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L’esodo forzato dal Kurdistan turco, centinaia di migliaia in fuga da Diyarbakir

In this Saturday, Nov. 19, 2016 photo, residents sit and walk around rubble in an area in Sirnak, southeastern Turkey, destroyed in government operations against Kurdish militants of the Kurdistan Workers Party or PKK. The 246-day curfew in the mainly-Kurdish city of some 290,000 was imposed on March 14 as part of government operations against PKK. (AP Photo/Cansu Alkaya)

Sono 500 mila i curdi che hanno abbandonato forzatamente le loro case nel sud-est della Turchia e sono alcune decine di migliaia i curdi che hanno abbandonato la città di Diyarbakir nell’ultimo anno per non farvi più ritorno. Pochissimi di loro hanno provato a tornare indietro, invano, poiché le autorità turche hanno sequestrato le loro abitazioni per ristrutturare – qualcuno parla di gentrificare – i quartieri del centro storico della roccaforte curda.

Coprifuoco 24 ore su 24, pattugliamenti di polizia, repressione, demolizioni e intimidazioni è quanto denuncia il rapporto di Amnesty International Sfollati ed espropriati. Il diritto degli abitanti di Sur, centro storico della città e patrimonio mondiale Unesco, al rientro a casa, pubblicato in occasione del primo anniversario del coprifuoco no stop nel distretto di Sur, a Diyarbakir. Un esodo forzato che l’organizzazione internazionale non esita a descrivere come un’azione punitiva contro il popolo curdo, alla luce dei conflitti con il governo turco.

La città di Diyarbakir, anche chiamata dai curdi “la capitale del Kurdistan turco”, è nel mirino del governo di Erdoğan dal 2015 e – ricostruisce il rapporto – da allora convive con un ininterrotto coprifuoco 24 ore al giorno. Cominciato nel luglio del 2015, il divieto di uscire di casa è cominciato dopo la fine della tregua tra il PKK (Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e l’esercito turco, quando la città ha proclamato l’autogoverno curdo e sono state costruite barricate e trincee a protezione di Sur ( e di altri distretti del sud-est della Turchia).

L’11 dicembre dello stesso anno il coprifuoco è stato esteso a tempo indeterminato in 6 dei 15 quartieri di Sur e per un lungo periodo agli abitanti è stato vietato di muoversi da casa, anche per comprare cibo e medicine. Successivamente le autorità governative hanno ordinato agli abitanti dei quartieri storici di abbandonare le loro case e la città si è svuotata e per la prima volta nella sua storia è semi deserta.

Città millenaria della mezzaluna fertile, Diyarbakir è stata riconosciuta patrimonio dell’Unesco a luglio del 2014. Dei 595 edifici storici protetti, sono di particolare importanza la fortezza e i giardini di Hevsel, perché sono situati al centro di Sur e rischiano quotidianamente di subire danni a causa dei conflitti a fuoco. Gli esperti dell’Unità di Monitoraggio e di Indagine della Direzione e della Gestione del Sito ciclicamente controllano lo stato dei monumenti e dei siti archeologici e gli ultimi rapporti evidenziano numerosi guasti e distruzioni (moschee, negozi storici, chiese, architettura civile e manto stradale tradizionale) soprattutto nella zona di Sur.
Contemporaneamente la Camera degli Architetti (che è l’istituzione riconosciuta dalla Costituzione turca deputata alla comunicazione con gli esperti mondiali del patrimonio artistico e storico) ha avviato una procedura contro le espropriazioni in atto nelle zone di conflitto. Dalla fine ufficiale del conflitto, infatti, lo spopolamento della città ha permesso alle autorità di espropriare le proprietà di migliaia di famiglie in fuga e di demolire gli edifici che non ritenevano funzionali al nuovo progetto urbanistico della città di Diyarbakir.

In this Saturday, Nov. 19, 2016 photo, residents look at the damage inside a mosque, in Sirnak, southeastern Turkey, destroyed in government operations against Kurdish militants of the Kurdistan Workers Party or PKK. The 246-day curfew in the mainly-Kurdish city of some 290,000 was imposed on March 14 as part of government operations against PKK. (AP Photo/Cansu Alkaya)
Una moschea distrutta dall’esercito turco a Sirnak (AP Photo/Cansu Alkaya)

Il disegno governativo – che sfrutta a suo favore lo stato di emergenza e le espropriazioni per “ragioni di sicurezza” – prevede la riqualificazione dei quartieri centrali, il ripopolamento ex novo della città e il dislocamento definitivo degli abitanti originari di Sur in altre destinazioni.
I curdi sfollati, infatti, non potranno tornare nelle loro case perché non le ritroveranno e vagano in cerca di soluzioni alternative, senza trovarle, perché il governo ha fatto chiudere le organizzazioni non governative e i centri sociali della regione che davano sostegno agli esuli.
«Non riesco neanche più a piangere. Tutte le lacrime le ho versate per la mia casa che non c’è più» ha dichiarato ad Amnesty un uomo che, rientrato a Sur dopo otto mesi, ha trovato le mura di casa sbriciolate. Mentre una donna che ha tentato di resistere dentro casa ha raccontato: «Ero con i miei due bambini, non abbiamo avuto acqua per una settimana. Un giorno hanno lanciato in casa un candelotto di gas lacrimogeno. Non abbiamo avuto l’elettricità per 20 giorni. Volevo andare via ma non avevo alcun posto dove dirigermi». E poi minacce e violenza ingiustificata da parte della polizia, come raccontano un uomo che ha trovato tutti i suoi beni in fiamme dopo essere stato minacciato dai poliziotti «con le pistole alla tempia» e una donna che ha detto di aver trovato «tutte le cose della sua famiglia a pezzi e accatastate in un cortile», risarcite dal governo con una somma di 800 euro.

In this Saturday, Nov. 19, 2016 photo, residents stand around in the rubble of an area in Sirnak, southeastern Turkey, destroyed in government operations against Kurdish militants of the Kurdistan Workers Party or PKK. The 246-day curfew in the mainly-Kurdish city of some 290,000 was imposed on March 14 as part of government operations against PKK. (AP Photo/Cansu Alkaya)
Demolizioni a Sirnak (AP Photo/Cansu Alkaya)

La situazione dei diritti umani nel sud-est della Turchia – sottolinea Amnesty International – nei mesi successivi al tentativo di colpo di Stato (luglio 2016) è altamente peggiorata. Oltre all’altissimo numero di sfollati, è in atto l’eliminazione (anche fisica) delle voci di opposizione curda, comprese le organizzazioni non governative, colpevoli di avere “rapporti con organizzazioni terroristiche”, i mezzi di informazione e alcuni sindaci.
Così mentre si consuma un esodo interno che sembra non volgere mai al termine nonostante la fine ufficiale dei conflitti (marzo 2016), la città di Diyarbakir e la sua identità vengono distrutte a colpi di bulldozer in un processo che alcuni chiamerebbero “urbicidio”.
Termine coniato da un gruppo di architetti jugoslavi durante la guerra degli anni ‘90, la parola urbicidio vuole esprimere la duplice volontà di eliminare gli obiettivi militari e di distruggere i valori identitari, culturali e sociali del nemico al fine di rimuovere dalla memoria il ricordo di un popolo e di una Storia scomoda.

Grecia: l’Eurogruppo alleggerisce il debito, ma non basta

Greek Finance Minister Euclid Tsakalotos, right, speaks with European Commissioner for Economic and Financial Affairs Pierre Moscovici during a round table meeting of eurozone finance ministers at the EU Council building in Brussels on Monday, Dec 5, 2016. Eurozone finance ministers meet on Monday to assess the 19-member currency bloc's budgetary outlook for next year and Greece's progress on economic reforms. (AP Photo/Virginia Mayo)

Nel bel mezzo della sbornia del referendum costituzionale italiano, lunedì 5 dicembre, a Bruxelles, si è tenuto l’ultimo Eurogruppo del 2016. All’ordine del giorno, come al solito, le riforme di Atene e il possibile alleggerimento del debito greco.

La data era stata prefissata come possibile giorno di chiusura del secondo controllo (“second review”) del terzo programma di bailout da 86 miliardi, firmato nell’estate del 2015. Nel quadro di queste revisioni, i creditori internazionali verificano il progresso fatto da Atene nell’implementazione delle riforme.

Contrariamente alle previsioni, gli staff tecnici di creditori e governo greco non sono però arrivati a un accordo finale. Conseguentemente, la chiusura della così detta “second review” slitterà a gennaio 2017, al più presto. In altri termini, il Fondo monetario internazionale (Fmi) e gli altri partner finanziatori, hanno chiesto maggior dettagli e misure concrete al governo di Alexis Tsipras.

In particolare, a livello di Eurogruppo manca un’intesa con Atene sulle misure necessarie per raggiungere, da un lato, l’avanzo primario del 3,5 per cento previsto per il 2018 e, dall’altro, una maggiore crescita e competitività – leggi: riforma del mercato del lavoro, liberalizzazione di professioni e rimozione delle barriere per gli investimenti.

D’altra parte, Alexis Tsipras è riuscito a ottenere, ciò di cui aveva bisogno, ovvero un alleggerimento parziale, e di breve periodo, del debito. Il Meccanismo di stabilità europeo (Mse), il fondo intergovernativo che eroga finanziamenti alla Grecia per conto degli Stati membri dell’Ue, ha infatti concesso ad Atene un congelamento parziale dei tassi di interesse e una dilatazione dei tempi di restituzione dei crediti – il periodo medio è passato da 28 a 32,5 anni.

Secondo Klaus Regling, direttore del Mse, si tratterebbe di «misure importanti per aumentare la sostenibilità del debito». Anche il Ministro delle finanze greco, Euclid Tsakalotos, ha affermato che sono «azioni che aiuteranno immediatamente l’economica greca». Secondo i calcoli dei creditori, da qui al 2060, le misure porterebbero a una diminuzione del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo, pari al 20 per cento.

Insomma, si ha la sensazione che, per il momento, il piccolo aiuto possa fare comodo a Tsipras. Ma per quanto tempo? E ha veramente senso parlare di 2060? L’Fmi continua infatti a reputare insostenibile il debito di Atene e la partecipazione di Washington al programma di bailout rimane appesa a un filo. Insomma, per molti continua ad essere necessario un taglio nominale del debito. Inoltre, è proprio il famoso target di avanzo primario – 3,5 per cento per il 2018 – che crea enormi divisioni tra i creditori stessi. Per la Germania non si tocca e dovrebbe essere mantenuto dal 2018 per 10 anni. L’Fmi spinge per un obiettivo inferiore, ma realistico, pari all’1,5 per cento.

Secondo un report di Euractiv, un membro della squadra tecnica dell’Fmi che ha partecipato all’Eurogruppo di ieri, avrebbe detto: «Veniamo sempre indicati come i responsabili dell’austerity in Grecia. Ma questa non è la realtà. Il Paese ha già sopportato una mole imponente di aggiustamenti strutturali, eppure il suo futuro continua a rimanere insostenibile».

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Quella notte in Thyssen

Un fiocco nero in segno di lutto legato ai cancelli dello stabilimento delle acciaierie ThysseKrupp di Torino, in una foto d'archivio dell'11 dicembre 2011. Sette vittime, sei imputati, 88 udienze effettive, oggi 15 aprile 2011 e' prevista la sentenza del processo ThyssenKrupp. ANSA/ ALESSANDRO CONTALDO

6 dicembre. E’ notte, a Torino. Ma nello stabilimento siderurgico più grande d’Europa, si lavora. Antonio Schiavone, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino, muoiono così, lavorando. Investiti da olio bollente. Sembra una morte antica, magari immaginabile durante l’assalto di mura di cinta, invece no, è modernissima. E’ il 2007, si produce alla Thyssen-Krupp, e lo si fa per un fatturato di 40 miliardi di euro l’anno. Si lavora da 12 ore initerrottamente. L’impianto si ferma solo per problemi alla produzione, altrimenti si interviene in movimento. E sulla linea 5, uscirà nel processo,gli incidenti erano frequenti, ma gli operai venivano invitati a usare il pulsante d’allarme il meno possibile.

All’una e un quarto arrivano le ambulanze, gli uomini vengono portati in ospedale, ma non c’è  niente da fare: moriranno tutti prima del giorno. Tranne uno, Antonio Bocuzzi. E’ un operaio sindacalista, e lavora alle acciaierie da 13 anni. E denuncia. Denuncia, assieme agli altri lavoratori accorsi in soccorso quella notte, una situazione che di moderno, non ha niente – o forse tutto: estintori scarichi, telefoni isolati, idranti malfunzionanti, assenza di personale specializzato. Niente investimenti in sicurezza e formazione.

Oltre all’incendio, e alle morti, anche la reazione della Thyssen ce la ricordiamo tutti. Nega, accusa, dà la colpa agli operai. «Si erano distratti». Mentre Bocuzzi «va fermato con azioni legali».

E essere fermato con azioni legali, invece, sarà l’amministratore delegato, Harald Espenhahn. Il pm di allora è un uomo noto per perseguire e stanare la malasanità. Di processi, azioni e aziende. Il procuratore Raffaele Guariniello indaga in fretta e chiede il rinvio a giudizio per omicidio volontario plurimo con dolo eventuale e incendio doloso. Per altri 5 dirigenti dello stabilimento, incendio doloso e omicidio colposo con colpa cosciente. Sono Cosimo Cafueri, responsabile della sicurezza, Giuseppe Salerno, responsabile dello stabilimento di Torino, Gerald Priegnitz e Marco Pucci, membri del comitato esecutivo dell’azienda, e Daniele Moroni, membro del comitato esecutivo dell’azienda.

Le condanne, emesse nel 20011 dalla corte d’Assise di Torino, inizialmente vanno dai 16 anni e mezzo per Espenhahn ai 13 anni e 6 mesi, fino ai 10 anni e 10 mesi per gli altri manager. Pene che verranno ridotte nel 2015 a 9 anni ed 8 mesi a Espennahn, fino ai 6 anni e 3 mesi per le minori. La colpa, resta.

Nel frattempo, però, le famiglie, hanno accettato il compromesso con l’azienda. Il colosso fa paura a famiglie operaie, il gioco non dev’essere stato difficile. Nel 2008, l’azienda tedesca versa nei conti delle famiglie delle sette vittime, quasi 13 milioni di euro. In cambio, queste, rinunceranno al loro diritto di costituirsi parte civile nel processo.

Oggi, lo stabilimento di Torino non esiste più. È stato chiuso nel marzo del 2008 con un accordo tra la Thyssen Krupp, i sindacati, le istituzioni locali e i ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico, in anticipo sulla data prevista.  Ma esiste la sua memoria.

Ed esiste una strana giustizia parallela, secondo la quale, il 9 maggio scorso, Harald Espenhahn, condannato in via definitiva per il rogo di Torino e l’omicidio di sette operai nell’azienda di cui era responsabile, festeggia i suoi 50 anni a Bottrop, a Essen. Germania. Dov’è nato e dove risiede libero. E dove ha sede la Thyssen. Avrebbe dovuto essere condannato in base alle norme del Paese, dopo un procedimento davanti alla Corte Federale. In Germania, il massimo della pena per omicidio colposo è 5 anni. Il minimo, non avere un processo.

 

Renzi pronto ad andarsene. Ma non lascia la guida del Pd

Italian Prime Minister Matteo Renzi arrives by car at the Quirinale Palace after the victory of the No to the Constitutional Referendum, Rome, Italy, Dec. 5. 2016. ANSA / ETTORE FERRARI

«Non mollo la guida del partito», ha detto. Matteo Renzi, che ieri ha formalizzato le sue dimissioni al Quirinale, non ha intenzione di lasciare la presa dal suo Pd. E domani, alla direzione dem, spiegherà perché. «Mercoledì dirò che resto segretario – annuncia – ma solo a patto di ottenere un mandato pieno dalla direzione».

Per ora, in realtà, non lascia nemmeno Palazzo Chigi: «Sergio Mattarella mi ha chiesto di rimanere fino all’approvazione della legge di Bilancio e io non potevo comportarmi come il bambino che fa i capricci e si porta via il pallone perché ha perso la partita». C’è chi ci aveva scommesso. E’ un fatto di responsabilità. Vero: c’è la legge di stabilità da portare a termine, e c’è, soprattutto, una riforma elettorale fatta a metà – per chi non lo ricordasse, la legge del Senato non è stata cambiata perché il Senato, con la riforma costituzionale bocciata dal referendum, cessava di essere eletto.

Ma il premier dice di voler chiudere tutto rapidamente. «Appena approvata la manovra, però, me ne vado. Non so se accadrà venerdì o martedì prossimo». Per poi, probabilmente, prepararsi al nuovo voto. Quello che, per la prima volta, lo vedrà sottoporsi a un’elezione. Alfano fa sapere che il timing dovrebbe essere gennaio o febbraio. Prestissimo. «Non lascio la bandiera delle elezioni anticipate a Grillo e agli altri. Se lo facciamo il Pd è morto, fa la fine che ha fatto dopo aver appoggiato il governo Monti», annuncia Renzi.

Una fretta che però non vedrebbe il presidente della Repubblica concorde. Né i tempi tecnici. Come per esempio quelli che saranno, probabilmente, necessari a riscrivere parte della legge elettorale dopo il pronunciamento della Consulta, oppure a scriverne una che sia buona per Camera e Senato e consenta di eleggere un Parlamento che esprima maggioranze simili – allo stato attuale avremmo l’Italicum rivisto in un ramo e la vecchia legge nell’altro, con l’effetto di avere Camere con maggioranze diverse. Che sia l’attuale governo a trovare la quadra della nuova legge, in un quadro tanto instabile, è improbabile. Servirà un governo che si occupi delle formalità quali l’accoglienza dei prossimi vertici europei e riesca a mettere d’accordo partiti che, allo stato attuale, hanno interessi diversi tra loro su quale sistema adottare.

Intanto, in vista del congresso del Pd che potrebbe nuovamente trasformarsi in occasione di primarie, si intravede già la strategia dalla quale il dimissionario presidente del Consiglio si prepara a ripartire:  «Tutto è iniziato col 40% nel 2012. Abbiamo vinto col 40% nel 2014. Ripartiamo dal 40% di ieri!». E’ il twitt di ieri pomeriggio di Luca Lotti. E l’inizio di una nuova campagna elettorale.

 

“Se Christina Aguilera o Britney Spears o qualche altro coglione di Idolo Americano possono essere qualcosa, perché io no?”

Per le nuove generazioni la bandiera rossa è il simbolo della Ferrari e non un riferimento politico; il Reno è un fiume non il confine di guerre spaventose; la lira è uno strumento musicale e non una divisa economica. L’Internazionale evoca il nerazzurro del calcio e non un futuro socialista e rivoluzionario (…). De Gasperi è il personaggio di una fiction di Rai Uno e Saragat potrebbe tranquillamente essere confuso con il terzino dell’Albinoleffe. Non è colpa loro, del resto, se i programmi di scuola al Dopoguerra, nei fatti, non ci sono mai arrivati”

“Un trentenne che legga il primo articolo della Costituzione paragonando la sua esperienza personale e professionale con quel testo, non può che prendere atto del fallimento del nobile obiettivo dei costituenti. Altro che fondata sul lavoro!”

“Se Christina Aguilera o Britney Spears o qualche altro coglione di Idolo Americano possono essere qualcosa, perché io no? Dov’è quel che mi spetta?”.

“Sarebbe bello se alla mia generazione venisse voglia di riscrivere la Costituzione. E di riscriverla ora. Qui e ora. Ora che sono vivi e lucidi personaggi di quel tempo là. Adesso vorrei riscrivere la Costituzione, con loro. E con i giovani della post-generazione. Quelli sospesi tra le fiction di De Gasperi e gli interventi contro la povertà degli U2.”

(stralci da “Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro”, di Matteo Renzi, Giunti Editore, 2006)

Anche no, dai.

Buon martedì.

 

Un verde alla guida dell’Austria. Sacha Van der Bellen scaccia lo spettro dei populismi

epa05660263 Austrian presidential candidate and former head of the Austrian Green Party, Alexander Van der Bellen arrives to adress supporters at the Sophien Saele in Vienna, Austria, 04 December 2016. Hofer on 04 December 2016 admitted his defeat to Van der Bellen in the re-run of the presidential elections run-off. Austrians went to the polls for a re-run of the 22 May run-off which was narrowly won by van der Bellen but later annulled by Austrian courts due to minor irregularities in vote counting following an appeal from rival Hofer. EPA/CHRISTIAN BRUNA

Con l’ondata populista che sta investendo l’Occidente, la vittoria di Norbert Hofer – il candidato xenofobo di estrema destra che con la vittoria al primo turno (35,1%) aveva gettato nel panico socialisti e popolari austriaci, e non solo – sembrava altamente probabile. Al secondo tentativo, dopo che le elezioni dello scorso maggio erano state annullate invece, ha vinto lui. L’europeista Alexander Van der Bellen, il candidato dei Verdi che ha fatto tirare un sospiro di sollievo all’Europa. Il ballottaggio “bis” delle presidenziali, l’ha visto trionfare con il 53,3 per cento dei consensi, distaccando nettamente l’uomo della Fpö (Freiheitliche Partei Österreichs, il Partito della libertà austriaco) Hofer, arenatosi al 46,7 per cento. Una paura che si è rispecchiata nei dati dell’affluenza, arrivata al 73,9 per cento (e aumentata di quasi due punti percentuali rispetto alla scorsa votazione). Un rush che ha premiato il candidato dei Verdi che, seppur presentatosi da indipendente, ha incassato il sostegno dei big popolari e socialdemocratici.

Oltre a spazzare via la paura della rinascita del nazionalismo più xenofobo nel cuore del Vecchio continente, il professore ha dichiarato di aver vinto grazie ai «vecchi valori di libertà, uguaglianza e solidarietà», e che il suo impegno sarà proprio per «un’Austria europeista».

«Sarò il presidente di tutti», ha detto appena registrata la vittoria, rivolgendosi ai 6,3 milioni di austriaci. «Il mio obiettivo per i prossimi sei anni – ha detto – è che i cittadini, che mi incontreranno per strade, in metropolitana oppure in paese, dicano “Guarda, il nostro presidente” e non solo “il presidente”». Un traguardo non facile da realizzare, visto che l’elettorato nettamente spaccato in due: il sostegno a Van der Bellen è arrivato dalle aree urbane. A Vienna, il 72enne di origini socialdemocratiche, ha ottenuto il 77% dei consensi. Si estendono inoltre notevolmente le circonferenze attorno alle città. Al primo turno, le preferenza per Van der Bellen non valicavano i confini cittadini. Stessa cosa vale per il Tirolo, ora nettamente schierato.
Le aree rurali e montane, invece, hanno continuato a dare la loro preferenza al candidato ultranazionalista.


Dalla parte del neo eletto presidente le donne e i giovani. Il 62% della popolazione femminile ha appoggiato il professore (contro il 38% schierata per Hofer). Fra i giovani sotto i 30 anni, il 58% ha dato fiducia al candidato verde, contro il 42% che ha invece preferito il leader populista. Stessa percentuale, più o meno, nella fascia dei pensionati: 56% per Van der Bellen; 44% Hofer.
Un dato che la dice lunga però, è quello della fascia operaia: ben l’85 per cento dei lavoratori austriaci, ha dato la propria preferenza al candidato dell’estrema destra.

Ma chi è il nuovo presidente austriaco?

Alexander Van der Bellen, soprannominato “il candidato gentile”, è nato a Vienna nel 1944 da una famiglia fuggita dalla Russia dopo la Rivoluzione d’ottobre. Il padre era un nobile russo di origine olandese, la madre estone: perseguitati da Stalin, si sono rifugiati prima a Vienna e poi nel Tirolo, dove “Sacha” (il soprannome del presidente) è cresciuto. Ha iniziato la sua carriere di docente universitario alla facoltà di Economia di Innsbruck, mentre quella politica è iniziata negli anni Ottanta a Vienna (dove è stato anche ordinario di Economia), prima nel partito socialdemocratico (Spo) e poi nei Grunen, di cui è stato portavoce federale dal 1997 al 2008.

Parlamentare e poi consigliere comunale a Vienna fino al 2015, il professore ecologista, appassionato di auto e schierato da sempre contro il Ttip così come contro le politiche migratorie di Vienna, ha ammesso di aver fatto parte per un breve periodo della massoneria. Poche settimane prima di candidarsi alla presidenza come indipendente, un anno fa, ha sposato in seconde nozze la parlamentare verde Doris Schmidauer, sua compagna di lungo corso. L’ex leader dei verdi ha sostenuto, in campagna elettorale, che a confrontarsi sono il suo stile “cooperativo” e quello autoritario dell’avversario.

 

Standing Rock, una vittoria per la nazione indiana

L’amministrazione Obama ha cancellato, per ora, l’ipotesi di costruzione dell’oleodotto che prevedeva un passaggio al di sotto del fiume Missouri, in North Dakota. Le terre sacre dei Sioux e le loro fonti di acqua potabile sono dunque salve. L’Army Corps of Engineers, che è la struttura che deve dare il parere tecnico e concedere l’ultima autorizzazione ha deciso che il percorso deve essere diverso. Per ora quindi la costruzione dell’acquedotto da 1900 chilometri, quasi completato in altre parti del percorso, è bloccata.

Travelers arrive at the Oceti Sakowin camp where people have gathered to protest the Dakota Access oil pipeline as they walk into a tent next to an upside-down american flag in Cannon Ball, N.D., Friday, Dec. 2, 2016. (AP Photo/David Goldman)
(AP Photo/David Goldman)

«Non saremo mai abbastanza grati all’amministrazione Obama per questa decisione storica» ha commentato il capo tribù Dave Archambault. Tutta la nazione indiana aveva protestato per mesi al freddo del North Dakota, subendo la violenza della polizia e dei vigilantes della multinazionale Energy Transfer Partners – da qualche giorno si erano uniti anche 3500 veterani dell’esercito chiamati a raccolta da Tulsi Gabbard, a sua volta veterana e rappresentante delle Hawaii per i democratici.

Dan Nanamkin, of the Colville Nez Perce tribe in Nespelem, Wash., drums a traditional song on the shore of the Cannonball River before a group arrives by boat at the Oceti Sakowin camp where people have gathered to protest the Dakota Access oil pipeline in Cannon Ball, N.D., Thursday, Dec. 1, 2016. (AP Photo/David Goldman)
(AP Photo/David Goldman)

Grandi festeggiamenti per una vittoria, che come spiega su Guardian il leader ambientalista Bill McKibben segna un passaggio storico pur ricordando immagini del passato: i cani contro le persone come in Alabama negli anni 60 e l’accampamento indiano come in dagherrotipi in bianco e nero.

Che succede adesso? L’amministrazione non ha negato l’autorizzazione per due ragioni: la prima è che una serie di tribunali la avevano autorizzata (e quindi la decisione è impugnabile più facilmente), la seconda è relativa alle procedure, quello dell’Army corps è l’equivalente di un parere tecnico e, quindi, anche nel caso l’amministrazione Trump scegliesse di procedere con i lavori – cosa più che certa – occorreranno comunque nuove autorizzazioni. La Energy Transfer Partners minaccia cause e accusa Obama di usare la vicenda per fare politica. La questione arriva sul tavolo di Trump che farà di tutto per sconfiggere le tribù native. E questa, nei mesi o anni a venire, rischia di diventare una delle grandi questioni simboliche che vedranno protagonisti il nuovo presidente e la società civile americana che in questi mesi si è battuta per difendere Standing Rock.

David Swallow, an Oglala Native American, holds an eagle fan as he speaks during an interfaith ceremony at the Oceti Sakowin camp where people have gathered to protest the Dakota Access oil pipeline in Cannon Ball, N.D., Sunday, Dec. 4, 2016. Tribal elders have asked the military veterans joining the large Dakota Access pipeline protest encampment not to have confrontations with law enforcement officials, an organizer with Veterans Stand for Standing Rock said Sunday, adding the group is there to help out those who've dug in against the four-state, $3.8 billion project. (AP Photo/David Goldman)
(AP Photo/David Goldman)

Members of a Native American drum procession celebrate at the Oceti Sakowin camp after it was announced that the U.S. Army Corps of Engineers won't grant easement for the Dakota Access oil pipeline in Cannon Ball, N.D., Sunday, Dec. 4, 2016. (AP Photo/David Goldman)
(AP Photo/David Goldman)

An American flag quilt lays in the back of a veteran's car at the Oceti Sakowin camp where people have gathered to protest the Dakota Access oil pipeline in Cannon Ball, N.D., Friday, Dec. 2, 2016. (AP Photo/David Goldman)
(AP Photo/David Goldman)

In this Tuesday, Nov. 29, 2016 photo, Beatrice Menase Kwe Jackson of the Ojibwe Native American tribe leads a song during a traditional water ceremony along the Cannonball river at the Oceti Sakowin camp where people have gathered to protest the Dakota Access oil pipeline in Cannon Ball, N.D. The pipeline is largely complete except for a short segment that is planned to pass beneath a Missouri River reservoir. The company doing the building says it is unwilling to reroute the project. (AP Photo/David Goldman)
(AP Photo/David Goldman)

Navy veteran Rob McHaney, of Reno, N.V., walks with an American flag at the Oceti Sakowin camp where people have gathered to protest the Dakota Access oil pipeline in Cannon Ball, N.D., Sunday, Dec. 4, 2016. Tribal elders have asked the military veterans joining the large Dakota Access pipeline protest encampment not to have confrontations with law enforcement officials, an organizer with Veterans Stand for Standing Rock said Sunday, adding the group is there to help out those who've dug in against the four-state, $3.8 billion project. (AP Photo/David Goldman)
(AP Photo/David Goldman)

People celebrate at the Oceti Sakowin camp after it was announced that the U.S. Army Corps of Engineers won't grant easement for the Dakota Access oil pipeline in Cannon Ball, N.D., Sunday, Dec. 4, 2016. (AP Photo/David Goldman)
(AP Photo/David Goldman)

In this Tuesday, Nov. 29, 2016 photo, Smokey, a member of the Sioux Native American tribe, rides the horse Prophecy, a descendant of the horse belonging to war chief Crazy Horse, as he pulls a sled at the Oceti Sakowin camp where people have gathered to protest the Dakota Access oil pipeline, in Cannon Ball, N.D. The government has ordered protesters to leave federal land by Monday, but they insist they will stay for as long it takes to divert the $3.8 billion pipeline. (AP Photo/David Goldman)
(AP Photo/David Goldman)

Native Americans from left, Eugene Sanchez, Jason Umtuch, Martan Mendenhall, and Hugh Ahnatock, all of Portland, Ore., drum and sing at the Oceti Sakowin camp where people have gathered to protest the Dakota Access oil pipeline in Cannon Ball, N.D., Sunday, Dec. 4, 2016. The U.S. Army Corps of Engineers said Sunday that it won't grant an easement for the Dakota Access oil pipeline in southern North Dakota, handing a victory to the Standing Rock Sioux tribe and its supporters, who argued the project would threaten the tribe's water source and cultural sites. (AP Photo/David Goldman)
(AP Photo/David Goldman)

Katibunny Roberts and her husband, Lance King, of Kyle, S.D., celebrate the Army Corps' denial of an easement to bury a section of the Dakota Access pipeline under the Missouri River, Sunday, Dec. 5, 2016, in Cannon Ball, N.D. King recently moved back to his ancestral Lakota homeland. He is a descendant of Chief Matthew King, Noble Redman. On the right is Lazaro Tinoco of the Lower Elwha Klallam Tribe in Washington. (Richard Tsong-Taatarii/Star Tribune via AP)
(Richard Tsong-Taatarii/Star Tribune via AP)g ROck

«Il popolo sa ancora distinguere l’arroganza del potere». Intervista a Michele Prospero

December 5, 2016 - Roma, RM, Italy - Demonstration of USB Unions for victory of the NO to the constitutional referendum, soon after the announcement of the voting results. (Credit Image: © Matteo Nardone/Pacific Press via ZUMA Wire)

Professore, è quello che si aspettava?

«Il successo del No era scontato ed è stato reso possibile, paradossalmente, dallo stesso presidente del Consiglio. Quindi era prevedibile, sì. Quello che non era prevedibile, almeno in questi termini, è invece l’affluenza straordinaria ai seggi»

Ha votato il 65,5 per cento, un dato quasi da elezioni politiche. Come se lo spiega?

«La partecipazione al voto è stato un riflesso popolare, contrario all’ordine arrivato da palazzo Chigi che, appellandosi persino a una fantomatica maggioranza silenziosa, ha ecceduto in populismo, un populismo dall’alto di un potere che ha tentato di presentarsi come contropotere. Fallendo. Ha invece innescato una reazione popolare vera, di chi ha colto un atteggiamento costituzionalmente sciagurato. Un atteggiamento e delle scelte che sarebbero dovute esser fermate prima, almeno da chi dovrebbe esercitare una qualche funzione di contropotere: per questo il voto è una batosta clamorosa per il governo, ma anche per gli ex presidenti della Repubblica, gli ex presidenti del Consiglio, le figure istituzionali che hanno avallato, seppur con riserva, il disegno di Renzi».

Ha veramente vinto la vecchia Italia, l’Italia che non vuole cambiare, e ha perso la modernità?

«No. Questa è proprio la narrazione che viene smentita. Ha vinto un’Italia, soprattutto di giovani, dicono i primi dati, che non ha abboccato al potere, che giocava ad accarezzare simbologie antipolitiche e che invece puntava a dividere, a rendere tutti più soli. E c’è stata poi una questione sociale incompresa – che è ciò che ci diciamo tutte le elezioni, inutilmente – una questione sociale incompresa da anni, e che certo non poteva riconoscersi nella rincorsa di politiche neo notabiliari, di mancette date a pioggia».

Cosa resterà della comunicazione muscolare di questi mesi?

«Il voto di questa domenica segna l’insuccesso dell’arroganza al potere, dell’occupazione illimitata del fronte del video: mancava solo che il presidente del Consiglio comparisse nel videocitofono e paventasse anche lì il diluvio. Tutto questo non è servito, anzi, ha prodotto un effetto di rigetto, di ripulsa, una reazione del popolo che sa evidentemente ancora distinguere il potere eccessivo. Sul fatto che i toni cambieranno, però, non sono così convinto, anzi».

Forse mai come su questo voto si è spaccato l’elettorato, non solo il ceto politico, del centrosinistra. La frattura si potrà ricomporre?

«Tre anni di renzismo hanno distrutto tutto. Travolgendo anche il centrosinistra e il Partito democratico – che comunque era, bene o male, l’ultima presenza significativa nel sistema dei partiti. Il mito della velocità non solo non ha velocizzato nulla, dunque (tutte le riforme caraterrizzanti del governo si stanno infrangendo e dovranno esser riscritte, perdendo tempo: l’Italicum, la riforma delle banche e quella del pubblico impiego, la riforma costituzionale…), ma lascia dietro di sé solo macerie. Tra cui quelle dello stesso Renzi, però: la sua carriera è finita, e la storia della sua leadership che si ricostruisce in pochi mesi di opposizione, in tempo per il 2018, fa parte della mitologia costruita da palazzo Chigi e dai media. Un falso. Renzi si è sgonfiato come un pallone».

Ma il fatto che si sia sgonfiato può aiutare la sinistra a riorganizzarsi?

«Il fatto che Renzi si sgonfi è la condizione per ricostruire qualcosa. Ma non è l’unica. Il Pd, ad esempio, dovrebbe archiviare il mito della leadership, e una certa sinistra dovrebbe rinunciare all’idea che possa esistere una sinistra, magari arancione, subalterna ai desideri del capo».

Lo sconfitto ha un nome. Il vincitore chi è? Il primo a dichiarare è stato Salvini, abbiamo visto ovunque Brunetta sorridente…

«Che la destra abbia avuto un peso in questa vittoria lo testimoniano i dati che arrivano dalle regioni del Nord. Ma anche gli elettori di sinistra sono un pezzo importante del successo, con almeno 6 milioni di voti, così come una maggioranza dell’onore è sicuramente da riconoscere al Movimento 5 stelle. Il punto incompreso è che questo è però un bene: tutti gli appartenenti al fronte del No sono stati determinanti, e lo sono stati perché quella di domenica è stata una vittoria di popolo, una vittoria contro un potere arrogante. Che è l’altra faccia di quella che Renzi, infastidito proprio dal popolo, chiama non per nulla “accozzaglia”».

Una domanda sul dopo. Va cambiata la legge elettorale o si può andare al voto così, come dicono i 5 stelle, appena arriva la sentenza della Corte sull’Italicum?

«Il disastro l’ha creato ancora una volta il governo, che nel mito del fare presto ha fatto approvare dal Parlamento una legge elettorale valida per la sola Camera, dando per abolito un Senato che ora rimane lì, vivo e vegeto. Una follia che, ancora una volta, non è stata fermata da chi poteva farlo. Però è chiaro che adesso c’è un problema, perché la legge deve esser omogenea per i due rami del Parlamento: non è possibile votare senza una parvenza di omogeneità. Occorreranno dunque alcuni mesi, e bisognerà vedere e rispondere a ciò che chiederà la Corte, che magari indicherà un quorum per il secondo turno, almeno, o l’addio alle liste bloccate. È ovvio che i 5 stelle ora spingano per andare al voto, perché il referendum per loro (ma anche per Renzi) è stata soprattutto una simulazione del ballottaggio. Ma bisognerebbe quindi mostrare una certa responsabilità politica e non accelerare in maniera strumentale».

Serve quindi un altro governo?

«Serve un governo di una figura istituzionale, magari vicino al fronte del No, che rapidamente metta mano alla legge elettorali e poi porti al voto il Paese, magari già a giugno».

Referendum: Da Hollande, ai verdi, passando per Farage e Le Pen, fino alla Merkel. Così commentano il risultato

Una settimana di politica europea; due capi di governo in meno. Dopo Francois Hollande, anche Matteo Renzi passa il testimone.

Non è forse un caso allora, che sia stato proprio il Presidente francese uscente uno dei primi “grandi” d’Europa a salutare il Presidente del consiglio italiano. Come riporta Le Monde, Hollande ha preso atto con «rispetto» delle dimissioni del capo di governo italiano. L’Eliseo si «augura che l’Italia trovi le risorse per superare questa situazione».

Dalla Francia è arrivato rapidamente anche il commento della leader del Front National (Fn), Marine Le Pen: «Gli italiani hanno disapprovato l’Unione europea e Renzi. Bisogna ascoltare la sete di libertà e protezione delle nazioni!».

Sulla stessa linea Nigel Farage, ex-leader dello Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip), il quale, già alle 23:30 di ieri sera, si era pronunciato così: «Spero che gli exit poll italiani siano corretti. Questo voto mi sembra molto più legato all’Euro che non alle riforme costituzionali».

Ma a opporre la logica semplificatrice dei populisti di destra in Europa, ci ha pensato Sven Giegold, portavoce dei Verdi al Parlamento europeo. Giegold ha ammonito l’opinione pubblica: «Era un referendum su una riforma costituzionale nazionale, non sull’Europa!».

Rincara anche Jeroen Dijsselbloem, capo dell’Eurogruppo: «La crisi italiana non sarà l’inizio di una nuova crisi dell’Eurozona», ha detto.

Sempre da Bruxelles si è fatto vivo anche il leader del gruppo liberale (Alde) al Parlamento europeo – nonché negoziatore delle istituzioni Ue per la Brexit – Guy Verhofstadt, uno che le cose non le manda certo a dire: «Nessuna sorpresa che Renzi abbia perso. Gli elettori bramano per l’opposto di ciò che [il Primo ministro] ha proposto: nuove idee per la politica italiana».

Dal canto suo, l’editorialista del The Guardian, Owen Jones ha twittato: «Ovviamente il referendum italiano ha molto a che fare con il sentimento anti-establishment che sta attraversando l’Occidente, ma non è tutto populismo di destra quello che si afferma».

E, sempre dal Regno Unito, arriva già un invito firmato dal gruppo progressista, Left Foot Forward, e indirizzato al Movimento 5 Stelle: «Il M5S deve sganciarsi dallo Ukip, dall’islamofobia e da Beppe Grillo».

Resta istituzionale invece Angela Merkel, che candidata al quarto mandato, si annuncia dispiaciuta per le dimissioni di Renzi, col quale ha «sempre lavorato bene», ma allo stesso tempo si dice pronta ad accogliere chiunque lo succederà. La cancelliera – ha riferito il portavoce –  ha sempre sostenuto le riforme promosse dal governo Renzi ma ritiene importante «rispettare la decisione democratica presa dai cittadini italiani» che hanno votato No al referendum costituzionale.

Altre news sul referendum costituzionale dall’Europa:

GermaniaDie WeltAnche la “super-ministra” italiana, non ha potuto nulla questa volta: il fallimento di Renzi attraverso un ritratto di Maria Elena Boschi

IrlandaThe Irish Times Le banche italiane affondano. I risultati del voto gettano un’ombra sul Monte dei Paschi di Siena

EuropaThe Irish Times Francois Villeroy della Banca centrale europea: «Non si può paragonare il “no” italiano al voto sulla Brexit»

EuropaEuractiv Le dimissioni di Renzi aprono una nuova fase di incertezza per l’Europa