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Prima di sputare sui profughi studiate l’orrore

Anche una come Ilda Boccassini, che per storia professionale deve avere ormai uno stomaco forte, ha detto in non avere mai visto «un orrore simile in 40 anni di carriera». Eppure la storia merita di essere raccontata, nonostante i conati, perché è una lezione di dolore che andrebbe urlata nelle orecchie a chi pontifica di profughi nullafacenti e che vengono da noi per trovare l’America. Perché prima di sputare sui profughi forse conviene studiare l’orrore.

L’inferno porta il nome di Osman Matammud, somalo ventiduenne trafficante di uomini con base a Bani Walid, Libia, dove un centro illegale di raccolta migranti riunisce coloro che cercano di partire (con rotte anche italiane) per scappare dall’inferno. I centri illegali di raccolta migranti sono le basi dei trafficanti che organizzano il viaggio: si resta lì reclusi finché il pagamento non è stato onorato. E le testimonianze riportano alle ferite più profonde della storia: botte, scariche elettriche, bastonate con mazze di ferro, violenze sessuali e omicidi sono all’ordine del giorno. «Se non arrivano i soldi – ha raccontato un testimone – si viene ammazzati di botte davanti a tutti e il cadavere rimane lasciato a terra per giorni per essere un monito per tutt». 7 mila euro costa il viaggio della salvezza (dalla Somalia all’Etiopia poi in Sudan e in Libia fino in Italia) e, tra le tappe, capita incontrare chi come Matammud gestiva una vera e propria “stanza delle torture”. «Quasi tutte le notti veniva a violentarmi, per tutto il periodo che sono stata lì», ha raccontato un’altra testimone.

Sì perché le indagini su Osman Matammud sono in carico alla Procura di Milano poiché proprio a Milano alcuni profughi l’hanno riconosciuto per strada. Il che ci racconta, tra l’altro, che le vittime di quelle torture, i sopravvissuti sarebbe meglio dire, sono qui, a Milano e nel resto d’Italia, a leccarsi le ferite ascoltando qualcuno che ancora insiste nel dirci che non c’è nessuna guerra, non c’è nessuna povertà, non scappano da nulla. E chissà come ridono a sentire queste cazzate i carcerieri come Osman Matammud.

Buon mercoledì.

Obama libera Chelsea Manning, che ha rivelato al mondo gli orrori dell’Iraq

In this undated file photo provided by the U.S. Army, Pfc. Chelsea Manning poses for a photo wearing a wig and lipstick. Manning, a transgender soldier now serving 35 years at the Fort Leavenworth, Kansas military prison for leaking classified information to WikiLeaks, is asking President Barack Obama to commute her sentence to the 6 1/2 years she has already served. (U.S. Army via AP, File) [CopyrightNotice: U.S. Army]

Una lunga campagna in rete e in strada. Appelli, petizioni e gli #hugsforChelsea, gli abbracci mandati via Twitter a Chelsea Manning, hanno funzionato. Il presidente Obama, a tre giorni dall’addio alla Casa Bianca, ha deciso di commutare la pena per l’ex soldato Bradley Manning, oggi divenuta Chelsea Elizabeth e in attesa di un cambio di sesso. Manning era stata condannata per aver passato decine di migliaia di documenti riservati a Wikileaks riguardanti le guerre in Afghanistan e Iraq e la prigione di Guantanamo. Tra questi il video di una strage compiuta da due elicotteri Apache in Iraq divenuto famoso come “collateral murder”.

Il video mostra come gli elicotteri abbiano preso di mira fotografi Reuters scambiandoli per uomini armati e poi attaccato un furgone fermatosi per prestare soccorsi, ferendo due bambini e uccidendo il loro padre. Il suo passaggio di documenti ha consentito al mondo di aprire gli occhi sulla guerra attraverso dati reali concreti e reali e non giudizi. Lo stesso è capitato alcuni anni dopo per il programma di sorveglianza della National Security Agency rivelato da Edward Snowden. Ma quello di Manning fu il primo caso, enorme e clamoroso, che in un certo senso ha cambiato la storia americana, quella dell’informazione e il modo in cui i cittadini guardano alla politica internazionale.

Collateral Murder
La decisione di Obama è la benvenuta: Manning per due volte ha tentato il suicidio e una prigionia nel carcere militare di Fort Leavenworth per una persona trasgender non sarebbe stata facile – o meglio sarebbe stata più dura che per un condannato qualsiasi. Manning uscirà, dopo aver scontato sette anni di pena in condizioni durissime e spesso in isolamento, il 17 maggio di quest’anno e non nel 2045. Manning ha cominciato la terapia di ormoni per cambiare sesso nel 2015 dopo l’approvazione delle autorità militari – che la ragazza resta un soldato.

Una delle prime reazioni è stata proprio quella di Edward Snowden, che ha twittato ringraziando sia Chelsea, che la gente che si è mobilitata per la sua liberazione e, infine, il presidente Obama.

 

Un altro è Glen Greenwald, uno dei giornalisti più impegnati nella diffusione e ricerca di notizie riservate e che per primo parlò con Snowden. Stessa cosa fa l’account twitter di Wikileaks il cui fondatore, Julian Assange, aveva promesso di costituirsi se Obama avesse liberato Manning. Vedremo: tutto sommato Assange ha dato una mano a Trump a essere eletto e potrebbe venire perdonato anche lui.

 

Nessuno ha perso la vita per le rivelazioni di Manning, che non riguardano azioni in corso e sono state pubblicate dai grandi quotidiani a cui sono state passate (Guardian, New York Times, El Pais, ecc.) dopo una consultazione con l’amministrazione Obama e una verifica sui nomi e i riferimenti pubblicati per non mettere in pericolo nessuno. Tra le altre cose che abbiamo scoperto ci sono le pressioni sui tedeschi perché non processasero personale Cia coinvolto nelle extraordinary rendition, i rapimenti di sospetti di collusione con al Qaeda in giro per il mondo, un numero impressionante di morti civili in Iraq che non conoscevamo.

In una dichiarazione che accompagnava la sua domanda di grazia, Manning aveva accettato «la responsabilità piena e completa» della sua decisione di passare il materiale a Wikileaks. La whistleblower si è dichiarata colpevole senza cercare di patteggiare perché riteneva che la sua motivazione – rivelare gli orrori ed errori della guerra – sarebbero stati capiti. «Ho sbagliato, ma 35 anni è molto più di quanto mi aspettassi». Ora Obama la rilascia e con lei commuta la pena anche a un piccolo gruppo di persone incarcerate per reati minori collegati all’uso di droga. Tornerà libero, dopo 35 anni anche Oscar Lopez Rivera indipendentista di Puerto Rico per il qale la campagna va avanti da decenni. Potrebbero essercene altri prima di venerdì. Sono buone notizie per la democrazia.

Cucchi fu ucciso dai carabinieri. Per Procura è omicidio preterintenzionale

Ilaria Cucchi durante la trasmissione "In 1/2h" condotta da Lucia Annunziata, Roma, 10 gennaio 2016. ANSA/CLAUDIO PERI

Stefano Cucchi fu ucciso a botte dai carabinieri che lo avevano in custodia. «Calci, pugni, schiaffi»: pestato a sangue, tanto da provocargli la morte sei giorni dopo in ospedale (il 22 ottobre del 2009).
Dopo otto anni, la procura di Roma chiude l’inchiesta bis sulla morte del giovane (aperta nel 2014) e riconosce ai tre militari che lo arrestarono – Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco – l’omicidio preterintenzionale. Una verità tanto, troppo attesa quanto nota. Che ribalta l’ipotesi della morte per epilessia, ritenuta dall’accusa del tutto infondata, stabilendo un nesso di causa-effetto tra le percosse e il decesso di Stefano. Obiettivo di questo secondo filone d’inchiesta, che aveva proprio il compito di rivalutare il “quadro di lesività” sul corpo della vittima.

Per i pm, il procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò, infatti, le botte e «la rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale» che ne conseguì, provocarono al giovane «lesioni personali che […] nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte».

Inoltre, per aver sottoposto Cucchi «a misure di rigore non consentite dalla legge», ai tre accusati è contestata anche l’abuso di autorità, con «l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, riconducibili alla resistenza di Cucchi al momento del foto-segnalamento». Chiusa l’indagine, si attende il rinvio a giudizio.

Calunnia e falso invece per gli altri due carabinieri coinvolti, il comandante Roberto Mandolini e il militare dell’Arma Vincenzo Nicolardi.
Finora, le sentenze avevano visto una serie di assoluzioni. Per i medici e infermieri che lavoravano al Pertini, così come per gli agenti penitenziari, nonostante per l’accusa fosse stato «torturato come Giulio Regeni».

Commovente la reazione della sorella di Cucchi, Ilaria. «Voglio dire a tutti che bisogna resistere, resistere, resistere. Ed avere fiducia nella giustizia», scrive, pubblicando una foto in cui abbraccia l’avvocato Fabio Anselmi, che ringrazia.

«Non lo so come sarà la strada che ci aspetta d’ora in avanti, sicuramente si parlerà finalmente della verità, ovvero di omicidio», è il commento di Ilaria Cucchi. «Ci gettiamo alle spalle sette anni durissimi, di dolore, di sacrifici, di tante lacrime amare. Ma valeva la pena continuare a crederci».

La Stasi e il “caso Holm”: A Berlino scricchiolano le alleanze a sinistra

Gerd Wiesler (Ulrich Mühe) bei seiner Arbeit.

La coalizione tra socialdemocratici (Spd), sinistra radicale (Die Linke) e verdi (Die Grünen) a Berlino è già sull’orlo di una prima crisi. E pensare che sono passati nemmeno due mesi dalla costituzione della nuova Giunta di governo.

Il motivo? Il Sottosegretario alle politiche abitative, Andrej Holm (Die Linke), si è dimesso dalla posizione, dopo un mese di polemiche legate al suo passato politico nella Germania dell’Est.

Ma chi è Andrej Holm? Innanzitutto un sociologo, esperto in materia di politiche abitative e “gentrificazione”, nonché un blogger e attivista. Holm rappresentava, fino a ieri, uno dei volti chiave della tanto attesa politica berlinese contro il caro-affitti. La lotta alla “gentrificazione” e alle emergenze abitative è infatti uno dei cardini del programma di coalizione firmato dai tre partiti di governo.

Qual è stato il “crimine” di Holm? Aver fatto parte della STASI – la polizia di Stato della Germania dell’Est –appena maggiorenne, poco prima della riunificazione tedesca. Eppure, riporta Die Zeit, non è tanto l’impiego nella STASI in sé ad aver creato la prima crisi di governo municipale a Berlino.

In particolare, come spiega Die Zeit, Holm è stato accusato di aver omesso intenzionalmente il “dettaglio” del suo arruolamento nella STASI, nel 2005, in occasione di un concorso per un posto di lavoro presso l’Università Humbold di Berlino.

Più in generale, il sindaco socialdemocratico di Berlino, Michael Müller, ha sostenuto che Holm avrebbe dimostrato di non essere in grado di “verificare gli elementi chiave della propria biografia politica e di trarne le conseguenze necessarie”. In parole semplici, Holm non sarebbe in grado di gestire il proprio passato. Le prove? Una serie di interviste e “uscite pubbliche” occorse durante gli scorsi mesi.Tecnicamente Holm si è dimesso, ma le pressioni da parte dei socialdemocratici e verdi sono state forti.

Holm ha pubblicato un lungo post sul proprio sito internet in cui afferma che il suo trascorso nella STASI era noto “già prima della sua nomina a tutti i partner di coalizione”. Inoltre, Holm ha accusato la Spd di voler usare il suo passato come pretesto per rallentare il piano di riforme in ambito abitativo a Berlino. Un modo chiaro e netto per dire che in ballo non c’è soltanto il suo nome, ma la tenuta dell’alleanza e una politica contro gli interessi forti del settore immobiliare.

Katja Kipping, leader nazionale di Die Linke, in un’intervista per Tageszeitung, ha ammesso che «sono necessari chiarimenti all’interno della coalizione» R2G berlinese. Inoltre, alla domanda se il “caso Holm” metta in dubbio la possibilità di accordi a livello federale tra le tre forze politiche, in vista delle elezioni del 2017, Kipping ha risposto: «Il caso Homs mostra come “non” si gestisce una coalizione”. Se si vuole un cambio politico si deve essere pronti a entrare in conflitto con le lobby e capaci di affrontare l’opposizione di interessi particolari».

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Con le leggi speciali anti-terrorismo è come vivere in 1984 di Orwell. La denuncia di Amnesty

epa05220504 BTR armoured personnel carriers of the Hungarian Army patrol the area along the temporary border fence on the Hungarian-Serbian border near Roszke, 180 kms southeast of Budapest, Hungary, 19 March 2016. Migration restrictions along the so-called Balkan route, the main path for migrants and refugees from the Middle East to the EU, has left thousands of migrants stranded in Greece. EPA/SANDOR UJVARI HUNGARY OUT

La foto qui sotto è scatta in campo della Serbia dove in questi giorni vivono rifugiati. I volontari che li hanno raggiunti assieme al personale Unhcr raccontano che agli operatori umanitari viene impedito di dar loro da mangiare e che quando, i volontari hanno portato loro del cibo, sono stati fermati dalla polizia perché «aiutare i rifugiati è illegale». Il contadino francese Cedric Herrou è sotto processo a Nizza per aver aiutato i migranti e lo scorso invero la polizia danese fece multe a cittadini che avevano dato un passaggio in auto a famiglie di siriani che camminavano sul ciglio della strada.


Peggio è andata ad Ahmed H, un cittadino siriano quarantenne residente a Cipro, che si era spostato lungo la rotta balcanica per aiutare la sua famiglia (genitori, un fratello, la cognata e quattro nipoti), che nel frattempo era scappata dalla Siria. Il 16 settembre 2015 la polizia ungherese aveva sigillato il proprio confine con la Serbia a Röszke/Horgoš e durante gli scontri tra polizia e migranti Ahmed tirò pietre ma anche, usò un megafono – i video in possesso per chiedere che la polizia ungherese e i rifugiati si calmassero. Dopo quegli scontri 11 persone sono state condannate per “attraversamento illegale della recinzione di confine” aggravato dalla “partecipazione ad una rivolta di massa”. I condannati sono anche entrambi i genitori anziani di Ahmed H. la cui madre è è parzialmente cieco. Ahmed è il solo ad aver subito una condanna anche per “atti di terrorismo”.

Cosa siamo diventati? A leggere il rapporto di Amnesty international pubblicato stamane, che segnala molti altri casi simili, anche in contesti diversi, da quello di Ahmed, siamo una società che diventa orwelliana. Le leggi di emergenza e speciali approvate nel corso degli anni per fare la guerra al terrorismo stanno minando alla radice la nostra civiltà giuridica e, quindi, la qualità della nostra democrazia, sostiene l’organizzazione internazionale per i diritti umani.

Il processo ad Ahmed H

Altri esempi?
La legislazione entrata in vigore in Ungheria fornisce ampi poteri al governo, nel caso in cui sia dichiarato lo stato d’emergenza, di vietare le manifestazioni, ridurre notevolmente la libertà di movimento e congelare conti bancari. Disposizioni scritte in modo vago consentiranno di sospendere le leggi ordinarie, adottarne rapidamente altre e impiegare l’esercito dotato di armi da fuoco per sedare i disordini.
In Polonia è consentito fare intercettazioni senza chiedere permesso a un giudice solo nei confronti di cittadini stranieri. In Francia lo stato d’emergenza consente alla polizia di decidere una perquisizione in casa senza permesso di un giudice. Nella stessa Francia, per impedire manifestazioni durante la conferenza sul clima, attivisti ambientalisti sono stati tenuti a casa in maniera preventiva Ci sono giornalisti fermati perché ritenuti “pericolosi”, come David Miranda, interrogato nove ore nel Regno Unito perché troppo vicino a Edward Snowden.
In Spagna, due burattinai sono stati arrestati e accusati di “glorificazione del terrorismo” dopo uno spettacolo satirico in cui una marionetta mostrava uno striscione che è stato considerato una forma di sostegno all’Eta. Ancora in Francia, l’analogo reato di “apologia del terrorismo” è stato usato per incriminare centinaia di persone, minorenni compresi, per “reati” tra i quali aver postato commenti su Facebook che non incitavano alla violenza. Nel 2015 i tribunali hanno emesso 385 condanne per “apologia del terrorismo”, un terzo delle quali nei confronti di minorenni. La definizione di cosa costituisca “apologia” è estremamente ampia. In Spagna, un noto musicista è stato arrestato per una serie di tweet tra cui una battuta su un regalo di compleanno all’ex re Juan Carlos sotto forma di torta esplosiva.

Inutile dire che i controlli, i modi nei confronti di migranti e richiedenti asilo sono più duri e meno attenti al rispetto dei diritti delle persone. Amnesty International parla di “psicoreati”, proprio come in 1984 di Orwell: «In un’attualizzazione degli “psicoreati” descritti in “1984” di George Orwell, è possibile incriminare persone per azioni che hanno relazioni estremamente tenui con effettivi comportamenti criminali. Poiché le misure anti-terrorismo insistono sempre di più sul concetto di prevenzione, i governi destinano risorse alle attività “pre-criminali” e si basano sempre di più su ordinanze amministrative di controllo per limitare la libertà di movimento e altri diritti…In tal modo, molte persone vengono poste sotto coprifuoco, sono colpite da divieti di viaggio o sorvegliate elettronicamente senza mai essere state incriminate o condannate per alcun reato. In molti casi gli indizi nei loro confronti sono tenuti segreti e le persone accusate di condotta “pre-criminale” non sono in grado di difendersi in modo adeguato».

Il tema posto da Amnesty è cruciale per una serie di ragioni. La prima è che la democrazia è un sistema di diritti e doveri e che stiracchiarne la natura la mette a rischio. Continuare a ripetersi di essere una civiltà superiore, come fanno i vari Orban e Le Pen, e dimenticare le ragioni vere per le quali l’Europa è ancora e nonostante tutto un buon posto dove vivere, è pura ipocrisia. La seconda, più stringente persino se uno se ne infischiasse della democrazia, è che prendendo di mira rifugiati, migranti e stranieri in genere si alimenta la propaganda delle organizzazioni terroristiche e si fornisce manodopera al terrorismo. La terza è che, lo hanno sostenuto tutti gli esperti di anti terrorismo interrogati dopo la scoperta delle torture e del waterboarding negli Stati Uniti, non è violando i diritti che si prevengono gli attentati o si individuano i colpevoli. La tortura non è servita a prevenire nulla, servono intelligence, condivisione di informazione tra agenzie e lavoro nei quartieri. Violare i diritti è solo un pericolo per l’Europa. Persino a prescindere da quel che si pensa del destino di persone in fuga dalla guerra come i familiari di Ahmed.

Il video della storia di Ahmed

Benvenuti a Davos, dove i potenti si preoccupano del futuro del mondo

epa05721425 Police is on guard next to the Congress Center during the 47th annual meeting of the World Economic Forum (WEF) in Davos, Switzerland, 16 January 2017. The annual meeting brings together business leaders, international political leaders and select intellectuals, to discuss the pressing issues facing the world. The overarching theme of the 2017 meeting, which takes place from 17 to 20 January, is 'Responsive and Responsible Leadership'. EPA/GIAN EHRENZELLER

Tre giorni, circa 3mila invitati – che solo così si entra – e membri che pagano 585mila dollari l’anno per far parte del club della élite mondiale che si riunisce una volta l’anno sulle alpi svizzere di Davos. L’appuntamento del World Economic Forum 2017 ha come titolo “Leadership responsabile ed efficiente” ed è interessante che il primo ospite sia Xi Jinping, il presidente cinese e che partecipa per la prima volta al Forum e che è presente con una folta delegazione commerciale. Tra gli altri ci sono anche Theresa May, che dovrà in qualche modo rassicurare i giganti della finanza sulla sua Brexit (oggi a Londra presenterà il suo piano, solo poi sarà in Svizzera), Joe Biden, che saluta presenta la sua campagna per la ricerca anti cancro, Bill Gates, Matt Damon e mille altri. Nei panel c’è una forte presenza di donne, molto meno tra gli ospiti. Segno che nelle grandi imprese – che la gran parte degli ospiti sono investitori e amministratori delegati – i piani alti sono ancora forti le discriminazioni.

A Davos ci sono investitori e clienti, leader e giornalisti e tutti si interrogano, nel lusso di una stazione sciistica, su dove stia andando il mondo. Si tratta di un club esclusivo che per anni è stato l’oggetto della protesta dei movimenti globali contro la globalizzazione e che, da qualche tempo a questa parte mette l’accento sui grandi problemi del pianeta in maniera più critica – una caratteristica in comune con diverse altre istituzioni transnazionali che hanno spinto la globalizzazione così come la conosciamo per poi scoprirne i difetti. Negli ultimi anni si è parlato di cambiamento climatico e di quarta rivoluzione industriale – i robot.

Se le tendenze di lungo periodo, gli scenari, sono una forza di Davos, le previsioni a breve termine non sembrano esserlo: lo scorso anno il tema non era la crescita delle forze politiche populiste. Eppure, nella conferenza stampa di apertura, il fondatore del club, Klaus Schwab ha sentito il bisogno di citare se stesso in un articolo di 21 anni fa per dire che la globalizzazione non può essere solo a vantaggio di alcuni e che. altrimenti, ci sono pericoli per la tenuta del sistema democratico. «Senza progresso sociale e responsabilità non c’è futuro. È nostro scopo originario connettere la responsabilità con la crescita. E speriamo che il mondo ascolti il nostro messaggio e per questo abbiamo parlato di leadership efficace e capace di ascoltare», ha detto Schwab.

Il meeting si articola su 4 piani: rilanciare la crescita economica mondiale, assicurare una maggiore capacità di inclusione del mercato capitalistico – «senza solidarietà tra perdenti e vincenti il sistema non si tiene» – il terzo pilastro è la quarta rivoluzione industriale, la reinvenzione delle corporations globali «forse il più importante di tutti». Le corporations, ci fanno insomma sapere che è giunta l’ora di ripensare il proprio modello di business.

Vedremo e capiremo cosa vuol dire in questi quattro giorni. Certo è che la globalizzazione è in gran ritirata e che al World Economic Forum, che difende l’idea della globalizzazione e teme la ritirata dell’economia dei confini nazionali, prova a ripensarsi. L’invito a Xi Jinping, che con un’economia pensata per l’esportazione, teme la chiusura delle frontiere tanto molto più di Schwab e per certo teme la presidenza Trump, è un segnale di come gli equilibri del 2017  siano già mutati.

La diretta dei panel più importanti

Ci accaniamo con i diversi mentre irrancidiamo diseguali

epa05540429 Residents walk past a beggar on a street in Bogor, Indonesia, 15 September 2016. According to the Indonesian Central Bureau of Statistics (BPS), the number of poor people, the population with per capita per month below the poverty line, in Indonesia in March 2016 reached 28.01 million or equivalent to 10.86 percent of the total population of Indonesia. Based on the BPS poverty profile, the amount of poverty in rural areas declined, but the percentage of poor people increased. EPA/ADI WEDA

Se avessimo lo stesso nerbo che sprechiamo con le diversità anche nel combattere le diseguaglianze saremmo un mondo con un’equa distribuzione di diritti e di doveri; smetteremmo di accanirci sulle terre, come cani a difendere gli spazi, e potremmo alzare lo sguardo per discutere di possibilità. Se riuscissimo a ragionare per uguaglianza piuttosto che sottrazione sarebbe facile separare le tesi politiche (così diverse, anche opposte) dalle imposture e forse ci distoglieremo dall’autopreservazione imparando la cura.

I dati del rapporto Oxfam non sono diversi dall’anno scorso (e, secondo il rapporto, non saranno troppo diversi negli anni a venire) ma nascondono sotto i numeri una sceneggiatura quotidiana e diffusa: mentre filosofeggiamo di democrazia, autoritarismo e post verità continuiamo a non renderci conto che la stortura è quella di avere una classe dirigente (questa sì non eletta, non controllata, non responsabilizzata e difficilmente controllabile) che si riunisce intorno a un tavolo, una classe dirigente di poche tasche in cui sta la ricchezza del mondo e che potrebbe rovesciare intere economie decidendolo al tavolino di un caffè.

Un sistema politico post-pubblicitario che ha bisogno di denaro per comprarsi la necessaria visibilità e per costruirsi consenso ha poche porte a cui bussare per ottenere i mezzi indispensabili alla partita delle elezioni. Facile immaginare chi serviranno una volta preso il potere.

Dentro i numeri di quel rapporto c’è scritto a chiare lettere che dalle nostre parti il mantenimento dello status quo è la partita economica più rilevante. Gli altri, tutti gli altri, possono sperare di vincere la guerra nei bassifondi per giocarsi una realizzazione che è poco più della sopravvivenza. Dentro i numeri di quel rapporto c’è scritto che la politica  è saltata perché i numeri non pesano tutti allo stesso modo.

E quel rapporto ci dice che anche quest’anno forse l’abbiamo sprecato a inseguire urgenze irrilevanti. Forse.

Buon martedì.

Le foto dei rifugiati della Seconda Guerra mondiale e di oggi a confronto

Qualche tempo fa la rivista Time aveva chiesto a Sanna Dullaway di ricolorare alcune delle foto più rappresentative che ritraggono i rifugiati durante la seconda guerra mondiale. Vi riproponiamo alcune di quelle immagini perché troviamo siano molto attuali visto che ci ricordano quelle di cronaca che abbiamo visto in questi giorni con i migranti bloccati al confine, in Grecia e nei Balcani, costretti a soffrire le rigide temperature invernali e, più in generale, quelle che abbiamo visto sui giornali durante tutto il 2016.

Gennaio 2017. Migranti affrontano il freddo a Belgrado senza essere equipaggiati in modo opportuno. Le organizzazioni umanitarie hanno già lanciato l’allarme © Save the Children

 

Settembre 1945. Un campo profughi a Berlino.

 

Marzo 2016. La fuga dei migranti dal campo profughi di Idomeni attraverso un fiume gelato.

Maggio 1945. Migranti in fuga dalla Seconda Guerra Mondiale cercano di attraversare il fiume Elbe a Tangermunde.

Marzo 1945. Campo profughi in Germania.

Dicembre 1945. Profughi polacchi si riposano lungo i binari del treno dopo aver camminato da Lodz in Polonia fino a Berlino.

Maggio 2016. Rifugiati cercano di attraversare il confine con la Grecia trasportando come possono le cose che gli sono rimaste.

1945. Una donna tedesca rimasta senza casa a Colonia seduta con tutte le cose che le rimangono guarda le rovine di quella che prima era la sua città, pronta a partire.

Migranti bloccati in Grecia ricevono i primi soccorsi e aspettano di poter raggiungere un’altra destinazione.

1945. Migranti aspettano di essere trasportati altrove in una strada di La Gleize in Belgio.


2016. In fuga da Aleppo.

1940. Migranti in fuga da Parigi che sta per essere invasa dai nazisti.