Home Blog Pagina 957

Una rosa per Sandrine Bakayoko (e la lettera del sindaco che ne consentirà la sepoltura)

Il 22 gennaio si svolgeranno i funerali di Sandrine Bakayoko, morta nel centro per rifugiati di Cona. Su Left in edicola sabato prossimo racconteremo ancora di quel centro e dell’accoglienza in Italia. Per ora basta la lettera del sindaco di Piove di Sacco, Davide Gianella, che consentirà, in deroga ai regolamenti comunali, una degna sepoltura a Sandrine. Nei giorni scorsi si è tenuta una cerimonia di commemorazione sulle rive dell’Adige e questo è il video che abbiamo girato. Qui sotto la bella lettera del sindaco a Sandrine.

Cara Sandrine, mi scuso con te a nome di tutti, perché abbiamo perso l’umanità, perché pensiamo che i rapporti umani e personali siano solo quelli basati sugli auguri di Natale, quando siamo tutti più buoni, o meglio più ipocriti.

Però la monetina al povero che ci lava la coscienza non ha mai risolto i problemi, ed ora ce ne rendiamo conto più che mai di come non basti più, perché anche le monetine finiscono in fondo al mare, annegate. E non ci sono buonisti stupidi e cattivi realisti, si tratta di essere uomini. Sofocle ci racconta della principessa Antigone che doveva scegliere se obbedire alla legge degli uomini o a quella superiore della coscienza, non scritta. Scelse l’umanità ed il re l’uccise. Oggi però l’unica strada perché il mondo rimanga tale, è solo quella dell’umanità, dell’accoglienza diffusa, di esperienza di piccoli gruppi inseriti nel territorio.

Di fronte a questa grande sfida della modernità – le migrazioni – ho scelto insieme alla mia amministrazione di fare la mia parte, di mettere insieme il tessuto sociale di una vittà da 20.000 anime e far vedere che un’accoglienza è possibile. È stato difficilissimo, perchè per accogliere bisogna essere, bisogna mettersi in discussione. Piove di Sacco è capofila del progetto sprar (sistema accoglienza protezione rifugiati politici) che accoglie 50 persone, che stiamo inserendo nel mondo del lavoro e che stanno imparando ad essere europei, nonostante la storia che li ha rigati e segnati irrimediabilmente dentro.abbiamo coinvolto anche altri 3 comuni, Montegrotto Rubano e Ponte San Nicolò.

L’esperienza funziona, ne ho avuto la certezza sedendomi a tavola e parlando con i ragazzi che ospitiamo, Afgani e pakistani, che ci hanno preparato piatti tipici, ma la strada è lunga. Umanità non è sinonimo di bontà, anche, ma di ciò che siamo, di riconoscersi persone tutte co i nostri limiti, con i nostri diritti, i nostri sogni ed i nostri sentimenti.

Ecco dunque che Piove di Sacco darà ospitalità anche a te Sandrine, con l’augurio che l’ingiustizia profonda di campi non-accoglienza da centinaia di persone come questo termini quanto prima, così da porre fine anche alle cooperative pigliatutto e a business che non dovrebbero neppure esistere, con la speranza che ci possano essere non solo amministratori che siano in grado di scegliere l’accoglienza diffusa – esperienza possibile e necessaria – ma anche governatori centrali ed europei che sappiano stare vicino a chi compie scelte di futuro volte all’accoglienza.

E non serve essere coraggiosi, speciali, particolari, basta essere uomini, con coscienza e responsabilità.

Buona giornata a tutti, a presto Sandrine.

Davide Gianella

Sindaco di Piove di Sacco

Rapporto Oxfam. Quando la ricchezza di pochi è un freno per il benessere di tutti

epa05630004 Two Roma man pick garbage out of trash containers near the center of Skopje, The Former Yugoslav Republic of Macedonia, 13 November 2016. Macedonia is one of the rear European countries in which the Roma people have their political parties and representatives in the parliament and also a major in one of Skopje's municipalities. Despite all of this, a majority of them lives in poverty. EPA/GEORGI LICOVSKI

Otto uomini da soli possiedono la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone, cioè la metà più povera dell’intera popolazione mondiale. Ecco qualche dato diffuso con l’ultimo rapporto Oxfam alla vigilia dell’apertura del World Economic Forum di Davos (prevista per il 17 gennaio) che fa riflettere su quanto siano in aumento la diseguaglianza sociale e la povertà.

Dal 2015 l’1% più ricco dell’umanità possiede più ricchezza netta del resto del pianeta.
Come ha ricordato Barack Obama lo scorso settembre di fronte all’assemblea della Nazioni Unite: «un mondo in cui l’1% possiede la stessa ricchezza del restante 99% è un mondo che non può essere stabile».

Le disuguaglianze sono destinate ad aumentare. Secondo le stime di Oxfam infatti nei prossimi 20 anni 500 persone trasmetteranno ai propri eredi circa 2.100 miliardi di dollari, una somma superiore al prodotto interno lordo dell’India dove vivono 1,3 miliardi di persone, la maggior parte delle quali in situazioni di estrema povertà.

Negli ultimi vent’anni i redditi del 10% più povero dell’umanità sono aumentati di meno di 3 dollari l’anno. Quelli dell’1% più ricco della popolazione di 187 volte. Mentre negli Usa, negli ultimi trent’anni, a quanto riporta l’economista francese Thomas Piketty, se da un lato i redditi del 50% più povero della popolazione sono cresciuti dello 0%, quelli invece dell’1% più ricco sono aumentati del 300%.

Un amministratore delegato di una delle cento società principali quotate in borsa (quelle dell’Ftse 100 che possiedono circa l’80% della capitalizzazione di mercato del London Stock Exchange, una principali piazze finanziarie al mondo, nonché la prima in Europa per capitalizzazione) guadagna tanto quanto guadagnano in media circa 10mila lavoratori di una fabbrica qualsiasi di abbigliamento in Bangladesh.
A dicembre 2016 qualcuno ha osato protestare: migliaia di operai bengalesi sono scesi in piazza per scioperare contro le condizioni di lavoro disumane alle cui erano sottoposti e i salari bassissimi con cui venivano retribuiti dai grandi marchi di abbigliamento per i quali lavoravano (Gap, H&M e Zara, per nominarne qualcuno). I risultato sono stati licenziamenti di massa, almeno 1500 persone sono state licenziate in tronco per aver partecipato alle manifestazioni sindacali che in molti casi sono state addirittura dichiarate illegali dalle autorità locali.

In Vietnam la persona più ricca del Paese guadagna in un solo giorno più di quanto la persona più povera guadagna in 10 anni.

E poi ci sono loro, gli 8 paperoni che insieme possiedono quanto la metà più povera del pianeta. Al primo posto troviamo il fondatore di Microsoft Bill Gates con un patrimonio di 75 miliardi di dollari, più o meno lo stesso Pil dell’intera Libia, sette volte il Pil del Burkina Faso. Al secondo posto il proprietario di Zara, Amacio Ortega, uno che prima ha costruito la sua fortuna dal nulla e poi sul basso costo della manodopera delle sue fabbriche in Bangladesh, ha un patrimonio di 67 miliardi di dollari. Oltre a Zara possiede Bershka, Massimo Dutti, Pull and Bear, Stradivarius e Oysho. È invece Warren Buffett con 60,8 miliardi di dollari il terzo uomo più ricco al mondo. Segono i tre miliardari sul podio in ordine di ricchezza: Carlos Slim, proprietario del Grupo Carso, oggi il più importante colosso della telefonia dell’America Latina, Jeff Bezos papà di Amazon, Mark Zuckerberg ideatore di Facebook, Larry Ellison cofounder ed ex Ceo di Oracle Corporation e Micheal Bloomberg.

La disuguaglianza ha assunto dimensioni intollerabili, economia e politica si intrecciano aprendo così a scenari di instabilità. Si legge nel report di Oxfam: «Dalla Brexit al successo della campagna presidenziale di Donald Trump, da una preoccupante avanzata del razzismo alla sfiducia generalizzata nella classe politica, sono tanti i segnali che indicano come sempre più persone, nei Paesi industrializzati, non siano più disposte a tollerare lo status quo». E ancora: «Se lasciata senza controllo, la crescente disuguaglianza minaccia di lacerare le nostre società, causa un aumento della criminalità e dell’insicurezza e pregiudica l’esito della lotta alla povertà».
La sfida è dunque a tutti gli effetti la riduzione del divario fra ricchi e poveri, una sfida che rimette in discussione l’intero sistema occidentale di accumulo della ricchezza, ma che conviene a tutti, anche ai super ricchi. Come scrive infatti su agi.it il condirettore dell’agenzia di stampa Marco Pratellesi: «Questa estremizzazione nella distribuzione delle ricchezze travalica ogni contrapposizione tra ricchi e poveri per diventare essa stessa un freno allo sviluppo e alla crescita, all’innovazione e alla pacifica convivenza. Il paradosso è che l’attuale sistema economico, che beneficia sempre più ristrette cerchie di pochi fortunati, finisce per danneggiare anche quest’ultimi, sempre più attratti dalla moltiplicazione finanziaria dei profitti, piuttosto che dalla ricerca di nuovi spazi di economia reale, innovazione e sviluppo sui quali investire e sperimentare».

Wolfgang Schäuble: «L’Fmi non è fondamentale per salvare la Grecia»

«Se il Fondo monetario internazionale (Fmi) dovesse decidere di tirarsi fuori dal programma di salvataggio greco, l’Eurozona potrebbe trovare una soluzione autonomamente». Sono le parole pronunciate dal Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, venerdì 13 gennaio, durante un’intervista con il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung.

Nell’eventualità appena descritta, gli Stati membri dell’Eurozona dovrebbero però «garantire in maniera più solida il rispetto degli accordi» ha affermato Schäuble. Come? Attraverso il coinvolgimento del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), diretto dal connazionale, Klaus Regling.

È la prima volta che Schäuble apre la porta a un programma di salvataggio senza la partecipazione del Fmi. Su Euractiv si legge che la notizia sarebbe stata presa molto bene ad Atene. Secondo alcune fonti vicino al governo Tsipras, «l’idea che l’Europa abbia gli strumenti istituzionali per far fronte autonomamente alla crisi economico-finanziaria greca non è nuova. Ed è un’opinione che sta prendendo piede a livello istituzionale in Europa, oltre a essere benvenuta in Grecia. Se ci sarà una decisione in questo senso, è importante che venga presa rapidamente».

Ma Schäuble ha anche precisato e ricordato ad Atene che, nel caso di un fallimento del programma in corso, dovrebbe negoziare un altro accordoIn poche parole, il messaggio è il seguente: se il Fmi lascia la presa, la musica non cambierà: pena il fallimento dell’accordo di bailout. A quel punto, qualsiasi nuovo programma dovrebbe passare per il Parlamento federale tedesco (Bundestag) con tutte le complicazioni del caso, soprattutto se il Fmi non sarà della partita. La partecipazione di Washington al salvataggio era infatti stata una condizione “necessaria” per l’approvazione del terzo piano di bailout da parte del Bundestag nell’estate del 2015.

In ogni caso, le parole di Schäuble rappresentano una svolta importante, visti i disaccordi tra istituzioni europee, Paesi membri dell’Eurozona e Fmi che hanno rallentato il progresso del programma durante gli scorsi mesi.

Schäuble ha poi parlato della politica monetaria della Banca centrale europea (Bce). Su questa non ha cambiato idea: «Sarebbe corretto se, durante il 2017, la Bce decidesse di iniziare una graduale ritirata dalla politica monetaria espansiva». Anche altri economisti tedeschi si sono pronunciati allo stesso modo durante le scorse settimane.

Schäuble ha ricordato che i problemi dei risparmiatori tedeschi «cresceranno con il previsto aumento dell’inflazione», ma ha anche ammesso che, ai tempi del marco, «i tassi di interesse eguagliavano appena l’aumento del livello dei prezzi».

Con un occhio alle elezioni del prossimo settembre, ha poi sottolineato che «sarà importante spiegare ai cittadini [tedeschi] che la moneta comune è foriera di vantaggi per la Germania, nonostante tutti i rischi ed effetti negativi annessi».

 

Leggi anche:

Regno UnitoThe GuardianMartedì 17 gennaio, il Primo ministro britannico, Theresa May, rivelerà al pubblico i piani del governo per la Brexit. E i mercati finanziari fanno già le “orecchie da mercante”

SlovacchiaThe Slovak Spectator –  Secondo la New Yor Syracuse University, la Slovacchia è il miglior Paese al mondo per il numero di librerie a disposizione dei propri cittadini

Women’s march, per i diritti delle donne e degli immigrati

Un fiume di donne travolgerà il presidente Trump il 21 gennaio. Finita la cerimonia di insediamento le strade di Washington si riempiranno di manifestanti. Si prevedono circa 100mila presenze alla Women’s march del prossimo sabato. La misoginia e il razzismo di Donal Trum, incredibilmente, hanno fatto incontrare le ragioni di immigrate, femministe e celebrities come Scarlett Johansson, Cher, Julianne Moore and Frances McDormand, che hanno annunciato la loro partecipazione alla marcia, intorno a una piattaforma decisamente politica in cui all’ordine del giorno ci sono battaglie importanti che partono dal rifiuto delle disuguaglianze, il rifiuto del bigottismo dei pro choiche, rifiuto dello sfruttamento dei lavoratori precari e senza contratto, rifiuto della criminalizzazione degli immigrati.

Tutto è partito dalla discussione intorno al tanto atteso Equal Rights Amendment, per conquistare parità di pagamenti fra uomini e donne, congedo familiare retribuito. Ma il punto centrale è  la fine della violenza contro le donne. Gli organizzatori hanno steso un manifesto d’intenti progressista chiedendo più giustizia sociale osando una parola quasi mai sentita nell’America del self made man e  fondata sullo schiavismo: “uguaglianza”. Una parola che ha risuonato solo all’epoca di Occupy Wall Street e che, si temeva, fosse morta e sepolta nell’America di Trump.

Fra le ispiratrici della piattaforma troviamo figure di spicco del femminismo che abbracciano un ampio spettro di temi e di istanze: da Harriet Tubman, Gloria Steinem, Audre Lorde, Malala Yousafzai, passando per Dolores Huerta leader del movimento dei lavoratori e per i diritti civili nonché cofondatrice della  National Farmworkers Association, o Wilma Mankiller, la prima donna a capo della nazione Cherokee, e Sylvia Rivera, una donna transessuale fra le leader della rivolta di Stonewall.

La marcia delle donne del 21 gennaio, dunque,  sarà una manifestazione di donne che allargano lo sguardo alla società per denunciare la brutalità e il razzismo della polizia per chiedere la smilitarizzazione delle forze dell’ordine americane e la fine della carcerazione di massa, che riguarda soprattutto le fasce più povere e discriminate. I manifesti parlano chiaro rivisitando in maniera originale la grafica delle proteste degli anni Settanta contaminandola con la street art: si parla di lotta contro la discriminazione e per l’assistenza sanitaria, si parla di battaglie per l’auto determinazione, per la contraccezione, per avere la possibilità di abortire  in tutti gli Stati. E vanno insieme qui con quelle dei movimenti per i diritti delle prostitute e  lavoratori domestici. Nessuno è escluso. Si parla di aborto legale e sicuro, di assistenza sanitaria riproduttiva per le donne di tutti i redditi. Per quanto riguarda l’immigrazione, “noi rifiutiamo deportazione di massa, detenzione di intere famiglie, le violazioni del giusto processo e la violenza contro queer e trans  e migranti “, si legge nella dichiarazione. “Ci rendiamo conto che l’immigrazione  non  è una questione che si limita agli Stati Uniti, perché c’è una crisi migratoria globale. Crediamo che la migrazione sia un diritto umano e che nessun essere umano  sia illegale”. Dalla fine del mese scorso  hanno cominciato ad aderire organizzazioni di base come Planned Parenthood, Amnesty International, la NAACP, e altre organizzazioni con agende esplicitamente politiche. Donald Trump è avvertito.

 

Trump l’anti europeo: contro Merkel sui rifugiati (che chiama clandestini)

President-elect Donald Trump arrives for a news conference in the lobby of Trump Tower in New York, Wednesday, Jan. 11, 2017. (ANSA/AP Photo/Evan Vucci) [CopyrightNotice: Copyright 2017 The Associated Press. All rights reserved.]

A Donald Trump non piacciono l’Europa, la Germania, gli immigrati, la Nato: “Ooops I did it again” (Ooops, l’ho fatto di nuovo) è una vecchia e brutta canzone di Britney Spears, che non è famosa per aver cambiato la storia della musica. Il titolo potrebbe essere rimaneggiato in “Ooops lo ha fatto di nuovo” e riferito a Donald Trump, che con tre interviste del weekend ha fatto nuove promesse difficili da rispettare e dato un altro colpo alla politica estera degli Stati Uniti – non a quella di Obama, ma a quella americana in generale.

Partiamo dalle prime due, concesse alla tedesca Bild e a Michael Gove del britannico Times, deputato conservatore campione della Brexit, che ha cercato invano di diventare premier per poi ritirarsi – un pessimo personaggio: era alleato di Cameron, prima di passare con Boris Johnson a guidare la campagna anti Ue e poi tradire anche lui, per cercare di prendersi il posto oggi di Theresa May. Nell’intervista il presidente eletto sostiene che «il Regno Unito ha fatto benissimo a uscire dall’Europa, divenuta un veicolo della Germania», promette un accordo commerciale bilaterale con Londra, spiega che l’uscita dall’Europa farà bene al Paese e dice di aspettarsi scelte simili da altri Paesi. In poche parole fa il tifo attivo per la dissoluzione dell’Unione europea.

Trump con Michael Gove, notare la copertina di Playboy sullo sfondo. Molto presidenziale

Parlando di Merkel, il futuro presidente Usa ne critica la politica di apertura nei confronti dei migranti e richiedenti asilo. La risposta vale la pena di essere riportata tutta:«Penso che abbia fatto un errore catastrofico a prendere tutti questi clandestini,  facendo entrare tutte quelle persone che nessuno sa ancora da dove vengano…La gente, i Paesi, vogliono difendere la propria identità e il Regno Unito hanno voluto tenersi la propria. Se non fossero stati costretti a prendere tutti quei profughi, con tutti i problemi che comportano, non ci sarebbe stata la Brexit». Trump scambia la realtà con le fake news in vario modo e prende a prestito gli argomenit della campagna per la Brexit: quelli entrati in Germania sono soprattutto siriani in fuga dalla guerra e non clandestini, lo spettro degli stranieri è stato l’argomento forte della campagna referendaria britannica, spesso fatta utilizzando numeri inventati, infine parla di identità, come la destra populista europea. E infatti il presidente eletto aggiunge che «non mi stupirei se altri Paesi lasciassero l’Europa presto». Un incoraggiamento suggellato dalle telefonate fatte a diversi leader Ue in queste settimane nelle quali l’argomento dell’uscita e la domanda «Chi è il prossimo?»  è stata fatta a più riprese – lo ha rivelato l’ambasciatore americano a Bruxelles Gardner, dimissionario e molto critico: «Dovremmo fare di tutto per tenere l’Europa unita», ha detto.

Parlando di fiducia nei leader stranieri, Trump equipara il presidente russo Putin alla Cancelliera tedesca: «Comincio la presidenza fidandomi di entrambi, ma potrei presto perdere la fiducia». Poi critica la Nato che non fa la lotta al terrorismo e i cui membri non fanno la loro parte, minaccia le industrie tedesche di imporre dazi se le auto che vendono negli Usa non saranno costruite negli Usa. Dazi che vedrebbero una risposta tedesca immediata. Con conseguenze pericolose.

Quanto all’Europa, Trump ha anche detto che ci potrebero essere restrizioni ai viaggi dei cittadini Ue verso gli Usa: «Solo parte dell’Europa… c’è gente che entra e crea problemi, non li voglio».

Le interviste segnalano un approccio del presidente eletto identico a quello di Steve Bannon, suo stratega e membro dell’estrema destra americana in combutta con quella europea. In sueste settimane Trump ha incontrato il leader dell’Ukip Nigel Farage e Michael Gove, prima di vedere la premier Theresa May (che sarà a Washington molto presto). Due interviste nelle quali Trump mostra ancora una volta di non avere senso della diplomazia, in cui maltratta gli amici di sempre mettendoli sullo stesso piano di Paesi con cui gli Usa sono ai ferri corti, si intromette negli affari europei. Un pessimo, pessimo inizio.

Anche in casa le cose sono confuse. Parlando con il Washington Post Trump ha promesso una nuova legge slla sanità in poche settimane e capace di costare di meno e coprire il 99% dei cittadini Usa. Ora: nessuno sa cosa abbia in testa e lui non ha dato particolare – probabilmente non ne ha – ma di certo l’idea di una riforma nuova di zecca, capace di rimpiazzare in settimane quella Obama e di costare meno e anche coprire di più, sembra una cosa molto improbabile. Sul tema le tensioni con il Congresso a maggioranza repubblicana potrebbero essere enormi. Intanto in giro per gli Usa, nel weekend, migliaia di persone sono scese in piazza per difendere la rifroma sanitaria Obama e gli immigrati a rischio deportazione.

Los Angeles, una delle tante manifestazione pro-immigrati prima dell’inaugurazione di Trump

Trump è anche ai ferri corti con le agenzie di intelligence. Il capo della Cia uscente Brennan, che ha definito «oltraggioso» il paragone tra le agenzie di sicurezza e  la Germania nazista fatto da Trump dopo che il dossier di dubbie origini sui suoi legami con la Russia è stato reso noto. «Non siamo stati noi a diffonderlo, era pubblico».

Oltra al fronte aperto con la comunità dell’intellgence, Trump ha anche ataccato John Lewis, rappresentante afroamericano, leader storico del movimento per i diritti civili e sodale di Luther King. Due giorni prima del Martin Luther King Day, Trump ha twittato che Lewis (che ha molto criticato la nomina del razzista Jeff Sessions a Segretario alla Giustizia) è uno che «sa solo parlare e non fa nulla». La reazione della comunità nera è stata furibonda: Lewis è uno che è stato picchiato e arrestato dalla polizia decine di volte negli anni 60 ed è una delle figure più rispettate del Congresso.

Anche per i suoi insulti a Lewis, una serie di membri del Congresso hanno annunciato che non saranno all’inaugurazione del 20. Il 21 a Washington si tiene la Women’s March (la stessa che c’è stata anche a Roma e in mille altre città del mondo) e, sembra di capire, sarà una delle più grandi manifestazioni di sempre. Donald Trump potrebbe arrivare a dire che il successo della manifestazione è merito suo. E in qualche senso avrebbe ragione.

Auguri Giulio. Anche quest’anno niente verità

Participants in the torchlight to remember Giulio Regeni, an Italian student murdered in Cairo (Egypt), in front of the Pantheon, in the centre of Rome, Italy, 25 July 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Ieri si festeggiava il ventinovesimo compleanno di Giulio Regeni. La festa non c’è stata perché non c’è più Giulio ma non è arrivata nemmeno la cortesia. La cortesia di sapere che davvero, una volta per tutte, abbiamo imparato come non permettere di seppellire la memoria dei morti per niente. Giulio è morto ma la storia di Giulio Regeni non è più attualità politica, non porta consenso immediato e non fa guadagnare trafiletti sui giornali.

Ecco, io penso che non ci sia niente di più ingeneroso verso una famiglia della presa di coscienza di una morte che rischia di diventare fuori moda. E per evitarlo c’è il bisogno di tutti: una verità che è stata sulle prime pagine internazionali continua ad avere ossigeno anche solo per un tweet, un post sul blog, uno status su Facebook e uno striscione appeso fuori casa. Il ricordo e la ricerca di verità non ha padri nobili, mai: quelli passano solo mentre il banchetto è ricco ma molto spesso il risultato si è raggiunto frugando tra gli avanzi.

Facciamo un regalo a Giulio Regeni. A lui e alla sua famiglia. Troviamo un minuto, anche solo qualche secondo, per prenderci ognuno una manciata di terra con cui vorrebbero seppellire la storia. Ci farà bene a tutti. Farà bene a noi e farà bene a Giulio.

La verità è un bene raro e prezioso, per questo qualcuno vorrebbe risparmiarla.

Buon lunedì.

Stranieri in casa propria

This photo taken on May 21, 2015 shows an ethnic Rohingya Muslim woman looking back as she rides a tuk tuk near a camp set up outside the city of Sittwe in Myanmar's Rakhine state. Malaysia ordered search and rescue missions on May 22 for thousands of boatpeople stranded at sea, as Myanmar hosted talks with US and Southeast Asian envoys on the migrant exodus from its shores. AFP PHOTO / YE AUNG THU (Photo credit should read Ye Aung Thu/AFP/Getty Images)

Frustate, calci in faccia e sulla schiena. Un poliziotto birmano con la sigaretta in bocca filma con il telefonino le violenze dei suoi colleghi, con l’aria fiera e lo sguardo fisso sulla videocamera. Seduti per terra, in cattività, con le gambe protese in avanti e le mani dietro la nuca, centinaia di persone senza cittadinanza. Sono i Rohingya, un popolo musulmano stanziato a Nord dello Stato occidentale del Rakhine, il più bistrattato e perseguitato del Myanmar. La legge di Cittadinanza del 1982 non li include neppure tra le 135 “razze nazionali” del Paese multietnico. Per il governo, e le popolazioni buddiste confinanti, non si tratta nemmeno di un popolo, ma di immigrati illegali arrivati dal Bangladesh e quindi titolari di nessun diritto.

Il video girato qualche settimana fa dal poliziotto ha fatto il giro del web suscitando scalpore, almeno quanto le immagini dei profughi fuggiti su imbarcazioni di fortuna tra la primavera e l’estate del 2015, per ritrovarsi, esausti e denutriti, abbandonati al largo del mare di Andaman. Stranieri in casa propria: 1,1 milioni di Rohingya vivono di fatto in un sistema di apartheid, privi di libertà di movimento e di sicurezza sanitaria.
Era dal 2012 che non si verificavano violenze di questa intensità, da quando gli scontri tra le comunità nazionaliste buddiste e quella mussulmana nel Rakhine provocarono decine di morti e migliaia di profughi. Poi i militanti Rohingya si sono organizzati in un comitato con sede a Mecca, l’Harakah al-Yakin (Movimento di fede). Proprio questi militanti hanno rivendicato l’assassinio di nove ufficiali di polizia birmani il 9 ottobre scorso a Maungdaw, rilasciando in seguito dei video in cui annunciano di non potersi affermano: «La nostra gente ha deciso di liberarsi dagli oppressori». E annunciano che non si fermeranno finché non avranno raggiunto il loro obiettivo.

Il reportage integrale lo trovate su Left in edicola dal 14 gennaio

 

SOMMARIO ACQUISTA

È questa, veramente, l’era delle bufale? Intervista a Andrea Salerno

Citata da Renzi nel suo discorso di dimissioni. Finita rapidamente in ogni talk, anche per merito di Beppe Grillo che ha proposto la via dei tribunali popolari. Il 2016 è stato l’anno della post-verità, senza dubbio. Ma è questa, quella che viviamo, veramente, l’era delle bufale? Su Left, in edicola dal 14 gennaio, di questo (ma anche di Rai, di Gazebo, di politici un po’ troppo simpaticoni) abbiamo parlato con Andrea Salerno, giornalista, autore cult, direttore editoriale di Fandango e – ovviamente – volto di Gazebo, la trasmissione di Diego Bianchi in onda su Raitre.

«Proprio in questi giorni», è una delle cose che ci fa notare Salerno, «si festeggiano i dieci anni dell’iPhone: è chiaro che è cambiato tutto. Ma la propaganda è sempre esistita e non deve sorprenderci, anche nelle sue forme più incredibili e smaccate». Certo, possiamo notare che ciò che chiamiamo post-verità è una faccia del populismo e che le fake news viaggiano rapide, spesso spinte dalla rabbia. Sì, ma non si pensasse di dare la colpa ai social. Anche perché lì, continua Salerno, «la rabbia e i sentimenti più beceri vivono insieme agli altri, non sono i soli. Sono i più visibili, quelli che più ci sorprendono, ma anche questa non è una novità. E non vorrei fare il classico esempio raccontando cosa successe quando Radio Radicale aprì a tutti il microfono…».

Insulti, cattiverie, vomito, rabbia.

Più importante è dunque registrare un’ulteriore evoluzione nella diffusa diffidenza verso i media tradizionali, una diffidenza cresciuta negli anni, cavalcata da Grillo ma ripresa da altri, Matteo Renzi compreso: «C’è sicuramente un problema di autorevolezza dei media, del giornalismo e dell’informazione professionale. Che sta, peraltro, inseguendo i social, e io», dice sempre Salerno, «non sono affatto sicuro che sia la cosa giusta da fare. Se apri il sito di importanti giornali o le loro pagine facebook o twitter, senza una chiara gerarchia, fisicamente a pochi centimetri di distanza da un’inchiesta importante, dall’ultima intervista di Bauman o da un editoriale pensoso, c’è la breve sul coccodrillo più grande del mondo o il video di un incidente tanto spettacolare quanto, magari, falso. Non credo che questo possa aiutare a segnare la differenza che c’è tra uno dei tanti siti acchiappa clic – che già molto spesso viene preferito – e una testata autorevole».

«La post-verità così la fanno tutti non c’è un colpevole e non ci sono i grandi virtuosi», continua Salerno prima di dirci la sua sulla vicenda Verdelli e la Rai del governo Gentiloni e su come i politici ormai strafanno, sui social e non solo. Lui, fosse un consulente, inviterebbe a un po’ più di contegno, sia mai che qualcuno riesca ancora a dare l’esempio. Ma l’integrale è in edicola o sullo sfogliatore.

L’intervista a Andrea Salerno è uno degli articoli che trovi sul numero di Left in edicola dal 14 gennaio 

 

SOMMARIO ACQUISTA

Come resiste, a Palazzo, il renzismo senza Renzi

Italian Prime Minister, Paolo Gentiloni (C), talks during his speech at the Senate prior to a vote of confidence on Gentiloni's government, in Rome, Italy, 14 December 2016. The Upper House of the Italian Parliament is to vote on Gentiloni's government on 14 December, one day after the lower house, the Chamber of Deputies, had confirmed Prime Minister Gentiloni in their voting by 368 (Yes) votes to 105 votes against him. ANSA/GIORGIO ONORATI

Tutta colpa di Carlo Verdelli. Per qualche giorno infatti, dopo le dimissioni del capo delle news Rai, consulente che aveva ricevuto il renzianissimo compito di riformare il comparto informazione della tv pubblica, si è scritto che quella era la prima vistosa crepa nel potere renziano, l’inizio di una frana che avrebbe presto colpito anche l’amministratore delegato Antonio Campo Dall’Orto, in Rai, e poi chissà quanti altri fuori, nei vari palazzi romani.
Non è così, ovviamente. O non è così semplice, almeno. Perché è vero che in Rai qualcosa è successo, ma non è l’inizio della fine. Anzi. Anche perché a palazzo Chigi e nei vari ministeri, assai poco è cambiato. Su Left in edicola facciamo un po’ il punto su come il renzismo sta resistendo.

L’articolo continua su Left in edicola dal 14 gennaio

 

SOMMARIO ACQUISTA