L.O.V.E.: libertà, odio, vendetta, eternità. O, come meglio noto, “Il Dito” di Maurizio Cattelan. Proprio lì, al centro di Piazza Affari a Milano. Proprio di fronte a Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa. Gli undici metri della scultura rappresentano una mano intenta nel saluto fascista con tutte le dita mozzate tranne il dito medio, che ieri è diventato una “I” per dire StopTtip. La trovata – riuscitissima a giudicare dal tam tam mediatico – arriva in vista dell’apertura, oggi 11 luglio, del 14esimo tavolo di negoziato per il Trattato transatlantico per il libero scambio. «La cartolina di auguri per la ripresa dei negoziati sul Ttip vuole augurare ai negoziatori che si troveranno a Bruxelles di trovare il coraggio di prendere atto del fallimento di un progetto che non fa gli interessi dei cittadini ma solo quelli dei potenti della finanza», commentano dalla Campagna.
Via al 14° round, a Bruxelles per una settimana. A che punto sono i negoziati? Sarà per l’esito del referendum su Brexit, sarà per via delle campagne elettorali che incombono (si vota negli States e in Francia, per esempio), ma non si contano più i passi indietro sul Ttip: dagli Usa – con tutti i candidati alle presidenziali, da Trump alla stessa Clinton – alla Francia – «Posso dirvi francamente che non ci può essere un accordo sul trattato transatlantico», ha detto il primo ministro Valls – l’utilità dell’accordo di libero scambio viene messo in discussione. Persino il ministro dello Sviluppo economico della fedele Italia, Carlo Calenda, ammette: «Il Ttip secondo me salta». Ma per il momento i negoziati continuano, il mandato dei negoziatori non è cambiato e l’obiettivo resta quello di «riuscire a chiudere prima della fine dell’amministrazione Obama».
Mentre ci si sforza per portare a casa entro il 2016 questo «regalo per la finanza», come lo chiamano gli oppositori del Ttip, l’Europa pensa a un fondo salva banche. In Italia è ormai certo che il Monte dei Paschi di Siena dovrà essere salvato con soldi pubblici. E – come prevede la clausola del bail in – a pagare saranno prima gli azionisti, poi gli obbligazionisti, poi i correntisti più ricchi e infine gli Stati. Nel caso di Mps, le obbligazioni subordinate, «per complessivi 5 miliardi – riporta il Corriere – sono in mano a 60mila piccoli risparmiatori e a vari investitori istituzionali. Un mix che potrebbe scatenare il panico in caso di bail-in». Il fallimento di Mps, insomma, comporterebbe un rischio troppo grande per tutte le altre banche. Allora meglio salvarne una per salvarle tutte. Non a caso la tedesca Deutsche Bank propone un fondo europeo di 150 miliardi netti.
José Manuel Barroso Fmr. Pres of European Commission Appointed Non-Exec Chairman of Goldman Sachs Intl & GS Advisor https://t.co/0SEcKxNGqP
Intanto, una notizia arriva e passa stranamente in sordina: l’ingresso dell’ex presidente (in carica dal 2004 al 2014) della Commissione Ue, Manuel Barroso, nel colosso statunitense Goldman Sachs. L’ex capo dell’Esecutivo europeo alla guida (sarà presidente non esecutivo) di una delle più grandi banche d’affari al mondo. Nei posti di comando il libero scambio è già realtà.
Lo scontro tra le forze governative e gli ex ribelli è esploso domenica, ad appena ventiquattro ore dai festeggiamenti per il quinto anniversario dell’indipendenza dal Sudan. Le vittime accertate finora sono 227 e 33 sono i civili.
Le violenze nel piccolo Paese dell’Africa orientale hanno avuto origine venerdì, in occasione di un incontro tra il presidente Silva Kiir e il suo oppositore Reik Machar. Dopo una breve tregua nella giornata di sabato, in occasione delle celebrazioni, le ostilità sono riprese domenica 10 luglio: secondo le ricostruzioni fornite dalla stampa internazionale e le dichiarazioni dalle Ong sul territorio, colpi d’artiglieria pesante sono stati avvertiti domenica nella capitale Juba. Mentre gli elicotteri dell’esercito sorvolavano i cieli della città.
Nel timore che si potesse riaccendere lo scontro tra lealisti e ribelli, scontro che portò a circa 50mila vittime e oltre 1,5 milioni di profughi tra il 2013 e il 2015, la popolazione ha iniziato a scappare. Colpito, durante gli scontri, anche uno dei campi profughi allestito dalle Nazioni unite, che si trovano in missione in Sud Sudan dal 2011 e che in un comunicato hanno condannato duramente l’accaduto: «Questa violenza insensata è inaccettabile e ha il potenziale di incrinare il processo di pace intrapreso», ha detto il segretario generale Ban Ki Moon, rivolgendosi direttamente a Kiir e Machar e chiedendo l’impegno per il cessate il fuoco.
Il rischio è che in Sud Sudan si possa tornare all’anno 2013, a quando ad appena due anni dall’indipendenza, il Paese appena nato entrò in guerra con se stesso. All’epoca il presidente Kiir accusò Machar, suo vicepresidente, di aver pianificato un colpo di Stato facendo così esplodere lo scontro armato tra le fazioni a lui vicine e quelle alleate al suo oppositore. Alle radici politiche della guerra civile, poi, si sono intrecciate quelle etniche: Kiir è discendente della tribù Diinka, mentre il suo oppositore è un Nuer. E le ostilità tra le due tribù hanno amplificato il conflitto, trasformandolo in un bagno di sangue arginato soltanto nell’agosto del 2015 con la ratifica del trattato di pace.
Se gli effetti della guerra civile hanno pesato duramente sullo sviluppo nazionale – rallentando la costruzione delle infrastrutture e il decollo dell’economia del Paese – a subirne le conseguenze, però, è stata soprattutto la crisi umanitaria che non cenna a fermarsi: sono oltre 2mila i profughi che in questi giorni hanno trovato rifugio nei campi dell’Umiss, la missione delle Nazioni unite in Sud Sudan.
Intanto, Salva Kiir e Riek Machar provano a lanciare un gesto distensivo, e si appellano «alla calma».
Cristiano Ronaldo of Portugal, Eder of Portugal, Ricardo Quaresma of Portugal during the final of UEFA EURO 2016, France vs Portugal soccer match held at the Stade de France in Saint-Denis near Paris, France on July 10, 2016. Photo by Henri Szwarc/ABACAPRESS.COM
Lo so che la metafora calcistica è una grave malattia che affligge gli italiani da decenni… eppure pensateci, da una parte ieri sera allo stadio di Saint Denis era seduto François Gérard Georges Nicolas Hollande, dall’altra António Luís Santos da Costa. Da una parte, era seduto il socialista che ha distrutto i socialisti in Francia. Dall’altra, era seduto il socialista che dal 26 novembre scorso guida un governo di minoranza, monocolore socialista, con l’appoggio esterno dei partiti di sinistra, simbolo anti austerity. Si guardavano i due, e guardavano i loro giocare.
Uno ha chiuso le frontiere (indimenticabili le immagini di uomini appollaiati sugli scogli di Ventimiglia in attesa di una vita, nel 2015), ha proposto la sospensione della cittadinanza francese agli stranieri, si è intestato una riforma del lavoro all’italiana, modello Jobs act, e non ha mai messo in discussione l’asse con Merkel e Schauble, anzi è sempre in prima fila sorridente nei vertici europei. Quelli a tre, che fanno felice anche Renzi. L’altro, Costa, come primo atto del suo governo di minoranza, ha innalzato il reddito minimo garantito a più di 600 euro, ha ridotto a 35 ore l’orario di lavoro e abbassato l’Iva per il turismo dal 23 al 13%.
Il primo, Hollande, ieri aveva la vittoria in tasca e il pullman per celebrare la vittoria pronto. L’altro, aveva il cuore in gola e la testa a mille. Grandeur francese contro resistenza portoghese. I grandi erano forti e i piccoli precisi. Il Portogallo ha mostrato la sua tenacia a Saint Denis, la capacità di reagire ad un Payet qualunque che ti abbatte il capitano, quel Cristiano Ronaldo antipatico a tanti ma grande eroe di ieri. Un eroe fuori campo che urla zoppicante ai suoi compagni. Fino alla fine, fino alla vittoria. Di cosa? Di un Europeo, e allora va bene, usiamola la metafora calcistica, per dire che questa è l’Europa che ci piacerebbe. Tenace, forte, solidale, reattiva, coesa, coraggiosa. In cui chiunque, anche un sostituto (Eder) è uguale al campione e può cambiare il vento. Un’Europa che si oppone ai forti e all’austerity, che i vertici non li vuole, che la Grecia non la abbandona, ma che anzi è la Grecia. E che pensa alla gente. Tutta. «Feliz», ha scritto Marisa Matias, leader del Bloco de Esquerda portoghese, a fine partita. Anche noi.
La visita della sindaca di Roma, Virginia Raggi, nel quartiere di Tor Bella Monaca per verificare l'emergenza topi e rifiuti, Roma, 11 luglio 2016. ANSA/CLAUDIO PERI
Raggi si concede una passerella e conta i topi, come i bambini di “Torbella” nel video diventato virale.
Complice una giornata politicamente scarica, la sindaca di Roma ha avuto al seguito tutte le telecamere – con tanto di dirette in home sul Corriere e su Sky – in missione a Tor Bella Monaca. Sembra proprio una passerella come quelle che fanno i sindaci dei partiti – ma questa è malizia – nel quartiere simbolo della periferia di Roma finito così nuovamente nelle pagine delle cronache nazionali per una condizione che questa volta è però veramente comune a tutta la città, anche ai quartieri più ricchi e più centrali. Che sono sporchi, perché già sporchi di loro, e perché i dipendenti di Ama vengono da settimane di lotte sindacali. Finalmente è stata rinnovato il contratto collettivo, finalmente la situazione dovrebbe tornare alla normalità: una città sporca, ma nella norma, che spedisce gran parte dei suoi rifiuti all’estero in attesa di organizzare in post Malagrotta (chiusa da Marino).
Ciò per cui invece non si vede ancora soluzione è la vicenda Baobab. Consigliamo alla sindaca di andare anche lì. A vedere una distesa di uomini e materassi che riempiono la via: sono più dei topi, a contarli. I volontari che hanno finalmente incontrato l’assessora ci dicono che per la soluzione a lungo termine siamo ancora alla proposta «di un tavolo» e che per «l’emergenza» si pensa invece di riattivare la tendopoli alla stazione Tiburtina. Che meglio dell’aria aperta ma è in mezzo al nulla, lontana da centri per i servizi diurni, prevede un presidio militare («la cui presenza non rassicura i migranti»), e soprattutto è piccola. Lì entrano 150 persone. Secondo Alberto Barbieri di Medu ne servirebbero almeno 500.
Suona la campana per il Monte dei Paschi di Siena. La banca dovrà essere salvata con soldi pubblici (una volta si sarebbe detto “nazionalizzata”). Troppo forte è il rischio che il suo fallimento provochi altri fallimenti, innescando una reazione a catena che tutto potrebbe far saltare. Si discute sulle modalità del salvataggio. La Stampa auspica “Un fondo europeo per le banche”. Una cosa grossa, 150 miliardi netti, una proposta che aiuterebbe MPS ma arriva da Deutsche Bank, colosso tedesco che ha in pancia una gran quantità di derivati finanziari. In realtà un fondo cui attingere ci sarebbe già ed è il fondo salva stati, soldi pure nostri di cui si servirono gli spagnoli per le loro sofferenze bancarie, ma il governo italiano resiste perché non vuole i controlli occhiuti sulle sue finanze cui il ricorso a quel fondo lo esporrebbe. Così propone: paghiamo noi italiani ma via il bail in. La regola europea, sottoscritta da Letta e Renzi, prevede che paghino prima gli azionisti, poi gli obbligazionisti, quindi i correntisti con oltre 100mila euro e che solo dopo possa intervenire lo Stato. Purtroppo, come spiega il Corriere, “Obbligazioni subordinate del Monte dei Paschi per complessivi 5 miliardi sono in mano a 60mila piccoli risparmiatori (2,1 miliardi rappresentati dal bond con taglio minimo da mille euro rifilato alla clientela per finanziare l’acquisto di Antonveneta) e a vari investitori istituzionali (circa 2 miliardi). Un mix che potrebbe scatenare il panico in caso di bail-in”. Renzi non vuol pagare il prezzo politico che ne deriverebbe, perciò chiede un’esenzione dal bail in. D’altra parte, osserva Fubini: “evitare in pieno o in larghissima parte il colpo di falce sui creditori di Mps renderebbe Merkel vulnerabile agli attacchi dalla destra in Germania; Alternative für Deutschland accuserebbe la Cancelliera di permettere che l’Italia demolisca le regole europee scritte a tutela della disciplina e del denaro dei tedeschi”.
Il futuro incerto del premier. È il titolo di una accurata analisi svolta da Ilvo Diamanti per Repubblica. Il sondaggio Demos dice che oggi 37 italiani su 100 voterebbero Sì al referendum costituzionale, 30 No. Ma tra quelli sicuri di votare lo scarto si riduce: 38 Sì, 35 No. Inoltre da febbraio a oggi i Sì sono in caduta libera, da 50 a 37, i No in crescita, da da 24 a 30. Interessanti le risposte alla domanda: voterai sì o no in base al giudizio su Matteo Renzi? Fra tutti gli intervistati, a febbraio rispondevano che avrebbero votato al referendum per sostenere o non sostenere Renzi ben 50 sondati, oggi solo 37. Inoltre l’effetto Renzi agisce più su quelli intenzionati a votare Sì (il 53%), che tra i fautori del No, nel cui campo appena un 27% si orienta ha l’intenzione, dicendo No, di punire il premier. Insomma, più si va avanti, più italiani si convincono che queste riforme non vanno bene e che sono in definitiva un’imposizione del governo che vuole legittimarsi. “Renzi ha politicizzato un referendum anti politico”, Diamanti spiega così l’errore madornale fatto da Renzi quando – anche per spostare l’attenzione dal voto amministrativo – ha legato la vittoria del Sì al sorte governo e al suo stesso futuro politico. Prima aveva presentato le riforme coma la rottamazione della vecchia politica (ricordate? “Senatori che perdono tempo per non perdere la poltrona”), poi ne ha fatto il baluardo della sua politica. Certo il Machiavelli di Rignano voleva rottamare la “vecchia” politica e ottenere un plebiscito per la “sua” politica. Ma nell’immaginario collettivo la sua è ormai la politica e non appare così diversa dalla vecchia. “Dopo aver puntato in modo intransigente sul referendum per auto legittimarsi – conclude Diamanti – il premier cerca oggi di “sopravvivere” al referendum stesso. Il cui esito appare sempre più incerto. E problematico. Così Renzi, da un lato, pensa ad allontanare la data del voto. Dall’altro, contrariamente al passato, appare disponibile a “spacchettare” i quesiti del referendum, per isolare i temi più critici. Ma, in questo caso, Renzi, premier e segretario del PDR, che ambisce al ruolo di Riformatore di una nuova Repubblica, rischia di “spacchettare se stesso”.
L’America allo specchio, la Francia pure. Un presidente nero e i neri costretti a difendersi dalla minaccia della polizia. I poliziotti che sparano per primi – molto spesso a sproposito – ma in un mondo dove tutti possono portare un’arma da guerra, tutti possono rappresentare una minaccia, e dove l’uomo nero, virile, infedele, impulsivo – così è ancora nell’immaginario sessuale (?) e razzista (?) americano – rappresenta la minaccia più pericolosa. Torna, dunque, l’antico cleavage razziale. In verità non credo: oggi ci sono tanti giovani bianchi che condividono la battaglia del Black lives matter. O, se preferite, sono i neri che condividono la battaglia di tanti giovani bianchi contro le elites al comando, contro la polizia che brutalmente difende un ordine ingiusto, contro le disuguaglianze. Questa rivolta razziale viene dopo la frattura tra l’alto e il basso, dopo che è riaffiorato negli States il conflitto di classe. Non lo trovate tanto nei discorsi dei leader (ma poi chi sono i leader?) questo mescolarsi di temi e problemi, quanto nelle cose semplici che poliziotti incazzati o pentiti, donne nere, bianchi poveri e neri ribelli si stanno dicendo sui social, per le strade, in televisione. L’America freme di rabbia ma comincia a guardarsi dentro. Anche in Francia sta per succedere. Vedete, dopo la marcia della maggioranza silenziosa sugli Champs Élysées, dopo aver De Gaulle fatto sentire “rumor di sciabole”, dopo che i sindacati avevano firmato un accordo sindacale, la Francia andò in vacanza per il primo lungo ponte d’estate e dimenticò il maggio ’68. Venti anni prima l’Italia andò in estasi per la vittoria di Gino Bartali al Tour de France e dimenticò l’attentato a Togliatti e la campagna di odio anti comunista (e anti sindacale) della chiesa di Pio XII. Ma il Portogallo, senza Ronaldo, ha battuto les blues. Stavolta la dea estate non salverà la politica elitaria e anti popolare dell’ultimo Hollande.
Un momento del vertice Nato a Varsavia con il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, 9 Luglio 2016. ANSA/US/TIBERIO BARCHIELLI/ PALAZZO CHIGI
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Prima vengono i vertici internazionali e le trattative con l’Europa, evidentemente. Ma questa è anche la settimana del voto sulla legge sugli Enti locali, in Senato. Ed è quindi una settimana complicata, perché i numeri al Senato, per il governo, – in periodo estivo soprattutto – sono sempre un po’ una scommessa. E lo sono anche se le pressioni degli alfaniani sembrerebbero in parte rientrate. Schifani, indicato come il capo dei frondisti, ha detto che non ci sarà nessuno sgambetto, e Matteo Renzi gli crede (perché crede in particolare che Alfano non abbia alcuna voglia di lasciare il ministero, né abbiano voglia i molti sottosegretari di Ncd). «L’appoggio esterno non avrebbe senso» dice anche Maurizio Lupi a proposito della proposta lanciata – tra gli altri – da Roberto Formigoni, che vorrebbe lasciare maggioranza e governo, tenendo però un piede dentro (e viva la legislatura). Ma l’ex ministro, pensando alla legge elettorale, aggiunge anche: «Però fermiamo i listoni unici». Le pressioni sull’Italicum, dunque, non sono certo finite. Proseguiranno tutta l’estate e arrivano non più solo da dentro il Pd e da sinistra, ma anche dalla maggioranza di governo, qualche renziano compreso.
È per questo che Matteo Renzi sta cambiando toni, tanto sulla legge elettorale appena entrata in vigore ma già riformabile (se converrà farlo e – è la linea di Guerini – se le camere daranno impressione di farlo in autonomia) che sulla campagna referendaria. Che resta campale, che resta una questione di principio su cui dividere il mondo in innovatori e conservatori, ma su cui si può immaginare una qualche apertura. Almeno di metodo, almeno per disinnescare un’eventuale sconfitta.
Renzi ha già detto che se perde non lascia certo la segreteria del partito («Lascio la politica», aveva detto all’inizio) ma siccome i sondaggi non sono così buoni (per Repubblica i “sì” sono solo di poco avanti) vuole ulteriormente svelenire il clima (per vincere, sia chiaro): le voci sono contrastanti, ma da qualche giorno si parla addirittura della possibilità di spacchettare il quesito referendario. Che sarebbe cosa buona e giusta, ma permetterebbe soprattutto a Renzi di avere qualche vittoria sicura, tipo sul quesito sul nuovo Senato, ottima da rivendicare sia sul fronte interno sia all’estero per non dire che l’Italia non fa le riforme. Si parla poi non più di ottobre ma di novembre, il 6, come data: qualche settimana in più non guasta, e si evitano i ponti. Ma vedremo, il balletto durerà ancora qualche settimana.
Dal 14 luglio al 2 ottobre 2016 torna Cortona on the move, festival internazionale di fotografia che quest’anno è giunto alla sua sesta edizione. In così poco tempo Cortona OTM è diventato un evento imperdibile per fotografi, giornalisti, appassionati e amanti della fotografia di tutto il mondo. Il festival unisce alla qualità e alla ricerca dei contenuti la magia delle location che li ospitano e apre una finestra sui molti Altrove immortalati negli scatti degli artisti. Il viaggio infatti è l’anima del festival. Sia come percorso reale o ideale, dirompente e rivoluzionario, che come scoperta di sé e dell’altro.
Al centro di Cortona on the move una serie di mostre fra le quali spiccano: la retrospettiva di Larry Towell, fotografo canadese in forza alla famosissima agenzia Magnum; Family love, il progetto di Darcy padilla per raccontare l’Aids che ha vinto il World press photo; It’s what I do della fotogiornalista Linsey Addario che con i suoi scatti fa vestire per un attimo allo spettatore i panni del reporter fra guerre e crisi umanitarie che hanno sconvolto il mondo negli ultimi 20 anni.
Le mostre sono il nucleo centrale del festival, ecco i fotografi e i progetti che saranno esposti fino ad ottobre
Larry Towell
THE LARRY TOWELL SHOW
Messivo 1994. Manuel Colony. Tamaulipas. Mennonites.
La prima retrospettiva europea del grande fotografo canadese Larry Towell della celebre agenzia Magnum. Dai lavori più intimi e personali, sulla sua bucolica famiglia e la vita dei Mennoniti, ai reportage nelle zone di conflitto percorse dal fotografo con il suo stile originale: tra questi, Afghanistan, El Salvador, Palestina.
Lynsey Addario
IT’S WHAT I DO
Nord Darfur. I soldati del esercito di liberation sudanese, Sudan, August 21, 2004.
L’inarrestabile e tenace fotogiornalista americana Lynsey Addario ci porta in giro per il mondo alla scoperta dei problemi e dei conflitti di cui meno si parla sulle prime pagine dei giornali. Il Darfur e le conseguenze della guerra civile e della fame, il Congo e l’uso dello stupro come strumento di guerra, la vita dei militari americani in guerra, le donne in quella parte di Afghanistan comandata dai talebani, sono tra alcuni dei temi da lei trattati nel corso della sua carriera.
Darcy Padilla
FAMILY LOVE
Darcy Padilla, Family Love
Il progetto a più lungo termine di Darcy Padilla, Family Love, si è sviluppato a partire dai suoi reportage sull’Aids. Nel 1993 Padilla stava documentando le storie dei tossicodipendenti affetti da questa malattia che vivevano nei Single Room Occupancy hotel (strutture dove spesso vivono indigenti o ex senzatetto) di San Francisco. È lì che ha incontrato Julie Baird, una neo madre di 19 anni che aveva appena scoperto di avere l’Aids. Padilla ha fotografato Julie e la sua famiglia per i successivi 21 anni. Julie è poi morta a causa della sua malattia, in un luogo sperduto in mezzo alla natura in Alaska. Lo scopo del progetto è stato e continua ad essere quello di analizzare le tematiche sociali in relazione alla tossicodipendenza, la povertà, la previdenza sociale e gli abusi sessuali, attraverso la vita di una persona.
Paolo Woods e Gabriele Galimberti
THE HEAVENS
Un impiegato del “Jetpack Cayman” dà una dimostrazione di questo nuovo sport che si pratica sull’isola. Un motore di 2000cc spinge fuori dall’acqua il cliente, il prezzo di un giro con il jetpack è di 359 dollari per 30 minuti di sessione.
I paradisi fiscali non sono solo spiagge bianche ombreggiate da palme. Sono luoghi inafferrabili e strategici per il mondo della finanza globalizzata. Woods e Galimberti sono andati in 13 Paesi su 4 continenti per documentare questo fenomeno, esplorando i meccanismi e raccontando le conseguenze. Per farlo hanno strutturato il lavoro come il rapporto annuale di una immaginaria compagnia, The Heavens, che hanno realmente incorporato nel Delaware, Stati Uniti. il risultato è che hanno reso visibile, e comprensibile, uno dei fenomeni contemporanei più oscuri.
Simona Ghizzoni
UNCUT
Ragazze ad una festa di matrimonio. Hargeisa. Somaliland. 2015
Oltre 200 milioni di donne in tutto il mondo subiscono la pratica crudele della mutilazione genitale femminile. Queste donne vengono mutilate con metodi tremendi e differenti fra loro, ma una resistenza contro questo arcaico rituale si sta sviluppando in molti Paesi, fra cui Kenya e Somaliland. È in questi due Paesi africani che si è concentrato il lavoro della fotografa Simona Ghizzoni e della giornalista Emanuela Zuccalà. Il progetto multidisciplinare, ancora in corso, porta alla luce una realtà drammatica e la forza delle donne che vi si oppongono ed è realizzato in collaborazione con la onlus ActionAid.
Luca Locatelli
MEGA MECCA
Luca Locatelli, La Mecca
Luca Locatelli ha documentato la trasformazione che negli ultimi anni ha subito La Mecca, da città culto dell’islamismo a una delle destinazioni più ricercate e sfarzose del pianeta.
La crescita verticale dell’economia dei Paesi musulmani ha aumentato esponenzialmente il numero di pellegrini e la forte richiesta di visti ha spinto il Regno Saudita a investire milioni e milioni di dollari. Il complesso Bell Tower, con i suoi 601 metri di altezza, detiene una serie di record mondiali: l’albergo più alto del mondo, la più alta torre con un orologio, il più grande orologio da facciata e la più grande area di grattacieli. Strade, strutture sanitarie, trasporti pubblici si sono affiancati ai grandi cantieri per il rinnovamento della Grande Moschea e la costruzione di hotel extra lusso da cinque stelle in su. Questi nuovi, lussuosi edifici andranno ad aggiungersi agli oltre 500 negozi che circondano già tutta l’area intorno alla Kaaba, con i brand occidentali più apprezzati ospitati nei centri commerciali a pochi metri dalla Masjid al-Haram e dalla Kaaba, il centro sacro dell’Islam.
Il giro d’affari alla Mecca e Medina è stimato in 120 miliardi di dollari ed è destinato a crescere. Per i prossimi dieci anni sono pianificati investimenti per venti miliardi di dollari. Souvenir, grandi architetture, musei con lunghe code all’entrata, ristoranti di lusso si mischiano alla fede e spiritualità, umanità e bisogni del consumismo medio riescono a convivere pacificamente.
Mattia Zoppellaro
APPLEBY
Appleby Horse Fair 2012
Fiere equine dove si vendono e comprano cavalli, si incontrano amici e conoscenti, si celebra la propria musica, la storia e il folklore: sono le occasioni migliori per incontrare i Pavees o Irish Travellers, una popolazione dalle origini sconosciute. Sono loro l’oggetto del lavoro di Mattia Zoppellaro, che ha svolto una ricerca quasi antropologica il cui fulcro è la fiera più grande d’Europa, quella di Appleby, un luogo che ha un passato sanguinoso.
Sandra Hoyn
THE LONGINGS OF THE OTHERS
Il Bangladesh è uno dei pochi paesi musulmani in cui la prostituzione è legale. Il bordello di Kandapara a Tangail, il più vecchio e il secondo come grandezza, esiste da circa 200 anni. Ci lavorano all’incirca 700 professioniste del sesso, con i loro bambini e le loro maîtresse. La zona è circondata da un muro di due metri. In quei vicoli stretti ci sono chioschi di cibo, negozi di tè e venditori ambulanti. Molte delle donne che ci lavorano si trovano nel bordello dalla nascita, sono state vendute dai familiari, o si guadagnano da vivere così dopo essere fuggite dai loro mariti. Ufficialmente l’età minima è 18 anni, ma di fatto molte di loro sono minorenni. Nonostante la prostituzione sia legale in Bangladesh dal 2000, queste donne sono ancora vittime di forti discriminazioni sociali e vengono tollerate solo nei bordelli. Tra i loro clienti ci sono poliziotti, politici, operai, gruppi di teenager. Alcuni cercano solo il sesso, altri anche l’amore e la compagnia di una donna.
Daesung Lee
FUTURISTIC ARCHAEOLOGY
Il cambiamento climatico rischia di essere il dramma più importante della nostra generazione. Con Futuristic Archaeology il fotografo sudcoreano Daesung Lee ha precorso i tempi. Cosa succederà se il processo di desertificazione in Mongolia non dovesse arrestarsi? Daesung Lee ha inserito i ritratti delle popolazioni nomadi che storicamente vi abitano in dei diorama museali: li ha ritratti con alle spalle paesaggi in avanzato stato di desertificazione. Le persone e la loro cultura diventano quindi una collezione da museo, un reperto del passato cancellato dalla desertificazione. Con questo grido d’allarme Daesung Lee ha vinto il premio HAPPINESS ONTHEMOVE 2015.
Christian Werner
74
Lo Yazidismo è una delle religioni più antiche. Da quando viene praticata sono stati compiuti 74 genocidi contro gli Yazidi. I più recenti e sistematici sono stati perpetrati dalle milizie terroriste dello Stato Islamico. Essendo considerati adoratori del diavolo, gli Yazidi sono vittime di un numero maggiore di persecuzioni rispetto ad altre comunità religiose. Questo accade perché credono in Tausi Melek, un angelo caduto che ha assunto le sembianze di un pavone. In seguito all’invasione dell’IS in Iraq centinaia di Yazidi sono stati sradicati dai loro territori, divenendo fuggitivi. Migliaia di uomini e ragazzi sono stati fucilati o decapitati, mentre le donne venivano rapite e vendute all’asta come schiave del sesso. In queste circostanze avverse hanno costruito rifugi temporanei, dove trovavano a malapena lo spazio per ripararsi. Solo in pochi sono riusciti ad arrivare nei campi allestiti dalle ONG. La maggior parte di loro vive negli scheletri di cemento rinforzato delle case in costruzione, in tende improvvisate fatte di tela catramata e rami, o per strada. Non hanno avuto la possibilità di prepararsi per il viaggio, o di mettere l’essenziale nella valigia. Intanto l’inverno è arrivato in Kurdistan e prosciuga le forze.
Anna Filipova
RESEARCH AT THE END OF THE WORLD
Ny-Ålesund, che si trova sul 79esimo parallelo settentrionale nell’arcipelago delle Svalbard, costituisce l’insediamento civile permanente più a nord del mondo. Ospita il più grande laboratorio esistente dedicato alla ricerca moderna sull’Artico. L’accesso è molto limitato, a causa della natura dei progetti scientifici che vengono portati avanti al suo interno e degli strumenti di misurazione presenti nelle aree circostanti. Nonostante le molte regole da seguire e i regolamenti introdotti a NyÅlesund per la salvaguardia della fauna selvatica e dell’ambiente, è comunque possibile osservare l’attività umana attraverso degli strumenti scientifici, che stanno gradualmente diventando parte integrante del paesaggio.
Una foro tratta dal profilo Facebook di Luigi Di Maio, vicepresidente della Camer, Gerusalemme, 10 Luglio 2016.
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C’è una nuova schiera di stupiti nella politica italiana: Di Maio e la delegazione del M5S in missione internazionale dalle parti di Palestina e Israele pagano un’intervista in cui chiedevano pace nei territori occupati e si ritrovano con la porta sbattuta in faccia.
«Abbiamo appreso dalla nostra ambasciata – scrivono i parlamentari 5 Stelle – che il governo israeliano impedisce alla delegazione guidata dal vicepresidente della Camera dei deputati di recarsi nella Striscia di Gaza per visitare il progetto di un’organizzazione non governativa italiana pagato con i soldi dei cittadini italiani. Questo è un cattivo segnale non tanto per il Movimento 5 Stelle ma soprattutto per quello che è l’approccio dello stesso esecutivo israeliano rispetto alla situazione nella Striscia di Gaza e della pace nella regione».
Già: essere sulle stesse posizioni dell’Onu (ovvero dei diritti umani) è per il governo israeliano una terribile violazione della propria privacy e disturba quell’ammantante silenzio dentro cui si è costruita questa bugia dell’Israele democratico e evoluto che bombarda solo per legittima difesa.
E chissà se il M5S vorrà sfruttare questa onda di consenso per portare all’attenzione internazionale un’anomalia di diritti che si protrae da troppi anni. E chissà se Di Maio davvero ha creduto che chi parla di pace in quell’angolo del mondo poi la voglia davvero, la pace. Gli sarebbe bastato leggere qualche pagina di Vittorio Vik Arrigoni per non rimarne sorpreso.
Volano gli stracci in Commissione Giustizia del Senato tra il Partito democratico e gli esponenti di Forza Italia e Ala. La tensione è scoppiata quando uno dei relatori, Enrico Buemi (Pd) ha accolto la proposta del Movimento 5 stelle di cambiare la formula «violenze reiterate» per inquadrare a livello legislativo cosa possa essere definito come tortura. Immediata è stata la reazione degli esponenti forzisti, in particolare del berlusconiano Francesco Nitto Palma, che ha minacciato ostruzionismo in aula. Dura la reazione anche di Ciro Falanga (Ala) che chiede che l’esame venga rinviato di una settimana per permettere ai relatori di subemendarlo. Decisione poi accolta.
Ma a che punto siamo con la legge sul reato di tortura? Il provvedimento, dopo uno stallo durato un anno, è approdato nuovamente a palazzo Madama giovedì 7 luglio, a pochi giorni dall’anniversario dei 15 anni del G8 di Genova. Il testo era già stato approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati nell’aprile del 2015, e dal Senato nell’autunno del 2014.
Nell’ultimo esame della Camera il testo era stato rivisto e migliorato rispetto a quello approvato al inizialmente Senato. Ma ora il provvedimento rischia di essere in parte «svuotato» e la definizione di tortura di essere resa più «fumosa» dalle destre. In particolare sono due i punti contestati. Innanzitutto nella prima versione della legge si parlava di «violenze e minacce» per inquadrare il reato di tortura, mentre nell’ultima si parla apertamente di «minacce gravi e violenze reiterate», quasi a sottolineare che senza i criteri – difficilmente definibili e inquadrabili – della gravità e della reiterabilità, le violenze non sarebbero classificabili come «torture». In secondo luogo il testo del Senato parla di «verificabile trauma psichico», al posto della prima versione del testo che parlava di «acute sofferenze psico-fisiche». «Ma i traumi psichici sono difficilmente verificabili nel breve periodo, e difficilmente dimostrabili» dice Andrea Oleandri, membro di Antigone, l’associazione che promuove la cultura dei diritti nel sistema penale. Antigone sta portando avanti una campagna di sensibilizzazione per far approvare la legge. Luigi Manconi, senatore Pd e Presidente della Commissione diritti umani del Senato, ha detto, intervistato da Linkiesta: «Credo che le modifiche siano un’inserzione scellerata, una scelta politica del ministro dell’Interno sollecitato da alcune rappresentanze sindacali delle forze di polizia». «Oramai è urgente approvare il reato di tortura, che l’Italia aspetta da quasi 30 anni. La legge non è perfetta, e presenta molti punti deboli, ma sarebbe comunque un passo in avanti» sostiene Oleandri, «dopo la sua approvazione al Senato, il testo tornerebbe alla Camera e sarebbe nuovamente modificato, in un ping pong istituzionale infinto che la rinvierebbe in continuazione senza che venga approvata entro la fine della legislatura. É da tre legislature di fila che ne aspettiamo l’approvazione». Antigone per questo chiede al governo di apporre al testo un «emendamento governativo per dove chiedere la fiducia alla Camera dei deputati per far approvare il testo del Senato» conclude Oleandri.
L’Italia ha ratificato la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite nel 1988, quasi trent’anni fa. Ne sono passati 25 da quando il Parlamento ha cercato di inserire il reato di tortura all’interno dell’ordinamento penale italiano, senza essere mai riuscito a raggiungere un accordo tra le forze politiche. Siamo stati più volte richiamati dalle istituzioni europee e internazionali per non aver introdotto il reato all’interno del nostro ordinamento e per non aver, più volte, punito i responsabili di crimini di tortura. La Corte di diritti umani Europea di Strasburgo ha condannato l’Italia, nell’aprile del 2015, per il pestaggio della polizia nei confronti dei manifestanti durante l’irruzione alla scuola Diaz al G8 di Genova del 2001. Il ricorso fu presentato da Arnaldo Cestaro, manifestante veneto all’epoca 62enne, vittima del pestaggio della polizia durante l’irruzione alla sede del Genoa Social Forum. Quello che successe a Genova è stata definita dalla Corte «la più massiccia violazione dei diritti umani in Europa dalla seconda guerra mondiale». I colpevoli, nonostante le condanne, non sono punibili per le torture, non contemplando il nostro ordinamento tale reato. Alcuni di loro sono stati condannati per falso aggravato. Altri sono stati assolti. Altri ancora sanzionati dal Capo della polizia per 47 euro virgola 57 centesimi.
L’ultima l’hanno raccolta alla Johns Hopkins University di Baltimora, negli Stati Uniti. Ma ormai sono molte le prove provate di qualcosa che oggi magari può sembrare banale, ma cui pochi, anche in un recente passato, hanno pensato: il sistema immunitario di maschi e femmine risponde in maniera diversa alle infezioni e ai farmaci che le curano.
Alla Johns Hopkins University hanno scoperto, infatti, che esponendo al virus dell’influenza cellule del naso trattate preventivamente con ormoni simili a estrogeni la risposta immunitaria tra quelle femminili e quelle maschili era opposta. Le cellule estratte da nasi femminili rispondevano bene agli ormoni e si difendevano bene dall’attacco virale. Quelle estratte da nasi maschili no.
Che il sistema immunitario tra i due generi sia diverso, in realtà, lo si sa da un tempo non brevissimi. Già nel 1992, per esempio, la World Health Organization, l’agenzia delle Nazioni Unite basata a Ginevra che si occupa di sanità, ordinò il ritiro di un vaccino contro il morbillo dopo che nei test eseguiti in Senegal e ad Haiti era stato notato un sostanziale aumento della mortalità tra le bambine, ma non tra i maschietti. Ancora oggi non sappiamo perché i ragazzini sono in grado di evitare gli effetti collaterali di quel vaccino che invece agiscono sulle ragazzine. Ma da allora i ricercatori hanno iniziato a porre più attenzione alle differenze immunitarie di genere.
Tanto che oggi si tengono interi convegni scientifici sull’argomento, come quello recentissimo di Boston, dove recata Sara Readon, della rivista scientifica Nature, ha raccolto un bel po’ di testimonianze.
Due esempi per tutti: nel 2013 la Food and Drug Administration, l’agenzia federale degli Stati Uniti che si occupa di sanità, ha disposto di abbassare le dosi di un farmaco di largo consumo per il trattamento dell’insonnia dopo aver constatato che il principio attivo viene metabolizzato in modo molto diverso tra maschi e femmine. Il metabolismo femminile del farmaco era diverso e molto donne, dopo aver assunto dosi tarate sulle capacità maschile di sopportarlo, rischiavano di andare al lavoro, magari guidando un auto, ancora intorpidite.
Katie Flanagan, della University of Tasmania in Australia, ha reso noto che un vaccino contro la tubercolosi somministrato in fase di test clinici a bambini del Gambia ha abbattuto la produzione di proteine antinfiammatorie nelle femminucce, ma non nei maschietti. Questo ha determinato una risposta immunitaria potente da parte delle bambine, rendendo per loro il vaccino più efficace.
Le domande, a questo punto, sono due. Perché queste differenze di genere? E perché ce ne accorgiamo solo ora?
Una risposta alla prima domanda è di tipo evoluzionistico. La femmine hanno sviluppato un sistema immunitario più forte e veloce per proteggere i loro bambini durante e dopo la gestazione. In realtà dovremmo dire il contrario: hanno avuto maggiore chance di sopravvivenza e, dunque, più probabilità di trasmettere “geni buoni” i bambini nati da donne con un sistema immunitario forte e veloce. Questa è, almeno, l’idea di Marcus Altfeld, un immunologo dell’Heinrich Pette Institute di Amburgo. Se lo scienziato tedesco ha ragione, allora è possibile dare una spiegazione anche a un altro fatto: le femmine sono soggette a malattie autoimmuni, come la sclerosi multipla o il lupus, più frequentemente dei maschi. È l’altra faccia della medaglia: il sistema immunitario femminile si rivela così potente da non limitarsi ad attaccare i nemici esterni, ma anche componenti del proprio corpo. Un altro tipo di spiegazioni, non necessariamente alternativo, indica la causa genetica diretta. Linde Meyaard, immunologa del Centro Medico dell’università di Utrecht in Olanda studia una proteina, la Tlr3, capace di rilevare la presenza di un virus e di attivare l’azione delle cellule del sistema immunitario. Ebbene questa proteina è prodotta da un gene presente sul cromosoma sessuale X, di cui le femmine hanno doppia copia e i maschi una sola.
La diversità nasce anche da chi e come attiva o silenzia i geni coinvolti nella risposta immunitaria. Ebbene, un anno fa,il gruppo di Howard Chang alla Stanford University ha messo a punto una tecnica, la Atac-seq, che consente di studiare le cellule appena prelevate da una persona. Osservando quelle immunitarie, le cellule T, Chang e i suoi hanno scoperto che il complesso sistema di accensione e di silenziamento dei geni del sistema immunitario basato sulle cellule T (coinvolge circa 500 geni) è piuttosto stabile in una persona, ma varia tra persona a persona e la variazione è massima tra appartenenti ai due diversi generi sessuali. In particolare la diversità riguarda 30 geni. Anche gli ormoni hanno un ruolo in partita. Gli estrogeni (ormoni femminili) sono in grado di attivare le cellule del sistema immunitario in presenza di virus, mentre il testosterone inibisce le infiammazioni.
È chiaro che la battaglia immunitaria si gioca su più fronti. E in tutti i fronti maschi e femmine combattono in maniera diversa. In realtà ciascun individuo possiede armi immunitarie diverse da ogni altro. Ma il genere, ormai lo sappiamo, è quella che spiega il maggior numero delle differenze.