Dunque il 18 maggio, designato dall’Icom come International museum day 2020, ha coinciso con il day after, il giorno dal quale sarebbe stato possibile riaprire musei e luoghi della cultura in Italia.
In realtà si è trattato di una riapertura parziale e a macchia di leopardo: alcuni musei hanno riaperto con percorsi ridotti, mentre molte istituzioni rimarranno chiuse almeno fino a giugno, perché non ancora in grado di garantire quelle condizioni di sicurezza – per visitatori, personale e lo stesso patrimonio – faticosamente delineate in linee guida giunte sul filo di lana, pochi giorni (ore) prima delle riaperture. Non si tratta solo di carenze nei dispositivi di sicurezza, ma, soprattutto, dell’organica e ora sempre più drammatica carenza di personale, a tutti i livelli. Fra i molti dubbi di questa ripartenza, questa è una certezza: per continuare a garantire servizi di qualità in sicurezza occorrerà più personale e adeguatamente formato a nuove modalità di accesso che dureranno per molto tempo ancora. Ma questo personale non c’è, almeno non negli organici del Mibact e degli enti locali.
Anche da questo punto di vista, insomma, la pandemia sta drammaticamente evidenziando le debolezze di un sistema in crisi da molto tempo. In sostanza il Covid-19 ha funzionato come un detonatore della fragilità complessiva su cui si regge tutto il comparto che comprende la gestione del nostro patrimonio culturale e paesaggistico, caratterizzato da grande frammentazione, da lavoro precario e spessissimo sottopagato, pur se di alta o altissima qualificazione, con modelli di gestione instabili (si pensi al succedersi delle riorganizzazioni dello stesso ministero), e, infine, da scarso tasso di innovazione, dove cioè si sfrutta la rendita del patrimonio culturale in termini turistici, investendo il meno possibile sulla sua manutenzione (il famoso tagliare il ramo su cui si è seduti).
La vastità della crisi generata dal lockdown è tale che anche casi da sempre additati come virtuosi, fra gli altri, ad esempio, la Fondazione pubblico-privata Museo Egizio di Torino, dopo due mesi di chiusura hanno invocato a gran voce l’aiuto dello Stato. Allo stesso modo, posti di fronte alla perdurante situazione di un turismo falcidiato nei numeri (secondo i dati Enit, saranno 66 i miliardi di perdita nella spesa turistica rispetto al 2019) molti dei super direttori dei musei statali autonomi, fino a ieri assertori della caccia al turista coûte que coûte (v. le classifiche di fine anno), stanno riscoprendo il bello del locale e della comunità, come pure le virtù del così detto slow tourism o turismo di prossimità, e via elencando con la serie di buzzwords rimbalzate nelle interviste di queste settimane.
In questo contesto, le riaperture di alcuni musei hanno più il sapore di fughe in avanti dettate dalla necessità di esibire all’esterno una normalità ritrovata e, soprattutto nei casi di alcune mostre, di limitare le perdite dei concessionari, che di una reale programmazione consapevole della necessità di trarre la lezione che deriva da questa terribile esperienza. Perché, come è stato detto da più parti, il ritorno sic e simpliciter al “prima”, appare sempre più la classica polvere sotto il tappeto. Certo è difficile in una fase di emergenza così concitata, in cui le vite delle persone sono state gravemente colpite a molti livelli, non pensare prima di tutto a forme di ristoro da esigenze che, anche nel nostro settore, appaiono drammatiche. Se infatti è vero che nel nostro Paese, ad esempio, i musei non hanno proceduto a sanguinosi tagli del personale così come è avvenuto ad esempio negli Stati Uniti, ad opera anche di grandi istituzioni come il MoMA di New York o il MoCa di Los Angeles, è però vero che moltissimi lavoratori precari che da anni garantiscono servizi anche essenziali per musei e biblioteche (dai servizi educativi e di accoglienza, alla catalogazione) vivono da mesi situazioni di gravissima difficoltà senza alcuna garanzia di futuro al punto che solo un’ipocrisia lessicale induce a non parlare di licenziamenti come nel caso americano.
Il recentissimo decreto Rilancio, quindi, era senz’altro atteso per avere risposte a questo tipo di problemi. Risposte che ci sono, anche se occorrerà aspettare in molti casi i decreti attuativi per valutarne a pieno l’efficacia, ma assieme appaiono anche, fin da una prima lettura, non poche criticità ed “asimmetrie” che rischiano di limitarne grandemente gli effetti di rilancio vero e proprio. Nel decreto appare a prima vista chiarissima la gerarchia fra turismo e patrimonio culturale: circa 4/5 delle risorse (meno di 5 miliardi) vanno al turismo, vero obiettivo di tutte le politiche del patrimonio culturale da molti anni a questa parte, mentre il bonus vacanze si porta via la metà dei fondi stanziati per l’intero comparto. E non tutti i dispositivi di ristoro decisi per il turismo sono privi di contropartite per il patrimonio culturale, come ad esempio l’annullamento delle tassazioni sull’uso del suolo pubblico sino alla fine di ottobre e l’allargamento degli spazi concessi senza il parere delle Soprintendenze, decisione che permetterà una ampia occupazione delle nostre piazze e degli spazi pubblici in genere – già così penalizzati – da parte di imprese commerciali. Allo stesso modo l’allungamento abnorme, fino al 2033, delle concessioni balneari continuerà a rendere complicato il libero accesso alle nostre spiagge e mari.
Era d’altronde evidente che si trattava di conciliare esigenze confliggenti: da un lato i lavoratori e le imprese del comparto turistico e della ristorazione, investito da una recessione gravissima (nei dati Confturismo, oltre 30 milioni di turisti in meno nel periodo del lockdown), dall’altro l’accesso a spazi che dovrebbero essere a disposizione di tutti, indicatori primari di un uso democratico del territorio.
La scelta è stata operata a senso unico e talora, ad esempio per le concessioni balneari, con una liberalità che ci pone pure in contrasto con le normative europee, ignorate dai nostri legislatori da molti anni a questa parte. In questa difficile opera di distribuzione di risorse, per default inferiori alle necessità, vi sono, come detto, alcune misure di sostegno ai precari, attraverso l’estensione delle misure di assistenza sociale (in particolare il prolungamento dell’indennità di 600 euro mensili anche per aprile e maggio e la parziale esenzione Irap per piccole imprese e lavoratori autonomi con entrate fino a 250 milioni annui). Molte di queste imprese trovano poi ristoro anche attraverso i 210 milioni di euro destinati al Fondo emergenza imprese culturali, fra le quali rientrano quelle organizzatrici di mostre ed eventi, ma anche un gruppo piuttosto eterogeneo di altri beneficiari, fra librerie, editoria e luoghi della cultura.
Un altro centinaio di milioni è poi assegnato ai musei statali a compensazione delle mancate entrate da bigliettazione. Ma si è anche trovato spazio per il famoso Fondo per la cultura, idea lanciata a marzo da Pier Luigi Battista sul Corriere della Sera e subito entusiasticamente adottata da Federculture, Fondazioni e imprese assortite. Nel decreto, il Fondo appare come un meccanismo assai poco definito attraverso cui lo Stato immette 50 milioni per il 2020 e 50 per il 2021, gestiti dalla Cassa depositi e prestiti; il Fondo è aperto ai contributi e alla partecipazione non meglio specificata di privati (in che forma? Con quali contropartite?) e finalizzato ad un assai vago obiettivo di «promozione di investimenti e altri interventi per la tutela, la fruizione, la valorizzazione e la digitalizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale». In complesso e in attesa di un testo meglio definito dai decreti attuativi, l’insieme delle misure del decreto, almeno per quanto riguarda il settore del patrimonio culturale, appare caratterizzato da grande frammentarietà: niente che possa incidere radicalmente sulle debolezze del sistema prima ricordate, e neppure nulla che contribuisca a sanare alcune delle distorsioni dell’ultima stagione di riorganizzazioni: l’attenzione è sbilanciata, come di consueto, sui musei, dimentichi di altri istituti e luoghi, a partire da biblioteche e archivi, in gravissima crisi di personale e risorse ormai da decenni.
Eppure, pur nelle difficoltà imposte non solo dalla situazione di emergenza, ma soprattutto dalle strettoie del contesto economico neoliberista che, ad esempio, rende arduo ricondizionare la ripresa dell’industria turistica e quindi dell’overtourism con le criticità che comporta (congestione, gentrificazione, pressione antropica sul patrimonio), le proposte ci sono, a partire da quelle di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2020) e Paola Somma (Emergenza Cultura, 5 maggio 2020) di usare gli spazi della cultura, le nostre piazze, i nostri musei, geneticamente polisemici e “multidisciplinari”, per le scuole di ogni livello, dirottando per conseguenza gran parte delle iniziative di valorizzazione su una comunità e un pubblico specifico. E occorre soprattutto ripartire dalla cura del paesaggio e delle città, e in particolare dei centri storici ora vuoti non solo di turisti, ma anche dei cittadini scacciati dalla monocoltura turistica. Come per il sistema sanitario, ciò che è stato indebolito nell’ultimo decennio in particolare, l’anello debole della catena, volutamente negletto, è quella rete di presidi territoriali – le Soprintendenze, i piccoli musei e teatri, le biblioteche – in grado di garantire quell’opera di manutenzione e di immediato intervento nelle emergenze oltre che di collante sociale, preziosissima.
Solo attraverso una rete capillarmente estesa e dotata di risorse certe, prima di tutto in termini di personale, sarà possibile scongiurare il pericolo che la ripartenza postpandemica non ripercorra alcuni degli errori della ricostruzione postbellica: la nostra innovazione, la nostra modernità deve consistere, appunto, nella capacità di ricongiungere le istanze sociali, inevitabilmente più gravi, dopo il crollo economico causa di un aggravamento delle disuguaglianze, a quelle ambientali e di tutela del patrimonio e del paesaggio.
In entrambi i casi, le cause della crisi sono riconducibili agli stessi meccanismi. Come aveva scritto Andrea Emiliani nel 2016: «Nulla è più lontano da una saggia comprensione e da una concreta politica dei beni culturali di quanto non sia il consumismo, il ritmo stesso di crescita del sistema capitalistico, con l’imposizione dei suoi raddoppi di produzione-consumo nel giro breve di anni, e dunque vissuto lungo una spirale che si avvita verso l’alto liberando a terra unicamente rovine e orrende montagne di rifiuti, simbolo repellente dello spreco e dei veri risultati di quel modello».
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