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È la post-verità, bellezza

È arrivata all’improvviso la post-verità, come un temporale d’estate. Ma non mancavano le avvisaglie. La tempesta generata da bufale e fake news infatti era all’orizzonte spiega Carlo Sorrentino, professore di Sociologia dei processi culturali all’Università di Firenze, sull’ultimo numero di Left. «Frottole in giro ce ne sono sempre state, ciò che cambia nell’epoca della comunicazione digitale è il contesto di fruizione e la velocità di circolazione delle informazioni. Ed è proprio la velocità di scambio a determinare veri e propri gorghi in cui siamo risucchiati, talvolta rischiando di perdere la giusta prospettiva e l’opportuna proporzione di fatti e fenomeni». Il web in sostanza, immenso, caotico e allergico alla complessità, è l’ambiente perfetto, con le sue echo chambers, per permettere alle bufale di circolare e soprattutto di prosperare. Sì, prosperare, perché parlare di fake news e disinformazione oggi significa anche, e soprattutto, parlare di profitti. È lo stesso modello di business che si è sviluppato con il capitalismo digitale a favorire infatti la diffusione di notizie false acchiappa-click. La soluzione per arginare l’epidemia di bufale dunque, come scriviamo sul numero di Left in edicola, è ripensare da capo il modello economico sul quale si regge il capitalismo digitale. Scommettere su una verità non definita dai click ma dai fatti, conviene a tutti.

Le fake news cavalcano sentimenti di ansia e allarmismo, generano spesso caos e paura, minano la coesione sociale. In un’epoca di incertezza come la nostra, per dirla con Bauman, questo è un lusso che non possiamo permetterci. Per capire quali possono essere le conseguenze reali di notizie false basta guardare alle bufale che imperversano su temi scientifici e medici. Presunte cure miracolose e bufale che fanno ammalare sulle quali Simona Maggiorelli ha discusso con il medico Roberto Burioni e il divulgatore scientifico Massimo Polidori del Cicap per cercare di capire quale sia la strategia migliore per difendersi da ciarlatani, guru e santoni. Dalle campagne anti vaccini, alla leggenda di un nesso fra vaccino e autismo, passando per la truffa di Stamina e le false promesse del metodo Di Bella. Ma la questione è anche una questione prettamente democratica, basta pensare alla recente campagna americana nella quale Hillary Clinton è stata bersagliata di accuse spesso fasulle e infondate, una su tutte quella di gestire un giro di pedofilia con il caso “pizzagate” che ha quasi portato a una strage, e alla vittoria di Donald Trump.  Un candidato che alla prova del fact-checking durante i dibattiti nell’80% dei casi affermava il falso, ma che, a quanto pare, piaceva alla gente perché lontano dal mondo dell’establishment di cui la gente ormai non si fida.

Se la post-verità imperversa è anche perché, e in questo la disintermediazione generata dalla rete aiuta molto, il paradigma dell’esperto è in crisi, peggio, all’interno di un’architettura reticolare come quella del web, non funziona più, funziona molto meglio parere della gente comune. L’uomo della strada ha vinto sul professore, questo a volte finisce per elevare le chiacchiere e le convinzioni da bar a un rango che supera la realtà, post- appunto. Allora, visto che le bufale vanno a braccetto con il populismo, forse davvero si potrebbe dire che questo è l’anno della post-verità tanto quanto è l’anno della rinascita dei populismi. Della gente che mette in discussione l’establishment, con esiti che non sempre sono positivi: lo abbiamo visto con Trump, ma anche con Brexit. C’è una vignetta del New Yorker che girava in rete in questi giorni riassumendo bene l’atteggiamento di inconsapevolezza diffusa per cui si finisce con il credere alle scie chimiche e pretendere giurie popolari per giudicare i media (brutti, cattivi e servi dei poteri forti). Dice così: «Questi piloti spocchiosi hanno perso il contatto con i passeggeri comuni come noi. Chi pensa che dovrei guidare io l’aereo?»

Ecco il fatto è anche questo, internet ci ha abituato a considerare la nostra opinione sempre pertinente e rilevante, anche quando non lo è. Ci ha regalato l’illusione di poter arrivare dappertutto (e far tutto) senza sapere nulla, per certe cose è stato così, sicuramente abbiamo accesso a molte più informazioni, ma questo non significa essere per forza in possesso delle competenze per comprendere qualsiasi tipo di informazione. Nanni Moretti si lamentava in Sogni d’Oro di chi commentava qualsiasi cosa senza conoscere nulla e diceva: «Parlo mai di astrofisica io? Io non parlo di cose che non conosco!». Oggi gli si potrebbe rispondere: è la post-verità, bellezza.

Di post-verità parliamo sul numero di Left in edicola dal 14 gennaio con interviste e approfondimenti

 

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Quest’uomo è una sicurezza

MARCO MINNITI

Quello guidato da Paolo Gentiloni è davvero il governo fotocopia di Matteo Renzi? La promozione di Domenico “Marco” Minniti da sottosegretario con delega ai Servizi segreti a ministro dell’Interno suggerisce di no. Il cambio al Viminale coincide con l’avvio di nuovi programmi di contrasto delle migrazioni “irregolari”, di gestione dell’ordine pubblico e repressione del dissenso. Peraltro alla vigilia di due importanti appuntamenti internazionali, che hanno contribuito alla scelta di rinviare la fine della legislatura: la celebrazione del 60esimo anniversario della firma del Trattato istitutivo della Cee (il 25 marzo a Roma) e, soprattutto, il vertice dei Capi di Stato del G7 a Taormina il 26 e 27 maggio. In vista di tali scadenze, Marco Minniti appare come il politico più “adeguato” per consolidare il giro di vite securitario sul fronte interno e – in vista delle politiche – strappare a leghisti e centrodestra il monopolio della narrazione sul “pericolo” immigrato e sulla “sicurezza”. Di comprovata fede Nato, vicino all’establishment ultraconservatore degli Stati Uniti d’America e alle centrali d’intelligence più o meno occulte del nostro Paese, il suo curriculum vitae e le trame tessute in questi anni ci spiegano come e perché.

Left è in edicola dal 14 gennaio con questo articolo e molto altro

 

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Da Trump ai baby camorristi, il denaro è il Re. Intervista a Roberto Saviano

BOLOGNA, ITALY - DECEMBER 06: Italian author and writer Roberto Saviano hold a lection magistralis for the students of the Univerita degli Studi Alma Mater Studiorum at Aula Magna di Santa Lucia on December 6, 2016 in Bologna, Italy. (Photo by Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images)

Per Roberto Saviano sono giorni caldi questi. Per molti motivi. Il suo ultimo libro La paranza dei bambini ha addirittura superato Harry Potter, nelle classifiche di vendita, ma sui giornali è finito anche per una querelle con il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Lo scrittore e il politico si sono attaccati per giorni, senza capirsi forse. Allora lo abbiamo cercato per chiedergli cosa volesse dire al sindaco della sua città. Inevitabile poi parlare di tanto altro, di politica, di Italia, di cultura, di America persino. E del suo libro. Ecco un estratto del dialogo con il giornalista, in edicola da sabato.

Nel romanzo racconti di una camorra “ragazzina” che, per chi non la vede da vicino, è persino difficile pensare che possa esistere. Dove nasce e perché è così dura da fermare?

La camorra ragazzina forse è sempre esistita. Ci sono sempre stati killer giovanissimi: i muschilli, venivano chiamati un tempo. Ma oggi le paranze sono qualcosa di differente. Evocano le paranze, le barche che escono la notte per pescare i pesci, ma sono un braccio armato, in genere batterie di fuoco, che in questo caso iniziano a comandare. O credono di comandare, come se qualcuno li autorizzasse. […]

La vittoria del No al referendum costituzionale la attribuiresti a qualche forma di populismo nostrano o a un amore inaspettato degli italiani per la Costituzione?

Per me è semplice. La vittoria del No è una vittoria contro Renzi: non c’è nient’altro. Una piccolissima parte è stata a difesa della Costituzione, ma il voto del 4 dicembre è un messaggio, ancora prima che a lui, al suo modo di raccontare il Paese: che stava ripartendo, che le cose andavano bene… Il messaggio è stato forte e chiaro: non sta andando così, non stai dicendo la verità. Basta vedere anche il voto al Sud. E questo torna anche con la polemica di queste ore, se gli togliamo l’orrida patina di duello. È tutta incentrata su questo aspetto: la narrazione del Paese. Quasi ci farei la copertina, fossi in voi… Renzi ha perso con la logica dei gufi. Ha perso perché è troppo banale, facile, attaccare il racconto della realtà, accusandolo di essere quello, il racconto, la causa del male.

 Che ci faresti con tutti quei No?

Credo che sia irrilevante quello che ci farei io. Bisognerebbe però chiedere a chi crede di aver convinto 20 milioni di persone, a chi si è intestato la vittoria del referendum.

L’intervista continua su Left in edicola dal 14 gennaio 

 

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Cosa dice il rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro sull’Europa

Un'operaio metalmeccanico al lavoro in un'immagine d'archivio. ANSA/GIORGIO BENVENUTI

Il 12 gennaio, l’Organizzazione internazionale del lavoro( Ilo) ha pubblicato il suo rapporto annuale “World Employment and Social Outlook”, un documento di previsione e di analisi delle tendenze legate all’occupazione e all’attività economica. Cosa racconta? Poco di buono.

Secondo gli esperti dell’Ilo, nell’Europa del sud, nord e occidentale, nel 2017, il tasso di crescita dell’attività economia è destinata a contrarsi ulteriormente rispetto al 2015 e il 2016 con «stabilizzandosi a un 1,5 per cento aggregato». Quali sono le ragioni del relativo declino? L’Ilo cita l’aumento previsto dei prezzi dell’energia, una domanda in calo da parte di partner commerciali (soprattutto mercati emergenti) e la Brexit.

L’uscita del Regno Unito dall’Ue «indebolisce la fiducia di medio periodo da parte di investitori e, a livello generale, da parte dei mercati finanziari». Inoltre, il documento specifica che queste tendenze negative sono bilanciate soltanto in parte dalle aspettative di politiche monetarie espansive della Banca centrale europea (Bce) e di politiche marginalmente più orientate alla crescita che alcuni Paesi intraprenderanno.

All’interno del blocco europeo, «la previsione negativa più forte riguarda proprio il Regno Unito, Paese per il quale si prevede una contrazione economica relativa che dovrebbe portare l’economia a crescere soltanto dell’1 per cento, meno dunque rispetto ai tassi di crescita media del 2,3 per cento sperimentati tra il 2013 e il 2016.

Ma anche per la Germania si prevede un calo nei livello di attività economica: dall’1,7 per cento del 2016 si dovrebbe scendere all’1,4 per cento nel 2017. E l’Italia? Secondo l’analisi, «Italia e Portogallo sperimenteranno una stagnazione che vedrà crescere l’economia intorno all’1 per cento», mentre Spagna e Grecia dovrebbero attestarsi a tassi del «2,2 e 2,7 per cento» rispettivamente.

Se queste sono le previsioni che riguardano la crescita economica, lo studio dell’Ilo si sofferma poi sulle tendenze del mercato del lavoro: «Conseguentemente alla minore attività economica, il tasso di miglioramento dei valori occupazionali del mercato di lavoro rallenta».

In pratica, sebbene il tasso aggregato di disoccupazione relativo all’Europa del sud, nord e centrale diminuisca dello 0,2 per cento, questo valore viene visto in maniera negativa dall’Ilo: tra il 2013 e il 2016 la disoccupazione era infatti scesa di 2 percentuali. In altri termini, «rallenta il percorso di riavvicinamento ai livelli occupazionali pre-crisi». Soltanto in «Croazia, Olanda, Portogallo e Spagna» sono previsti miglioramenti nei livelli di disoccupazione. Il Regno Unito viene di nuovo dipinto come il Paese che desta più preoccupazione.

Secondo l’Ilo, la mancata “guarigione” del mercato del lavoro è dovuta al fatto che stiamo assistendo a un rafforzamento della così detta “disoccupazione strutturale”: «Una larga fetta di disoccupati fa sempre più fatica a trovare un posto di lavoro, il che si tramuta in una crescita della disoccupazione di lungo periodo». Se si guarda al secondo quadrimestre del 2016, tra i disoccupati, il numero di persone che hanno cercato un lavoro per 12 mesi o più, ha raggiunto il 47,8 per cento. Nello stesso quadrimestre del 2008 e del 2012, il valore si attestava al 38,7 e 44,5 per cento.

Oltre che a livello di Paese, ci sono anche differenze generazionali ovviamente: i giovani in cerca di lavoro tra i 15-24 anni se la cavano peggio rispetto ai loro “fratelli maggiori”, la fascia dai 25 in poi. Per i primi vige un tasso di disoccupazione pari al 19 per cento, mentre per i secondi del 7,9 per cento. Ovviamente – e i giovani italiani lo sanno bene – questi valori nascondo poi delle differenze molto ampie tra diversi Paesi dell’Europa del sud, nord e centrale. E se i tassi di disoccupazione diminuiscono in maniera molto debole, anche il tasso di occupazione rallenta: si passa dal 0,8 per cento medio tra il 2014 e il 2016 a un 0,3 per cento per il 2017.

Ma il lavoro non ha solo un lato quantitativo, bensì anche qualitativo. Il rapporto dell’Ilo dà indicazioni preziose anche rispetto alle tipologie di impiego che stanno prendendo piede nel mondo e in Europa.

L’analisi conferma che «gli impieghi part-time sono in crescita». Per quanto riguarda l’Ue-28 Paesi, la progressione dei part-time rispetto al totale degli impieghi, è lampante: si passa da un 18,2 per cento del 2008 a un 19,5 per cento nel 2011 e, infine, al 20,5 per cento nel 2015. Italia e Spagna vengono indicati come casi di scuola da questo punto di vista: «Tra il 2008 e il 2016, in questi due Paesi il numero relativo di impieghi part-time è aumentato del 4 per cento». Per quanto riguarda i contratti a tempo determinato, dopo un periodo di forte crescita, secondo l’Ilo il loro utilizzo si è ora stabilizzato. In ogni caso, «l’utilizzo di formule a tempo determinato, rimane sopra al 20 per cento in Olanda, Portogallo e Spagna» e risulta «in crescita in Francia e Croazia».

Inoltre, per quanto riguarda l’Ue-28 Paesi, il 27,5 e 62,1 per cento degli occupati, rispettivamente in posizioni part-time e a tempo determinato, rientrano nella categoria dell’”occupazione involontaria”: in altre parole, queste persone sono in realtà in cerca di un full-time, ma accettano altri contratti per mancanza di opportunità.

Certo, si potrebbe ipotizzare che il part-time sia una scelta volontaria di chi cerca lavoro. Ma l’analisi indica che i tassi di disoccupazione involontaria sono maggiori nei Paesi dove il numero di part-time rappresenta una quota più bassa del totale delle posizioni lavorative. L’Italia è uno di questi casi (in particolare, l’Italia ha un numero di part-time inferiore ad altri Paesi, ma sta sperimentando una forte crescita nel loro utilizzo, come descritto nel paragrafo precedente). Secondo l’Ilo ciò indica che «la qualità dei part-time e la capacità delle istituzioni del mercato di allineare preferenze dell’offerta e della domanda di lavoro giocano un ruolo chiave nel determinare le attitudini delle persone verso il part-time».

Inoltre, secondo l’Ilo, «il fatto che molte persone siano occupate involontariamente in posizioni part-time e a tempo determinato, indica che questi impieghi rappresentano soltanto raramente porte di accesso a lavori a tempo pieno e continuativi». Infine, l’Ilo ci ricorda che «in molti Paesi, a posizioni part-time e a tempo determinato sono associati livelli salariali, opportunità di crescita professionale e un accesso al welfare inferiori rispetto alle posizioni full time.

Orban lancia la caccia alle streghe contro le Ong finanziate «dagli stranieri» (leggi Soros)

Orban presiede al giuramento dei
epa05712174 Hungarian Prime Minister Viktor Orban (C) addresses the oath ceremony of border protection officers' new unit in Budapest, Hungary, 12 January 2017. So-called 'border hunters' recruits will be trained for six months before going on duty to support Hungarian police officers and soldiers in border protection. EPA/SZILARD KOSZTICSAK HUNGARY OUT

Nel 1989, negli anni in cui il Muro di Berlino cadeva e una nuova classe dirigente dell’Europa dell’est si forgiava, Viktor Orban era a Oxford. Grazie a una borsa pagata da George Soros, l’attuale premier e leader della destra ungherese ha passato un anno nella città universitaria tra le più prestigiose del pianeta, per poi tornarsene a Budapest e venire eletto deputato nelle fila di Fidesz, il partito che ancora oggi guida. Nel 1989 il gruppo di studenti anti-sovietici vinse anche il premio Rafto per i diritti umani, creato dal governo norvegese.

Oggi Fidesz è al potere, ha cambiato completamente natura, scegliendo di smettere di essere un partito liberale e divenendo una forza populista e conservatrice e Orban ha deciso di dare la caccia a tutto quel che si muove nella società civile ed ha un legame con qualche Paese o entità estera. Specificatamente, l’idea è quella di mettere pressione sulle organizzazioni della società civile finanziate da Open Society, la fondazione del miliardario americano di origini ungheresi.

Una legge in discussione in Parlamento prevede che le organizzazioni e i quadri dirigenti delle stesse debbano rendere pubblici i loro bilanci e redditi. Un modo per mettere pressione e per dimostrare quanto queste dipendano da soldi stranieri. Dopo l’elezione di Donald Trump – anche egli un nemico dichiarato del miliardario – il premier Orban aveva detto più o meno: «Molti Paesi ora potranno cacciare Soros». Szilard Nemeth, uno dei quattro vicepresidenti del partito di Orban (nella foto mentre assiste al giuramento dei “cacciatori di frontiera” il corpo di guardia anti immigrazione), questa settimana ha invece detto: «Spazzeremo via Soros dall’Ungheria, ci sono le condizioni internazionali adesso». Un portavoce del governo ha spiegato al Guardian che forse Nemeth si è espresso con toni eccessivi ma che l’idea è quella: «Visibilmente comincia una nuova era e anche da parte di Washington, si avrà un diverso tipo di opinione, un diverso tipo di attenzione per quanto riguarda determinati problemi», ha detto Zoltán Kovács, aggiungendo che le critiche della gestione di Obama alla politica dell’Ungheria verso le Ong  hanno reso «inutilmente tese» le relazioni tra i Paesi. Lo stesso portavoce ha spiegato che i Paesi dell’est non finanziano Ong in Gran Bretagna e che, se lo facessero, la cosa desterebbe scandalo. La verità è che Open Society ha speso molto in Europa dell’est, ma anche in Europa occidentale – sulla crisi dei rifugiati, ad esempio – e che lo ha fatto in maniera piuttosto trasparente.

Il governo ungherese difende le proprie scelte citando gli esempi russi e israeliano che hanno politiche simili per le stesse ragioni: mostrare che la società civile che si batte per i diritti civili o per la libertà di stampa (o per i palestinesi) è in realtà al soldo degli stranieri. Fidesz sostiene infatti che le Ong siano «organizzazioni politiche mascherate», in quanto criticano il governo in materia di gestione dei rifugiati o, appunto quella di stampa. «Prima il governo ha indebolito le istituzioni democratiche, come la Corte Costituzionale, poi hanno decimato la stampa e ora dichiarano guerra alle Ong watchdog che hanno indagano e denunciano gli abusi di potere di potere» ha detto Andras Kadar al Financial Times, co-presidente del Comitato di Helsinki ungherese, una delle tre grandi organizzazioni che riceve finanziamenti da Soros e che è nella lista stilata dagli alleati di Orban. Bbc riferisce che in queste Ong hanno smesso di fare riunioni su temi scottanti per paura di avere cimici in ufficio.

Non proprio un clima sereno, per un Paese europeo. E certo, Soros è intervenuto molto – e pubblicamente – sull’Ucraina. Ma la verità è che certi gruppi finanziati in Ungheria e altrove fanno quello che fanno migliaia di organizzazioni della società civile in ogni angolo del mondo: cani da guardia della democrazia e protezione delle categorie deboli. E che questo ruolo, se non è svolto come quello di dame di carità che non dicono nulla sulla situazione del Paese non piace a Orban e compagni.

Nel 2014 Orban se la prese con Ong finanziate da un piano del governo norvegese. Lo stesso che aveva premiato Fidesz quando era una banda di studenti che volevano rovesciare il regime filo sovietico. Come cambiano le cose.

 

Tradurre Finnegans Wake di Joyce, un’impresa che pareva impossibile

In una black commedy di Victor Gischler,  con un titolo che è tutto un programma,  Anche i poeti uccidono (Meridiano Zero) un professore della Eastern Oklahoma University pensando che  il Finnegans Wake  sia una emerita «boiata»  lancia il poderoso volume contro un collega in bicicletta facendolo rotolare a terra.

Neanche Umberto Eco, campione di romanzi capziosi e labirintici, arrivava a tanto, anche se definiva la colossale opera pubblicata da Joyce nel 1939 «un’opera terrificante».

Per fortuna non la pensano così  due appassionati studiosi di Joyce, Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, che hanno già pubblicato qualche anno fa una rivoluzionaria traduzione dell’Ulysses, che resistuisce l’humour e l’icastica vitalità della prosa dello scrittore irlandese.  Traduttore e docente di  Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia,  il primo;  traduttore, critico, giornalista, consulente editoriale il secondo. Non hanno avuto paura di lanciarsi in un’impresa che si concluderà fra due anni, nel 2019,  i cui frutti, però, si possono  già saggiare in uscite intermedie: per Mondadori esce la penultima tranche dell’opera. Oggi a Dublino il terzo volume della traduzione italiana dell’opera di James Joyce Finnegans Wake (La veglia per Finnegan) sarà presentata all’Istituto italiano di cultura, in un incontro  che interroga l’intraducibilità dell’opera con interventi di John McCourt edi Declan Kiberd. Oltre ai due traduttori e curatori dell’opera, Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, interviene Edoardo Camurri  di Radio 3 e Rai 3. Non mancheremo di leggere e approfondire. Intanto per ricordare  James Joyce in questo 13 gennaio, ( Joyce era nato il 2 febbraio 1882 a Dublino e morì a Zurigo, il 13 gennaio 1941)  ripercorriamo le tappe della genesi del Finnegans Wake attraverso documenti, fotografie e interviste.

Sylvia Beach e James Joyce

Il work in progress di Joyce .Di quei giorni del 1938 quando Joyce era al lavoro sulle bozze ci raccontano alcuni scatti  di Gisèle Freund, fotografa di origini ebraiche che era stata costretta a  scappare dalla Germania nazista.  Nelle sue foto compare lo  scrittore seduto in poltrona,  con una  giacca di velluto marrone, le  mani sottili in primo piano, mentre appunta con cura note e correzione e rilegge con la lente d’ingrandimento. Ad accompagnare il lavoro di Joyce furono appassionate conversazioni nella celebre libreria Shakespeare and Company di Parigi animate da Sylvia Beach e Adrienne Monnier . Lo racconta Gisèle Freund in Trois jours avec Joyce, pubblicato da Denoël.

Joyce “barocco”. L’anglista Giorgio Melchiori, che aveva raccontato le prime opere dello scrittore irlandese  ne I funamboli dedicando molti  lavori al manierismo nella letteratura del Novecento inglese, pensava che Finnegans Wake  fosse  un’opera  barocca,  costruita per frammenti  che si fondono in una rapsodia a spirale, sottolinenando le fulminee associazioni, genealogie e scarti che ne punteggiano la prosa.  Dell’Ulysses e di altre opere di Joyce lo avevano colpito soprattutto l’apparente naufragare nell’infinito,  la  circolarità che evocava cantiche di Dante,  ma anche la “forma serpentinata”, che richiamava l’imperfetta circolarità di John Donne e  le visioni di Blake . In Finnegans Wake, invece, Melchiori vedeva piuttosto i corsi e ricorsi di Giambattista Vico e gli infiniti mondi di Giordano Bruno . In questa opera monumentale «ogni arrivo è una nuova partenza» e «il succedersi dei cicli sembra procedere all’infinito».

Intervistato dal traduttore ceco Adolf Hoffmeister (Il gioco della sera. Conversazione con James Joyce, Nottetempo) così  Joyce raccontava il lavoro di una vita.:« Non credo che ci siano differenze. A cominciare da Gente di Dublino tutto il mio lavoro segue una linea retta di sviluppo. Una linea quasi indivisibile. Solo il livello di espressività e la complessità tecnica sono cambiati, magari anche in modo leggermente drammatico. Certo avevo vent’anni quando scrissi Gente di Dublino e fra Ulysses e Work in Progress (sarebbe il Finnegan’s Wake, ndr)passano sei anni di penosissimo lavoro. Ho finito Ulysses nel 1921 e il primo frammento di Work in Progress è stato pubblicato su Transition sei anni dopo. La differenza sta solo nello sviluppo. Tutto il mio lavoro è sempre in progress».

«Work in Progress. È pronto», annunciava alcuni mesi dopo. Salvo aggiungere: «Ma io non finisco mai niente, ho sempre voglia di riscrivere. Da Gente di Dublino in poi ogni cosa e stata un work in progress, qualcosa a cui non si può dare un nome. Ulysses è l’opera più incompiuta. I frammenti di Work in Progress, che sono stati pubblicati in luoghi diversi, sono cambiati e stanno ancora cambiando. La mia opera costituisce un tutto e non si può dividere secondo i titoli dei singoli volumi. Ulysses naturalmente è un giorno in una vita, ma potrebbe anche essere la vita di un secondo. Naturalmente, il tempo si misura in inizio e fine».

Matisse, disegno per l’Ulysses di Joyce

 In Finnegans wake ogni parola è un’ immagine, come già accadeva nell’Ulysses, diciassette anni prima. A comprenderlo più di tutti  fu Henri Matisse  che  si offrì di illustrare la prima edizione americana dell’Ulysses, una volta liberata dal peso della censura. Fatto curioso: il pittore francese non aveva letto il libro ma si era lasciato guidare dal nome del suo protagonista, e disegnò una serie di straordinari schizzi, omaggio a Omero, alla mitologia greca e ai viaggi nel Mediterraneo.

E  a un lettore che ebbe il coraggio di dirgli che il Finnengans Wake era  un’opera grandiosa, ma  che non ci si capiva niente. Joyce rispose : «Non sono d’accordo che la letteratura difficile sia necessariamente inaccessibile. Qualsiasi lettore intelligente può leggere e capire, se torna al testo più e più volte. S’imbarca in un’avventura con le parole. In realtà, Work in Progress è più appagante di altri libri perché offro al lettore l’opportunità di completare quello che legge con la sua immaginazione. Alcuni si interesseranno al l’origine delle parole, ai giochi tecnici, agli esperimenti filologici in ogni verso. Ogni parola possiede la magia di una cosa vivente. Ogni cosa vivente può assumere una forma».

L’Unità chiude e il Pd non sta bene. Di chi è la colpa?

Sergio Staino al Nazareno con Matteo Orfini
Sergio Staino (s) e Matteo Orfini nella sede del PD durante la presentazione sui risultati del progetto ''Luoghi Idea(LI)'', Roma 13 Giugno 2015. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Come ogni anno nel Pd si cominciano a contare gli iscritti. Le prime indiscrezioni parlano di un flop, con la “paralisi”, scrive Repubblica, del Pd siciliano, soprattutto, e con le altre regioni, però, ugualmente in forte calo, con la sola Toscana a tenere un po’ su i conti.

Le cose sembrerebbero peggiorate rispetto all’anno scorso (quando pure non mancarono, ricorderete, le polemiche tra minoranza e premier-segretario). L’Emilia, ad esempio, che ora si appresta a dimezzare gli iscritti rispetto al 2013 (quando erano 76mila) già nel 2015 era scesa a 48mila. La dichiarazione con cui il vicesegretario Lorenzo Guerini risponde ai dati di oggi, infatti, è simile a quella dell’anno scorso: «Recupereremo», dice Guerini, convinto che «i dati che provengono dai territori» facciano invece ritenere che «il numero di iscritti nel 2016 sarà tendenzialmente in linea con quello dell’anno precedente».

La polemica – di suo non nuovissima – arriva però il giorno dopo un altro capitolo non proprio piacevole per il Partito democratico. La società editrice dell’Unità, infatti, ha annunciato licenziamenti collettivi e il giornale è a rischio chiusura. I giornalisti stanno scioperando, e non è ovviamente detto (speriamo) che qualche soluzione, almeno ponte, alla fine si trovi. Ma la crisi è seria. E porta con sé non solo responsabilità manageriali (enormi, accusano i giornalisti, sulle cattive spese o sul conflitto tra la direzione del cartaceo e quella del sito, che è cosa a sé) ma anche – ovviamente – politiche.

Colpisce, in questo senso, la lettera resa pubblica da Sergio Staino e indirizzata a Matteo Renzi. È di alcune settimane fa ma, dice Staino, «è ancora attuale». Nell’invitarvi a leggerla tutta – e a esprimere, come facciamo noi, solidarietà ai giornalisti e ai lavoratori dell’Unità – alcuni passaggi colpisco fortissimo. Tipo quello in cui Staino elenca alcune impreviste – da lui – difficoltà umane: «Parlare e trattare con il tesoriere del Pd Bonifazi e con l’Amministratore Delegato Stefanelli», scrive a Renzi, «ti assicuro è esperienza che non augurerei a peggior nemico». Ma soprattutto colpiscono i passaggi sulle difficoltà politiche, sempre (forse, a questo punto colpevolmente) non previste dal direttore: «Mi sono reso conto», continua Staino, «che nessuno nel partito è interessato a questo foglio».

«Ho un buon rapporto di confronto con alcuni compagni a te non troppo vicini», continua il direttore, «da Macaluso a Reichlin, a Cancrini, a Cuperlo, Veltroni, Fassino e tanti altri, che lo seguono, lo commentano, mi aiutano. Ma tu e i tuoi? Zero. Credo che anche tu sia fra quelli che neanche scorre la prima pagina del giornale eppure, quando mi hai congedato a Palazzo Chigi, hai urlato allegramente: “Voglio un giornale bello, di tante pagine e non preoccuparti per i soldi… quelli ci sono!” Chissà se te lo ricordi».

L’accusa insomma è seria. E evidente dovrebbe essere il nesso con il calo degli iscritti.

Perché la crisi è di tutti i partiti così come è di tutti i giornali (dell’Unità importa poco anche fuori), ma dallo scambio (anzi dalla lettera, perché nessuno ha ancora risposto) escono tutte le crepe nella comunità dei dem. Che forse, è il punto, non è più tale. E tutto si tiene insieme. Un giornale utile solo come velina (ruolo peraltro – purtroppo – non rifiutato, anche se Staino oggi vuole descrivere un giornale-laboratorio) e un partito che ha i suoi unici momenti di confronto in diretta streaming, in direzioni che sembrano più moderne conferenze stampa del segretario. Si asseconda così, inconsapevolmente o meno, la crisi della politica. Che se non viene praticata (neanche online), a vantaggio della sola comunicazione, diventa veramente inutile. Anche per chi ostinatamente stava ancora lì, a farla, con tutti i suoi difetti, non solo a ridosso di una competizione elettorale.

Il freddo inverno dei rifugiati

Between 1,200 and 1,800 refugees and migrants, including hundreds of unaccompanied children, are sleeping rough in abandoned buildings and warehouses near Belgrade’s main train station. Temperatures have dropped to -10 C, the buildings have no windows, beds, heating, water, or toilets. People are sleeping on the floor and building fires to keep warm and prepare warm meals. The fires create great health and safety risks. Improvised toilets and spots for waste disposal are right where refugees and migrants sleep, eat and spend their time, therefore hygienic conditions are very poor. Yet, migrants and refugees continue to arrive. Nearly 100 enter Serbia daily, and there are currently 7200 asylum seekers stranded in the country .Save the Children, together with other agencies and local partners, runs a 24/7 drop-in center in the Refugee aid point in Miksaliste, Belgrade. The center provides new arrivals with immediate life-saving assistance while they wait to register and get accommodated in official shelters. The center also includes a youth space and child friendly corner, providing psychosocial support through creative activities that helps children and teenagers deal with the traumatic events they’ve seen and been through. In Belgrade, Save the Children also runs mobile outreach teams providing legal counselling, and identifying and referring vulnerable cases as appropriate.

È critica la condizione dei migranti e dei rifugiati in Europa, molti a causa delle intemperie e dell’irrigidirsi del clima sono costretti a vivere in condizioni precarie a rischio della vita. A lanciare l’allarme c’è anche Save the Children: «Se non si interverrà tempestivamente, decine di migranti e rifugiati, e soprattutto i bambini, rischieranno la morte per congelamento a causa delle bassissime temperature, conseguenza delle pesanti nevicate e del gelo che hanno colpito in questi ultimi giorni la Grecia e i Balcani».

 

 

EPA/ORESTIS PANAGIOTOU

 

© Save The Children

 

Ad oggi infatti, a quanto riporta l’onlus più di 40 persone – tra le quali diversi rifugiati e migranti – sono morte nella regione balcanica a causa del clima artico. A soffrire le rigide temperature senza accesso ad alcuna fonte di calore o ad un riparo ed essere maggiormente a rischio ipotermia sono soprattutto bambini e neonati. «Molti vivono in campi per migranti assolutamente non attrezzati, in edifici abbandonati, o addirittura all’aperto in strade piene di neve» spiegano gli operatori di Save the children «A Belgrado più di 1.200 rifugiati e migranti hanno cercato un qualche riparo in edifici e magazzini abbandonati e ci sono tra loro centinaia di minori soli, anche di 10 o 11 anni, un numero destinato a crescere con i nuovi arrivi. Le temperature negli ultimi giorni sono scese fino a -10°C e questi edifici non hanno infissi, letti, acqua o servizi igienici di base. Le persone dormono sul pavimento, rischiando ulteriori pericoli quando accendono fuochi incontrollati per scaldarsi.
Molti non hanno guanti o scarpe adatte ad affrontare il freddo e sono stati già stati segnalati molti casi di congelamento. Le condizioni igieniche sono estreme, toilette improvvisate e rifiuti sono negli stessi posti dove i migranti mangiano o dormono o dove cercano riparo».

 

EPA/SIMELA PANTZARTZI

 

 

 

L’accordo sui migranti tra l’UE e la Turchia ha lasciato le persone in condizioni disperate e le misure di accoglienza messe in atto dall’Europa sono assolutamente insufficienti a gestire l’emergenza. «In Grecia, migliaia di migranti e rifugiati sono bloccati in ex capannoni industriali non idonei alla sopravvivenza, lasciati soli con temperature sotto lo zero» – spiegano dalla onlus – «Sulle isole greche, più di 16.000 rifugiati vivono in campi affollati, la maggior parte all’aperto o in tende già crollate a causa della neve. Le condizioni a Moria, il centro di detenzione sull’isola di Lesbo, sono particolarmente gravi, con almeno 4.000 persone stipate dietro il filo spinato in una struttura che ne prevede solo 2.000. L’unica soluzione a lungo termine possibile è un’accelerazione delle procedure di richiesta di asilo e di ricollocamento in altri paesi europei».

 

EPA/STRATIS BALASKAS

 

 
Anche da Unhcr lanciano l’allarme: «Date le dure condizioni invernali, siamo estremamente preoccupati dalle notizie che riceviamo secondo cui le autorità di tutti i paesi lungo la rotta dei Balcani occidentali stanno continuando a respingere indietro rifugiati e migranti». In diversi casi inoltre rifugiati e migranti hanno testimoniato diversi abusi nei loro confronti da parte della polizia di frontiera. Molti hanno riferito che i loro telefoni sono stati confiscati o distrutti, privandoli quindi della possibilità di chiamare aiuto, e che in alcuni casi gli sono stati sequestrati anche altri oggetti personali di prima necessità e vestiti esponendoli ancor di più alle dure condizioni ambientali. «Queste pratiche sono semplicemente inaccettabili – commentano dall’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati – e devono essere fermati, mettono a rischio la vita dei migranti e violano i loro diritti più fondamentali».

 

EPA/SIMELA PANTZARTZI

 

 

 

 

 

 

La notte del Liceo classico, una scuola che (in genere) fa bene alla mente

(FILES) Picture dated August 2003 shows a sunset through the Temple of Poseidon (Neptun) at the archaeological site of Sounion, some 65 km south of Athens. Greek Ministry of Culture announced that Greeks and EU's countries citizens will have a free entrance to Greek archaeological sites and museums, from Friday 14 November 2003 and until 31 of March 2004. This new measure will be repeated every year. EPA/LOUISA GOULIAMAKI

Anche una canzone con tanto di video su YouTube celebra il liceo classico. E’ stata scritta da Francesco Rainero, 21 anni, ex studente del Galileo Galilei di Firenze. Il video si intitola Notte nazionale del Liceo classico e mostra le immagini delle bellezze dell’antichità classica mentre sfilano veloci sotto gli occhi senza alcuna nostalgia del passato, ma anzi vive e attuali. E’ un po’ lo spirito che anima, appunto, la notte nazionale del liceo classico che si svolge oggi dalle 18 alle 24 in 388 istituti italiani (qui l’elenco). Porte aperte con maratone di letture, spettacoli teatrali, concerti, proiezioni di film. L’iniziativa, promossa dal Miur, è nata da un’idea di Rocco Schembra, docente di Latino e Greco al liceo classico “Gulli e Pennisi” di Acireale (Catania). Per il quale  è una scuola “capace di trasmettere non anticaglie, ma il meglio della nostra storia con lo sguardo sempre vigile al presente e al futuro”.

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Quale istruzione, il dilemma

La notte del liceo classico la prendiamo come spunto per aprire una riflessione sulla natura dell’istruzione oggi. Il grande storico della pedagogia Mario Alighiero Manacorda aveva individuato due approcci possibili all’insegnamento. Partiamo dal metodo epistemologico o da quello antropologico? Cioè, in parole povere, partiamo dall’oggetto del sapere e cerchiamo di trovare il sistema per farlo apprendere o invece partiamo dal soggetto, cioè il bambino o il ragazzo e cerchiamo il metodo per avvicinarlo alla conoscenza, per fargli apprendere il gusto del sapere, per renderlo curioso, vitale, con l’interesse a conoscere? Domande complesse che mancano purtroppo nel dibattito attuale. La Buona scuola infatti ha “silenziato” qualsiasi ricerca di tipo didattico o epistemologico e non ha prodotto niente di nuovo. Dettagli tanti, aspetti parziali molti, magari spiegati in paginate di giornale: ora l’insegnamento in inglese, poi il fantastico ricorso al digitale, oppure la programmazione (il Coding)… Ma un’idea reale di scuola capace di far fronte alla complessità della società, del lavoro e dei rapporti familiari, proprio non si è vista.

Un sapere complesso

Invece una scuola che ha mantenuto un approccio “complesso” nei confronti del sapere – con tutte le eccezioni del caso, ovviamente – c’è ancora, ed è il liceo classico. Sempre di più nell’occhio del ciclone, negli ultimi anni, visto che è stato accusato di spacciare saperi “vecchi” che non servono per trovare lavoro, con quella cultura umanistica ormai considerata “retro’” rispetto alla rete, alla tecnologia, alla velocità, al tempo che fugge. Un tipo di scuola che viene scelta sempre meno dagli studenti italiani – l’anno scorso 6 su 100 si iscrivevano al classico-. Le critiche nell’epoca della rottamazione si sono fatte sentire. Che senso ha, per esempio, continuare a tradurre dal latino e dal greco?

La querelle sulle traduzioni dal latino e dal greco

Se l’era chiesto il professor Maurizio Bettini, filologo e latinista dell’Università di Siena. Su Repubblica (“Quelle inutili anzi dannose traduzioni greche e latine, del 5 marzo 2015), aveva scritto della necessità, all’esame di maturità, di “allargare” la traduzione al suo contesto, e quindi di non fermarsi alle parole da tradurre ma approfondire con lo studente la cultura, la filosofia e la storia del tempo dell’autore tradotto. Anche l’ex ministro Luigi Berlinguer si era mostrato favorevole all’ipotesi. Da questi interventi era nata una petizione su Change.org che però non ha riscosso tanto successo (poche centinaia le firme). Solo che da lì è partita, è il caso di dire, una vera campagna di delegittimazione del liceo classico. Come del resto ciclicamente scatta nei confronti delle facoltà umanistiche accusate di essere inutili, come ha fatto, sempre nel 2015, Stefano Feltri con i suoi articoli sul Fatto quotidiano.

Liceo classico no, liceo classico sì

Addirittura dagli Usa, l’economista Michele Boldrin, leader del movimento Fare per fermare il declino (per un anno, dal 2013 al 2014) aveva lanciato lo slogan “Aboliamo il liceo classico!”. La reazione stavolta però e’ stata immediata: una lettera-appello firmata da 15mila persone e’ stata indirizzata al presidente della Repubblica Mattarella e all’allora ministro dell’Istruzione Giannini. Nel testo, si legge una citazione da Luca Cavalli Sforza sul fatto che la traduzione dal latino e dal greco rappresenta un’attività «più vicina alla ricerca scientifica cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto». La lettera-appello promossa dalla Task force per il liceo classico, viene firmata anche dal sociologo Luca Ricolfi il quale sul Sole 24 ore del 16 ottobre 2016 spiega perché l’ha fatto, lui così restìo alle petizioni pubbliche. Ricolfi scrive che dietro all’ipotesi di abolire la traduzione dal latino e dal greco non c’è tanto la voglia di spazzar via la cultura classica quanto invece eliminare «l’ultimo compito davvero difficile della scuola secondaria superiore».

L’importanza della scuola difficile

Perché, sostiene Ricolfi, il quale è anche professore universitario e quindi ha modo di verificare la preparazione delle nuove generazioni, «la domanda degli studenti e delle loro famiglie non è di alzare l’asticella, ma di abbassarla sempre più, come in effetti diligentemente facciamo da almeno quattro decenni». E le conoscenze che sembrano spaventare sono, secondo Ricolfi, «la capacità di astrazione e concentrazione, padronanza della lingua, finezza e distinzione delle sensibilità, capacità di prendere appunti e di organizzare la conoscenza».Ora c’è da dire che lo svuotamento della scuola superiore della complessità del sapere comincia da lontano, non è un fenomeno dell’oggi.

Il declino dell’istruzione

Tullio De Mauro, il grande linguista scomparso da pochi giorni la faceva risalire agli anni 70 quando l’afflusso eccezionale alle scuole superiori non venne adeguatamente preparato. Ma un altro gap secondo il professore è stato causato dall’assenza cronica di una cultura di base, per questo si batteva per una educazione permanente degli adulti. Negli ultimi decenni, la semplificazione, la formazione finalizzata al lavoro, il taglio di ore e di materie, l’esaltazione fine a se stessa delle famose tre I berlusconiane, – Inglese, informatica e impresa – sono le correnti nefaste che attraversano la scuola pubblica senza vivificarla, anzi. La affossano ancora di più insieme alla valorizzazione delle scuole private e al dilagare delle disuguaglianze tra Nord e Sud. Insieme anche all’estensione della valutazione standard – come le prove Invalsi – che snatura la complessità e la variabilità dell’apprendimento e la relazione, fondamentale in questo, tra insegnante e allievo. E al tempo stesso la formazione e l’identità professionale dei docenti hanno ricevuto attacchi costanti in questi anni di tagli.

Eccoci dunque all’oggi

Una cultura come quella classica, lo studio di Atene e Roma, la filosofia e la storia, possono contribuire a creare un cittadino consapevole, dotato di senso critico, capace di cogliere le “bufale” e non solo quelle del web? Forse sì. Anche se è chiaro, come sempre a scuola, che ciò dipende da tanti fattori, contano la relazione con l’insegnante, l’ambiente, la classe, le condizioni di vita familiare. Infine, il liceo classico non dovrebbe essere una scuola d’élite ma aperta a tutte le classi sociali. Per questo andrebbe spezzata quella catena che vincola i più poveri a studi professionali o tecnici. Senza alcun disprezzo per l’attività manuale, sia ben chiaro, solo occorrerebbe una condizione di uguaglianza di partenza, per tutti. Ma questo è un altro problema. Che non si poneva del resto nemmeno Platone con la sua Repubblica razzista e classista. Ma, ecco, vedete, quanto sia importante conoscere il pensiero di Platone per comprendere tanti atteggiamenti e fenomeni politici di oggi…Se si riconoscono, non si accettano acriticamente e si rifiutano.