La battaglia referendaria attraversa anche i luoghi di lavoro, d’altronde i primi endorsement clamorosi – ben prima di Roberto Benigni – sono giunti a Matteo Renzi da Confindustria e Sergio Marchionne e dalla leader della Cisl, Annamaria Furlan. Anche la Cgil, al di là del No inequivocabile del recente direttivo nazionale, è scossa dallo stesso dilemma con un’ala minoritaria ma combattiva che prova a marcare spazi a favore del Sì, come a Milano dove il comitato proriforme guidato da Piero Fassino s’è presentato nel salone della Camera del Lavoro (è lì che è stato detto che la vittoria del No sarebbe come la vittoria di Trump!), o a Pomigliano dove è stato annunciato un comitato per il Sì nientemeno che dentro la Fiat. Col pieno appoggio del Pd e di Marchionne che ha appena dovuto incassare una sonora sconfitta giudiziaria con il reintegro di cinque operai che aveva licenziato dopo una manifestazione contro i suicidi di loro colleghi.
E proprio i cinque ex-licenziati di Pomigliano, dalla fabbrica simbolo della Fca nel Sud, lanciano la proposta di Comitati operai per il No (un’assemblea è prevista per domani) intercettando sia i comitati di delegati del gruppo contrari alla riforma costituzionale, sia le energie più combattive della Cgil che già stanno promuovendo iniziative per il No da Nord a Sud nei posti di lavoro. «Perché siamo convinti che il Piano Marchionne, con questa “riforma” sia diventato il Piano Renzi – spiega a Left, uno dei 5, Mimmo Mignano – che quel disegno autoritario e di sottrazione dei diritti sia uscito dalle fabbriche pronto a contaminare tutto. È triste notare come le istituzioni siano già completamente subordinate alle “esigenze del mercato”.
Nella storia del nostro paese i referendum sono stati più volte una leva per espandere la democrazia ma non possiamo pensare che possano essere un espediente per bypassare il problema della mancanza di incisività delle lotte. Senza gli adeguati rapporti di forza, i referendum, nella migliore delle ipotesi vengono disattesi, come è successo per l’acqua pubblica, oppure, come è successo recentemente, non raggiungono il risultato previsto, creando ulteriore sconforto e delusione. Ora però sono in gioco le nostre condizioni di vita per i prossimi decenni, se vincesse il Sì sarebbe un punto di non ritorno». E intanto nei quartieri popolari di Napoli circola un furgoncino per portare il “giornale parlato” del No tra le persone più colpite dalla crisi. Si chiama il Poderoso, come la motocicletta del Che.
Travolgenti i cantautori palermitani Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata con il loro spettacolo “Un mondo raro” in scena ieri al Monk di Roma per Romaeuropa Festival. Un progetto fatto di parole e musica per raccontare, omaggiare e far rivivere l’indomito spirito di Chavela Vargas, la chanteuse messicana, amante di Frida Kalho, famosissima e poi dimenticata e poi di nuovo famosissima negli ultimi anni della sua vita.
Un mondo raro (che è anche un disco e un libro) parte da un viaggio. Da Palermo al Messico, all’inseguimento delle note, dei suoni, ma anche degli odori dell’anima, dei rumori e delle sensazioni di cui sono impregnate le canzoni e la vita di Chavela.
Sentendoli raccontare storie e aneddoti sembra di vedere Di Martino e Cammarata cercare la cantante messicana in tutte le taverne di Città del Messico. Sentendoli cantare e suonare si ha invece la certezza che l’abbiano trovata. I testi, seppur riadattati in italiano, mantengo la melodia e l’accentuazione dello spagnolo e sottolineano quanto quelle canzoni parlino un linguaggio universale. Un linguaggio che scivola giù nel profondo dell’anima, che mescola felicità e tristezza, che accoglie la vita nei suoi molteplici aspetti. A supportare i cantautori palermitani altri tre musicisti impegnati alle percussioni, alla tromba e al contrabbasso.
Sentendoli raccontare storie e aneddoti sembra di vedere Di Martino e Cammarata cercare la cantante messicana in tutte le taverne di Città del Messico. Sentendoli cantare e suonare si ha invece la certezza che l’abbiano trovata.
Nel disco invece, registrato in Messico, ad accompagnarli ci sono i Macorinos, due chitarristi messicani settantenni, con i quali il primo impatto è stato quanto meno strano raccontano Antonio e Fabrizio in un’intervista a XL: «Cosa potevano aspettarsi due musicisti settantenni da due ragazzi siciliani interessati a Chavela Vargas? Invece alla fine delle registrazioni ci hanno detto che il canto italiano dona una certa grazia a questi pezzi. Come sentirete dal disco, il loro tocco ha qualcosa di veramente antico e immortale».
Sicuramente imperdibili i riarrangiamenti di: “La Llorona”, vera e propria ossessione da anni di Fabrizio Cammarata, “Macorina”, e “Vitti Na Crozza” tradotto in spagnolo perché «Chavela l’avrebbe amata» spiegano i due al pubblico, dopo aver bevuto in suo onore un bicchiere di tequila.
Sia l’album (per Picicca) che il libro (per La Nave di Teseo), nato sulla scia del disco dai mille incontri e dalle mille testimonianze raccolte dai due cantautori, usciranno il 19 gennaio.Il titolo ovviamente è in entrambi i casi Un mondo raro. Quello di Chavela certo, ma anche quello che ci regalano questi due artisti con il loro splendido lavoro.
La settimana della Grecia è iniziata con circa 1 miliardo di euro di nuovi finanziamenti incassati dall’Esm (Meccanismo Europeo di Stabilità), dopo che l’Eurogruppo di lunedì 10 ottobre ha confermato il progresso sul fronte delle riforme. Uno stanco Jeroen Dijsselbloem – Presidente dell’Eurogruppo – ha ribadito nella conferenza stampa serale che «riforme importanti sono state realizzate nei campi delle pensioni, del settore energetico, della governance bancaria, oltre agli interventi su fondo di privatizzazione e Agenzia delle entrate». Inoltre, entro la fine del mese, dopo la consegna di altri dati economici, ulteriori 1.7 miliardi di euro verranno versati allo stato greco. Tutti soldi che in realtà verranno utilizzati per pagare fatture arretrate del governo. Quel che conta è che in questo modo si dovrebbe chiudere quella che viene definita “first review” (“prima revisione”) del terzo programma di salvataggio. Tutto bene allora? In realtà la vera partita Alexis Tsipras si apre soltanto ora, con l’inizio della “second review” (“seconda revisione”). Secondo gli accordi presi con le istituzioni europee, il completamento di questa seconda fase dovrebbe far scattare le discussioni sulla ristrutturazione del debito ellenico, vero nocciolo della questione nei rapporti tra stati membri dell’Ue. Ed è qui che il quadro si complica.
Già, perché all’orizzonte c’è di nuovo il mal di pancia di Wolfgang Schäuble, legato al rischio di una mancata partecipazione del Fondo monetario internazionale (Fmi) al piano di salvataggio. Christine Lagarde, direttore generale dell’Fmi, aveva già più volte sottolineato l’insostenibilità del debito greco. Ora, sulla base delle stesse valutazioni, Lagarde avrebbe deciso di dare soltanto assistenza tecnica, ma nessun sostegno finanziario nel quadro del programma. Lo ha rivelato settimana scorsa Ekathimerini citando due fonti anonime molto vicine al dossier greco. Il problema tedesco è che nel contesto delle negoziazioni roboanti dell’estate del 2015, Schäuble era riuscito ad ottenere il consenso del Bundestag (Camera bassa del Parlamento tedesco) solo a patto che un attore terzo, fuori dalle dinamiche europee – leggi: Fmi – fosse parte della partita. In altri termini, Schäuble, con l’avvicinarsi delle elezioni politiche del 2017, si trova in un vicolo cieco. O inizia a negoziare la ristrutturazione del debito greco, manovra che terrebbe in gioco l’Fmi, ma che metterebbe a repentaglio l’immagine del partito di Angela Merkel di fronte al suo elettorato più conservatore – per altro sempre più conteso dalla destra dell’Afd (Alternative für Deutschland). Oppure perde per strada Lagarde, rendendo di fatto lettera morta il mandato parlamentare del 2015.
Il fatto che il problema tedesco sia tutto di natura politica interna, lo ha ribadito anche Cerstin Gammelin, corrispondente da Bruxelles della Süddeutsche Zeitung. Gammelin scrive: «E’ tempo che Schäuble dica la verità. L’Fmi non concede più prestiti ad Atene da tre anni e i debiti contratti con l’istituto internazionale sono stati praticamente tutti estinti. Sono gli europei che di fatto salvano Atene dal default … [Ma] se l’Fmi non è della partita, durante la campagna elettorale diventerà lampante che la Grecia ha bisogno di un aiuti continui da parte dell’Eurozona. Schäuble questo lo sa, ma non vuole dirlo all’elettore tedesco».
Anche la Banca centrale europea (Bce) ha ribadito che il debito greco desta preoccupazione. Lo ha affermato Benoît Coeuré, membro dell’esecutivo della Bce, parlando al Parlamento europeo questo giovedì. Allo stesso tempo però, Coeuré ha anche sponsorizzato un coinvolgimento a tutto tondo dell’Fmi nel proseguo del salvataggio, nonché invitato la Grecia a continuare a implementare le riforme.
Certo, per Schäuble una mezza via di fuga ci sarebbe: aspettare le elezioni politiche tedesche del 2017 per ottenere un nuovo mandato dal Bundestag. In un colpo solo riuscirebbe a salvare la faccia del suo partito di fronte agli elettori e a non infrangere il mandato attuale. Un’ipotesi che è stata bocciata senza mezzi termini dal Presidente della Camera di Commercio di Atene, Konstantinos Michalos: «Le elezioni tedesche non devono diventare una scusa per ritardare le discussioni sulla ristrutturazione del debito greco. [La Germania] ha fatto delle promesse e ora deve mantenerle». Inoltre, un appoggio a negoziazioni spedite è arrivato anche dal Parlamento europeo, dove gli eurodeputati del Gue/Ngl e alcuni membri del gruppo socialdemocratico hanno inviato una lettera al Commissario Eu, Pierre Moscovici. Nel testo si chiede alla Commissione europea di fare pressioni sull’Eurogruppo affinché si proceda rapidamente.
Intanto ieri si è tenuto il congresso di Syriza. Tsipras ha detto che «non sono ammissibili ritardi nelle negoziazioni sul debito» e che «il continuo scontro tra le istituzioni coinvolte nel salvataggio bloccano il processo di ristrutturazione». Tsipras ha anche detto che la Grecia dovrebbe rientrare nei target del programma di “quantitative easing” della Bce. Poi è tornato a soffermarsi sulle sofferenze della popolazione greca che «merita di essere compensata». «I greci sono stati coloro che hanno fatto più sacrifici per tenere in piedi l’Europa, sia nel durante la crisi del debito, sia in quella in corso dei rifugiati».
Che Tsipras abbia fretta è sicuro. Come scrive Handelsblatt, il Paese e, soprattutto la sinistra, gli sta sfuggendo di mano. Nelle ultime settimane, da Atene a Salonicco, si susseguono scioperi e proteste. Nei sondaggi, il partito conservatore, Nuova Democrazia (Nd), è dato nettamente in vantaggio rispetto a quello che, dopo il percorso di riforme, resta di Syriza.
First lady Michelle Obama speaks during a campaign rally for Democratic presidential candidate Hillary Clinton Thursday, Oct. 13, 2016, in Manchester, N.H. (AP Photo/Jim Cole)
Due discorsi a pochi minuti l’uno dall’altro. Uno destinato a essere riprodotto all’infinito nelle tre settimane e mezzo che ci separano dal martedì elettorale, l’altro destinato a essere ripetuto nei prossimi giorni in nuovi comizi, con l’idea di far passare il concetto che le rivelazioni sulle molestie sessuali commesse da Trump non sono che “falsità inventate dai media”. Un confronto a distanza tra Michelle Obama, che ha pronunciato un discorso emozionato e rivolto direttamente alle donne americane e un Donald Trump dal fare gladiatorio. Il giorno dopo la pubblicazione da parte del New York Times di tre testimonianze di donne che raccontavano di avere subito molestie di vario ordine e grado da parte di Donald Trump la posizione del candidato repubblicano è sempre più scomoda, ma la scelta fatta resta coerente con la strategia elettorale delle ultime settimane: respingere le accuse come complotti, contrattaccare, mordere. Testosterone e postura da gladiatore. Perfetto per il pubblico dei comizi e per l’elettorato maschio bianco, meno per quelle donne il cui voto i repubblicani non si possono permettere di perdere. Che già, in quella metà dell’elettorato, sono in minoranza.
La catena di rivelazioni relative a Donald Trump, cominciate con le accuse dell’ex miss Universo Alicia Machado di averle mancato di rispetto in ogni modo ha aperto un vaso di Pandora. La valanga di molestie, battute a sproposito, racconti di comportamenti eccessivi o irrispettosi denunciati da donne di tutte le età sta erodendo il consenso nei confronti del candidato repubblicano. Che non aveva bisogno di nuove difficoltà.
Studentesse ascoltano il discorso di Michelle Obama (AP)
Il discorso di Trump si riassume in poche battute: «Bugie e falsità da parte di media che già sono stati smentiti mille volte, bugie, bugie, bugie…i Clinton sono dei criminali». Niente di nuovo sotto il cielo.
Quello che è destinato a fare un po’ epoca e che molti commentatori – un complotto anche questo – stanno definendo con iperboli di ogni tipo è il discorso di Michelle Obama. Che era già stata la figura più forte emersa dalla convention democratica di Philadelphia. Il discorso di Michelle tocca nodi cruciali ed è in qualche modo una spiegazione possibile del perché tante donne stiano parlando solo adesso delle molestie di Trump. L’audio rubato nel quale il miliardario newyorchese e star dei reality spiega che lui con le donne fa quel che vuole e la pioggia di reazioni furiose che ha scatenato ha forse incoraggiato altre donne a ricordare quanto capitato loro o, se così si può dire, ha fatto loro realizzare quanto la condotta di Trump non sia normale, non sia accettabile. E le ha fatte parlare. Se il miliardario vive negli anni ’50, le donne americane, la maggioranza tra queste, non vivono più in quell’epoca.
Nel suo discorso Michelle parla senza freni e vola alto e parla proprio della vergogna, della difficoltà, del tenere la testa bassa e far fina di nulla. Che si tratti dei media scatenati a caccia di donne molestate da Trump, di tempi sospetti (ovvero dell’aver tenuto a freno queste testimonianze fino a pochi giorni dal voto), il fatto è che queste donne racontano la loro storia. E non lo fanno a caccia di fama, come sostiene qualche sostenitore televisivo di Trump.
Il discorso di Michelle Obama è perfetto proprio per questo. «Abbiamo celebrato la giornata delle bambine, parlando delle aspirazioni delle ragazze nel mondo, che affrontano sfide dolo se decidono di andare a scuola…la civiltà di una società si misura da come tratta le sue ragazze…quello era martedì e oggi mi trovo a parlare di un candidato che nella sua campagna ha detto cose disgustose…mi piacerebbe qui fare il solito discorso elettorale, non possiamo mettere queste cose sotto il tappeto…non erano chiacchiere da spogliatoio ma le parole di un uomo potente che si vanta di molestare donne…i commenti sul nostro corpo, l’idea che tu possa fare quel che vuoi del nostro corpo…è quella sensazione di disgusto di quando cammini per strada facendo i fatti tuoi e qualcuno dice qualcosa sul tuo corpo, ti si avvicina troppo, ti guarda tropo a lungo e ti fa sentire a disagio nella tua stessa pelle…ci ricorda di storie di donne che ci raccontavano le nostre madri e nonne sul posto di lavoro…pensavamo che quella fosse storia, ma rieccoci qui, a dover ascoltare le stesse cose nel 2016»
Per Trump il danno è enorme. Senza le donne non si vince e le donne che già hanno votato in maggioranza democratico nel 2008 e nel 2012, stavolta rischiano di affondare il partito repubblicano. Le simulazioni di Nate Silver, che hanno fatto il giro della rete, mostrano come se votassero solo le donne, Clinton vincerebbe praticamente in tutti gli Stati meno 4 o 5. I numeri di Fivethirtyeightsono piuttosto chiari: in ogni sondaggio di ottobre Trump ha uno svantaggio incolmabile tra le donne e un vantaggio relativo tra gli uomini. Quattro anni fa Obama vinceva di poco grazie al voto femminile e i sondaggi dicevano che i due si bilanciavano: Romney aveva poco vantaggio tra i maschi (+7%), Obama poco tra le femmine (+8%). I sondaggi di ottobre riassunti nella tabella di Silver li vedete qui sotto e parlano di un vantaggio medio di Hillary tra le donne del 15%. E Michelle, milioni di click in 24 ore, non aveva ancora parlato. Quella del 2016 verrà ricordata come una campagna storia per molti motivi. Uno doveva essere – e probabilmente sarà – l’elezione della prima donna presidente degli Stati Uniti. Per le donne, forse, il 2016 sarà storico per un salto di qualità nel discorso pubblico.
epa05398587 Demonstrators spell the words 'Stop CETA' with inflatable letters, during a rally in Berlin, Germany, 30 June 2016. The organisation 'Compact' called for a demonstration against the free trade agreement 'CETA'. EPA/PAUL ZINKEN
Come quando qualcuno ti indica qualcosa da guardare e, intanto, te la combina proprio sotto gli occhi. Sembra qualcosa di simile quello che succede con i trattati commerciali Ceta e Ttip. A fine agosto arriva l’annuncio di Sigmar Gabriel, vice cancelliere e ministro dell’Economia tedesco: «Ritengo che i negoziati con gli Stati Uniti siano de facto falliti, anche se nessuno lo vuole ammettere veramente». Ed è stato tutto un rincorrersi di canti alla vittoria. Con qualche voce fuori dal coro, a chiedere di non cantare ancora vittoria. Perché «il Ttip non si fa» ma finché c’è Obama, quindi per adesso. Ed è vero che entrambi i candidati alla guida degli States, Clinton e Trump, si sono schierati – in campagna elettorale – contro il Ttip, ma è abbastanza? Per i movimenti no, e si organizzano giornate di protesta.
Sempre bene ricordare cos’è il Ceta. Il gemello del Ttip, il Comprehensive Economic and Trade Agreement, ovvero l’Accordo di libero scambio fra l’Ue e il Canada (Ceta), procede a passo sempre più spedito. La firma potrebbe arrivare già il 27 ottobre a Bruxelles, in occasione del summit al quale parteciperà anche il primo ministro canadese Justin Trudeau. L’accordo prevede la soppressione di circa il 98% delle barriere tariffarie tra le parti. E, se definitivamente approvato, entrerà in vigore dal 2017. Chi lo sostiene promette vantaggi commerciali per 5,8 miliardi di euro l’anno, con un risparmio per gli esportatori europei di 500 milioni di euro annui dovuta all’eliminazione di quasi tutti i dazi all’importazione. Sul mercato del lavoro, poi, uno studio congiunto di Ue-Canada ipotizza 80mila nuovi posti di lavoro. Tra le preoccupazioni, invece: «Con il via libera al Ceta, la maggior parte delle multinazionali americane, già attive sul territorio canadese, potranno citare in giudizio nei tribunali internazionali privati le aziende europee, avvalendosi della clausola Investment court system (Ics, il sistema giudiziario arbitrale per la difesa degli investimenti), omologo dell’Isds inserito nel Ttip, che tanti Paesi Ue stanno osteggiando». Sono già 42mila le aziende operanti nell’Unione che fanno capo a società statunitensi con filiali in Canada, con l’approvazione del Ceta queste imprese potrebbero intentare cause agli Stati per conto degli Stati Uniti senza che il Ttip sia ancora entrato in vigore, assicurano i promotori.
Dopo cinque anni di negoziati, dal 2009 al 2014, per il via libera al Ceta manca solo il voto finale, e quindi la firma. In caso di approvazione entro il 2016, da parte del Consiglio e del Parlamento europeo, il Ceta potrebbe entrare in vigore all’inizio del 2017 previa approvazione dei legislatori, canadesi.
Che differenza c’è tra Ceta e Ttip?
È una questione di competenza. Ratificare un trattato può essere, legalmente parlando, di esclusiva competenza Ue oppure a competenza mista, e cioè la ratifica, oltre che dalla Commissione, deve passare anche dai Parlamenti nazionali di tutti gli Stati membri. Su questo punto si battaglia dentro l’Unione. L’accordo di libero scambio Ue-Canada, il Ceta è di esclusiva competenza dell’Ue Lo ha annunciato la commissaria Ue per l’Economia commercio Cecilia Malmstroem.
Il Paese meno convinto? La Germania, che ha espresso la sua ostilità alla ratifica esclusivamente Ue. Ma a smentire i dubbi, il 13 ottobre, ci ha pensato la Corte costituzionale tedesca che ha rigettato i ricorsi d’urgenza presentati per bloccare temporaneamente l’approvazione.
Il più favorevole? L’Italia. Il 30 maggio il ministro Calenda scrive una lettera alla Commissaria e affida al Parlamento europeo la ratifica del trattato, senza passare per il Parlamento italiano. La CampagnaStopTTip protesta e alla fine la Commissione ammette che sì, è necessaria una discussione anche nei parlamenti nazionali e negli enti locali. «Una vittoria della campagna contro il Ceta e il Ttip e della mobilitazione delle associazioni, dei comitati e dei cittadini . Questo ovviamente di per sé non basta: l’obiettivo deve essere quello di non approvare il Ceta, evitanto anche la così detta “applicazione provvisoria”, cioè che il trattato entri in vigore in sostanza prima che vi sia il passaggio dai parlamenti nazionali», spiega a LeftEleonora Forenza, eurodeputata del Gue/Ngl e membro della commissione Commercio Ue. «Il Ceta ha un impatto profondo su competenze vitali degli Stati e che hanno conseguenze reali sulla vita dei cittadini».
Perché il Ceta “sdogana” il Ttip? «Il Ceta rischia di essere un vero e proprio cavallo di Troia per le multinazionali, anche in assenza del Ttip», spiega ancora Forenza. «Sdogana infatti quelli che si chiamano trattati di nuova generazione, cioè che hanno come obiettivo l’eliminazione delle barriere non tariffarie, che però coincidono con i nostri standard di diritti fondamentali, come il lavoro e la salute. Ricordiamo che Stati Uniti e Canada hanno già un accordo, il Nafta (Accordo nordamericano per il libero scambio), che permetterebbe alle imprese statunitensi, anche senza il Ttip, di poter godere di tutti i “benefici”contenuti nel Ceta. In pratica a qualsiasi multinazionale, se passasse il Ceta, basterebbe aprire una casella postale – o una sede legale – in Canada per avere tutti i privilegi attribuiti dal Ceta, in primis gli Isds (Investor-State-Dispute Settlement), ovvero il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e stato, anche nella nuova versione (ics), sotto forma di corti arbitrali. In buona sostanza si otterrebbero gli stessi effetti del Ttip senza averlo approvato».
il primo ministro canadese Justin Trudeau
Il Canada? Sembra così convinto da evitare persino le voci fuori campo. Oltreoceano, a Montreal, l’eurodeputato francese dei Verdi, José Bové, è stato bloccato all’arrivo in aeroporto, trattenuto per sei ore fino a quando, dopo una quasi crisi diplomatica, il governo federale non è intervenuto. Era lì per partecipare a una conferenza sul Ceta, o meglio contro il Ceta. Sulla fedina penale di Bové ci sono una condanna di dieci anni fa per avere distrutto un McDonald’s in Francia e una del 2008 per avere distrutto campi di Ogm. Abbastanza per non consentirgli l’ingresso in Canada, nonostante il regolare visto. Dietro al divieto, denunciano i Verdi, c’è il tentativo di impedire l’ingresso a una voce critica nei confronti del Ceta.
- In this May 22, 1966 file photo, Bob Dylan gestures during a press conference in Paris, France. Dylan’s tumble from his Triumph in Woodstock, N.Y., 50 years ago was the most fateful motorcycle crash in pop-culture history. But for all its import, details surrounding the crash remain foggy. (AP Photo/Pierre Godot, File)
Gli schizzinosi sono schizzati per schizzare fango su Bob Dylan. Normale in un mondo di scrittori e senza più lettori. Dicono che non sia letteratura, Dylan. Dicono. Uno che ha scritto una cosa così, per dire:
Quante strade deve percorrere un uomo
prima che tu possa chiamarlo uomo?
E quanti mari deve navigare una bianca colomba
prima di dormire sulla sabbia?
E quante volte devono volare le palle di cannone
prima di essere proibite per sempre?
La risposta, amico mio, soffia nel vento,
la risposta soffia nel vento.
E quanti anni può esistere una montagna
prima di essere erosa dal mare?
E quanti anni possono gli uomini esistere
prima di essere lasciati liberi?
E quante volte può un uomo volgere lo sguardo
e fingere di non vedere?
La risposta, amico mio, soffia nel vento,
la risposta soffia nel vento.
E quante volte deve un uomo guardare in alto
prima di poter vedere il cielo?
E quanti orecchi deve avere un uomo
prima di poter sentire gli altri che piangono?
E quante morti ci vorranno prima che lui sappia
che troppi sono morti?
La risposta, amico mio, soffia nel vento,
la risposta soffia nel vento.
«La vita adulta di una donna non inizia più con il matrimonio». Lo scrive Rebecca Traister parlando delle donne americane. Le donne scelgono, racconta. E lo fanno qualunque sia la loro fascia sociale, il colore della loro pelle e il loro credo politico. Che siano repubblicane o democratiche insomma. Banalità? Non proprio se ci pensate. Immaginarsi mondialmente libere di scegliere se, come e quando avere dei figli. Quando, quante e con chi avere delle relazioni affettive non è banale. Per niente. Ancora oggi, Save the children racconta di più di 700 milioni di donne al mondo costrette a sposarsi prima dei 18 anni (una su tre prima dei 15 anni), per motivi di povertà, violenza sessuale e convenzioni sociali.
Leggere che gli Stati Uniti d’America sono «stati costruiti sulla differenza razziale e sulla schiavitù, e sul ruolo sussidiario e accessorio della donna relegata al lavoro domestico» e che «la legge sul matrimonio e la legge sulla schiavitù sono connesse» perché, anche se regolano questioni diverse, «c’è qualcosa che lavora in tandem, infatti il controllo di gruppi sociali considerati sussidiari (come gli afroamericani e le donne) avviene attraverso il controllo delle loro funzioni riproduttive» è illuminante di tanta discriminazione. Difficile con una cultura così, racconta sempre la Traister, liberare non solo gli schiavi ma anche le donne bianche dal matrimonio con gli uomini bianchi, perché avrebbero potuto amare gli schiavi e mischiare le razze… e leggere che invece oggi in America più del 50% delle donne bianche, nere, asiatiche, ricche, povere, non è sposata. Che non significa essere contro il matrimonio o contro gli uomini, ma semplicemente avere la possibilità di scegliere un’infinità di differenti opzioni, tutte caratterizzate dal non essere confinate nell’istituzione matrimonio. La stessa cosa accade in Italia, in Sud America, in Asia. È un fenomeno globale e una rivoluzione, dice la giornalista, perché tutto è già cambiato. La vita delle persone è già un’altra, ed è ora che «i governi ne tengano conto e facciano buone leggi». Il futuro è femmina. La donna non è più solo madre e moglie. E Hillary Clinton è quasi presidente. Importante, liberatorio quasi per gli Usa. Cambierà persino il volto del potere, ci racconta la Traister.
E noi? Anche da noi Chiara Saraceno ci spiega nel suo modo asciutto, razionale, che molte donne vogliono avere una vita indipendente a tutti i livelli. Perché oggi «il matrimonio non è visto come l’onnicomprensiva forma di realizzazione di sé» e che questo fenomeno è espressione del legittimo desiderio di mettere alla prova le proprie capacità al di fuori della relazione di coppia. Ma che anche e ancora, qui da noi, è «una forma di autodifesa, per poter negoziare compromessi meno asimmetrici e scontati nel caso si decida di formare una coppia e, non sia mai, avere figli». Autodifesa necessaria in assenza di buone leggi. Anche di questo parliamo, anche di questo si legge nel libro della Traister. Ci vorrebbero buone leggi. E da noi non se ne vedono da tempo. Annaspiamo tra pessime leggi sulla Buona scuola e ridicoli Fertility day. Brucia ancora oggi il voto negativo sulla maternità surrogata del Consiglio d’Europa. è dura, è lunga, ma il futuro passa da lì. Dalla realizzazione dell’identità delle donne. The future is female, scrivono sulle magliette.
Ps. Noi in questi giorni siamo a una festa. Tre giorni alla Città dell’Altraeconomia di Roma per spiegarvi il No alla riforma costituzionale proposta da Renzi e Boschi. Perché ci sono leggi che liberano e leggi che intrappolano. Che rendono prigionieri di un potere che si nutre di potere e non nutre noi. Leggi per gli altri e per la loro vita. E leggi contro gli altri. E contro la loro vita. Così, anche su questo numero abbiamo provato a raccontarvi delle calunnie, e delle riforme che avremmo potuto fare.
Allison Williams, Jemima Kirke, Lena Dunham, Zosia Mamet
Movie stills from Girls (HBO) Season 1, 2012
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Appena uscita dal teatro comunale di Ferrara, Rebecca Traister è entusiasta, ha parlato per un’ora e mezza «nel posto più bello in cui abbia mai tenuto una conferenza». Sgrana gli occhi quasi incredula e mi dice: «era pieno di gente, di giovani, ragazze, ma anche ragazzi. È straordinario. Mi avevano detto che in Italia il femminismo era morto, che era una cosa polverosa e invece l’interesse mi sembra enorme». Rebecca è una saggista statunitense, ma non una qualsiasi. L’hanno definita “la più brillante voce in America sui temi legati alle donne e alla questione di genere”. E, leggendo il suo ultimo lavoro All The Single Ladies appena uscito in Italia, non si può che essere d’accordo. «Il libro si concentra principalmente sugli Stati Uniti – spiega Traister – parlo dell’enorme crescita del numero di donne single. Bianche, nere, asiatiche, ricche, povere, il fenomeno è trasversale. Oggi più del 50% delle americane non è sposato. La stessa cosa accade anche in Italia, in Sud America, in Asia». Un fenomeno globale e una rivoluzione, perché quello che si scopre leggendo il libro di Rebecca è che le donne oggi hanno un potere rivoluzionario.
In All the single ladies sottolinea come le donne non siano più obbligate ad essere solo mogli e madri.
Le donne storicamente sono sempre state dipendenti dagli uomini, e il matrimonio era la struttura base su cui società e vita delle donne veniva organizzata. Oggi, invece, sempre più donne vivono semplicemente al di fuori del matrimonio. Non si tratta necessariamente di un “rifiuto” del matrimonio, non parlo di giovani donne che crescono dicendo “io non mi sposerò mai”, o “non mi sposerò fino a 40 anni”. E non parlo esclusivamente del matrimonio in sé, ma di tanto altro, del fatto che dopo secoli siano (e debbano essere) considerate esseri umani e non oggetti sussidiari agli uomini dai quali erano costrette a dipendere. Perché, per la prima volta, le donne hanno molte più opportunità per realizzare le loro vite. Studiare, lavorare dove prima era impensabile […] Che rivoluzione è quella che descrive?
È una rivoluzione post-sessuale. Il fatto che le donne possano avere una vita sessuale libera da regole imposte non significa forzatamente saltare di continuo da un partner all’altro, o non avere un compagno. Significa semplicemente avere un’infinità di differenti opzioni, tutte caratterizzate dal non essere confinate nell’istituzione matrimonio. […] Infatti il numero crescente di single implica che una persona stringa un numero maggiore di amicizie e abbia una vita sociale molto più attiva. È vero in America, ma in Italia è lo stesso. Oggi, tra i 20 e 30 anni, la maggior parte del tempo non lo passi più in famiglia facendo la moglie o la madre, ma con i tuoi amici. Amici che possono essere anche maschi e amici che diventano la tua famiglia: esci con loro, vivi con loro, mangi con loro, li porti addirittura a casa dei tuoi genitori. In Italia esistono ancora posizioni molto conservatrici sulla concezione della donna. A cosa pensa sia dovuto?
Una delle cose che influiscono di più in Italia è la forte ingerenza religiosa e per di più di una religione (il cattolicesimo) che vede la donna come qualcosa di sussidiario. In questo senso la sfida è ancora maggiore qui da voi. […] Comunque anche nel vostro Paese, come da noi, le donne si sposano meno e sempre più tardi e chi governa ne deve tenere conto… invece di proporre campagne orribili come quella del Fertility day, o di dar seguito alle dichiarazioni di papa Francesco sulla teoria del Gender che attenterebbe alla famiglia… (ride) Da voi il femminismo sta diventando mainstream, penso al film Suffragette, o a Cara Delevingne e St. Vincent che si presentano in occasioni pubbliche indossando una maglietta con scritto “il futuro è femmina” (the future is female). Questo contribuisce a rendere più popolari alcune battaglie “femministe” secondo lei?
Sì. Ora negli Stati Uniti il femminismo è molto popolare e non era così da parecchi anni. Penso a tutto quello che sta facendo Beyoncé. Per quanto questo tipo di provocazioni possano fare parte di una logica legata al mercato, riescono a rendere il femminismo più popolare proprio tra le giovani donne. Se Cara Delevingne riesce, non dico a far diventare femministe le ragazze, ma a fargli capire che bisogna lottare per la parità di genere, è molto positivo.
Pablo Picasso, at Madoura Pottery. (Photo by Gjon Mili//Time Life Pictures/Getty Images)
Diavolo di un Picasso, non solo genio della pittura, ma anche abile comunicatore, attraverso la fotografia, che usava per pubblicizzare il proprio lavoro, mandando ai galleristi selfie scattati davanti alle opere, in bella mostra, nello studio. Ma non solo. Ogni volta che il malagueño metteva le mani su una nuova tecnica, ne rivoluzionava l’uso. Fu così per la grafica. E accadde lo stesso con la fotografia. Come racconta l’ampia mostra Picasso Images aperta dal 14 ottobre al 19 febbraio all’Ara Pacis, a Roma con un percorso di duecento fotografie d’epoca, scatti d’inizio Novecento, con molti inediti e di epoche successive fino agli anni Settanta.
Pablo Picasso cominciò a usare la macchina fotografica in modo innovativo quando conobbe nel 1917 la moglie Olga, danzatrice dei Ballets Russes di Diaghilev e fotografia dilettante. Ma già quando, con Fernande Olivier ( la sua prima compagna parigina) era andato a fare un viaggio nei paesini della Catalogna, aveva cominciato a studiare i paesaggi attraverso la fotografia. La collezionista e scrittrice Gertrud Stein vedeva in qui paesaggi geometrizzanti l’anticipazione delle scomposizioni cubiste. Di fatto Picasso ricorreva all’obiettivo per studiare la realtà, ma anche come semplice diario di viaggio, raccontandosi con ironia, mettendosi in posa, divertendosi con gli amici. Sono gli anni spensierati ed eccessivi della vita bohémien, quando faceva la fame ma preparava la rivoluzione cubista che sarebbe emersa in modo dirompente nel 1907, con Les Demoiselles d’Avignon.
Nel percorso della mostra romana curata da Violette Andres e da Anne de Modenard quei sorprendenti scatti ingialliti sono intercalati da una bella scelta di opere grafiche, sculture e dipinti provenienti dal Musée national Picasso-Paris, fra i quali, un nudo di donna che fa parte dei disegni preparatori delle Demoiselles, il sognante Nudo in giardino del 1934 e alcuni scheggiati e drammatici ritratti di Dora Maar. Alla collaborazione fra la fotografa croata e Picasso è dedicata una delle tre sezioni che articolano il percorso espositivo, approfondito nel catalogo Electa.
La loro tormentata relazione e i crudeli ritratti che mostrano Dora Maar in lacrime, letteralmente a pezzi, sono una parte della storia, l’altra – qui messa bene in luce – è lo scambio fruttuoso e creativo fra due personalità forti e diversissime. Ecco dunque le foto di Dora che raccontano in modo originale il laboratorio di Guernica ed ecco le prime sperimentazioni di Picasso che fa incontrare in modo originale due mezzi antitetici come la pittura e la fotografia. Fruttrifera fu poi anche la collaborazione con Brassaï che apprese da Picasso a graffiare i negativi per trarne delle opere originali. Quando Picasso si trovava a Vallauris si presentò da lui un apprendista fotografo André Villers, che all’epoca aveva 22 anni. Nacque così una collaborazione che durò dieci anni, dal 1932 al 1962, anni in cui il pittore spagnolo, sperimentò sovrapposizioni e tecniche combinate, realizzando con i fotogrammi dei décupage che evocano le figure danzanti di Jazz ideate da Matisse. Bel finale con le celebri foto di Robert Capa che ritrasse Picasso in momenti di vita privata, con il figlio e con la compagna di allora, Françoise Gilot, con la quale riscoprì la Joie de vivre nel dopo guerra, come racconta un celebre quadro del 1946, (anch’esso in qualche modo ispirato da Matisse) . La mostra si chiude con la maturità artistica di Picasso quando, a partire dal dopoguerra, coltivò personalmente la propria immagine d’artista diffusa dalla stampa illustrata, che contribuirà a renderlo personaggio di grande popolarità e ad alimentarne il mito.