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L’evacuazione di Aleppo al via. Scambi di accuse tra americani e russi

This frame grab from Tuesday, Dec. 13, 2016 video, shows people walking among damaged buildings on a street filled with debris near the ancient Umayyad Mosque, in the Old City of Aleppo, Syria. A cease-fire deal between rebels and the Syrian government in the city of Aleppo has effectively collapsed, Wednesday, Dec. 14, 2016, with fighter jets resuming their devastating air raids over the opposition's densely crowded enclave in the east of the city. The attacks threaten plans to evacuate the rebels and tens of thousands of civilians out of harm's way, in what would seal the opposition's surrender of the city. (AP Photo)

Stamane dovrebbero finalmente cominciare le operazioni di evacuazione della parte di Aleppo ancora sotto il controllo dei ribelli. Si concludono così, con una vittoria di Assad, quattro anni di battaglia furibonda attorno e dentro a quello che era il vivace centro della vita siriana ed è oggi un cumulo di macerie.

L’evacuazione, mediata da russi e turchi (ciascuno sostenitore di una delle parti che si combattono) era saltata martedì, quando erano ripresi combattimenti – e bombardamenti da parte dell’esercito siriano a cui i ribelli hanno risposto con autobomba guidate da kamikaze. Motivo dello stop erano sate le richieste degli iraniani sul posto e dei libanesi sciiti di hezbollah, che chiedevano l’evacuazione simultanea dei feriti nei villaggi attorno a Idlib. Rimangono complicazioni, dicono quelli di hezbollah, ma «intensi contatti tra i responsabili … portato a ri-definire le modalità del cessate il fuoco». Alcuni feriti sarebbero già usciti.

Dovrebbero essere i soldati russi  a garantire una evacuazione senza rappresaglie, scortando i ribelli attraverso un corridoio verso Idlib, fa sapere Mosca. La Croce rossa dovrebbe invece monitorare l’evacuazione dei civili, decine di migliaia dei quali sono già fuggiti nelle scorse settimane, quando l’offensiva siriano-russo-iraniana si è fatta più intensa.

I gruppi che ancora combattevano ad Aleppo hanno accusato l’Iran e le altre milizie sciite di aver voluto far deragliare l’accordo. Il tema, a questo punto, è anche e molto, il ruolo che le milizie sciite avranno nei prossimi mesi: più ingombrante sarà la loro presenza, più armi di propaganda avranno la parti più estreme della rivolta anti Assad (islamisti salafiti), che oggi sono innegabilmente le più forti. Lo scontro, qui e in molti altri terreni mediorientali, in questa fase, è anche molto alimentato dalla tensione sciita-sunita e dal ruolo crescente svolto dall’Iran nella regione.

Nei giorni scorsi le milizie sciite, specie quelle irachene, sono state accusate di esecuzioni a freddo. L’Onu ha parlato della morte di 82 persone. Sarebbe utile che le parti in causa coinvolgessero l’Onu e altre organizzazioni internazionali per monitorare che nulla accada ai civili sopravvissuti a anni di guerra e sottoposti negli ultimi mesi a bombardamenti di intensità spaventosa.

La guerra non è finita: nei giorni scorsi l’Isis ha ripreso Palmira, anche grazie al fatto che le forze siriane erano concentrate su Aleppo. Assad, che in alcune aree combatte l’Isis assieme ai curdi, non ha certo intenzione di lasciare all’YPG il controllo di parti del territorio. Non per ora. E i ribelli controllano ancora diverse aree del Paese: prossimo terreno di scontro sarà Idlib. Certo, con la presa di Aleppo, Assad, l’Iran e la Russia ottengon una vittoria dall’enorme significato simbolico. A perdere, oltre ai ribelli, c’è anche l’Occidente. L’ambasciatore Usa all’Onu, Samantha Power, autrice anni fa di un libro sul genocidio in Ruanda, ha usato parole durissime contro Mosca e Teheran in Consiglio di sicurezza. L’ambasciatore russo Churkin le ha risposto che gli Usa non possono parlare e che lei parla come «Madre Teresa». La tensione tra i due Paesi non è stata tanto alta da decenni: il caso del cyber attacco contro il partito democratico, orchestrato da Mosca, alimenta questa tensione.

Il 20 gennaio Donald Trump entrerà alla Casa Bianca, la sua amministrazione è infarcita di personaggi con legami in Russia o che ammirano lo stile di Putin. Vedremo se e come quel fronte cambierà. La Siria, intanto, resterò per gli anni a venire, come l’Afghanistan e l’Iraq in maniera diversa, un Paese frammentato, armato e dove scorrazzano signori della guerra. Le responsabilità saranno soprattutto di russi e occidentali: i primi avevano un’idea chiara di cosa volevano e l’hanno messa in pratica senza tentennamenti, i secondi non avevano idee, hanno cambiato attegiamento in più di un’occasione e hanno assistito inermi a quanto capitava. Salvo poi infuriarsi con Mosca. Entrambi hanno giocato una partita a scacchi per interposta persona sulla pelle dei civili siriani.

Pape Satan

Nel presepe moderno il bambinello è Michael

Le donne nigeriane che l'altra sera, arrivando a Gorino sono state bloccate e trasferite temporaneamente all'Asp di Ferrara, 26 ottobre 2016. ANSA/ FILIPPO RUBIN

Ha due genitori poveri. Anzi uno: il padre, Lamid, non ha potuto assistere al parto perché durante il viaggio in fuga ha dovuto separarsi da loro.

Sì, perché c’è la fuga. Come in un presepe. Sono scappati dalla violenza di chi al bambinello (come agli altri) avrebbe voluto negargli il futuro. Niente mulo. Qui si scappa sul dorso di una barca e c’è da sperare che non arrivi un’onda troppo affilata che interrompa la storia.

C’è la fatica del viaggio e la solitudine dei fuggitivi: la madre con il bambino in grembo arriva nella terra promessa (minuscola, questa) insieme alla felicità di chi intravede un approdo.

Lei, la donna, si chiama Joy ed è giovanissima. Ha vent’anni anni e quando è arrivata in Italia ha pensato di avercela fatta davvero dopo essere stata curata e rassicurata su quel bambino che sarebbe nato da lì a poco. A vent’anni anche se ti è rimasta la guerra dentro agli occhi speri di poterla cacciare indietro con tutta la vita che ti rimane da vivere.

E invece Joy è rimasta impigliata sulle barricate anche qui, nella terra che non ha mantenuto la promessa. Joy è una delle dodici donne vigliaccamente ricacciate indietro dagli abitanti di Gorino così splendenti nel loro machismo straccione che si è esibito contro una ventenne incinta. Deve aver creduto, Joy, di non avere scampo. Deve aver temuto di essere inseguita dalla sua terra anche nelle terre degli altri. Aveva superato sete, deserto, ricatti per fermarsi alla periferia di un paesino di provincia.

Ma nel presepe, si sa, le storie finiscono bene e così l’altro ieri è nato Michael, il bambinello. In un letto di Ferrara la nascita si è consumata nonostante tutto e nonostante tutti. Madre, figlio e anche il padre, Lamid, che qualche giorno fa è riuscito a contattarla e dirle che sta bene, che sta arrivando. Ora è il tempo della nascita. Il natale, appunto.

Buon giovedì.

 

La magia del “nouveau cirque” all’italiana

Era il 1972 e, mentre l’Italia risuonava delle bombe del terrorismo, in Francia un regista attore con la passione del mimo, Pierre Etaix, e l’erede di una celebre stirpe di clown, Annie Fratellini, aprivano una scuola nazionale di circo. Dove per la prima volta s’insegnavano, oltre alle tradizionali discipline circensi, anche teatro, danza e mimo. Nasceva così il nouveau cirque, il circo contemporaneo, quello che – abbandonati i tendoni, le gabbie, i domatori e una concezione dello spettacolo come successione di singole performance – si apriva alla contaminazione con altre arti, la musica, la coreografia, prendendosi pure la briga di tessere una regia che definisse la traccia e l’atmosfera dello spettacolo.

Quarant’anni e passa dopo la Francia vanta centinaia di spazi destinati al nouveau cirque. L’Italia invece ne percepisce appena l’eco, grazie soprattutto alle tournée di grandi compagnie internazionali come il Cirque du Soleil. Per il resto, piccoli teatri, locali di eventi dal vivo e un’aura da spettacolo sperimentale. Ma c’è chi scommette sulla possibilità di creare una produzione di circo contemporaneo totalmente italiana. Lo ha fatto WonderArt Entertainment, piccola società di produzione di spettacoli teatrali e cinematografici (www.waemagic.com), che il 16 dicembre sarà in scena all’Atlantico Live di Roma con un “Circo Magique” che attinge al cuore della tradizione circense, rielaborandola e contaminandola con la danza aerea, la ginnastica e l’illusionismo.

Per l’occasione sono stati ingaggiati i migliori artisti provenienti dai teatri e dai circhi di tutta Europa, tra cui il Clown Carillon del Circo Roncalli, Van Denon, straordinario interprete di grandi illusioni, e l’acrobata Ilaria Venturi, che si esibirà in una struggente performance di tessuti aerei. «Circo magique – spiegano la regista Francesca Bellucci e il direttore artistico Alessio Masci – ha una caratteristica appartenente al circo classico ma squisitamente moderna: l’inserimento della magia tra le arti circensi. Così, accanto agli acrobati, clown ed equilibristi, ecco gli illusionisti, i manipolatori. E ancora la sand art e il fantasismo di scuola italiana».

Un modo per rendere omaggio anche al circo nazionale, «caratterizzato da una visione mista con la clownerie moderna, il teatro, l’avanspettacolo e il cabaret. Un’unità straordinaria di arti tenuta insieme dal fil rouge di un grande carrozzone performativo, teatrale e nomade».

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Poletti conferma. Renzi vuole evitare il referendum sul jobs act

Poletti e Renzi in conferenza stampa
Il presidente del consiglio Matteo Renzi (s) con il ministro del lavoro e politiche sociali Giuliano Poletti (d) durante la conferenza stampa a palazzo Chigi al termine del consiglio dei ministri, Roma 18 maggio 2015. ANSA/ANGELO CARCONI

La bomba l’ha sganciata Poletti, svelando ciò che Left aveva tristemente subodorato – tant’è che sul prossimo numero in edicola, Tiziana Barillà chiede direttamente a Maurizio Landini cosa farà se il Pd dovesse spingere per far finire la legislatura anticipatamente, con una tempistica utile a far slittare il referendum sul jobs act, quello sui voucher e gli altri quesiti “sociali” su cui la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme. Perché questa, dice Poletti, è l’idea dei più. «Mi sembra», ha detto il ministro ai cronisti, «che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto. E se si dovesse andare ad elezioni anticipate diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul jobs act sarebbe rinviato».

Intendiamoci: non è affatto detto che vada così, perché non sono Renzi e Poletti da soli a determinare i tempi di scioglimento delle camere (non è detto che Renzi riesca come vorrebbe a telecomandare governo e legislatura a distanza). C’è ad esempio la minoranza dem (con Speranza che replica al ministro: «Più che invocare le urne per evitare che si svolga il referendum, è necessario intervenire subito sul Jobs act, a partire dai voucher») e ci sono poi gli altri gruppi parlamentari, ognuno con il suo calendario in mente, e un accordo sulla legge elettorale che – salvo smentire mesi di retorica sulla necessità di una sola legge per due Camere – non sarà poi così rapido da raggiungere.

Ma l’idea è dunque quella. Stamattina era stata anticipata, prima che Poletti confermasse, da alcuni retroscena. Su La Stampa, Fabio Martini ha fatto dire a un anonimo renziano: «Dopo la sconfitta del Sì al referendum costituzionale, non è il caso di rischiare un’altra batosta». Quindi: o si cambia almeno un po’ la legge per disinnescare il referendum (difficile, però, senza disconoscere la legge, pilastro del governo Renzi) o – e Renzi preferirebbe – si tiene a mente la scadenza, indicandola come termine massimo della legislatura.

Una scadenza molto ravvicinata, che obbligherà quindi il Pd a fare in fretta il congresso e le primarie (che Renzi vuole – come vi raccontiamo sempre su Left in edicola da sabato – per ritrovare la spinta prima del voto), e che avrà un primo passaggio l’11 gennaio, quando la Corte Costituzionale esaminerà l’ammissibilità delle richieste della Cgil, con i tre referendum popolari abrogativi già accolti dall’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione. “Abrogazione delle disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi”, “Abrogazione delle disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti” e “Abrogazione delle disposizioni sul lavoro accessorio (voucher)”, questi sono i quesiti che Landini riempie di un ulteriore significato, dopo il referendum ignorato del 4 dicembre: «Visto che non capiscono l’esito del voto del 4 dicembre, o fan finta di non capire», dice alla nostra Barillà, «penso che serva un altro voto in cui si esprima direttamente un giudizio negativo sulle politiche sociali del governo. Evidentemente il voto di giovani e donne, di chi sta peggio e non ha accettato queste politiche non è bastato».


La legislatura, insomma, dovrebbe finire prima di aprile
. O prima della data che si assegnerà alla consultazione. Questo perché la legge 352 del 1970 stabilisce che «ricevuta comunicazione della sentenza della Corte costituzionale, il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri», indica con decreto il referendum, fissando la data di convocazione «in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno». E però, «nel caso di anticipato scioglimento delle Camere», continua la legge, ben chiara nella testa di Poletti, «il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso», destinato a slittare ben un anno dopo, almeno, le elezioni. Renzi, così, non rischierebbe di veder demolita, dopo la riforma costituzionale, un’altra sua legge-manifesto.

A Calais è pronto il muro anti-migranti. È il quarto d’Europa

Trucks drive past a 4 meter high (13 foot high) wall along the highway leading to the Calais port, outside Calais, northern France, Wednesday, Dec. 14, 2016. Funded by Britain, a wall has been completed to stop migrants from jumping in trucks in Calais heading across the English Channel. (AP Photo/Michel Spingler)

Sono bastati 3 mesi e spesi 3 milioni di euro per portare a termine il “Great wall”, il grande muro di Calais voluto dalla Gran Bretagna per impedire ai migranti di passare il confine con la Francia introducendosi illegalmente nei camion diretti a Dover, attraverso il tunnel della Manica. La fine dei lavori, iniziati il 20 settembre scorso, è stata annunciata dalle autorità francesi: 4 metri di altezza per un chilometro di lunghezza di cemento armato e telecamere di sorveglianza. L’opera è stata interamente finanziata dal governo britannico con 2,7 milioni di euro, a completamento del recinto di ferro e filo spinato già eretto per impedire l’accesso al porto.

2016 AP YEAR END PHOTOS - An aerial view shows a makeshift migrant camp near Calais, France, on Oct. 17, 2016. The French evacuated 6,400 migrants from the encampment in 170 buses, starting on Oct. 24, 2016, with the intent of resettling the migrants in different regions of France. On Oct. 26 French authorities announced that the camp had been cleared. (AP Photo/Thibault Camus, File)
Calais, 17 ottobre 2016. Vista aerea del campo chiamato Giungla di Calais

Il muro sorge a poche centinaia di metri dalla ex-Giungla di Calais, che il governo di Parigi ha smantellato questo autunno. A ottobre la polizia francese ha dato il via allo sgombero delle circa 7mila persone dal campo. Una sessantina di pullman li ha portati nei centri d’accoglienza di altre regioni francesi. L’accampamento è stato demolito il 25 ottobre, ma le tensioni restano, dal momento in cui alcuni migranti rifiutano il trasferimento. Tra scontri, incendi e lanci di lacrimogeni, il flusso di profughi e migranti rimane, comunque, ininterrotto.

Migrants line-up to register at a processing center in the makeshift migrant camp known as "the jungle" near Calais, northern France, on Oct. 24, 2016. The French evacuated 6,400 migrants from the encampment in 170 buses, starting on Oct. 24, with the intent of resettling them in different regions of France. On Oct. 26 French authorities announced that the camp had been cleared. (AP Photo/Emilio Morenatti)

Quello di Calais è il quarto muro d’Europa. Prima degli inglesi e dei francesi, si sono già adoperati. A novembre 2016, i tedeschi hanno costruito il muro anti-immigrati a Monaco di Baviera: alto 4 metri, più alto di quello di Berlino, a seguito della protesta della popolazione locale per via del trasferimento di 160 giovani profughi in una struttura vicino alla stazione metro Neuperlach Süd. Poi, c’è la barriera tra la Macedonia e la Grecia, completata a marzo 2016. E la barriera di lamette e filo spinato lunga 175 chilometri e alta 4 metri, tra l’Ungheria di Orban e la Serbia, che ha il “primato” essendo stata completata a settembre 2015.

Mozione parlamentare contro la riforma del lavoro: Psoe, Podemos e Izquierda Unida avvertono Mariano Rajoy

epa05674241 Spanish Prime Minister Mariano Rajoy (L) and deputy Prime Minister Soraya Saenz de Santamaria (R) attend a plenary sesion of the Upper House of the Spanish Parliament in Madrid, Spain, 13 December 2016. EPA/KIKO HUESCA

Arriva la prima batosta per il governo di Mariano Rajoy. Il Parlamento spagnolo ha approvato una mozione che invita l’esecutivo a rivedere la riforma del lavoro approvata nel 2012 dal precedente governo a guida Popolare.

L’iniziativa è partita dalle fila del Partito socialista (Psoe) e ha ottenuto l’appoggio di Podemos e Izquierda Unida. Ma è stata fondamentale anche l’astensione di Ciudadanos, il partito centrista guidato da Albert Rivera.

Sebbene la mozione non abbia un effetto vincolante, rappresenta un segnale importante. In primo luogo, dimostra che esiste un margine di successo per iniziative comuni a sinistra. In secondo luogo, espone la fragilità del governo di minoranza di Mariano Rajoy.

Come riporta Euractiv, per Rafael Simancas, deputato del Psoe e volto pubblico dell’iniziativa, «la riforma del 2012 ha portato precarietà, sfruttamento [dei lavoratori] e un aumentato della povertà». D’altra parte, va anche detto che la disoccupazione spagnola è scesa in 4 anni dal 27 al 19 per cento – rimane comunque il secondo dato più elevato nell’Ue, dopo quello greco.

A El Pais, Simancas ha però ricordato che la mozione ha come obiettivo quello di promuovere «un’economia “equa” in cui i lavoratori siano protetti».  Inoltre, Simancas ha detto che è necessario lavorare a un nuovo statuto dei lavoratori che identifichi «le nuove forme di ingiustizia», tra cui il fenomeno dei “falsi autonomi”, ben noto anche in Italia.

La riforma del lavoro in questione era stata approvata dal Pp senza l’appoggio di altri partiti nel Parlamento e aveva provocato proteste da parte di sindacati e partiti di sinistra. Insieme alla nota “ley mordaza” (una norma che vieta alcune forme di protesta in luoghi pubblici), è stata una delle norme più contestate della precedente legislatura.

Leggi anche:

GermaniaHandelsblatt – Roland Berger, fondatore dell’omonima società di consulenza di rango mondiale, sostiene che la Germania dovrebbe uscire dall’Euro

Regno Unito  – The IndependentLa Camera dei Lord ha invitato Theresa May a difendere i diritti dei cittadini Ue che vivono su territorio britannico

EuropaEuractiv – Arriva la proposta della Commissione europea per arginare il così detto “turismo del welfare”: niente sussidi alla disoccupazione per migranti Ue che non hanno lavorato almeno tre mesi nel Paese di destinazione

Dire “No” come Rosa Parks in Arabia Saudita. A rischio della vita

epa02929334 A woman wearing a niqab speaks on her phone outside the courthouse in Meaux, near Paris, France, 22 September 2011. ANSA/IAN LANGSDON

L’hanno paragonata a Rosa Parks. Solo che anziché su un autobus, il suo gesto di semplice rifiuto il nome della libertà di scelta, è arrivato tramite social network.

La “ribelle”, un mese fa, assieme all’annuncio che sarebbe uscita di casa senza il tradizionale abaya (un abito lungo, di tessuto nero, che copre le forme, comprese mani e piedi), posta una sua foto che la ritrae così: per strada, giacchetta alla moda, pantalone multicolore sopra la caviglia, e soprattutto, capo scoperto. Niente niqab, niente hijab, niente di niente. E per Malak al-Shehri, che con il suo tweet ha sfidato il restrittivo codice dell’abbigliamento vigente in Arabia Saudita, è scattato l’arresto.

Il portavoce della mutawwīn, la polizia religiosa che ha il compito di vigilare sul “rispetto della virtù” e l’applicazione della sharia, nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa, ha raccontato che la ragazza, appena ventenne, avrebbe “perfino” parlato pubblicamente di relazioni intrattenute con uomini che non erano suoi parenti. Cosa proibitissima nel regno del golfo Persico. Il Paese wahhabita è infatti, uno degli stati nei quali vige un codice comportamentale fra i più restrittivi del mondo musulmano. Senza l’espressa concessione dell’uomo, la donna non può uscire, viaggiare, guidare, fare la spesa, firmare un contratto.  E perfino sottoporsi a un’operazione. E negli ambienti pubblici, dal lavoro, alla scuola, la separazione fra i due sessi è rigidissima.

Un gesto, dunque, quello di Shehri (che significa angelo), che non poteva non scandalizzare i sauditi. Tanto che in molti, soprattutto uomini, ne stanno chiedendo l’esecuzione via Twitter, con l’hashtag che, tradotto, sarebbe “Chiediamo l’arresto dell’angelo ribelle”.

Ma oltre agli utenti inferociti, che ne chiedono la morte nelle maniere più violente, si sono mossi anche migliaia di sostenitori.

 

Sono un centinaio, ogni mese, le decapitazioni eseguite nel regno. Con una popolazione di quasi 29 milioni di persone, l’Arabia Saudita rischia di raggiungere e perfino superare le oltre duemila esecuzioni capitali all’anno.

Ma qualcosa nel Paese si sta muovendo. A settembre, a seguito del rapporto di denuncia di Human Rights Watch pubblicato a luglio, una petizione aveva raccolto decine di migliaia di donne, che chiedevano la fine del sistema di “tutela” maschile. I “tutori”, o “guardiani”, possono agire e disporre pressoché senza limiti delle “loro” donne, e in caso di abuso, sempre in virtù del suddetto codice, è purtroppo molto difficile che venga riconosciuto colpevole. La petizione ha avuto ampia risonanza internazionale.

Forse per questo, a fine novembre, il principe saudita Al-Waleed bin Talal, si è schierato dalla parte delle donne, difendendo il loro diritto a guidare. «Stop al dibattito, è giunto il momento che le donne guidino». Nel suo lungo appello, il 41esimo uomo più ricco del mondo, lo definisce un «atto sleale, più restrittivo rispetto a ciò che è legalmente consentito dai principi della religione», ed elenca anche i benefici economici che deriverebbero dall’eliminazione di questo dogma, al suo Paese, unico al mondo nel quale persiste ancora questo divieto. «Oltre un milione di signore in Arabia Saudita per muoversi sono obbligate a dipendere da autisti privati o di un taxi. E se un marito trova il tempo per portare con la propria auto la moglie, questo significa che sarà assente dal lavoro, compromettendo la produttività». Ogni famiglia saudita spenderebbe mediamente 950 euro al mese per pagare il servizio di autista.

Soprattutto, Al-Waleed, conosciuto nell’establishment  per la sua franchezza, ricorda che «l’Arabia Saudita è stata paziente e ha consentito alla società di evolversi secondo i propri tempi e desideri», scrive. Ma «impedire alle donne di guidare è oggi una questione di diritti, come lo era impedirle di ricevere un’istruzione o avere un’identità indipendente. Sono tutti atti iniqui da parte di una società tradizionale, molto più restrittivi di quando non sia previsto dai precetti religiosi. Il divieto di guidare è fondamentalmente una violazione dei diritti della donna».

Naturalmente, per tutto il resto, c’è tempo.

 

 

 

 

Ad Aleppo l’evacuazione dei civili in stallo

This photo released by the Syrian official news agency SANA, shows a graveyard in east Aleppo, Syria, Tuesday, Dec. 13, 2016. Syrian rebels said Tuesday that they reached a cease-fire deal with Moscow to evacuate civilians and fighters from eastern Aleppo, after the U.N. and opposition activists reported possible mass killings by government forces closing in on the rebels' last enclave. (SANA via AP)

L’evacuazione dei ribelli Aleppo orientale deve ancora cominciare. Se ieri sera era giunta la notizia di un accordo raggiunto con la mediazione di Russia e Turchia (ciascuna garante di una delle parti coinvolte nel combattimento) nessuno sembra aver ancora lasciato la parte della città ancora nelle mani dei ribelli.

Venti bus governativi che dovrebbero facilitare il trasferimento – ma che in altri casi sono anche stati usati per arrestare chi si arrendeva –  sono arrivati, ma nessuno è ripartito. Il governo siriano chiede infatti l’evacuazione simultanea dei propri combattenti feriti e dei civili dalle città vicine che sono a loro volta circondate da forze dei ribelli.

I gruppi ribelli accusano le milizie sciite sostenute dall’Iran di ostacolare l’accordo negoziato da Ankara e Mosca. Orient TV, un canale vicino all’opposizione dice che ci potrebbe essere un ritardo di un giorno.

Il ministro degli esteri francese ha detto il Mercoledì che la confusione che circonda l’evacuazione ha mostrato come sia indispensabile che questa venga fatta sotto gli occhi di osservatori delle Nazioni Unite. «La Francia vuole che la presenza di osservatori delle Nazioni Unite sul terreno e le organizzazioni umanitarie come la Croce Rossa deve intervenire» Jean-Marc Ayrault ha dichiarato alla France 2. Dall’Onu fanno sapere di non essere stati coinvolti nei preparativi, ma di essere pronti a intervenire.

La Turchia accusa Assad e l’Iran di voler rimandare l’evacuazione.

Martedì scorso, le Nazioni Unite ha espresso profonda preoccupazione per le notizie relative a soldati siriani e combattenti iracheni che avrebebro ucciso sommariamente 82 persone nei distretti di Aleppo est ricatturati.  «I rapporti che abbiamo parlano di persone in fuga, prese in strada o nelle loro case», ha detto Rupert Colville, portavoce U.N.. «Potrebbero essere molti di più».

L’esercito siriano ha negato di effettuare uccisioni o torture tra quelli catturati, e la Russia ha sostenuto che i ribelli hanno trattenuto contro il loro volere più di 100.000 persone.

Reuters riporta alcune voci ci abitanti che parlano della paura di essere arrestati o di essere uccisi. «La gente dice che le truppe hanno liste di famiglie di combattenti e chiedono loro se avevano figli con i terroristi», ha raccontato all’agenzia Abu Malek al-Shamali di Seif al-Dawla , uno degli ultimi quartieri abbandonati dai ribelli.

 

“Dove sono gli Ultras”. La crisi della democrazia spiegata con il tifo da stadio

«Semo le redini dell’antico impero, solo che ar posto de spade c’avemo spranghe de fero…quanno arrivamo nun c’aspettate, datece retta: corete, scappate!» gridavano come fossero un esercito i tifosi ultras di un film dei primi anni 90. Ecco, è proprio a quei tifosi che la mostra Dove sono gli ultras di Cristiano Carotti (alla White Noise Gallery a Roma fino al 14 gennaio) sembra aver rubato i vessilli. Lo scopo del lavoro di Carotti è quello di raccontare, attraverso l’estetica sociale del gruppo – brutale, primitiva e violenta – il cedere dell’Occidente all’irrazionalità del simbolo, alle urla piuttosto che al dialogo, alla definizione dell’identità sulla base della logica del nemico, del Noi contro Loro.

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Croci, pantere, diavoli, teschi, orsi, bulldog diventano così non solo dei totem per definire l’appartenenza a una fazione piuttosto che ad un’altra, ma veri e propri oggetti di culto che testimoniano la fede incondizionata e cieca dell’ultrà, la stessa che fede cieca e incondizionata che finisce per travolgere anche molti cittadini di fronte alla politica e che segna inesorabilmente la crisi della democrazia.

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Partendo da questo repertorio Carotti, indaga quindi i meccanismi della collettività, fra archetipi, inconscio ed echi junghiani, per raccontarci la “pancia del Paese” e un’epoca come la nostra in preda ad una forte crisi identitaria e sedotta da irrazionalità e populismi.
La radicalità del gesto espressivo, la scelta della pittura ad olio stesa in maniera materica su stoffe, sciarpe, giubbotti, bandiere – dall’aspetto chiaramente e volutamente reliquiario – e la musica di Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours che sostituisce il naturale sfondo sonoro dei cori ultras, rafforzano il distacco del simbolo dalla propria funzione calcistica per esaltarne la dimensione emozionale e farci riflettere sul meccanismo sociale che si innesca nel popolo quando si riduce ad essere forse solo folla.

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Carotti indaga visivamente i meccanismi della collettività per raccontarci la pancia del Paese e un’epoca in crisi sedotta da irrazionalità e populismi.

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