Referendum, i dati del voto: giovani e disoccupati trascinano il No

Il risultato è di quello che non lascia scampo a equivoci e letture distorte. Non sulle riforme che il governo aveva imposto al Parlamento. Il Sì è fermo al 40,89%, mentre i No arrivano al 59,11%. Questo il dato definitivo, per poche migliaia di voti non si tocca la soglia simbolica del 60%. Quanto all’affluenza, 68,48% degli aventi diritto, era dalla tornata referendaria del 1993, quella che abolì il proporzionale e il finanziamento pubblico ai partiti, in piena era post tangentopoli, quando la partecipazione al voto era più alta, che non si registravano tanti elettori alle urne per un Sì o un No. E dopo di allora si sono tenute dieci consultazioni referendarie.
È un dato positivo comunque la si veda. Le persone si sono appassionate alla discussione e hanno scelto di andare a votare. Le regioni in cui si è votato di più sono quelle rosse, Toscana, Emilia Romagna, Umbria, Marche. Quella dove si è votato di più in assoluto è il Veneto. Che ha anche votato molto per il No. A differenza delle rosse, che in due casi (Toscana ed Emilia) regalano la vittoria a Renzi e alla sua riforma, le uniche assieme al Trentino-Alto Adige. Ma per un soffio. Cosa impensabile in un’altra epoca. Gli allarmi, gli appelli alla responsabilità e a non votare contro il partito, qui hanno funzionato di più che altrove. L’idea delle ultima settimane era proprio quella di un governo che puntava molto sul senso di responsabilità dei suoi elettori più fedeli. Ha funzionato. Ma poco.
Il No più sonoro arriva dalle regioni del Mezzogiorno: dalla Campania di Luigi De Magistris, 70% di No in provincia di Napoli, e Vincenzo De Luca, che pure aveva spiegato più volte come si fa a vincere. Nella “sua” provincia di Salerno sono meno, ma toccano pur sempre il 64%. La Puglia di Michele Emiliano. Prime in assoluto, Sardegna e Sicilia. A Milano, Firenze, Bologna vince il Sì, a Napoli, Roma, Torino, Genova, Palermo, Bari, Cagliari, Venezia è il No ad avere la meglio. Il Sì vince anche nella circoscrizione estera. Dove hanno votato in tanti. E anche questo è un buon risultato, al netto delle polemiche degli ultimi giorni (non parliamo di quella grottesca sulle matite: il voto mostra come questa sia una democrazia solida).
E a proposito di regioni del Mezzogiorno, c’è il dato rilevato da YouTrend nel tweet qui sotto che è una cartina di tornasole. È un segno che torna anche quando guarderemo al dato generazionale: il governo ha messo tutte le sue energie (e Renzi la testa sul ceppo) per far passare a colpi di maggioranza una riforma della costituzione. Giovani e disoccupati (ma anche leghisti che vogliono cacciare gli immigrati e uscire dall’Europa, sia chiaro) mandano a dire una cosa scontata: la riforma non era cruciale per far cambiare passo al Paese.
Nei 100 comuni con più disoccupati il No vince con il 65,8%, nei 100 con meno disoccupati vince il Sì con il 59% #referendumcostituzionale
— YouTrend (@you_trend) 5 dicembre 2016
Oggi, piuttosto, con Renzi che ha fatto il peccato originale di chiedere un referendum su di sè e poi ha sbagliato nell’agitare lo spauracchio delle banche e della stabilità, è solo la vittoria del No che rischia di danneggiarlo il Paese. Eppure questo non era un voto sull’economia, l’Euro o cose simili. Doppio errore, pagato doppio.
I giovani hanno votato No. Qui ovviamente ci si basa sugli exit poll e non su dati reali e la forbice, a seconda dei diversi istituti, ci dice che gli unde 34 hanno votato contro la riforma tra il 69% e l’81%. Il Sì ha vinto solo tra gli over 55, con una forbice che oscilla un pochino. Anche questo è un dato che suona male per il presidente più giovane dei giovani – ma non dimentichiamocelo: la copertina di Chi vestito da Fonzie non era un messaggio a chi vuole cambiare, ma corteggiamento agli stessi anziani corteggiati per anni da Berlusconi.
Quanto ai flussi di voto, che andranno letti con pazienza nei prossimi giorni: QuorumSas segnala che un quarto degli elettori Pd avrebbe votato No. In fondo è il dato che conta: nel partito del presidente del Consiglio c’è chi ha votato Sì per timore delle conseguenze, chi per disciplina. Quelli che ci credevano, nella riforma, erano davvero pochini. Lo stesso istituto segnala che il 54% di chi ha votato No lo avrebbe fatto perché non gli piaceva il testo (e non per dare un segnale politico). Anche questo è un buon dato: più di metà di coloro tra coloro che hanno scelto il No non hanno seguito Salvini e gli altri che gridavano “Renzi a casa” ma il testo uscito dalla costituente.
Quell’accozzaglia chiamata Costituzione. O forse le chiacchiere in suo nome
Innanzitutto: Renzi sa perdere. Ma non sa vincere. Meglio: non sa vincere senza incappare poi in derive padronali che tanto piacciono ai governanti e a tanti governati. Ma si è dimesso, furbescamente subito, per chiudere in fretta la stagione sperando di ripulire in fretta i veleni. Eppure è lo stesso Renzi che fino a un minuto prima della chiusura delle urne ha distribuito prebende, elargito bonus a pioggia, che ha fatto le fusa a Confindustria e irriso i sindacati, che a urne ancora aperte ha annunciato la conferenza stampa (a proposito di “stabilità”, tra l’altro), che ha voluto trasformare una revisione costituzionale nell’ennesimo suffragio personale e che ha usato il Parlamento come inevitabile passaggio di ratifica di decisioni di Governo.
È tutta sua la sconfitta e il fatto che l’abbia riconosciuta nel suo discorso di dimissioni non ne sminuisce le responsabilità: la Buona Scuola, il Jobs Act, il decreto salva banche, una brutta legge elettorale e questa brutta riforma costituzionale sono la fotografia di un’epoca di Leopolde piene e urne vuote.
Poi c’è la Costituzione, ancora una volta sottoposta a un tentativo di riforma in nome di un’incapacità di governare con le regole. Almeno la Costituzione, almeno quella è salva. E forse sarebbe il caso di provare a non farci chiasso sopra. Basta, dice il referendum. Basta.
Dopo il No, la democrazia che vogliamo

L’aveva scritto Raffaele Lupoli sabato. E la vignetta di Vauro che rappresentava un No enorme che avrebbe schiacciato Renzi, era giusta filologicamente ma non era giusta per noi. Perché a noi che questo No schiacciasse Renzi non interessava affatto. Noi il No lo abbiamo “smisuratamente” sostenuto perché era simbolo e strumento per fare un Rifiuto grande come la Costituzione. Un rifiuto immenso nei confronti di una cialtroneria, di una arroganza, di una onnipotenza, di un tale scarso senso del Paese, della cultura democratica e della vita delle persone che ci faceva impressione. Grande impressione.
Aspettavamo la reazione, ma quella che abbiamo visto ha grandemente superato ogni aspettativa. Tutti corrono a metterci il cappello, tutti corrono a mascherarla di destra. Tutti corrono a intervistare i Salvini e i Brunetta. Tutti. Tutti hanno interesse a dipingere di nero questa reazione. Tutti cercheranno di sporcarvi. Ed invece non è così.
Voi, il popolo italiano, così vi hanno chiamato, avete votato per la vostra Costituzione, perché è bella e giusta e perché sono trent’anni che viene disattesa, ed è già troppo. Sono trent’anni che non avete dalla vostra parte uno Stato che vi garantisca il libero sviluppo della vostra persona e che rimuova gli ostacoli che non la permettono. Prendervi in giro, cambiarla per non cambiare. Cambiarla per accentrare pensando di potervi manovrare forse era davvero troppo. Le conseguenze? Vere o presunte? Riempiranno le pagine di giornali e le bocche dei tanti, proveranno anche a farvi sentire in colpa per aver sfasciato. E invece no, nessuna colpa. Non si può sfasciare ciò che è già sfasciato. Tenetelo bene a mente. E non fatevi intimorire dalle minacce dell’ex presidente del Consiglio su onori e oneri. O dagli opinionisti di turno.
Lasciateli parlare a vanvera, avranno bisogno di riposizionarsi. E state all’erta, chiediamo il meglio. Da oggi in poi solo il meglio. Questa è un’occasione non per la destra, o almeno poco ci riguarda quella partita, ma per la sinistra. Vedo appelli che recitano “dal No al Noi”, vedo passione. Provo grande pena per chi non ne ha avuta, per chi ha mentito, per chi si è schierato per convenzione più che per convinzione, per chi lo ha fatto per convenienza o per paura e per chi non si è schierato affatto. Noi paura non ne abbiamo avuta. Perché il rifiuto è continuo e la rivolta pure. E perché il meglio lo dobbiamo realizzare.
Ha vinto la maggioranza degli italiani. Questo è. Il resto conta e ci ragioneremo, ma la verità è che la maggioranza ha detto No. E ora abbiamo un sacco da fare.
Renzi si dimette. Perché e cosa succede adesso

Cosa è successo
«Come era chiaro sin dall’inizio, l’esperienza del mio governo finisce qui». Con queste parole Matteo Renzi mette fine, passata da poco la mezzanotte, alla lunga domenica referendaria e, insieme, al suo governo. Che dura, dunque, poco più di mille giorni.
E finisce perché il No ha vinto nettamente nel confronto sulla riforma costituzionale, proposta, approvata in Parlamento, e sostenuta nella campagna elettorale, direttamente dal governo. Che quindi paga il conto, tutto, anche se Renzi, in un composto e breve discorso, dice che a perdere è stato solo lui. «Ho perso io», dice il presidente del Consiglio, «in un’Italia dove non perde mai nessuno». E il governo, così, è solo la prima vittima (incolpevole, parrebbe) della personalizzazione.
Matteo Renzi, comunque, non può fare altro (e forse neanche vuole far altro). Mentre parla, le proiezioni e i dati che arrivano dai seggi danno al No quasi il 60 per cento dei consensi, con il Sì che vince sono in Trentino Alto Adige, come regione, e, nei comuni capoluogo, solo a Firenze, che è la prima città del Sì, col 56 per cento, a Milano, ma di un pelo, e a Bologna. Ci sarà ovviamente tempo per i dettagli – con qualche numero che magari cambierà – e per le conferme. Che a Renzi però non servono, perché la sconfitta è netta. Ed è fotografata già dai primi exit poll che girano nelle redazioni dei giornali (e quindi anche a palazzo Chigi) a metà pomeriggio.
Solo che erano persino ottimisti, i primi exit poll, con Masia, il sondaggista di La7, che – per dire – dava il No al 55 per cento. Quello che si delinea dopo solo mezz’ora di scrutinio è invece «un dato inequivocabile», come dice Renzi. Che può consolarsi solo con l’affluenza. Se questo è stato un voto anche contro di lui – è infatti il ragionamento che si fa ma non si dichiara – è stato anche un voto a suo favore, con un bel 40 per cento (ricordate le Europee? Il Sì prende oggi più o meno gli stesi voti presi allora da Pd e Ncd) di «sostenitori del Sì». Sostenitori a cui Renzi si rivolge direttamente in conferenza stampa e che oggi più che mai deve far passare come suoi: «Fare politica andando contro qualcuno è facile, fare politica per qualcosa è più difficile ma più bello», dice Renzi, «a chi si è speso per il Sì».
Cosa succede adesso
Con il suo discorso Renzi ci porta tutti al 5 dicembre. Al giorno dopo, che sarà il giorno delle dimissioni, anche se il governo ovviamente continuerà a lavorare – come ricorda Renzi – tentando di portare a casa la legge di bilancio e i decreti sul terremoto. Il segretario e premier del Pd, però, salirà al Colle e rimetterà il suo mandato.
E poi? Movimento 5 stelle e Lega Nord chiedono di andare subito al voto, senza neanche modificare la legge elettorale (modifica di cui ci sarebbe bisogno, teoricamente, valendo l’Italicum solo per la Camera). Di Maio e Di Battista («Non dite più che siamo quelli dell’antipolitica», ha detto Dibba, «siamo quelli della Costituzione») hanno spiegato che sarà il prossimo parlamento a fare semmai una nuova legge, visto che si può votare con il ciò che uscirà dalla sentenza attesa sull’Italicum. Lo scenario del voto immediato però è il meno probabile. E non solo perché Forza Italia con Berlusconi ha subito aperto a «un tavolo per cambiare l’Italicum».
Mattarella infatti proverà la strada di un governo di scopo, sicuramente e a prescindere dalle dichiarazioni di Berlusconi, anche e proprio per fare una nuova legge elettorale. Franceschini, Grasso, Padoan. Avventurarsi nei retroscena non vale la pena: meglio attendere. Ma qualcosa ci sarà (con D’Alema che si appella alle forze responsabili – ! – per evitare il voto subito). E c’è chi spera persino in un Renzi bis, a cui Mattarella potrebbe chiedere di prendersi l’onere. Anche questo scenario è però poco probabile.
Non fosse perché Renzi per ora l’ha stoppato, sempre parlando in conferenza stampa. «Consegnerò la campanella al mio successore, chiunque sarà, con tutto il lungo dossier delle cose fatte e delle cose da fare», dice Renzi chiudendo così, almeno per il momento, a un secondo mandato. Tentazione che al Colle però c’è, come sembrerebbe confermare lo stesso con un messaggio per Mattarella recapitato con il tweet che anticipa l’inizio della conferenza stampa. «Arrivo, arrivo», scrive Renzi, con tanto di emoticon sorridente, evocando così l’attesa a cui costrinse tutto il Paese – ma soprattutto la stampa – nel giorno del primo incarico, quando rimase chiuso a lungo, riunito con il presidente.
Grazie a tutti, comunque. Tra qualche minuto sarò in diretta da Palazzo Chigi. Viva l’Italia!
Ps Arrivo, arrivo😀— Matteo Renzi (@matteorenzi) 4 dicembre 2016
Renzi sembra così concentrato a ritrovare la forma che questo referendum gli toglie. E se non vuole veramente cambiare mestiere deve darsi nuovo lustro: e per quello niente di meglio esiste che le primarie del Pd (il cui primo capitolo, a questo punto, è la direzione convocata per martedì). Primarie da anticipare, dunque, prima che la minoranza dem – hai visto mai – si riorganizzi. Vinte quelle, completata la colonizzazione del Pd (finora Renzi ha fatto i conti con gruppi parlamentari eletti ai tempi di Bersani), Renzi può tentare di tornare a palazzo Chigi. Questa volta dopo un voto.
Acqua e fumo. Dagli incendi di Gerusalemme ai ghiacci ucraini






contro la costruzione di un oleodotto vicino alla riserva di Standing Rock Sioux, a cavallo tra North Dakota e South Dakota. Circa ottocento persone stanno manifestando da mesi contro quella che ritengo una profanazione delle terre sacre e un pericolo per le risorse idriche. (AP Photo/ David Goldman)




Gallery a cura di Monica di Brigida
Arriva Trump, addio alla scienza Usa?
«E ora, cosa succederà alla scienza?», si chiede Rush Holt in un editoriale su Science. Holt è il Consigliere d’amministrazione della American association for the advancement of science (Aaas), la più grande e influente associazione scientifica del mondo. Science è la rivista dell’Associazione e, insieme all’inglese Nature, la più prestigiosa e diffusa rivista scientifica del pianeta. La domanda dell’editoriale riguarda il futuro della scienza e dei problemi connessi alla scienza negli Stati uniti d’America, dopo il ciclone Trump. Per ora – e già questa è una novità – non ci sono risposte certe alla domanda. E l’incertezza riguardo al tema rende inquieta la comunità scientifica e non solo: per il semplice fatto che da oltre settant’anni l’economia, l’occupazione, la sanità e la sicurezza militare degli Stati uniti d’America si fondano sulla scienza. E i ricercatori americani non possono contare solo su enormi risorse, le maggiori al mondo, ma sono parte integrante e importante della classe dirigente, cooptati nelle stanze dove si prendono le decisioni strategiche per il futuro del Paese (e del pianeta). Sono parte dell’establishment. Di quell’establishment che il candidato Trump ha detto di voler mandare a casa.

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L’Argentina nera di Macri un anno dopo

È passato un anno dall’elezione dell’iperliberista Mauricio Macri alla presidenza in Argentina. Con lui, per la prima volta nella storia di questo Paese, un rappresentante della destra è al potere dopo aver vinto delle elezioni democratiche. Con quali conseguenze sul tessuto sociale di una nazione che non ha ancora del tutto assorbito i postumi della crisi economica di inizio millennio, e che sta ancora facendo i conti con gli anni bui della dittatura civico-militare?
Lo abbiamo chiesto a Horacio Verbitsky, firma di punta del giornalismo d’inchiesta latinoamericano. Dalle sue parole emerge un quadro socio-politico ed economico che ha sinistre analogie con un passato che la parte sana della società civile argentina pensava di non dover vivere mai più. Per l’occasione, dopo oltre tre anni Verbitsky torna a parlare sulla stampa italiana di papa Bergoglio e dei legami corrotti tra la Chiesa argentina e i militari.

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Morti a un passo dalla libertà. Due “strani” suicidi nel carcere di Paola

Youssef Mouhcine aveva 31 anni ed era nato a Casablanca. Maurilio Pio Morabito aveva 46 anni ed era nato a Reggio Calabria. Entrambi scontavano gli ultimi giorni della loro pena nella casa circondariale di Paola, a Cosenza. Entrambi sono morti pochi giorni prima della loro scarcerazione. Suicidi. Con il gas, nella notte tra il 23 e il 24 ottobre, Youssef; impiccato alla grata della finestra, nella notte tra il 28 e il 29 aprile, Maurilio. Entrambi scontavano questi ultimi giorni di pena in isolamento, all’interno di una “cella liscia”: vuota, niente brande né sanitari, i detenuti fanno i bisogni sul pavimento, senza mobili né maniglie. Una forma di contenimento al limite della tortura, utilizzata per sedare i detenuti in escandescenza, quelli che compiono reiterati atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un detenuto viene rinchiuso lì per punizione, a volte per alcune ore, altre per giorni. Un rimedio che però spesso risulta ancora più deleterio, non è la prima volta che si registrano casi di suicidio all’interno di queste celle. Ora le famiglie di entrambi chiedono di conoscere cosa è accaduto ai loro figli.
Su Left in edicola il 3 dicembre abbiamo ricostruito le vicende grazie alle interrogazioni parlamentari e abbiamo fatto il punto sulle “celle lisce” con il Garante nazionale Mauro Palma.

L’articolo integrale su Left in edicola dal 3 dicembre





