio sulle spalle, mentre Spud si fa ancora, ma l’idea “per svoltare” questa volta non è più quella di puntare sulla droga, ma di mettere in piedi un business legato alla pornografia. Se siete curiosi di sapere di più questo il trailer ufficiale del sequel, rilasciato lo scorso novembre.





