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In attesa della sentenza Italicum, i Comitati vanno oltre: «Vogliamo una legge elettorale che garantisca la democrazia»

In attesa della sentenza della Corte Costituzionale di oggi sull’Italicum, una risposta intanto è già arrivata. Non dai partiti né dal Governo visto che anche il premier Gentiloni auspica, dopo la sentenza della Consulta, una legge elettorale per Camera e Senato «che non sia troppo disarmonica», facendo capire che l’iter sarà alquanto complicato. No, la risposta è arrivata dai circa 750 comitati per il No al referendum che si sono incontrati sabato scorso a Roma in un’affollatissima assemblea con centinaia e centinaia di persone che sono arrivate da Nord a Sud della penisola, dalla Svizzera alla Sicilia. Uno dei dei punti su cui tutti sono stati d’accordo è stato proprio quello sulla legge elettorale.

Una rete permanente

La rete dei Comitati non si scioglie, anzi, rimane permanente e va avanti, appunto promuovendo una campagna sulla legge elettorale. «Subito dopo la sentenza, lanceremo una petizione popolare per chiedere una legge elettorale coerente con la Costituzione che per noi si basa su un modello proporzionale», dice Domenico Gallo, che fa parte del Comitato. Vada come vada la sentenza, sia nel caso fosse “riduttiva”, quindi con una parziale abrogazione (il ballottaggio al secondo turno) oppure invece “totalizzante” con la bocciatura integrale dell’Italicum sul quale, ricordiamo, pendono i ricorsi di 5 Tribunali (Messina, Torino, Genova, Trieste e Genova), la rete dei comitati si muoverà in modo autonomo dai partiti, cercando di influenzare in qualche modo le loro scelte.

Autonomia dalla politica

L’autonomia dalla politica ma allo stesso tempo un’azione fortemente politica. Ecco lo scenario in cui si muove il rinnovato coordinamento che ovviamente dovrà cambiare nome (forse si chiamerà “Per la democrazia costituzionale”). Dopo la legge elettorale al secondo punto della strategia futura c’è la partecipazione attiva alla campagna referendaria sui due quesiti promossi dalla Cgil sui voucher e la responsabilità negli appalti.

Chi sono, in carne e ossa, i cittadini dei comitati?

Molti sono cittadini delusi dalla politica, e che si sono riavvicinati a una mobilitazione collettiva grazie alla revisione costituzionale Renzi-Boschi. «Non votavo da dieci anni, ero deluso da tutti i partiti» ha detto qualcuno per spiegare il suo entusiasmo. Altri sono militanti delle forze di sinistra, dissidenti Pd, l’Altra Europa per Tsipras, Rifondazione comunista, Possibile. Poi ci sono sindacalisti, tanti insegnanti che hanno contestato duramente la Buona scuola, i soci di Libertà e Giustizia con il vicepresidente Tomaso Montanari che nel suo intervento ha ricordato come durante la campagna referendaria si sia ricostruito un «luogo di dibattito pubblico».

Poi ci sono loro, i costituzionalisti e i giuristi, che hanno dato via al Comitato “padre” a cui si sono rivolti gli altri locali, «nati spontaneamente», ci tiene a sottolineare Gallo, in tutta Italia. «Abbiamo fornito il logo, il materiale, ma sono indipendenti», dice. All’assemblea di sabato c’erano quasi tutti: il presidente Alessandro Pace con una coccarda tricolore sulla giacca, l’avvocato Felice Besostri che ha coordinato il pool di legali contro l’Italicum, i costituzionalisti Gaetano Azzariti, Massimo Villone, Andrea Pertici, l’avvocato Pietro Adami dei Giuristi democratici, Luigi Ferrajoli, grande filosofo del diritto. Qualche politico si vedeva qua e là ma la percezione era proprio quella che fosse un “ospite”: Nicola Fratoianni, Paolo Ferrero, Giovanni Russo Spena, Pancho Pardi, Francesco Campanella.

Rispetto della  Costituzione ma non solo

Lidia Menapace, infaticabile nei suoi 92 anni, ha lanciato l’idea di ripartire dalla festa del 2 giugno, facendo veramente festa, a cominciare dalla tradizione gastronomica, perché no? Sandra Bonsanti si è raccomandata di lasciarla stare per un po’ la Costituzione. Martina Carpani rappresentante degli Studenti per il No, ha scatenato l’entusiasmo dell’assemblea parlando con passione dell’urgenza di una lotta per il lavoro e per il diritto allo studio per i giovani. «La nostra non può essere solo una difesa della Costituzione in senso formale» ha detto tra gli applausi, incitando a una futura mobilitazione contro il pareggio in bilancio sancito dall’art.81, votato, ricordiamo, sotto il governo Monti. «Diamo poi centralità ai territori, non devono essere solo i professori il punto di riferimento», ha concluso Martina.

Un fenomeno nuovo
Nonostante le molte teste grigie di chi ha partecipato all’assemblea di sabato, si può dire che siamo di fronte a una partecipazione nuova, diffusa, senza etichette politiche,  mai vista prima. Sì, anche il Movimento per l’acqua aveva destato molto entusiasmo e partecipazione portando alla vittoria dei referendum del 2011, ma poi i comitati sorti, anche in questo caso spontaneamente, si sono a poco a poco spenti, diluiti nella “controffensiva” dei governi. In questo caso la posta in gioco è diversa, non si tratta di un problema specifico come quello dell’acqua pubblica. Si tratta di far rispettare la tutela della Costituzione, vale a dire, lottare a 360 gradi su un’ampia gamma di diritti, potremmo dire. Che ora possono essere quelli della reale partecipazione alla vita democratica mediante una legge elettorale che garantisca non solo la governabilità ma anche e soprattutto la rappresentanza oppure quelli del lavoro contro la precarietà e lo sfruttamento.

Un movimento di volontari senza alcun ombrello di partito, radicato nei territori, proteiforme, ora paladino di un tema ora di un altro. Sempre pronto a mobilitarsi. Una sentinella che non vuole tornare a casa dopo la vittoria, anzi, è più che mai determinata a rimanere sul campo a vigilare. Ecco il regalo involontario – e inatteso –  dell’ex presidente del Consiglio: l’aumento della partecipazione democratica.

Qui il documento conclusivo dell’assemblea nazionale dei Comitati. 

Il femminismo è vivo e vegeto. Ecco le prove

epa05740097 People gather for the Women's March and rally to protest President Donald J. Trump the day after he was sworn in as the 45th President of the United States, in Washington, DC, USA, 21 January 2017. Protest rallies were held in over 30 countries around the world in solidarity with the Women's March on Washington in defense of press freedom, women's and human rights following the official inauguration of Donald J. Trump as the 45th President of the United States of America in Washington, DC, USA, on 20 January 2017. EPA/JUSTIN LANE

Il successo della Women’s march a Washington (oltre 500mila persone secondo la polizia) e nel mondo (circa 2 milioni di persone) sembra raccontarci che, a discapito di quello che l’elezione di Trump poteva far pensare, il femminismo e il progressismo non sono morti. Anzi, non hanno proprio nessuna intenzione di farsi ammazzare e ridurre al silenzio a giudicare dalle foto della manifestazione. Ecco una selezione della marcia a Washington, ma anche delle manifestazioni parallele che si sono svolte nelle maggiori città del mondo.

Straordinario riflettere su come alla marcia abbiano partecipato ben tre generazioni di donne, come mostrano le varie foto qui sotto e si racconta in questo video del New York Times

«C’era gioia nel raduno di Washington, perché molti erano grati gli uni agli altri per aver partecipato e essere così numerosi. E quelli che avevano trascorso un 20 gennaio nero, il 21 gennaio hanno sperimentato un senso di sollievo: di fronte ai problemi politici che si prospettano all’orizzonte (con la presidenza Trump), ci si può alleare e trovare amici pronti ad agire insieme» scrive E.J. Dionne Jr sul Whashington post in un articolo intitolato “Perché milioni di persone si sono riunite per dire ‘no’ a Trump”

Chi ha marciato il 21 gennaio ha sperimentato un senso di sollievo: di fronte ai problemi politici che si prospettano all’orizzonte con la presidenza Trump, ci si può alleare e agire insieme

Gli slogan della marcia

Io marcio perché

In un video le voci di chi ha deciso di partecipare e marciare contro Trump.

Non notizie false, ma “fatti alternativi”: benvenuti nell’era dell’informazione versione Trump

epa05740090 White House press secretary Sean Spicer delivers his first statement in the Brady press briefing room at the White House in Washington, DC, USA, 21 January 2017. EPA/SHAWN THEW

Non sono bugie clamorose, ma “alternative facts”, fatti alternativi. Così Kellyanne Comway, che all’inaugurazione era vestita come un soldato britannico del ‘700 e di mestiere fa la consigliere del presidente. Durante un’intervista piuttosto dura da affrontare di domenica mattina, il momento della politica nella Tv americana, Comway faceva riferimento alle prime due uscite pubbliche del presidente Trump e del suo portavoce Sean Spider. I fatti alternativi sono presto detti: durante la prima conferenza stampa Spider ha attaccato i media per aver sostenuto che alla marcia delle donne su Washington, così come al giuramento di Obama nel 2009 avesse partecipato più gente che alla cerimonia di inaugurazione. Due notizie clamorosamente false. A provarlo ci sono le foto, il numero di biglietti venduto dai sistemi di trasporto pubblico di Washington e da Amtrak, la società ferroviaria. E poi il buon senso e gli occhi di tutti coloro che c’erano.

«Sappiamo che c’erano 250mila persone sotto il palco e che era tutto pieno fino al monumento a Washington ne entrano altre 500mila, sappiamo che più persone hanno usato la metropolitana che non durante l’inaugurazione di Obama, sappiamo che questa è l’inaugurazione più partecipata di sempre. Punto». Questo è Spicer. Trump, parlando alla Cia, prima uscita pubblica da presidente, ha parlato di un milione e mezzo. Una serie di clamorose bugie messe in fila. Negli spazi descritti da Spicer entrano al massimo 400mila persone, lui parla di 700mila e il giorno in cui Obama ha giurato 200mila persone in più hanno comprato biglietti (nel 2009 erano erano 500mila in più) – e c’è da aggiungere che venerdì nella capitale hanno manifestato in decine di migliaia, cosa non accaduta nel 2009 e nel 2012.

Eppure il tono di Spicer è categorico: la realtà è un’altra e ve la diciamo noi. Gli altri sono nemici di Trump e, quindi, nemici del popolo – che il presidente rappresenta, finalmente e come non era mai capitato, alla Casa Bianca. Dopo il discorso inaugurale in cui si dipingeva un’America al collasso, siamo allo spin violento, nel video qui sotto leggete l’aggressività di Spicer, che in teoria dovrebbe facilitare, rendere fluido il lavoro di comunicazione di Trump. E invece va alla guerra. In sala stampa sembra che tutti avessero la bocca spalancata. La foto qui sotto è inequivocabile. Non basta? Spicer ha spiegato che è un effetto ottico perché «per la prima volta nella storia il prato era coperto da teloni e sono stati usati magnetometri (le macchine attraverso le quali si passa in aeroporto) all’ingresso». Falsa la prima: i prati erano già stati coperti in precedenti occasioni. Falsa la seconda: all’inaugurazione non sono stati usati magnetometri.

2009-2017, le due inaugurazioni

 

Su twitter un account umoristico denominato “Sean Spicer Facts” ha già 7500 follower spiega, tra mille altre battute che «Trump è il primo uomo ad aver camminato sulla luna. Punto».

 

Poi c’è il presidente che parlando al personale della Cia, si presenta spiegando che no, lui e l’agenzia di intelligence non hanno un problema – relativo alla Russia e a come la vicenda dell’hackeraggio è stata gestita – promette che grazie agli agenti lui vincerà tutte le guerre, ribadisce che gli Usa si sarebbero dovuti tenere il petrolio iracheno (e che chissà, magari un giorno). Ma soprattutto, Trump ricorda come sia in corso una guerra tra lui e i media: «Sono in guerra con i media, sono la gente più disonesta del mondo e hanno raccontato che sia in corso una guerra tra me e voi». In sala applausi, di circostanza o meno e anche grida e boati di sostegno. Peccato che questi, come già durante la conferenza stampa tenuta prima dell’inaugurazione, venissero da una parte dello staff che il presidente si era portato dietro. Dalla claque, insomma.

Da ultimo ha parlato il moderato della banda repubblicana che gestisce la comunicazione e il lavoro del presidente, l’ex capo del Republican National Commitee e oggi capo dello staff Reince Priebus, che ha detto: «I media stanno cercando di delegittimare questa presidenza, non li lasceremo fare».

L’idea dello staff di Trump, evidentemente quella di aggirare i media tradizionali e parlare direttamente con la base attraverso l’account twitter del presidente, le talk radio conservatrici, FoxNews e i siti conservatori. Un pubblico che ha votato Trump e che tende ad ascoltare e cercare notizie da un numero di fonti limitato: le indagini sul consumo di news indicano come il pubblico più conservatore differenzi meno il proprio consumo di notizie. Gli show più ascoltati delle talk radio conservatrici fanno una trentina di milioni di ascolti al giorno, tra un pubblico soprattutto over 50, maschio e bianco. Ovvero lo stesso che vota Trump e FoxNews è il canale all news più visto, con la trasmissione del prime time, l’O’Reilly Factor che da molti anni a questa parte è la cosa più vista – anche se i numeri sono tendenzialmente bassi rispetto a quelli dei grandi network: O’Reilly è seguito in media da 2,6 milioni di persone ed ha una media oraria di un milione e 600mila telespettatori. È questo l’ambiente chiuso nel quale è cresciuta l’onda del Tea Party nel 2010 e che ha contribuito ad eleggere il presidente outsider.

L’amministrazione entrata in carica in questi giorni, evidentemente ha scelto di continuare a nutrire questo pubblico e rompere con tutti i media che tendono a dare notizie. Apparendo come in contrasto costante con “il sistema” Trump segnala di non voler ampliare la propria base e di continuare a presentare a chi l’ha votato una realtà alternativa. Una scelta strategica pericolosa: Trump entra alla Casa Bianca come il presidente meno popolare di sempre e non prova ad ampliare la sua base o cercare consensi ma a continuare a rimarcare le differenze tra sé e Washington. Che si tratti dei politici, dell’amministrazione Obama, degli eletti del suo partito o dei media. La scelta ha pagato in termini elettorali, ma difficilmente contribuirà a rasserenare il clima o a unire un Paese mai così diviso politicamente.

Non è la prima volta che i presidenti dicono bugie: lo fece Nixon prima e durante il Watergate, lo fece Reagan parlando dello scandalo Iran-Contra e lo fece Clinton durante lo scandalo che coinvolgeva Monica Lewinsky. Come nota Maria Konnikova su Politico, quei presidenti erano nel mezzo di guai e scandali e mentivano per difendere la presidenza e la reputazione personale. Trump invece sembra essere un mentitore seriale e i suoi hanno deciso di muoversi come una falange e di non cercare nemmeno a frenarne gli istinti.

I numeri del terremoto fra emergenza maltempo e nuove scosse

Gli uomini della protezione civile di Fiumicino in azione nelle frazioni isolate di Amatrice, 22 gennio 2017. ANSA/Protezione Civile Fiumicino - EDITORIAL USE ONLY

Maltempo e nuove scosse hanno messo in ginocchio, ancora una volta, il Centro Italia. Servono più finanziamenti per dare sostegno alle popolazioni colpite. Sul terremoto è stato rilasciato un dossier che Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera analizza nel dettaglio. Qui noi vi proponiamo qualche numero per capire in breve la portata dell’emergenza.

10 miliardi la cifra necessaria per affrontare le urgenze e procedere con la ricostruzione delle abitazioni distrutte dal sisma. Dopo il terremoto del 24 agosto i danni stimati erano di 7 miliardi e 56 milioni di euro. L’emergenza maltempo e le scosse delle scorse settimane hanno fatto aumentare le stime dei fondi necessari a oltre 10 miliardi.

13.523 sfollati 7.144 nelle Marche, 2.085 in Umbria, 597 nel Lazio, 3.697 in Abruzzo, ma il numero continua a salire.

40% di edifici inagibili secondo le verifiche e i sopralluoghi effettuati dalla Protezione civile

1500 posti disponibili nei container che verranno allestiti in dieci comuni

755 invece il numero delle casette già ordinate e promesse dal governo, il costo al metro quadro di ciascuna delle casette è di 1.075 euro

Sotto la mappa della sequenza sismica in Italia Centrale dal 24 agosto 2016 al 20 gennaio 2017 realizzata dall’Ingv. Negli ultimi giorni l’attività sismica è concentrata soprattutto nell’area a sud tra le province dell’Aquila e Rieti.

Podemos: continua lo scontro tra Iglesias e Errejòn

epa05676238 Spanish left party Podemos' leader, Pablo Iglesias (R), and party's parliamentary spokesman, Inigo Errejon, attend the plenary session of the Lower House of Spanish Parliament, Madrid, Spain, 15 December 2016. The Chamber will debate the public spending limit for 2017 National Budget, among others. EPA/ZIPI

In Spagna, continua lo scontro tra il leader di Podemos, Pablo Iglesias, e il “numero due”, nonché Segretario politico del partito, Íñigo Errejón.

In particolare, Errejón sarebbe riuscito a rallentare lo sforzo di Iglesias nel portare avanti un progetto di alleanza strategica tra Podemos e il partito di sinistra, Izquierda Unida (IU), guidato da Alberto Garzón. A riportare la notizia è Elsa Gracia de Blas per El Pais.

Errejón ha portato la “questione alleanze” all’ordine del giorno del dibattito interno, presentando il suo documento strategico e organizzativo per il partito, in vista del secondo congresso generale di febbraio.

La proposta di Errejòn è chiara: qualsiasi progetto di alleanza dovrebbe essere approvato dai due terzi della base del partito. Allo stesso tempo, il numero due di Podemos, ha introdotto proposte che limiterebbero il potere del leader di partito nell’interpellare autonomamente la base su questioni politiche strategiche.

In sintesi, ciò che Errejòn chiede è un coinvolgimento più importante degli organi collegiali di Podemos e un maggiore equilibrio interno dei vari poteri.

La proposta di Errejòn avrebbe già provocato reazioni da parte dell’ala di Iglesias. Secondo alcune fonti interne, la corrente del leader di Podemos starebbe integrando un proposta in linea con la richiesta del Segretario politico nel proprio documento strategico. Tra le misure previste: il consenso di una maggioranza qualificata della base e di una percentuale minima di circoli per approvare qualsiasi alleanza politica.

In ogni caso, la “questione alleanze” rappresenta soltanto uno dei tanti punti di scontro tra Iglesias ed Errejòn. Settimana scorsa. quest’ultimo aveva sollevato il problema dello squilibrio tra rappresentanza di uomini e donne nel partito e sottolineato alcuni tratti maschilisti della leadership di Podemos. Il Segretario politico ha accusato il linguaggio interno al partito, «fatto di vincitori e sconfitti», e rifiutato la logica del duello e del plebiscito.

Eppure, è stato proprio Iglesias, venerdì scorso, a richiamare all’unità il collega di sempre, auspicando che Podemos diventi una «coalizione di famiglie». Tra queste, secondo Iglesias, rientrano, senza alcun dubbio, anche IU e i vari movimenti delle “maree” che hanno animato la politica spagnola nel corso degli ultimi anni.

Il secondo congresso di Podemos è previsto per l’11 e 12 febbraio, a Madrid.

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«Non possiamo dire mai di no e metà del lavoro resta al nero». Com’è la vita del voucherista

Un' immagine di un voucher, Roma, 11 gennaio 2017. I voucher sono dei buoni lavoro erogati dall'Inps con cui il datore di lavoro puo' pagare alcuni tipi di prestazioni accessorie, cioe' che non sono riconducibili a contratti di lavoro in quanto svolte in modo saltuario. ANSA / ETTORE FERRARI

Il nuovo volto del precariato ha paura a raccontarsi. Quella dei “voucheristi” è una realtà ancora inesplorata: tutti ne parlano, ma pochi li conoscono di persona. Hanno bisogno estremo di lavorare e temono di essere estromessi dal giro perverso dei “buoni lavoro”. Andrea (il nome è di fantasia) ci ha messo un po’ di tempo prima di accettare di rispondere alle nostre domande. «Vi parlo della mia vicenda, ma niente registrazione e soprattutto nessun nome o riferimento all’azienda. Mi scusi, ma meglio sfruttato che disoccupato» dice. Andrea, che abita nella periferia del Napoletano, ha trentacinque anni, una moglie, un figlio piccolo e un lungo mutuo sulle spalle. Lavora come cameriere in un importante albergo di Napoli, apparentemente con gli stessi ritmi e mansioni dei suoi colleghi con contratti di subordinazione. Ma lui è pagato con i voucher e formalmente “imprenditore di se stesso”. «Non abbiamo alcuna tutela e se perdo il posto di lavoro non saprei come vivere».

Il suo datore di lavoro è proprietario di più strutture ricettive e utilizza i voucheristi a seconda delle esigenze del momento. «Ci fa girare come trottole, per riempire i buchi lavorativi e ci chiama quando serviamo. A volte veniamo avvisati anche la sera prima per la mattina dopo e dobbiamo essere sempre disponibili, altrimenti non veniamo più reclutati». Basta un no e sei fuori dal giro. Andrea parla al plurale: nelle sue condizioni ci sono altri precari. «Non so quanti colleghi vengono pagati con i voucher, non possiamo saperlo, ma con qualcuno di loro ho fatto amicizia e parliamo. Conosco altre persone che, addirittura, vengono utilizzate da datori di lavoro diversi, d’accordo tra loro, per coprire alcuni turni. Un modo perverso di solidarizzare tra imprenditori, sfruttando le necessità dei lavoratori, disposti a tutto pur di portare soldi a casa. E quando dico disposti a tutto mi riferisco a pratiche ancora più gravi».

Andrea rivela le modalità di pagamento. «Spesso i voucher non coprono effettivamente le ore di lavoro effettuate e veniamo pagati anche in nero. I buoni lavoro servono da copertura in caso di controlli». Il voucher è utilizzato come strumento di immersione. Con questo sistema è più facile frodare lo Stato rispetto al passato, pagando il lavoratore in parte con i buoni e in parte in nero. Di contro, nonostante alcuni i accorgimenti adottati dal governo lo scorso mese di ottobre, non esiste tracciabilità, per cui anche gli ispettori Inps hanno difficoltà a far emergere le irregolarità. «Non credo di esagerare dicendo che siamo schiavizzati. Pensi che se per stanchezza commettiamo un errore e procuriamo un danno economico i soldi ci vengono scalati dalla paga. Poche sere fa, nel portare l’immondizia all’ingresso dell’albergo, ho fatto cadere la busta sul tappeto sporcandolo in diversi punti. Sa cosa mi tocca?». Ad Andrea verrà sottratto il costo della lavanderia dai voucher e lui non potrà dire nulla, ingoierà il rospo come sempre, poiché a casa ci sono suo figlio e sua moglie.

Ai voucher è dedicata la copertina di Left in edicola dal 21 gennaio

 

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Benoît Hamon. L’ultimo socialista (di sinistra) di Francia

epa05742694 French former Education minister Benoit Hamon delivers a speech after the results of the first round of the party primaries in Paris, France, 22 January 2017. According to the latest reports Hamond placed first with 36,12 percent of votes.The second round will be on 29 January 2017. Seven candidates for France's left-wing parties compete to win the nomination for the 2017 presidential election. The primaries, organized by the Socialist party, will be held on 22 and 29 January. EPA/JEREMY LEMPIN

Il suo punto di forza è il reddito universale, il suo slogan è “Far battere il cuore della Francia”. E saranno lui e la sua gauche totale a sfidare l’ex premier Manuel Valls alle primarie socialiste francesi di domenica prossima – 29 gennaio –. Al primo turno di ieri, i quasi due milioni di francesi che hanno votato hanno scelto Benoît Hamon, che ha superato tutti, Valls incluso. Benoît Hamon, che è uno dei capi della “fronda” contro la maggioranza di governo Hollande-Valls e le politiche di austerità, è risultato primo con oltre il 35%, mentre Valls si è fermato al 31% , l’ex ministro dell’Economia Arnaud Montebourg al 19%.

“Facciamo respirare la democrazia con un nuovo modello di sviluppo”: ecologia e lotta alla povertà.
Nella corsa all’Eliseo si aprono spiragli a sinistra tra i socialisti francesi, in vista del 23 aprile 2017, quando si terrà il primo turno delle presidenziali. È allora che si terrà la sfida soprattutto con i due candidati della destra: François Fillon per i repubblicani e Marine le Pen per il Fronte Nazionale. Alla sua sinistra, invece, troverà il candidato della sinistra radicale Jean Luc Melenchon e, più al centro e con un profilo da innovatore e outsider l’ex ministro dell’Economia di Manuel Valls, Emmanuel Macron.

La verità è che per adesso i sondaggi assegnano ben poche speranze ad Hamon o a Valls: sono quarti o quinti nelle intenzioni di voto. È pur vero che se dovesse spuntarla lui al secondo turno delle primarie, sarebbe una faccia relativamente nuova per i socialisti e potrebbe rimescolare un po’ le carte. Nella sfida tra lui e Valls, il terzo arrivato Montebuorg ha dato indicazione ai suoi di votare per il candidato di sinistra.

Nei sondaggi per le elezioni la sfida al momento è a tre, con Le Pen in testa al primo turno ma perdente al secondo, sia da Macron che da Fillon. La novità delle ultime rilevazioni è che il candidato outsider batterebbe, oltre alla candidata del Front National, anche quello del centrodestra. Al momento però, Macron ha come ostacolo quello di arrivare al secondo turno.

Chi è Benoît Hamon
È nato a Saint-Renan ma è cresciuto a Dakar, dove i suoi genitori si erano trasferiti per motivi di lavoro. Figlio di un ingegnere e di una segretaria, dopo il divorzio dei suoi genitori, Hamon lascia il Senegal e torna in Bretagna. Scopre la politica a 19 anni ed entra nella sezione giovanile del Partito Socialista.

Assistente parlamentare e poi collaboratore di Lionel Jospin, nel 1997 si candida alle elezioni legislative, ma non viene eletto; non per questo lascia la politica e prosegue dietro le quinte, come consigliere dell’allora ministro Martine Aubry.

Nel 2004 entra al Parlamento europeo per la Francia orientale, un anno dopo – e per due anni – è segretario nazionale del Partito Socialista. Nel 2009 si ricandida alle europee, ma senza essere eletto.

La sua esperienza di governo è da ministro delegato all’Economia sociale e solidale di Jean-Marc Ayrault, tra il 2012 e il 2014, ma è anche ministro del primo governo Valls, dell’Educazione nazionale, dell’Insegnamento superiore e della Ricerca. Critico verso le politiche di austerità del governo, ne viene escluso nel rimpasto del secondo governo Valls nell’agosto 2015.

Se imparassimo la lezione di questo prodotto cardiaco interno

Per quattro giorni abbiamo patito insieme, abbiamo soffiato sulla stessa speranza, costruiamo una corale gratitudine per gli uomini dei soccorsi, concordiamo (letteralmente, ognuno con il proprio cuore) nella felicità dei salvati e nel dolore per le vittime.

Una porzione consistente di questo Paese, quindi, è capace di compassione, di patire insieme. Una lezione costosissima (la neve deve ancora dirci quante sono le vittime a Rigopiano) che ci racconta che il cuore di questo Paese pulsa ancora nonostante i falchi, gli sciacalli profeti del cattivismo e gli imbonitori della paura.

Ora, al di là dell’indagine delle responsabilità e della seria prevenzione e della preservazione del territorio, ci sarebbe anche un’altra sfida. Una sfida alta, forse anche così lontana da questi tempi di amori e disamori che durano meno di una legislatura e soprattutto distante da quest’era di proclami: ci sarebbe da decidere che questo prodotto interno cardiaco sia il capitale sociale da cui ripartire. Riconoscere che tenere accesa questa densa convergenza sociale anche senza lutti, sarebbe il compito della politica e dei suoi ideali.

Se imparassimo la lezione di tutta questa compassione, di questo prodotto cardiaco interno, saremmo un gran bel Paese.

Buon lunedì.

A Cona l’emergenza migranti è sempre un affare. Per pochi

Un momento delle operazioni conclusive nel centro di accoglienza di Conetta, frazione di Cona (Venezia), per il trasferimento di cento migranti in strutture analoghe in Emilia Romagna, 4 gennaio 2017. ANSA/ ANDREA MEROLA

Proprio mentre scade il bando per l’apertura di un nuovo centro di accoglienza, ancora più grande di quello di Cona, il sindaco di Piove di Sacco (Padova), Davide Gianella, ha consentito in deroga la sepoltura di Sandrine Bakayoko, individuando il luogo dove celebrare il funerale domenica 22 gennaio. Ma già sabato 15 gennaio più di 400 persone si sono date appuntamento sulle rive dell’Adige per porgere il loro saluto a Sandrine. «Per chiedere scusa a lei ma anche a noi stessi. Per non essere riusciti a evitare l’ennesima tragedia, per avere perso tempo utile, per non esserci battuti ancora di più contro questa di Cona, che come altre di questo tipo sparse per l’Italia non rappresentano accoglienza ma negazione dei diritti umani basilari», dice il regista padovano Andrea Segre, presente all’iniziativa. «Bisogna prendere esempio dalle esperienze che funzionano, di accoglienza diffusa, e copiare quelle. Non è difficile».

Sul lungo Adige molti cittadini sfilano insieme a chi continua a vivere dove è morta Sandrine. Non si capacitano di essere costretti a restare dove con le temperature sempre più rigide è sempre più difficile stare. E poi l’eterna attesa. «Molti di loro vengono sfruttati nei capannoni delle grandi aziende della logistica. A casa non ci tornano, perciò in attesa dei documenti e di una possibilità di costruirsi una vita diventano pedine dei nuovi schiavisti», spiega Gianni Boetto di Adl Cobas. Mentre parla è circondato dai lavoratori, molti di origine straniera. Tutti si scambiano abbracci e sostegno. Tra loro ci sono anche due esponenti del Pd: l’ex sindaco di Padova ed ex ministro Flavio Zanonato, ora europarlamentare, e il consigliere regionale Piero Ruzzante. «È numericamente errato parlare di invasione», vuole sottolineare Ruzzante. «E chi lo fa specula sulla pelle di gente che fugge da fame e guerra perché, dati alla mano, le presenze di profughi in regione diminuiscono». Veniamo interrotti dalle note lontane di una preghiera africana. È il momento in cui i fiori vengono lanciati nelle acque del fiume.

Ma questi sono anche i giorni della scadenza del bando del nuovo hub. E in gara, ancora una volta, troviamo l’ex Ecofficina ora Edeco, la cooperativa di Stefano Borile che parte con tutti i favori del pronostico. Nato democristiano per poi accasarsi a Forza Italia, Borile ha fatto parte di diversi consigli di amministrazione di aziende di servizi, partecipate e altri enti. Ma è con un esponente del Pd come socio, Paolo Mastellaro, che fa nascere la sua prima cooperativa.

Questo articolo, integrale, lo trovate su Left in edicola dal 21 gennaio

 

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